RIPRESA A QUALI CONDIZIONI?

Ripresa a quali condizioni?

In collaborazione con Unioncamere. Partecipano: Giovanni Bertolone, Direttore Centrale Operazioni di Finmeccanica; Raffaele Bonanni, Segretario Generale CISL; Corrado Passera, Consigliere Delegato e CEO Intesa Sanpaolo. Introduce Bernhard Scholz, Presidente Compagnia delle Opere.

 

BERNHARD SCHOLZ:
Buongiorno, benvenuti a questo incontro: “Ripresa a quali condizioni?”. Un benvenuto particolare a Giovanni Bertolone, fino a pochi mesi fa Amministratore Delegato di Alenia Aeronautica. Adesso lavora ai vertici di Finmeccanica, come Direttore Generale Operations. Raffaele Bonanni, Segretario Generale CISL, Corrado Passera, Consigliere Delegato e CEO Impresa Sanpaolo. Fortunatamente, possiamo dire che ci sono segnali di una ripresa, gli indicatori sintetici ci dicono che anche la fiducia delle imprese e delle famiglie si sta riprendendo, vediamo aumento di ordini, un leggero aumento di fatturato. Dopo un calo del PIL del 5% dell’anno scorso, cominciamo a vedere per adesso lo 0,4%; le ipotesi dicono che quest’anno arriveremo all’1%: non è il massimo rispetto alle medie europee, comunque qualcosa sta succedendo. Un altro indicatore è la produttività. Su questo ci sono stati tanti articoli di giornale, recentemente, che hanno detto che l’Italia negli ultimi tre anni ha perso il 2,5/2,7% di produttività, che sarebbe da recuperare. Evidentemente, nei commenti a questo dato è stato sottolineato che dipende anche dai territori e dal fatto che questo non è dovuto al fattore lavoro, ma soprattutto a una mancanza di investimenti in innovazione: lo dico anche a Raffaele Bonanni, che sicuramente di questo parlerà. Mario Draghi ha sottolineato che, rispetto alla produttività, l’Italia negli ultimi dieci anni è salita del 3%, mentre in Eurolandia abbiamo avuto il 14%. Dico questo perché, quando si parla di ripresa, bisogna avere una visione globale: non si tratta solo di superare la crisi, ma di rilanciare una economia in quanto tale. Altro dato sul quale il PIL dice poco, è la disoccupazione. È sempre difficile avere dati certi sulla disoccupazione, ma sappiamo che negli ultimi mesi si aggira all’8,5% e non aumenta. Questo è un dato molto positivo. Un altro dato positivo è che, per quanto riguarda la disoccupazione, l’Italia è sotto le medie europee.
Allora, non si parla solo di superamento della crisi ma di una ripresa complessiva che riguarda il miglioramento della produttività, una competizione a livello internazionale e, cosa non scontata, il creare occupazione, perché il rischio è che cresciamo senza creare occupazione, come vediamo in questo momento in altri Paesi europei. Quali sono le condizioni perché una tale crescita sia possibile? Ci sono condizioni interne al sistema produttivo, interne alle banche, ai sindacati; poi ci sono le condizioni che riguardano il sistema Paese, che va guardato in modo sintetico e non isolato dal contesto europeo. Abbiamo concordato di iniziare dal mondo delle imprese. Chi, come Giovanni Bertolone, è al governo di una azienda che è uno dei primi dieci player a livello internazionale nelle tecnologie, ha una visione internazionale ma al contempo, con le presenze nei diversi Paesi europei, ha una buona conoscenza anche del paragone a livello europeo. E in più, cosa molto importante nel contesto italiano, una buona conoscenza del sistema delle piccole e medie imprese che sono i grandi fornitori delle varie aziende di Finmeccanica.
Quindi, Giovanni Bertolone, la domanda: quali sono, dal punto di vista di una persona che ha tutte queste conoscenze nazionali e internazionali, le condizioni per una ripresa? Grazie.

GIOVANNI BERTOLONE:
Grazie, Bernhard. Penso che rispondere ad una domanda così impegnativa richiederebbe molto tempo, per cui cerco di focalizzare i punti più importanti da sottolineare, anche se mi rendo perfettamente conto che sono condizioni necessarie, ma non condizioni sufficienti per avviare una fase di ripresa più solida e duratura rispetto alle incertezze e incongruenze dell’attuale fase di transizione della crisi che ci attanaglia dal 2008.
Vorrei partire da una frase tratta da un recente articolo del Premio Nobel per l’Economia Edmund Phelps sul New York Times, citata da Federico Fubini sul Corriere della Sera di venerdì 13 agosto: “I manager evitano i progetti lungimiranti nel timore che un calo nei profitti immediati faccia cadere il valore delle azioni. I fondi minacciano di liberarsi dei titoli di imprese che mancano gli obbiettivi trimestrali di utili”. Da questa affermazione, credo largamente condivisa, derivano conseguenze di grande rilevanza che si riflettono in tutti i rapporti industriali ed economici di piccole, medie e grandi Imprese, fino a condizionare il dialogo sindacale e i rapporti con i lavoratori.
L’affermazione di Phelps sarebbe già stata vera anche prima, ma è diventata ancor più vera durante la crisi attuale che, al di là delle parole, non mi pare abbia provocato inversioni di rotta circa la sudditanza dell’economia reale alla finanza. C’è così il rischio concreto di cadere in un vicolo cieco: senza i necessari investimenti in ricerca e sviluppo, si possono spremere utili più elevati a breve, ma certo si pianifica, coscientemente o no, l’asfissia dell’azienda a lungo termine. Da questo punto di vista, le aziende di proprietà familiare, anche grandi, sono meno condizionate dal cappio del trimestre; la passione per lo sviluppo della propria impresa può sostenere la lungimiranza di investimenti anche durante un periodo di crisi, ammesso che esista il supporto del sistema creditizio.
Tante sono le realtà di questo tipo in Italia. Io sono stato colpito dall’incontro con Luca Ferrarini a capo di una impresa familiare tra le prime in Europa nel campo agroalimentare. Abbiamo partecipato insieme l’anno scorso ad una tavola rotonda al Meeting dal titolo assai espressivo: “La persona al centro dell’impresa”. E’ una storia Made in Italy, cominciata nel 1956, che conta oggi un migliaio di dipendenti e centinaia di milioni di euro di fatturato. E’ solo un esempio per indicare i molti imprenditori che, lontano dalle astrattezze finanziarie in voga, riconoscono di avere una responsabilità sociale e sanno trovare soluzioni magari non facili o immediate ma alla fine più brillanti e durature.
La frase di Phelps inquadra un atteggiamento manageriale dettato dalla paura di un giudizio negativo degli investitori. Sappiamo bene però che le parole Imprenditore e Paura non vanno affatto d’accordo né tantomeno trovano alcun riscontro nella storia di imprenditori di successo. Richiamando il titolo del Meeting 2008, o l’imprenditore è un protagonista o non è nessuno. Dunque, una prima condizione per una ripresa stabile e duratura sta in un nuovo modo di comunicare, convincere e condividere obbiettivi industriali anche di medio lungo termine tra chi guida le imprese e gli stakeholders, sia a livello nazionale, attraverso una rete di sostegno istituzionale e creditizio, sia a livello internazionale, attraverso un dialogo su valori condivisi che accomunino il benessere delle imprese, delle società e delle persone, rispetto a certi eccessi di una finanza fine a se stessa, cioè de-umanizzata.
Il nesso tra persona e impresa sta nell’affermazione che sentiamo ripetere con tale frequenza da essere stanchi di udirla: “Il primo capitale da valorizzare in una azienda è il Capitale Umano, cioè le persone che vi lavorano”. Ma proviamo ad approfondire questa frase, cosa significa? Molto spesso significa identificare la persona solo con la sua competenza specifica, che deve funzionare meccanicamente come la rotellina di un ingranaggio. Molto meno di frequente, capita di sentire dire che valorizzare la persona comporta avere a cuore il suo sviluppo integrale, come scrive Benedetto XVI nella sua Enciclica Caritas in Veritate. Questa urgenza di sviluppo ha una valenza forte anche in campo economico perché “i costi umani sono sempre anche costi economici” (Cap. II, 32 dell’Enciclica), dunque “accanto al bene individuale, c’è un bene legato al vivere sociale delle persone: il bene comune” (Introduzione Enciclica, 7).
Mi permetto allora di individuare una seconda condizione importante per il rilancio economico: non c’è ripresa dalla crisi se non c’è ripresa della persona, se non si mira allo sviluppo integrale della persona. Se questo è fondamentale per il cosiddetto mondo occidentale, diventerà prima o poi altrettanto essenziale per quei Paesi che sono in grande crescita, nonostante i forti squilibri sociali e la scarsa attenzione ai diritti fondamentali della persona. Solo lo sviluppo integrale della persona può sprigionare tutta l’energia creativa, l’interesse alla realtà e il desiderio di costruire qualcosa di duraturo che ha sempre caratterizzato i momenti di crescita economica e sociale, come quello del secondo dopoguerra in Italia. Occorre fare la fatica di cercare cosa c’è di più vero nel cuore dell’uomo, promuovere una cultura che non ha paura di esplorare i desideri più profondi, senza lasciarsi bloccare da uno stupido atteggiamento di autosufficienza, che non porta ad altro che alla solitudine.
Ma qui apriamo un altro capitolo, che rappresenta apparentemente l’estremo opposto a quello della persona: la globalizzazione. Certamente, il mondo che emergerà da questa crisi si presenterà con connotati profondamente diversi rispetto ad un modello che mira alla stabilizzazione governata dalle solite Potenze. Il quadro globale presenterà connotati di rapida evoluzione e interdipendenza, che mi permetto di definire “Melting pot planetario”, dove quel che capita in un posto, anche apparentemente localizzato, finisce per attivare un effetto domino a livello internazionale.
Gli esempi sono molti, vorrei citare il caso della Grecia per evidenziare questo fenomeno: un disturbo locale tende oggi molto più a divergere (cioè amplificarsi) che a smorzarsi (cioè attenuarsi). E’ l’inizio di una nuova era in cui i fattori di diversità politica, economica e culturale potranno divergere e questo aprirebbe una crisi ancor più grave, o a convergere nel rispetto e nell’arricchimento reciproco. Dal punto di vista industriale, si apre un orizzonte interessante, dove il punto più cruciale a lungo termine non sarà tanto il tema della delocalizzazione fine a se stessa delle attività produttive da una parte e dell’allargamento del mercato dall’altra.
C’è un fattore in gioco più profondo che individuo come una terza condizione per la ripresa e che potrei riassumere nella capacità di una impresa di diventare multinazionale conservando quei connotati di identità che hanno caratterizzato la sua storia di crescita. Non c’è una ricetta prestabilita, ed anzi c’è molto da approfondire, ma quel che ha permesso al Made in Italy di cogliere tanti successi parla di una precisa identità imprenditoriale italiana che non deve sparire con la globalizzazione, semplicemente perché il mondo ha bisogno di questa specifica imprenditorialità, come ne ha bisogno l’Italia. Il melting pot sarebbe triste se fosse simile al gioco del pongo, quando, a forza di mescolare i cilindretti colorati e malleabili di una nuova scatola, si finiva per ottenere un unico globoide inesorabilmente grigio-verdastro.
Tra gli esempi di successo nell’affrontare, e talvolta anticipare, il processo di globalizzazione, mi permetto di citare quello che conosco meglio perché ho potuto partecipare in real time alla sua evoluzione: parlo di Finmeccanica, sia intesa come Capogruppo che come Azionista delle grandi aziende controllate, in una delle quali, Alenia Aeronautica, ho lavorato per oltre trent’anni, crescendo dall’interno fino a diventarne l’Amministratore Delegato per oltre cinque anni.
Sono stati gli anni in cui Finmeccanica ha fatto il grande salto da dimensioni prevalentemente nazionali e con una base industriale poco competitiva, ancora legata ad un mercato captivo principalmente militare, ad una realtà:
– ad alta tecnologia, applicata non solo al campo della difesa ma anche al mondo della sicurezza, del duale e del civile, con investimenti in R&S sempre superiori al 15% dei ricavi annuali;
– ad alta competitività internazionale, dove grandi sistemi elettronici di controllo e di governo, velivoli, elicotteri, satelliti ma anche treni e centrali per generazione di energia, stanno cogliendo crescenti successi;
– a forte presenza industriale, non solo in Italia ma anche nel Regno Unito e negli Stati Uniti;
– in crescita non solo commerciale, ma anche attraverso alleanze industriali, nei Paesi a grande tasso di sviluppo, dalla Russia alla Turchia, dall’India al Brasile, dagli Emirati all’Estremo Oriente.
A fine 2009, meno del 30% degli ordini provenivano dall’Italia, più del 30% provenivano da USA e Gran Bretagna e il 40% provenivano dal resto del mondo.
Non voglio snocciolare tante cifre, mi interessa qui evidenziare una modalità di diventare attore primario nel “Melting Pot Planetario” e nel contempo crescere come realtà di primario interesse nazionale, capace di rafforzare il proprio imprinting tecnologico e industriale in Italia, con il supporto della fitta rete di PMI italiane che lavorano come fornitori qualificati.
L’impostazione che ho dato all’intervento sinora presta sicuramente il fianco ad una critica. Ma come si fa a non parlare delle gravissime difficoltà che in questo momento attanagliano il mondo, dal terrorismo alla povertà, dai disastri ecologici e naturali alla disgregazione del tessuto sociale, dalla crisi finanziaria ed economica ai problemi di una convivenza multietnica? E’ una scelta voluta, perché di analisi delle cose che vanno male sono pieni i giornali tutti i giorni e i convegni, anch’essi a densità quotidiana, spalleggiati da un sistema mediatico amplificatore di catastrofismi: puntare sullo sfascio fa più notizia, peccato che così si “educa” allo scetticismo e alla paura, anestetizzando le grandi aspirazioni del cuore umano che grazie al cielo ci sono, sono un dato evidente e comune a tutti.
C’è dunque bisogno di maestri che, in nome di tali aspirazioni, arrivano nel concreto a non censurare domande come:
– Investigo l’universo e questo che urto ha in me?
– Invento un nuovo strumento finanziario, che rischi corre il risparmiatore a fidarsi?
– Investo in una impresa ma mi basta il gioco speculativo o piuttosto comincia a starmi a cuore lo sviluppo di questa impresa?
– Analizzo l’intimità costitutiva delle cellule, ma dove sta il confine della manipolazione?
– Esercito una qualche forma di potere, ma che coscienza ho di esercitare prima di tutto un servizio?
Potrei fare tante domande simili, ma mi interessa sottolineare proprio quest’altra condizione per uscire dalla crisi, da ogni crisi: le nuove generazioni, i nostri figli, non hanno bisogno di asettici specialisti, hanno bisogno di maestri, cioè di persone certo dotate di grandi competenze professionali ma anche di grande spessore umano.
I veri nemici dello sfascio, cioè in ultimo di un potere diventato cieco, sono proprio i desideri più grandi di queste personalità. Ho trovato questo concetto bene espresso nel libro di don Giussani L’Io rinasce in un incontro, pubblicato recentemente dalla Bur Rizzoli. Mi verrebbe da dire che anche una società può nascere o rinascere dall’insieme di più incontri tra banchieri, investitori, giornalisti, imprenditori, politici, sindacalisti, professori e, certamente non da ultimo, la gente normale che lavora, tutti animati da quella tensione umana di cui ho parlato.
Non è un’utopia, perché questi incontri virtuosi accadono, fanno accadere dei fatti, fanno cambiare qualcosa concretamente. Vorrei prendere ad esempio il Meeting: stando qui, diventa più evidente l’esistenza di questa energia buona che opera, c’è il piacere di immergersi in un clima aperto di gente che ha a cuore il destino comune e che sa accogliere personalità provenienti da culture, religioni e nazioni le più diverse: sì, è una vera esperienza cui riferirsi per costruire il nuovo mondo mescolato che ci attende. Grazie.

BERNHARD SCHOLZ:
Grazie, Giovanni Bertolone. Io penso che negli ultimi anni, e forse in modo particolare nell’ultimo anno, sia diventato evidente per l’Italia, ma anche per altri Paesi, che i sindacati sono partner della crescita e sostenitori di una ripresa economica. Da un certo punto di vista, sembra sia la quadratura del cerchio: tutelare la dignità dei lavoratori e allo stesso tempo contribuire al miglioramento della produttività. E’ uno sviluppo che viene da lontano e non è scaturito solo negli ultimi mesi, perché si è capito che la dignità del lavoro può essere compatibile con una crescita economica, con una crescita industriale che sa competere a livello internazionale. Quindi, la domanda a Raffaele Bonanni: quali sono le condizioni che chiedete a voi stessi, che chiedete all’industria, perché ci sia una crescita che alla fine crei in modo dignitoso occupazione?

RAFFAELE BONANNI:
Sì, grazie, un saluto a tutti. Davvero sono contento di essere al Meeting, ancora una volta, a discutere una questione che riguarda la vita delle persone che devono lavorare, quindi la maggior parte delle persone che partecipa allo sviluppo delle comunità di appartenenza. Quali sono le condizioni? In questi giorni è stato molto serio affrontare la vicenda della Fiat. Non tanto perché ha messo a dura prova il nostro modo di intendere come si stia nel gioco per lo sviluppo, come si difendano i lavoratori, come si difenda la loro dignità, ciò che dà loro benessere. Non è stato tanto questo, che ci ha sfidato, perché siamo stati davvero tante volte sfidati e abbiamo sempre dato una risposta sufficiente. Questa volta siamo stati impegnati da questo muro, molto alto, di indifferenza o di ostilità. Alcuni sostenevano che guardare le vicende in prospettiva, guardare la questione di come rendere più produttiva, più competitiva quell’azienda, riguardasse il futuro stesso dell’azienda ma anche il futuro dei cosiddetti diritti che, di volta in volta. sindacalisti e lavoratori invocano. Non ci sono diritti senza il posto di lavoro. E lo sa chi viene da un lungo cammino, come gli italiani, che sono stati i cinesi degli anni ’60: non essendoci zone industriali, realtà industriali, realtà di servizi in molte zone d’Italia, non essendoci posti di lavoro, non c’erano diritti. C’era solo la possibilità di andarsene in altre zone più fortunate d’Italia o addirittura all’estero.
Quindi abbiamo affrontato il problema in questo modo, e abbiamo rimarcato questo aspetto, perché ci è sembrato davvero sbagliato l’atteggiamento di taluni, che ritengono di poter prescindere dal fare i conti con ciò che sta maturando nei mercati internazionali. E in quel caso, con la vicenda dell’auto, ancora di più, perché il mercato dell’auto è in fortissima ristrutturazione. E la Fiat partiva male, partiva quasi in rotta, poi si è rifatta un po’, si è rimessa in campo con alcune operazioni. Noi vogliamo contribuire, come già abbiamo fatto nel tessile molti anni fa: era completamente out per effetto di nuovi concorrenti spietatissimi nel settore, che ci avrebbero messo fuori se non avessimo portato la croce in silenzio e con spirito di Cireneo, ma almeno là non abbiamo trovato grandi ostacoli, tant’è che persino chi oggi si è opposto a questo ha collaborato abbastanza, forse obtorto collo, ma ha collaborato. Noi ci siamo trovati di fronte a una difficoltà molto forte, che riteneva non ci fosse la necessità, per esempio, di sfruttare al massimo gli impianti, per dare l’unica possibilità alla produzione italiana di auto di poter competere, non solo con i nuovi competitori, agguerritissimi – penso ai cinesi, agli indiani, agli indonesiani, ai coreani, e così via – ma anche con i vecchi competitori, che si sono ristrutturati molto più di noi in quel settore. Come se la forza della nostra impresa, la base della nostra occupazione, provenisse dalle Tavole della Legge che sono lì eternamente, sempre scritte e mai modificate.
Noi abbiamo collaborato moltissimo, perché sapevamo che l’unico spazio era utilizzare pienamente gli impianti. Ogni volta faccio l’esempio di un albergo che, se funziona 365 giorni all’anno, fa utili e si mantiene in piedi. Ma se lo stesso albergo viene frequentato solo per la metà dell’anno, salta, è out, fallisce. È questo ciò che abbiamo voluto fare. So che Marchionne viene nei prossimi giorni, e vorrei dirgli questo. Spero che mi risponda. Noi l’abbiamo fatto questo per responsabilità, per l’interesse che abbiamo a che ci siano posti di lavoro, e per l’interesse che abbiamo che ci siano, a questo punto, non solo diritti ma anche la possibilità di esprimere la nostra personalità e di darci la nostra autonomia. Nelle comunità moderne, non possiamo neanche camminare in modo tale da far progredire noi stessi, anche culturalmente. Abbiamo portato avanti questa iniziativa contrastando coi cosiddetti antagonisti, e l’abbiamo fatto convinti, e continueremo su questa strada, perché non c’è alternativa. Però vorrei dire a Marchionne che fa bene a non inseguire le provocazioni di un sindacato che ormai non è più tale, ma è un movimento politico, vorrei dirgli di non inseguirlo, perché c’è una stragrande maggioranza di lavoratori che può reggere questo disegno di rinnovamento, oltre che di fortificazione di un punto di produzione così importante.
Se si è contro l’antagonismo, come noi siamo, l’alternativa non è solo la responsabilità, che a quel punto diventerebbe astratta, perché la responsabilità va alimentata, va stimolata, deve essere conveniente. Si parlava di fare da maestri ai giovani. I giovani devono essere liberati dal nichilismo, indicando loro la strada della realizzazione attraverso la responsabilità. Ma i giovani, giustamente, vogliono contare di più, come è accaduto sempre ai giovani di tutte le generazioni. Allora, Marchionne e tutti i Marchionne, tutti i capi d’impresa, fino ad arrivare agli amici interlocutori qui, l’alternativa all’antagonismo è la forza di un rinnovamento del modo di produrre, di stare nel mercato. Per avere persone più consapevoli e partecipi, bisogna dare loro più potere, la possibilità di dire la loro. Bertolone parlava del maestro. Ma il maestro ha sempre discepoli, e il maestro è maestro davvero quando li sa coinvolgere e li sa fare lavorare sullo stesso lavoro che lui ha imparato. E sa dare loro quel potere che fa esprimere singolarmente ciascuno. Quella è un’energia. Spero che Marchionne nei prossimi giorni risponda a questo, per sostenere la piattaforma su cui vuole fondare la fabbrica d’Italia, che presuppone l’investimento di ben 20 miliardi di euro in sei anni. E’ un rondinone che speriamo apra una primavera duratura, nell’economia italiana: quella fabbrica d’Italia deve poggiare su basi molto forti, per cacciare non solo i nichilisti ma tutti i populisti.
Li abbiamo visti a decine e decine, i cattivi maestri, che hanno responsabilità istituzionali e politiche e che, invece di indicare la strada alla responsabilità, hanno lasciato soli quei poveri sindacalisti impegnati in uno sforzo duro, culturale e sindacale, in momenti come questi. E siccome è successo in altre epoche e in altri momenti – dicevo a Passera, che ne sa qualcosa perché riguarda anche il suo lavoro -, che fine ha fatto ogni ragionamento? Noi della CISL ci siamo, esattamente come due anni fa, per rispondere, quasi dovessimo sdebitarci della nostra responsabilità, dovessimo vergognarci della nostra responsabilità. Dove andavano a finire tutti quei paroloni usati nella vertenza, nella vicenda di Alitalia? Dove sono andate a finire tutte quelle discussioni su Air France? Air France ha licenziato in questi giorni da 4.000 a 5.000 persone, ha ingoiato letteralmente LKM, la vecchia compagnia olandese. L’ha ingoiata completamente, come avrebbe ingoiato la compagnia di bandiera di un grande Paese come l’Italia. Che fine hanno fatto i discorsi su Air France? E che fine ha fatto la preoccupazione che si aveva su Alitalia? Alitalia ha riassunto pressoché tutti i lavoratori. Più di Air France, Alitalia ha reagito bene anche in crisi, perché i conti stanno andando a posto. Spero che Passera abbia qualcosa da dire su questo, perché è un buon contabile e deve farsi restituire da quel sistema molti soldi.
Cosa voglio dire? Che noi faremo quello che c’è da fare, però abbiamo bisogno, tutti insieme, anche di quella condizione che fa esprimere il meglio di ciascuno attraverso il coinvolgimento pieno. La responsabilità si esprime con più potere alle persone, con più coinvolgimento delle persone: credo sia un motivo importante per quanto riguarda il far fronte alle strategie per stare nella nuova divisione internazionale del lavoro. Ma credo sia anche un’alternativa fortissima, ad esempio, al modo consueto di governare le comunità. L’altro ieri ho letto una bella intervista di Vittadini, il quale, giustamente, ci mette in guardia dai taumaturghi. Basta con questa politica spettacolo – dice -, non fondiamo tutto su un taumaturgo. E giustamente indica la strada della partecipazione come l’occasione per dare potere a ciascuno, per elevare queste responsabilità a sistema di governo, attraverso un metodo sussidiario che naturalmente si sviluppa e che fa ognuno di noi più forte, più consapevole e quindi più capace di rendere democratica la nostra comunità. D’altronde, la cultura del ghe pensi mi, che poi è questa, non va bene, è un peso, un macigno sulla realtà comunitaria italiana. Ambedue gli atteggiamenti non credono nella capacità delle persone, come diceva Scholz questa mattina sul Corriere, non credono nella possibilità di ricercare ciascuno la propria vocazione, attraverso l’impegno a costruire qualcosa di bello, a costruire la propria comunità in termini più confacenti alla natura stessa delle persone. Come Papa Benedetto ha detto in quella bellissima Enciclica che io spero viva sempre di più nelle discussioni, nei prossimi mesi, nei prossimi giorni, perché è l’unica indicazione per la comunità Italiana, europea e anche mondiale.
Questo è il punto su cui, credo, ognuno di noi deve prendersi maggiormente le responsabilità. Non si tratta di prendersela con i politici, perché quando questo avviene vuol dire che la comunità ha abdicato, che noi stessi siamo venuti meno ai nostri doveri democratici, ci siamo chiusi nel nostro privato e abbiamo lasciato che si sprigionasse questo criterio assolutamente antidemocratico. E’ democratico tutto ciò che vive e si realizza attraverso l’impegno di ciascuno. Varrà la pena di discuterne anche nei prossimi giorni, in questi itinerari che avremo come Forum delle Associazioni che si rifanno alla Dottrina Sociale della Chiesa: nei prossimi giorni, andranno in tutte le città importanti a discutere il ruolo che abbiamo, ognuno di noi, in una comunità civile organizzata. Se tanti mondi – e ne abbiamo di questi mondi organizzati, soprattutto nei nostri ambienti – sapranno prendersi più responsabilità, sarà sempre più difficile, per i cattivi politici, sfuggire, e diventerà molto semplice, per i politici di buona volontà, raccogliere questa forza così importante.
Ecco perché passa anche attraverso il nostro protagonismo l’uscita dalla crisi: non se ne esce trovando disperatamente le energie per reggere situazioni difficili, ma anche perché noi possiamo essere produttivi in Fiat o nell’azienda di Bertolone o nell’azienda di Passera e in tutte le aziende. Possiamo sfruttare al massimo gli impianti, al 100%, ma se il sistema, il contesto è un deserto per cui l’istruzione è quella che è, l’energia costa di più, le infrastrutture non bastano, c’è la mafia quasi dappertutto, non ce la faremo. La nostra comunità sprofonda e non riuscirà a tenere il passo con gli altri: su questo dobbiamo aiutarci. Ora alcuni trovano il sistema di dire che, dato che queste cose non funzionano, allora bisogna investire lì o là, ma poi i soldi non ci sono. Questa volta, abbiamo bisogno di trovare i soldi per l’istruzione, per modificare le energie, per fare più infrastrutture. Li dobbiamo trovare nella vicenda fiscale, questa schifezza che avviene nel nostro Paese, di lasciare soli i più poveri a pagare le tasse invece dei ricchi.
Sugli sprechi e sulle inefficienze e sulle ruberie, su quest’ultima vicenda per cui pare che il risparmio lo debba fare solo la realtà statale, e non quella regionale e comunale, come se il Paese vivesse solo dentro le vicende statali, che sono inefficienti e così via, e il resto funzionasse come un orologio, devo dire solo che è una scemenza. E dovremo metterci le mani, non solo per correggere quello che non va. La CISL, per esempio, vuole il federalismo fiscale e vuole il federalismo a tutto tondo, ma non lo vuole così confuso, non vuole un federalismo costruito su Regioni, Comuni, Comunità Montane che non hanno confini, su strutture amministrative che non hanno confini e criteri. Vuole un federalismo costruito attraverso una ristrutturazione, per procedere verso istituzioni più snelle, per riformare il sistema.
Su questi tre aspetti, riteniamo che ci debba essere un’alleanza molto forte tra noi. La CISL ha proposto alle imprese, d’accordo con la UIL, di arrivare ad iniziative anche clamorose all’inizio di ottobre, perché si apra una discussione molto forte. E dico a Tremonti, che arriverà nei prossimi giorni, che farebbe bene a continuare la discussione che ha iniziato mesi fa sulla vicenda fiscale, per una riforma integrale del fisco. Gli suggerisco di arrivare molto presto ad una Conferenza Nazionale sul fisco, in modo tale da far pronunciare tutti, perché lui dice giustamente di spostare le funzioni dal centro alla periferia, ma queste discussioni devono essere fatte pubblicamente, non al riparo da orecchie e occhi indiscreti. L’Italia deve aprire un cantiere importante per ristrutturare il suo modo di essere e di discutere, ma ci vorranno persone, realtà organizzate civili, che spingano sempre di più in una direzione: la politica non ce la fa, lo vedete. Vedete come prevalgano le questioni personali e di gruppo, anziché le questioni comunitarie. Siccome non è il caso, tra noi, di fare moralismo, sappiamo che questo avviene, e avviene perché c’è una scarsa iniziativa o uno scarso sfruttamento della forza del civile. Sono convinto che una iniziativa molto forte in questo senso possa dare le basi forti per uscire dal pantano. Farà ricordare le responsabilità a chi governa, perché è chiaro che non possiamo andare alle elezioni tra sei mesi: andare alle elezioni tra sei mesi può significare che il nostro Paese va all’aria, che si espone agli speculatori e che gli investitori, che già stanno fuggendo, fuggiranno ancora di più. Dobbiamo saperlo, lo si saprà di sicuro se la realtà civile sarà più impegnata a fare sentire la sua voce e le proprie indicazioni. Grazie.

BERNHARD SCHOLZ:
Grazie a Raffaello Bonanni. Corrado Passera è Amministratore Delegato di Banca Intesa, però conosce anche il sistema di questo Paese, perché ha portato avanti la riforma delle Poste in un modo decisivo, ha lavorato nell’industria, nel mondo dell’editoria e, per provenienze familiari, conosce anche molto bene il mondo delle piccole e medie imprese. Bisogna capire che non esistono le banche, fra le banche ci sono tante differenze, così come non esistono le piccole e medie imprese, perché fra di loro ci sono tante differenze, e bisogna cominciare a differenziare. La banca che lui rappresenta viene chiamata Banca di Sistema, è una banca vicina al mondo dell’industria e dell’economia reale. A lui, la domanda che ho fatto ai primi interlocutori: quali sono, dal suo osservatorio, le condizioni per una ripresa?

CORRADO PASSERA:
Mi alzo perché mi hanno fatto parlare per terzo e poi mi hanno dato una poltrona più bassa delle altre, quindi potrebbe venirmi un complesso di inferiorità. Grazie mille per avermi invitato anche quest’anno, sono tanti anni che con passione partecipiamo a questo Meeting, e grazie per avere ripreso anche quest’anno il tema della crescita, perché su questo tema ci giochiamo tantissimo e quindi dobbiamo dirci una serie di cose e poi cercare di realizzarle. Innanzitutto, si deve crescere, non possiamo non crescere o continuare a crescere poco. Perché con questo livello di crescita non si crea occupazione e l’occupazione, il lavoro, la speranza di un impiego, è il tema numero uno. Magari abbiamo una disoccupazione un po’ più bassa di altri Paesi, ma se andiamo a guardare il tasso di occupazione, cioè il numero di persone che hanno un lavoro, un lavoro vero, troviamo un numero troppo basso. Dobbiamo crescere perché c’è povertà, non soltanto nei Paesi emergenti ma anche in casa nostra. Se non cresciamo, rischiamo di mettere a rischio alcune conquiste della nostra civiltà non ancora acquisite.
Il welfare con tutte le sue manifestazioni, dalla sanità all’istruzione, all’assistenza, alla previdenza, non è conquista definitiva se non c’è un sufficiente livello di crescita per finanziarlo, mi riferisco ad un tema che ha già toccato Bonanni. Se non c’è risorsa disponibile, anche la società è meno bella, meno aperta, meno democratica, meno tollerante: quindi, anche in termini di qualità della società che vogliamo costruire, dobbiamo impegnarci di più. Lo spazio per crescere c’è, sappiamo che il mondo cresce in maniera importante, soprattutto nei Paesi emergenti. Paesi simili a noi, come la Germania, hanno dimostrato che si può crescere e crescere più di quanto stiamo crescendo noi, puntando su talune produzioni e sulle esportazioni. Comunque possiamo crescere, perché alcuni dei settori che cresceranno di più, sono punti di assoluta eccellenza per l’Italia: dall’automazione industriale al sistema casa, dal sistema moda alla filiera della salute, al turismo: sono tutti settori che possono crescere in maniera molto importante e dove noi siamo forti.
Si può crescere, ma a volte ci dimentichiamo – lo diceva Scholz prima – di quante forze possiamo mettere in campo, ci dimentichiamo come Paese, un po’ sovrastati dai problemi o dalla rappresentazione dei problemi che ci sommerge, abbiamo enormi forze che possiamo giocarci, però dobbiamo giocarle in un tutto coerente. Non solo siamo forti in quei settori che stanno crescendo, ma siamo una economia tra le più forti del mondo, la terza economia europea, la sesta o la settima economia del mondo. Ma pensate a quanti Paesi, molto più piccoli di noi, molto meno forti di noi, contano più di noi. Noi siamo una delle cose più importanti del mondo: poi non riusciamo a metterla a sistema e non la sfruttiamo abbastanza, ma stiamo parlando di un Paese che, con sacrificio, forza ed energia, si è creato un posto al mondo, in questo ultimo Cinquantennio, impensabile soltanto qualche anno fa. Siamo un paese con una serie di unicità, che nel mondo della globalizzazione si possono giocare alla grande. Menziono quelle che si ricordano sempre, i beni culturali e ambientali, ma effettivamente siamo modello per una parte del mondo e possiamo giocarci alla grandissima.
Poi siamo un Paese che se l’è giocata, durante la crisi economica, molto meglio di altri. Siamo passati attraverso la crisi finanziaria, sicuramente in maniera più efficace di altri, per il ruolo che ha avuto la politica, che ha avuto il Governo nel gestire le cose, per come se le sono gestite le banche. Abbiamo conti pubblici sicuramente più sotto controllo di altri Paesi, più il deficit che il debito, ma il debito è il risultato di decenni e decenni, per cui sono cose importati da giocare oggi, nel momento in cui dobbiamo passare alla fase dello sviluppo e del riavvio della crescita. Siamo un Paese che ha fatto una serie di riforme, meglio e prima di altri. Perché non parliamo del tema della riforma delle pensioni? Di fatto, nel nostro Paese l’abbiamo già affrontato con grande saggezza di tutte le parti sociali, è stata fatta una riforma che altri Paesi ancora sicuramente non hanno.
Non ultimo, il fatto che siamo un Paese dove, se dovessimo fare un sondaggio in giro per il mondo, probabilmente la stragrande maggioranza della popolazione mondiale vorrebbe essere nata e vivere. Allora, possiamo mettere a funzionamento tutte queste cose per rimettere in moto la crescita. Ma quali sono i presupposti per riavviare una fase positiva di crescita? Innanzitutto dobbiamo convincerci che sulla crescita si possa fare qualcosa. La crescita non è un fatto casuale, esterno, noi non siamo solo trascinati dal resto del mondo ma possiamo fare cose al nostro interno e a livello globale, per crescere di più. Questa è una cosa importante che divide anche il mondo della politica, tra chi si prende la responsabilità di costruire il futuro, quelle condizioni che poi rendono possibile la crescita, e quelli che dicono bisogna aspettare e attendere. No! Si può fare, ma bisogna mettere il tema della crescita economica al primo punto, nei primissimi punti del programma della politica.
Oggi non è così, come vedete parliamo d’altro, mentre è talmente importate mettere in moto quel meccanismo – che tocca la vita di tutti perché crea lavoro, ricchezza, risorse -, che noi dobbiamo spingere verso l’alto il tema della crescita economica e di ciò che bisogna fare per crearla, anche nell’agenda politica. Poi c’è un tema di attitudine, e qui Bonanni ha fatto un’osservazione giustissima. Qualsiasi Paese, in momenti di grande difficoltà come possono essere questi, sa che se ne esce se si lavora insieme. Noi viviamo periodi ormai lunghissimi di lavoro contro, di lavoro non sistematico, comunque non di lavoro insieme. Tante delle cose che ha citato Bonanni, tante delle cose difficili che mi è capitato di vivere, le abbiamo superate perché impresa e sindacato, anche in maniera virilmente contrapposta, magari, in certi momenti, le hanno vissute e gestite insieme. Ma stiamo parlando di cose difficili, che qualcuno ad un certo punto pensava addirittura impossibili: anche il caso Alitalia è uno di questi, il caso della Posta, il consolidamento del sistema bancario, il tema dell’informatica. Soltanto lavorando insieme, si riescono a superare periodi particolarmente difficili, insieme impresa e sindacato, insieme pubblico e privato.
Se pensiamo alle ultime cose più importanti che abbiamo fatto – mettendo miliardi di euro su progetti come la capitalizzazione delle piccole e medie imprese, piuttosto che sull’Housing Sociale – ci rendiamo conti che, insieme, il mondo pubblico e il mondo privato, su iniziative del Ministero dell’Economia e della Finanza, appoggiate da banche e assicurazioni, siamo riusciti a mobilitare risorse che tecnicamente non c’erano, se si fosse guardato solo al mondo pubblico. Si sono messe insieme. Altro aspetto fondamentale: non c’è una soluzione che mette a posto tutto, non c’è una sola leva che può riavviare la crescita, perché la crescita è una roba che viene dalla combinazione di tutto il sistema che funziona insieme, la competitività delle imprese, il funzionamento del sistema Paese, la coesione sociale, il dinamismo, cioè l’energia che c’è dentro la società. Tutte queste cose devono essere viste insieme con un’ottica di medio lungo termine. Lo diceva Bertolone, continueremo a non ottenere nulla se lavoreremo su cose che hanno orizzonti temporali così brevi. L’Italia, dopo la guerra, non si sarebbe ricostruita se avesse guardato soltanto a progetti che davano risultati dopo un mese o tre mesi.
Questa visione sistemica, lavorando insieme e non soltanto contro o naturalmente contrapposti ad altri, con la volontà di incidere sulla crescita, può portare in alto. E si dice in alto in una occasione come questa, in un Meeting che ha come titolo il coraggio di pensare in grande, di pensare al di là delle prudenze e della razionalità, di aspirare e saper programmare quello che vogliamo essere in futuro. E’ il luogo più adatto, e siccome l’identità di ciascuno di noi, di qualsiasi società, è legata a quello che saremo e vogliamo diventare, qui stiamo parlando – e il tema del Meeting ci richiama fortemente – dell’identità del nostro Paese. Da dove cominciare? E’ chiaro che, proprio per quello che dicevo prima, occorre guardare a tutte le componenti delle economie e della società insieme. E’ impensabile che io ne faccia un elenco, però, solo per dare un’idea della integrazione che i vari pezzi dell’impegno nella società e nell’economia devono prendere, dobbiamo farne un breve elenco, perché è chiaro che, se l’occupazione è la priorità numero uno, le imprese sono il protagonista numero uno. E le imprese, lo sapete, hanno una enormità di difficoltà nel vivere, nel crescere, nell’aprire, certe volte nel chiudere, perché la vita dell’impresa è fatta di nascita, di consolidamento e certe volte di riduzione. Tutto questo è difficile, non aiuta la crescita di occupazione. Poi, intorno alle imprese, c’è il tema della sicurezza, del controllo del territorio, della corruzione, che è una roba vera che fa parte con tutti quegli altri costi della burocrazia e del non fare che appesantiscono come una zavorra le nostre imprese.
Queste cose sono tutte affrontabili, e non hanno bisogno di soldi. Perché certe volte, troppo spesso, ci sentiamo dire: “Questo non si può fare perché non ci sono le risorse”. Ma per la gran parte delle cose di cui abbiamo bisogno non servono soldi, serve il coraggio di fare cose complicate. Anche l’incentivazione fiscale, più intelligente, alle imprese che investono, alle imprese che fanno ricerca, alle imprese che internazionalizzano o alle imprese che si mettono in rete, che si fondono, addirittura alle aziende che mettono capitale loro, non ha un vero, grande o significativo costo. Sono cifre minime, rispetto al beneficio che si possono portare dietro. Ma quando anche le imprese facessero tutto quello che possono e devono fare, se il sistema intorno non è efficiente ed efficace, la produttività – lo diceva Scholz – alla fine non cresce. Perché poi l’impresa può occuparsi di un pezzo dei suoi costi e delle sue efficienze, ma molto viene da quello che accade intorno, e anche qui l’elenco sarebbe lungo, è stato citato e lo cito anch’io, lo citeremo tutti gli anni finché non si vedranno segni forti: l’investimento in capitale umano nella scuola, nella formazione, in quelle scuole che non producono disoccupati.
Oggi siamo pieni di scuole che producono disoccupazione, mentre siamo deboli in alcuni settori. Prendiamo il tema degli Istituti Tecnici, che potrebbero diventare anche Istituti Tecnici Superiori, che in altri Paesi hanno dimostrato come, nel nuovo mondo, nel nuovo tipo di economia in cui viviamo, possano creare milioni di posti di lavoro. Il tema dell’istruzione è entusiasmante perché riguarda e tocca la mobilità, la meritocrazia, la sussidiarietà e quindi il rapporto tra i diversi pezzi della società. Ovviamente non lo trattiamo, ma è un capitolo fondamentale, come è un capitolo fondamentale quello della giustizia. La giustizia non ha bisogno di un’enormità di risorse, per diventare quel sistema che oggi non è. Perché, se non si arriva in tempo, o in tempi ragionevoli, a una decisione, se non si arriva in tempo mai, o quasi mai, prima della prescrizione, a perseguire un reato, non è giustizia. E non è soltanto ingiustizia, ma blocco, scoraggiamento di investimenti, sia italiani che dal resto del mondo. Anche questo è un capitolo su cui non dobbiamo cercare vie d’uscita o scorciatoie: dobbiamo affrontarlo con riforme forti, rispettose della Costituzione ma che, di nuovo, non hanno bisogno di tante risorse.
Forse di risorse ne servono su un altro capitolo di rafforzamento del nostro sistema Paese, quello delle infrastrutture. Lì non si scappa, dobbiamo mettere più risorse. Non dobbiamo continuare a tagliare risorse d’investimento, quindi non costruire futuro dal punto di vista dell’efficienza complessiva del sistema. E le risorse, entro certi limiti, per quanto difficile, ci sono. Pensate a quanti soldi sono stanziati e non spesi! Pensate a quanti soldi europei sono messi a disposizione e non attivati, pensiamo a quanto spreco c’è negli 800 miliardi di spesa pubblica. L’1%, il 2%, il 3%, non pensiamo di potercelo riportare a casa? Ma sarebbe da irresponsabili, dire che non si può. O una quota anche minore, il 5 o 10% dell’evasione. Oppure, anche soltanto l’1% del patrimonio pubblico. Lo dico non perché sia facile trovare quei 40, 50, 60 miliardi all’anno che, per un po’ di anni, dovremo investire, se vogliamo veramente recuperare il ritardo. Non è facile per niente. Però non è neanche vero che non ci sono le risorse. Sappiamo che è più un problema di processo decisionale imballato, che di risorse, perché molti progetti sono in moto, sono finanziati, sono finanziabili, ci sono soldi privati. E addirittura ci sono progetti che si autofinanziano. Però ci vogliono lustri, decenni, per arrivare alle decisioni. E quindi è più un tema di coraggio politico, di intelligenza amministrativa, di ripensamento di come funziona il sistema decisionale nel nostro Paese, sia quello istituzionale che quello amministrativo.
Prima, dicevamo di quello giudiziario. Non intendo approfondire questo punto, però noi, creando una banca per le infrastrutture – qui c’è Mario Ciaccia che è l’Amministratore Delegato -, abbiamo visto che si possono accelerare tantissimi progetti, si può cambiare. Però ci vuole una volontà che oggi vediamo troppo poco. E bisogna avere la disponibilità a innovare: e questo non riguarda ovviamente solo le infrastrutture ma un po’ tutto il Paese. Anche qui, Bonanni ha fatto giustamente riferimento all’innovazione che ci può essere nel campo delle relazioni industriali, nel campo dei rapporti sindacali. Assolutamente sì. Se non avessimo innovato, su tutti quei progetti quasi impossibili di ristrutturazione, di rilancio, addirittura di rinascita di aziende già morte, non ci saremmo mai riusciti. Se non avessimo fatto un accordo, pochi mesi fa, per assumere anche quest’anno mille giovani, come abbiamo fatto negli ultimi anni – quasi seimila giovani negli ultimi quattro anni – non avremmo creato le condizioni per cui le lavorazioni che dovevano andare fuori d’Italia potessero diventare economiche anche in Italia. Ma senza fare disastri, concertando, discutendo, coinvolgendo, trovando un accordo. Non è unanime? Non importa, è maggioritario, e comunque con il coraggio di andare avanti. Perché mille giovani sono una forza pazzesca, e non dare loro lavoro, per non avere il coraggio di fare innovazione, anche nei rapporti sindacali, sarebbe da irresponsabili.
Nel campo dell’innovazione contrattuale, nei prossimi anni avremo molto da inventare, anche in termini di welfare aziendale. Nella nostra banca abbiamo creato una grandissima Cassa Sanitaria, poi, Fondi Pensione integrativi, perché in molti casi è più efficace ed efficiente trovare meccanismi di welfare, più che di retribuzione diretta. E su questo ci dobbiamo trovare per parlare di un altro tema dove l’innovazione sociale è fondamentale, dove dobbiamo avere il coraggio di fare cose che non si facevano e dove molti di voi sono protagonisti. È il tema del welfare e dell’innovazione sociale legata all’impresa sociale, al volontariato, al Terzo Settore. È chiaro che il welfare dei prossimi anni non potrà più essere quello del passato, solo legato al pubblico. Ed è improbabile che il privato, con le eccezioni che dicevo delle aziende che riescono a fare welfare aziendale, possa fare molto. Però c’è un enorme spazio per l’impegno dell’impresa sociale, del Terzo Settore. Qui bisogna pretendere che arrivino in fondo le normative relative al Terzo Settore, che si definiscano gli aspetti fiscali, le possibilità di raccogliere fondi attraverso obbligazioni sociali o solidali. Anche qui, non sono i soldi, è la voglia, il coraggio, la capacità di normizzare in maniera innovativa dei settori che possono essere trainanti per il nostro Paese. È chiaro che il Terzo Settore deve fare ancora tanto, in termini di efficienza, di trasparenza, di responsabilità: però, creare il contesto è indispensabile e urgente. Con Banca Prossima – qui c’è Marco Morganti, che è l’Amministratore Delegato -, una banca dedicata totalmente al tema del Terzo Settore, tocchiamo con mano che vitalità ci sia, che spazio, se si organizza meglio la raccolta di fondi. Il credito e i finanziamenti crescono di centinaia di milioni di euro all’anno, ed è roba di grande qualità, perché quasi sempre ci si trova di fronte a gente di grandissima serietà.
Ecco, questo impegno che abbiamo preso, anche creando una banca dedicata, è una grande area di esempio, di responsabilità, dove tutti insieme possiamo fare e chiedere di più. Dall’insieme di tutte queste cose – perché non ce n’è una sola che porti al click, che rimetta in moto la crescita -, può rinascere fiducia. E questa è la cosa che forse si è un po’ stemperata negli ultimi anni, perché è mancata questa visione di progetto, perché solo quando ci si trova insieme, a condividere una meta, una destinazione da raggiungere, poi si crea quel carburante formidabile che è appunto la fiducia. La fiducia viene se ci si parla chiaramente dei problemi, se non li si nasconde, se non li si mette da parte, se non li si rinvia, se si ha la disponibilità a cambiare, quel coraggio che il Meeting ci chiede di avere, di pensare alla grande. Quando abbiamo sistemato le Poste, ci siamo prima dovuti convincere che poteva essere un grande progetto. Dall’ultima della classifica, potevamo essere tra i primissimi. Anche questo ha messo in moto, poi, naturalmente, tutto ciò che serviva: la formazione, gli investimenti, le regole. Però ci vuole il coraggio di pensare grande, di avere aspirazioni come quelle che il Meeting ci chiede di avere: e questo naturalmente si porta dietro una forte responsabilità, che è prima di tutto della politica, ma di tutta la classe dirigente, e alla fine di tutti noi.

BERNHARD SCHOLZ:
Visto il tempo, mi permetto di porre a ognuno una breve domanda per risposte sintetiche. Giovanni Bertolone: le piccole medie imprese, ho detto prima, lavorano spesso con le grandi imprese, e c’è una reciprocità. Le piccole sono fattore innovativo per i grandi, e i grandi spesso sono fattore innovativo per i piccoli. Cosa può migliorare, fra piccole, medie imprese e grandi, in Italia?

GIOVANNI BERTOLONE:
Intanto, dei 18 miliardi di euro di ricavi di Finmeccanica, almeno 10, 11 sono per acquisizioni esterne, cioè da forniture. D’altra parte, lavorando Finmeccaninca in un campo di alta tecnologia, sono essenziali le attività di ricerca e sviluppo, altrimenti verrebbe raggiunta rapidamente da altri competitors. Ma non è pensabile, dal punto di vista della ricerca, che venga fatta tutta all’interno della grande azienda e, dal punto di vista del footprint industriale, che ci sia una presenza manifatturiera della grande azienda senza una rete di fornitori sul territorio italiano, che abbiano questa capacità e che introducano innovazione e tecnologia all’interno delle proprie produzioni. Ricordiamoci che è possibile, ancora oggi esistono esempi, da questo punto di vista: un grande stabilimento a Grottaglie, cresciuto dal nulla e realizzato attraverso l’alta tecnologia dei processi industriali, per cui quella parte che non è direttamente collegata al costo del lavoro ha una competitività paragonabile a tutti gli altri paesi del mondo. Esiste ancora la possibilità di lavorare con la presenza industriale, a patto che il dialogo fra i fornitori più qualificati e la grande azienda abbia una prospettiva di impegno all’investimento e alla ricerca, non soltanto della grande azienda ma anche dell’azienda specializzata. Tra l’altro, ricordiamo che in un settore ad alta tecnologia è possibile, ancora oggi, partire con piccole realtà e con grandi intuizioni che poi possono essere sviluppate. Esiste un premio di innovazione, per i fornitori. Ecco, penso che sia una strada obbligata quella di procedere a un’idea di presenza industriale sul territorio italiano, ancora di tipo produttivo, con una sorta di patto e di pianificazione delle attività di ricerca e sviluppo, che fanno parte della grande azienda ma devono essere sviluppate dalle aziende fornitrici, attraverso accordi e programmi di durata pluriennale: soltanto così è possibile recuperare gli investimenti che si debbono fare.

BERNHARD SCHOLZ:
Si è parlato molto, negli ultimi tempi, e il dialogo si sta rafforzando anche sul tema delle partecipazioni. Sarà una forma interessante, nuova e fattibile per coinvolgere positivamente i collaboratori dentro l’impresa?

RAFFAELE BONANNI:
Grazie per questa domanda, perché è il cuore della iniziativa della CISL, il cuore delle nostre preoccupazioni. Come dicevo, soprattutto in questi tempi, la crisi si supera, andremo dentro una nuova storia, un’altra strada. La partecipazione è un elemento importante per far funzionare ciò che deve funzionare, ciò che ci dà il benessere, ma a patto di rinnovare la realtà democratica, che è l’ossessione che dovremmo avere, perché non esistono popoli coscienti e in grado di darsi un futuro se gli stessi cittadini non sono impegnati nella costruzione del loro benessere. Questo è un punto importante, che riguarda l’economia e anche il benessere a tutto tondo. Allora, la partecipazione: sapendo che l’Italia ha una struttura economica molto diversificata, non c’è un criterio che vada bene per tutti. Noi abbiamo lavorato molto con l’impresa e abbiamo fatto crescere, con molta determinazione, una condizione di partecipazione che passi attraverso la cosiddetta bilateralità: funzioni utili a premiare situazioni di lavoratori, ma anche di impresa, in termini di servizio d’impresa, con decisioni che si prendono contrattualmente. Poi si affida allo strumento deciso, che è appunto l’ente bilaterale, la gestione di questo aspetto che è una forma di partecipazione molto importante. Pensate al settore dell’artigianato: non potremmo avere nessuna occasione di partecipazione, se non ci fosse la bilateralità. Insomma, l’ente bilaterale non è altro che uno degli strumenti che esalta il sistema sussidiario, quel qualcosa che, come diceva adesso Passera, non può essere esclusivamente affidato al pubblico ma che coinvolge anche noi, la nostra responsabilità, che ci permette di essere più veloci e ravvicinati nell’ambito in cui siamo impegnati e viviamo. Questo è un punto molto importante.
E che ci siano le imprese, d’accordo ad organizzarsi in questo modo, significa affinare le possibilità di condivisione delle condizioni dei lavoratori e delle imprese, perché chi è impegnato insieme in progetti, si comprende di più: la prevalenza del tempo sarà usata per migliorarsi e per andare incontro all’altro. E’ una forma di partecipazione, idonea soprattutto per le piccolissime e medie aziende. Poi ci sono forme di partecipazione molto più ampie e più importanti, che intervengono direttamente, non solo nella possibilità di darsi sussidiarietà e più coinvolgimento, ma anche una valenza di maggiore potere che influenza l’economia, anche in termini grandi. E’ quello a cui aspiriamo: negli ultimi anni abbiamo stimolato tutte le forze politiche – tutte tranne quelle antagoniste e populiste, che non hanno voluto presentare Disegni di Legge in Parlamento – a presentare il loro Disegno di Legge. Per fare cosa? Abbiamo sentito, anche nelle parole di Passera, quale forza possa essere, ad esempio, il possesso di azioni in azienda: come ci permetta di stare, non dico nel governo stesso delle aziende, ma almeno nell’indirizzo e nel controllo della gestione. Io sono contrario al potere nelle aziende, perché la commistione non serve. Serve invece la possibilità di avere accesso diretto ai dati, per poter dire cosa va bene e cosa non va.
Spero che il Parlamento si muova in questo senso: per la prima volta nella storia c’è stata una pressoché identità di vedute con le imprese, che in Italia hanno sempre rifiutato l’idea che i lavoratori potessero avere potere nell’impresa. Hanno detto di essere d’accordo che lo Stato non obblighi a questa scelta, ma offra incentivi che spingano a farla. E che si possa, nel trovare le forme di partecipazione, in base agli stimoli fiscali o di altro genere offerti dallo Stato, fare accordi bilaterali tra imprese e lavoratori. Questo è molto importante, non solo perché viene incontro al comune modo di vedere di chi si rifà alla Dottrina Sociale, ma perché ci permette di realizzare quello che dicevamo dall’inizio. Parlavo con Scholz, prima di iniziare, gli dicevo: “Il tuo Paese di origine, la Germania, ha reagito benissimo alla crisi, perché?”. A me interessa un sindacato come il tedesco Dgb, come quelli nordici. I tedeschi hanno reagito bene e hanno salvato molte aziende evitando la delocalizzazione. Hanno ristrutturato molto bene le loro aziende, in taluni casi hanno perfino ridotto lo stipendio, pur di affrontare la tormenta che ci assedia, pur di salvare le imprese. Esattamente come hanno fatto i lavoratori della Chrisler, a Detroit, che sapevano fino in fondo cosa stesse succedendo nella loro azienda e nel proprio settore, nei confini nazionali e internazionali.
Avevano piena cognizione delle questioni che dovevano affrontare come classe dirigente, non solo come lavoratori: e quindi si sono mossi bene e sono stati pronti, ancora prima degli altri, ad affrontare la crisi. In Germania, dai primi anni ’50, c’è un sistema di partecipazione alle scelte dell’impresa che non ha eguali in tutto il mondo. I lavoratori tedeschi sono consapevoli di ogni questione. Noi qui ci siamo arrivati attraverso forzature dei vertici. Ed ecco perché – chi ha buoni orecchi, senta – noi riteniamo che, almeno nelle grandi aziende, questa vicenda debba evolversi. Noi che siamo in Europa, con la cultura sociale che abbiamo e con la vicinanza al sistema partecipativo tedesco, abbiamo ancora una condizione di non piena partecipazione. E a Detroit, per esempio, i lavoratori se la sono pagata, la partecipazione, perché hanno impegnato i loro Fondi Pensione, hanno impegnato i lori diritti, nella azienda. Questa è la sfida, uomini lungimiranti e coraggiosi devono impegnarsi su questo.
L’anno scorso ebbi modo di dire qui che un uomo coraggioso, un cattolico impegnato nell’impresa come Mattei, sfidò l’Italia su questo. E in quell’epoca dovette rinunciare, perché Confindustria e comunisti gli furono contro. Ora, con una crisi che apre a un nuovo scenario e con l’esigenza di avere bisogno di nuove consapevolezze, bisogna accettare questa sfida. Io so che è più difficile per Passera che per me, lo so, ma è lì, la differenza. Sono convinto che il sistema di Passera sarà più forte se riuscirà ad avere i suoi lavoratori consapevoli delle condizioni dell’azienda in cui lavorano, non solo perché prendono uno stipendio per sostenere se stessi e la propria famiglia, ma anche perché quel sistema è il loro, nel senso che loro partecipano, non dico a pari titolo, ma partecipano alla consapevolezza che bisogna avere nei momenti di difficoltà come nei momenti di fortuna.
Questo è un momento di grande cesura, rispetto al passato, da cui dipenderà il nuovo, se lo costruiamo attraverso il coraggio, attraverso la ricerca del meglio di noi stessi. Diversamente, consegniamo ai nostri giovani il nichilismo indicato dalla deresponsabilizzazione che, purtroppo, condivide buona parte del ceto politico. Mi sovveniva della discussione che facevamo poc’anzi: io non ce l’ho, con la politica, vorrei una politica migliore perché, come si dice, a chi è affidato molto, si chiede molto, no? E a chi si è dato di più, si chiede molto di più. Devono mettersi d’accordo, non è che alla prima critica danno forfait. Quel grande uomo, coraggioso, umile e così via, di De Gasperi, nel momento drammatico dell’Italia andò a Parigi con umiltà, a chiedere clemenza a tutte le potenze, a chiedere aiuti. Lo stesso de Gasperi non si fermò: e altro che parolacce, volavano a quei tempi da parte degli oppositori, cose molto, molto brutte. Lui tirò avanti, perfino con le alte gerarchie della Chiesa che gli chiedevano di dare forma cristiana allo Stato: lui diceva che le forme cristiane si danno attraverso l’impegno e la testimonianza dei singoli che diventano energia collettiva. Perché non prendiamo spunto da De Gasperi, per un’esperienza che rinnova la società italiana attraverso la responsabilità?

BERNHARD SCHOLZ:
Mi verrebbe voglia di chiederti cosa ti dice il suggerimento di Raffaele Bonanni, però la mia domanda riguarda una discussione che si è fatta anche negli ultimi anni, durante la crisi. Intesa Sanpaolo ha una linea di credito, nei confronti delle aziende e delle famiglie, di cinquecento miliardi, circa un terzo del PIL. Un impegno molto forte. Cosa deve migliorare nel rapporto piccole, medie imprese e banche, perché le condizioni che hai citato si possono avverare al meglio?

CORRADO PASSERA:
Prima una parola su quel temone, perché è troppo importante e bello. Il tavolo va aperto, in fondo l’abbiamo già aperto perché, se abbiamo fatto insieme taluni piani di impresa rivoluzionari, li abbiamo gestiti poi insieme. E se abbiamo fatto cinquecento accordi sindacali, negli ultimi quattro anni, se abbiamo trovato il coraggio di fare accordi anche in deroga dei contratti, e anche a maggioranza, significa che c’è questa volontà di condurre insieme e di condividere le responsabilità di scelte difficili. Quali modalità formali, quali forme contrattuali e quali forme anche di governance delle aziende? Perché giustamente Bonanni parlava di meccanismi di orientamento e controllo, quindi più da duale, che non da sistema monastico. Per cui, il come è da fare, però il tema è ineludibile: anche l’esperienza della crisi di questi anni dimostra che c’è molto di vero in quello che l’auspicio di Bonanni richiamava. Tema: il rapporto con le piccole e medie imprese. Discorso lungo, però importante. Come non esistono le banche, ovviamente non esistono le piccole e medio imprese: ce ne sono di assolutamente diverse, e quindi non c’è un discorso che valga per tutti.
Questo è un settore dell’economia che per noi è di gran lunga il più grosso settore di attività. Noi viviamo di rapporto con questo pezzo della nostra economia e della nostra società e, nel bene e nel male, in questo periodo è anche il settore dove abbiamo la stragrande maggioranza delle perdite sui crediti. Ma questo non vuol dire che non ci sia un grandissimo impegno a crescere: infatti, i volumi di credito nel settore delle piccole e medie imprese è il settore dove i volumi sono addirittura non calati, anche nel momento più difficile della crisi. E negli ultimi mesi, e nelle ultime settimane, soprattutto del secondo trimestre, finalmente si sono cominciati a vedere segnali di ripresa. Malgrado le difficoltà, perché poi ci sono state difficoltà all’inizio della crisi, l’abbiamo affrontata insieme e non ci siamo mai tirati indietro. Gli accordi fatti con tutte le associazioni di categoria, Confartigianato, Confagricoltura, Confcommercio, sono stati tesi a trovare soluzioni anche straordinarie: la moratoria, che poi è diventata una regola di sistema, il finanziamento per quelle imprese dove l’imprenditore mette il capitale e la banca moltiplica per tre, per quattro, in termini di finanziamenti a medio, lungo periodo, addirittura il finanziamento degli insoluti, una cosa quasi inconcepibile da un punto di vista strettamente bancario. Sono stati tutti elementi tesi a dimostrare la volontà di passare insieme attraverso la crisi.
Adesso abbiamo una difficile coda della crisi, perché quando le aziende sono rese ancora più pesanti dalla lunghezza della crisi, quando le risorse e le riserve in taluni casi si sono esaurite, è il momento più delicato, in cui è molto importante per la banca capire quali siano le aziende che hanno la possibilità di passare attraverso, e che quindi devono essere in ogni caso appoggiate per essere pronte alla fase successiva della crescita, e quali invece non abbiano queste caratteristiche. Avremo da gestire insieme Basilea 3, qualcosa che viene addosso all’impresa banca, che però l’impresa non bancaria deve conoscere bene, perché il requisito di capitale, quindi il costo di capitale, che la regola impone alla banca, poi automaticamente diventa possibilità e volume di credito da fare all’azienda. Qui c’è uno spazio enorme, credo che ci sia la possibilità di migliorare, di far crescere il rapporto tra la banca e la medio, piccola impresa in maniera clamorosa. Perché sono ancora una percentuale minima, quelle aziende che portano conti comprensibili, analizzabili per settore di attività, per prodotto, che hanno piani. Perché alla fine il credito si dà sulla base dei risultati, dei piani e delle garanzie.
Se i risultati inevitabilmente non possono che essere deboli, dopo un periodo di crisi così violenta, almeno ci devono essere piani credibili che possano compensare, perché poi diventa impossibile da un punto di vista normativo, nella misura in cui non c’è il risultato e non c’è il piano per compensare questa situazione: solo con garanzie, ci deve essere l’azienda vitale. Ecco, quello dell’imparare o dell’aiutarci a vicenda a produrre progetti e piani credibili sulla base dei quali poter basare valutazioni di credito che non avrebbero le caratteristiche per essere bancabili, che è la stragrande maggioranza dei casi in taluni distretti, è la sfida da cogliere insieme. Però, ripeto, noi esistiamo perché esiste questa fascia di economia e consideriamo nostro dovere fare tutto il possibile perché si diventi più capaci di servire questo pezzo del mondo.

BERNHARD SCHOLZ:
Grazie a Giovanni Bertolone, Raffele Bonanni e Corrado Passera, per la chiarezza, la franchezza con la quale hanno parlato e ci hanno aperto riflessioni sulle strade da percorrere. Io penso che ci sia una condizione preliminare che in tutti e tre gli interventi è emersa: che il desiderio di cui parliamo in questo Meeting diventi responsabilità. Perché un desiderio che non diventi responsabilità, diventa prima sentimentale e poi risentimento, e finiamo nelle lamentele. Invece, quando diventa responsabilità, comincia a cambiare le cose. Ma c’è anche una condizione che è emersa in tutti gli interventi: perché uno si possa assumere responsabilità, deve anche sapere per che cosa, e quindi la responsabilità presuppone che ci siano delle proposte, degli obiettivi, delle mete, dei percorsi, sia a livello della singola impresa – perché se lavoro dentro l’impresa non posso essere responsabile se non so qual è la meta dell’azienda stessa -, sia a livello sociale. E’ solo così che si crea una corresponsabilità dentro la società che permette il dialogo che è stato da tutti richiamato come urgenza.
Perché non possiamo pensare che ci sia un demiurgo che, di punto in bianco, ci indica una strada che risolva tutti i problemi. Questa strada la dobbiamo costruire insieme, ma la costruiamo se ci assumiamo tutte le nostre responsabilità. E così, sarà necessario che la politica – e fa parte della nostra responsabilità anche spingere la politica – faccia delle proposte di riforme sulle quali noi possiamo dialogare, perché altrimenti ognuno va per conto suo e insieme non possiamo fare dei passi avanti: di riforme, abbiamo urgentemente bisogno. Sono state citate quelle che vanno dai settori delle infrastrutture ed energie fino al sistema scolastico e all’istruzione, del fisco parleremo con Tremonti. Rimane, però, il problema del coraggio di guardare in avanti, di non subire, di non reagire ma di creare, di generare insieme. Questo spesso è a costo zero, molto più spesso di quello che pensiamo, non è che tutte le riforme abbiano dei costi, tante riforme, come è stato detto, non costano niente, quasi niente.
Il medio e lungo termine è un altro punto importante, perché non possiamo pensare di risolvere le questioni immediatamente. Tante cose hanno bisogno di uno spazio ampio, penso alle grandi riforme che ho citato prima. Però siamo in grado di fare i sacrifici che questa crisi comporta, ha comportato e comporterà ancora, se sappiamo che alla fine c’è una meta raggiungibile attraverso i sacrifici. Se non la vedo, se non mi viene proposta, io evidentemente mi chiudo, tiro indietro e non sono più disponibile. Questo vale per le aziende, per la Pubblica Amministrazione, per la società civile, per qualsiasi entità sociale. Penso che la capacità di proporre obiettivi, percorsi che valgono per tutti, per l’impresa e per la società, sia necessario e sia richiesto a ognuno. Personalmente, penso che, a lungo termine, la riforma più urgente sia quella del sistema di formazione e istruzione, del sistema scolastico: questo sarà il nostro futuro. Anche qua, occorre una grande pazienza, una grande lungimiranza, ma non vuol dire che dobbiamo rimanere inattivi. Penso che questo possa cominciare da subito, da come guardiamo i nostri figli, se crediamo veramente che anche loro abbiano dentro di sé quella natura che fa desiderare cose grandi, se siamo capaci di tenere viva in loro, in qualsiasi situazione, la vita che pone questo desiderio. Grazie.

(Trascrizione non rivista dai relatori)

Data

22 Agosto 2010

Ora

15:00

Edizione

2010

Luogo

Sala Neri
Categoria
Incontri