QUEL CHE MUOVE IL MONDO

Quel che muove il mondo

Quel che muove il mondo

Partecipano: Olusegun Obasanjo, già Presidente della Nigeria e già Presidente dell’Unione Africana e Romano Prodi, già Presidente della Commissione Europea, già Presidente del Consiglio dei Ministri, Presidente della Fondazione per la Collaborazione tra i popoli in dialogo con Stefano Manservisi, Direttore della Direzione Sviluppo della Commissione Europea e Paolo Magri, Vice Presidente Esecutivo e Direttore di ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale).

 

Ore: 15.00 Salone Intesa Sanpaolo A3
QUEL CHE MUOVE IL MONDO

Partecipano: Olusegun Obasanjo, già Presidente della Nigeria e già Presidente dell’Unione Africana e Romano Prodi, già Presidente della Commissione Europea, già Presidente del Consiglio dei Ministri, Presidente della Fondazione per la Collaborazione tra i popoli in dialogo con Stefano Manservisi, Direttore della Direzione Sviluppo della Commissione Europea e Paolo Magri, Vice Presidente Esecutivo e Direttore di ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale).

PAOLO MAGRI:
Buongiorno a tutti, e sin da ora un grazie enorme ai due straordinari, il presidente Obasanjo e il presidente Prodi, che presenteremo in modo più adeguato fra qualche istante insieme a Stefano Manservisi, direttore generale Sviluppo della Commissione Europea. Il tema della nostra chiacchierata di oggi è, come vedete, “quel che muove il mondo”. E quel che muove il mondo non è certo un tweet notturno, anche se viene dal leader politico di un Paese importante del mondo; quel che muove il mondo non è certo il dilemma, che sta appassionando l’Italia e l’Europa, sul fare sbarcare o meno 150 persone da una nave; quel che muove il mondo non è certamente un raid sporadico su un aeroporto siriano vuoto, perché i siriani son stati avvisati dai russi, e i russi son stati avvisati dagli americani. Tutto ciò che ho citato è al massimo rumore di sottofondo del mondo, brusio, brusio che rischia di distrarre, offuscare ciò che nel frattempo muove il mondo. Trasformazioni profonde, trasformazioni sulla demografia, sulla forza degli Stati, sui sistemi politici che li governano, sulle migrazioni. Trasformazioni che hanno origini lontane, molti anni prima, decenni, trent’anni prima e che magari si esprimeranno dieci, vent’anni, trent’anni dopo, e che rimodellano ciò che è attorno a noi. E per capire ciò che muove il mondo, servono strumenti che ahimè oggi sembrano scarseggiare. Serve appunto la volontà di guardare indietro senza nostalgie, merce scarsa quando il cambiamento diventa ossessione. Serve capacità di guardare avanti, merce scarsa quando prevale l’ansia per il futuro, e serve la curiosità di guardarsi attorno, merce scarsa quando prevale il desiderio di chiusura, di muri, l’illusione di essere padroni a casa propria. Guardare indietro, guardare avanti, guardarsi attorno. È quello che proveremo ora a fare insieme, in questa tavola rotonda, consapevoli del poco tempo e quindi della necessità di fare una carrellata veloce su temi vastissimi, ma anche consapevoli, e lo siamo certamente Stefano Manservisi e io, e lo siete certamente voi così numerosi qui, di avere il privilegio di ascoltare, su questi cambiamenti del mondo, due leader dei loro Paesi, due leader dei loro continenti, come Romano Prodi e il presidente Obasanjo. Io ho il piacere di presentare il presidente Prodi. Ho partecipato almeno a una decina di incontri col presidente Prodi e ogni volta il moderatore di turno dice: «E ora presento il presidente Prodi, e dice poi, il presidente Prodi non ha bisogno di presentazioni, ha studiato all’Università Cattolica, ha fatto il ministro…». Non seguirò questa regola e quindi mi limiterò a dire che per tutti noi il presidente Prodi non ha bisogno di presentazioni e passo quindi a Stefano Manservisi il compito altrettanto arduo di presentare un’altra personalità che non ha bisogno di presentazioni, come il presidente Obasanjo. Prego Stefano.

STEFANO MANSERVISI:
Grazie Paolo, grazie per questa impressionante partecipazione. In realtà il presidente Obasanjo non ha bisogno di presentazione neppure lui, in Africa. Siccome siamo qui a Rimini, magari due parole, per rendere ancora più evidente l’importanza della sua presenza e del suo contributo, sono necessarie. Della sua presenza in quanto uomo di stato, in quanto personificazione di momenti fondamentali della storia africana. Vorrei solo ricordare alcuni aspetti del presidente Obasanjo che sono importanti anche per il dibattito che avremo dopo. Il presidente Obasanjo, quando ci fu il colpo di stato nel ‘75 in Nigeria, quando si ritrovò ad essere a capo dello Stato, risultato di un colpo di stato, è stato l’uomo che ha ridato la democrazia alla Nigeria, che ha deciso di lasciare il potere e di costruire un percorso democratico con una costituzione, con una classe politica che fosse cresciuta nella democrazia. Con contraddizioni, certo, però questo è un punto fondamentale che è stato ripetuto varie volte. Quando il presidente Obasanjo ha vinto due volte le elezioni, democraticamente, in Nigeria, e quando, confrontato a quello che molti leader africani si trovano ad affrontare, cioè il famoso dilemma del terzo mandato, che anche nella carta dell’Unione Africana è fortemente scoraggiato, beh, si è trovato un partito che lo voleva e che voleva cambiare la costituzione, e da uomo di stato si è opposto a questo, è uscito dalla sfera del potere e ha consolidato un processo di democrazia che è ancora in costruzione, ma un processo di democrazia in Nigeria. Quindi ha rinunciato, non si è preso… credo che questi due aspetti vadano sottolineati, insieme ad altri. Il fatto che il presidente Obasanjo sia stato in prigione, per la difesa dei diritti dell’uomo, in un Paese in cui le contraddizioni, le contrapposizioni religiose, sociali anche, sono elementi di non coesione sociale; e il fatto che, diciamo così, si sia battuto per creare una classe politica. Ecco, questi sono elementi fondamentali, perché nelle sfide del mondo globale, il percorso delle istituzioni, della democrazia e del consolidamento delle capacità dello Stato, sono sicuramente uno dei punti su cui andremo a discutere. Secondo aspetto dell’importanza dell’uomo di Stato africano, in questo dibattito, è che l’Africa, di quanto ha detto Paolo all’inizio, è soggetto, a volte non consapevole, ma è soggetto, quindi c’è bisogno di sviluppare una soggettività globale, quindi c’è bisogno di una leadership globale. E credo che il presidente Obasanjo in questo parte da una realtà come quella della Nigeria che è il Paese più popoloso d’Africa oggi, 200 milioni di abitanti, che ne avrà un miliardo nel 2050, più dell’Unione Europea, se prendiamo le curve demografiche quali si presentano oggi. Che è al tempo stesso la più grande potenza economica africana, più importante del Sudafrica, ma che è un Paese che esporta petrolio e importa benzina, un Paese che è tra le prime potenze economiche mondiali, la settima emergente ma che è al 152esimo posto dell’indice di sviluppo umano. Un Paese enorme, ricchissimo, diverso, dove al nord si è sviluppata una guerriglia terribile, che è quella di Boko Haram, dove le contraddizioni, le opportunità sono fondamentali. Beh, è un po’ lo specchio dell’Africa: soggetto di questo nuovo mondo in costruzione, e quindi credo che il titolo doppio del presidente Obasanjo sia: uomo africano che ha provato, ha modificato, ha trasformato la Nigeria ma che è anche rappresentante della nuova soggettività africana in questo mondo in formazione. Questa breve presentazione, presidente, spero breve, giusto per spiegare per quale motivo in questa fase dobbiamo discutere insieme.

PAOLO MAGRI:
Io mi permetto di aggiungere un’ulteriore medaglia che farà molto piacere a chi è in questa sala, al presidente Obasanjo. Il presidente Obasanjo è arrivato per essere qui a Rimini oggi con un volo dall’altra parte del mondo questa mattina e ripartirà per un altro impegno fra poche ore, quindi per essere a Rimini una giornata si è sobbarcato un viaggio lunghissimo e questo è un ulteriore elemento di gratitudine. Mi ha confessato, se mi permette presidente, che sua moglie si lamenta, che dice che la sua vita è in aereo, che va a casa solo a fare il check in e il check out e il cambio valigia, cosa che lo rende umano ai nostri occhi, come tutte le nostre mamme e mogli. Noi abbiamo articolato insieme a Stefano questo dialogo attorno ad una decina di temi sul mondo che cambia. Su ciascuno di questi temi, ci saranno gli autorevoli commenti, prima del presidente Prodi, poi del presidente Obasanjo. Non possiamo non partire, come primo tema, dalla demografia. La demografia perché di tutti i temi che abbiamo scelto è la scienza più esatta: sappiamo già quanti saremo tra vent’anni e ovviamente sappiamo quanti eravamo prima, trent’anni fa. Due slide su questo. La prima è su come eravamo nel 1950. Qualcuno, in questa sala, nel 1950 era già nato o era già adulto. Guardate i colori: l’Asia era al primo posto, metà della popolazione mondiale, al secondo posto, un quarto, l’Europa, in rosso, e poi l’Africa, il verde. Il resto, Nord America e Latino America. Quindi l’Asia al primo posto. Guardiamo nel 2050: l’Asia rimane al primo posto ma guardate lo scambio tra rosso e verde: l’Africa, come citava Stefano poco fa, diventa il secondo continente, con un quarto della popolazione mondiale, e guardate l’Europa, passa dal 22 per cento al 7 per cento. Questo in termini quantitativi. Ma guardiamo quelli qualitativi: e qui vediamo che nel 1950 la piramide demografica era appunto una piramide. Tanti giovani e pochissimi anziani, via via risalendo nella piramide. Guardate la piramide nel 2050: come succede a molti di noi, si sono un po’ ingrossati i fianchi e diventa una sorta di rettangolo, più che una piramide. Ma in questo rettangolo, che è fatto di una media, ci sono due dinamiche diverse: quella dell’Africa, che avrà una popolazione dall’età media fra i 16 e i 25 anni (alcuni Stati hanno la maggioranza della popolazione che è sotto la maggiore età) e un’Europa che avrà fra i 45 e i 50 anni. Presidente Prodi, quali sono le implicazioni per questa trasformazione del mondo, per noi e per il resto del mondo?

ROMANO PRODI:
Di questo riporto un solo dato: nell’Africa subsahariana, l’età mediana è di 17-18 anni, in Italia 47 anni, fra i 46 e i 47. Cioè, sono due mondi, non c’è niente da fare, sono due mondi diversi. E allora tutti i problemi dell’immigrazione, tutti i problemi della necessità di avere un dialogo diverso da quello di oggi, sono i problemi del domani, non c’è niente da fare. Perché se anche cambiassero i termini della demografia e avessimo un rapporto leggermente diverso, per un’intera generazione ormai le cose sono fatte. E allora, che cosa implica? Implica che se noi continuiamo con la divisione di oggi, con il non dialogo, con la separazione, sarà un disastro. Non c’è niente da fare, perché abbiamo forze troppo grandi che si confrontano tra di loro. L’Asia rimane metà del mondo, come abbiam visto prima, ma l’Africa passa a due miliardi di persone e l’Europa a meno di 500 milioni di persone, 490, Gran Bretagna inclusa, quindi c’è assolutamente poco da fare. Io credo che di fronte a questo, o c’è una presa di coscienza di tutti i Paesi, oppure lo scontro e il dramma saranno inevitabili. Cosa vuol dire, presa di coscienza? Quando noi pensiamo alla politica riguardo all’Africa, noi, lo vedremo poi nel seguito della nostra conversazione, troveremo che tutto sommato negli ultimi anni lo sviluppo africano non è stato male, è stato migliore della media annuale. Ma l’Africa era così decaduta che, oggi come oggi, 2017, l’Africa ha la stesa percentuale di prodotto nazionale lordo che aveva nel 1980. Con la popolazione che è aumentata come abbiamo visto che è aumentata. Cioè, attenzione, che qui siamo veramente al punto di rottura. Mettiamoci un po’ di utopia: se noi vogliamo davvero vincere questa situazione, non c’è altro al mondo che un grande accordo tra l’Europa e la Cina nell’intervento sull’Africa. Perché? Perché la Cina, lo vedremo nel resto della conversazione, è intervenuta pesantemente in Africa, e si è creata delle amicizie ma anche delle inimicizie, dei problemi e delle tensioni, e così è l’Europa. Allora, se noi vogliamo avere la forza sufficiente per bilanciare quello che sta succedendo e nello stesso tempo per avere una politica credibile, dobbiamo mettere assieme queste forze. Ve lo dico perché aprire un dibattito così con una utopia, come sto facendo, può essere provocatorio ma è certamente utile per capire come stanno veramente le cose.

STEFANO MANSERVISI:
Presidente, dal punto di vista africano, come voi vedete l’Europa, in questa trasformazione e come vedete voi stessi? Qual è il discorso dell’Africa che guarda a se stessa e che guarda, in questo, anche all’Europa?

OLUSEGUN OBASANJO:
Grazie. Desidero ringraziare il mio amico, Romano Prodi, per la sua presenza, qui accanto a me, in occasione di questo panel. Abbiamo partecipato agli stessi panel in alcune occasioni e noi collaboriamo da quando lui era all’interno dell’Unione Europea e io ero presidente della Nigeria. Per me lui è un vero e proprio europeo. Dunque, facciamo il punto in merito alla demografia. Ci sono due modi per considerare la demografia: la demografia può essere vista come una risorsa o come un peso, come una sorta di passività. Nel corso degli anni, la demografia è ciò che ha contribuito allo sviluppo delle società e delle comunità. E questo aspetto non va cambiato. La differenza tra la demografia intesa come risorsa o come peso, ha a che fare con la competenza, con il livello per così dire di istruzione e di responsabilizzazione, di innovazione della demografia stessa. Quando si ha una demografia senza istruzione, senza abilità, senza occupazione e senza responsabilizzazione, senza empowerment, allora in quel caso la demografia diventa un peso, ma un peso molto pericoloso. E come spesso ho affermato in Africa, se non ci rendiamo conto del fatto che la demografia può rappresentare un pericolo, quindi un peso molto pericoloso e allo stesso tempo, una risorsa, allora in realtà è come se fossimo seduti su dell’esplosivo. Quindi che cosa si può dire? In passato la demografia non è stata statica. L’antropologia, l’archeologia, hanno dimostrato che l’esistenza umana è iniziata in Africa, sono iniziate in Africa, nessuno discute più di questo, nessuno afferma che non è vero. Si parla di demografia e di migrazioni che hanno contribuito allo sviluppo del mondo e che si sono spostate dall’Africa, al Medio Oriente, all’Europa, all’Asia e successivamente alle Americhe. E questo è un aspetto di cui dobbiamo sempre tenere conto: l’umanità resta umanità. Che cosa vedo per l’Europa e per l’Africa? I leader africani e gli africani in generale devono assumersi le proprie responsabilità seriamente, nella gestione degli aspetti demografici. Non possono non ottemperare a queste responsabilità, non prestando attenzione alla corretta gestione degli aspetti demografici. In Europa la demografia sarà in calo e in Africa invece la popolazione crescerà. E quindi, come ha già affermato il presidente Prodi, dovremo essere in grado di riunirci, per così dire. Ora, quali sono le cose, gli aspetti che l’Europa chiederà all’Africa nella gestione della demografia africana e questo a vantaggio sia dell’Africa, sia dell’Europa, che in generale, a vantaggio del mondo intero? E che cosa chiederà invece l’Africa all’Europa nella gestione della demografia, affinché la demografia africana e quella europea possano essere complementari e non porsi in posizioni antagonistiche? Credo che questo sia un aspetto che dobbiamo affrontare quando noi in Africa e voi in Europa parliamo di demografia. La demografia non dovrebbe essere più un peso perché se è ben gestita, se lavoriamo insieme, la demografia dovrebbe rappresentare un vantaggio, una risorsa, per l’Europa, per l’Africa e in realtà per il mondo tutto intero. Grazie.

PAOLO MAGRI:
Passiamo ad un secondo tema del mondo che cambia, che è quello dei conflitti. I conflitti, che sono un altro rumore, un altro brusio, che accompagnano il nostro tempo, ovvero il rumore e il brusio sulla possibilità di ritorno di conflitti su larga scala, sull’aumento dei conflitti del mondo. L’Economist, che non è la Bibbia, ma ha dedicato a questo tema una copertina, recentemente e anche il Papa, come ricorderete, ha parlato qualche tempo fa della guerra mondiale a pezzi. E proviamo a fare sul tema dei conflitti lo stesso esercizio di guardare un po’ indietro, venti, trent’anni, quarant’anni fa, e vedere qual è la situazione effettiva di oggi sul tema dei conflitti. E qui c’è una sorpresa: mentre noi parliamo di conflitti crescenti, in questo momento, nella storia dell’umanità, dal dopoguerra, abbiamo il più basso numero di conflitti tra Stati della nostra storia recente. Ma questa immagine non dà la realtà complessiva del fenomeno perché a questi conflitti tradizionali, quelli fra Stati, lo Stato A che combatte lo Stato B, si accompagnano altri conflitti, dentro gli Stati, che sono conflitti civili o conflitti di altro tipo. Pensate ai conflitti in Siria, che sono dentro la Siria, ma ci sono potenze straniere pesantemente coinvolte. Se consideriamo questi conflitti, il quadro cambia: sono i colori arancione e giallo di questa slide e vedete che in questo momento, se consideriamo anche questi conflitti, siamo a un record alto di conflittualità, non a un record basso. A questi conflitti interni, ha dedicato gli ultimi anni del suo impegno di Segretario generale un personaggio, una personalità africana che ricordiamo oggi con grande affetto, che è Kofi Annan, lo ricordiamo insieme a un altro grande personaggio dell’Africa. Kofi Annan, dopo la drammatica esperienza del Ruanda e della Bosnia (all’epoca era direttore del Department for Peacekeeping), ha lavorato gli ultimi anni del suo segretariato, per introdurre una possibilità per l’Onu di occuparsi anche dei conflitti interni con la dottrina della responsability to protect, la responsabilità di proteggere, che dopo l’esperienza libica è però un po’ fuori moda. Inizio di nuovo dal presidente Prodi: quanto siamo a rischio, qual è il rischio di conflitto e quali strumenti abbiamo (ne ho citato uno non più utilizzabile, per ora), per affrontarlo?

ROMANO PRODI:
I grafici che abbiamo visto sono chiarissimi: non abbiamo avuto una guerra mondiale e non abbiamo delle grandi guerre, però – riprendo quel che ha detto il Papa – abbiamo una guerra mondiale a pezzi, cioè tantissime guerre dappertutto e soprattutto guerre interne. Ma stiamo attenti, perché queste fanno milioni di morti, non è che siano delle cose da poco. E qui una prima riflessione: probabilità di una guerra mondiale? Io ritengo che non siano molte, sono ottimista in materia. Fioriscono le analisi di quando nel mondo vi è stato l’effetto Tucidide, l’effetto Peloponneso, cioè una potenza stabilizzata (Sparta), una potenza crescente (Atene). Quante volte c’è stata la guerra nel mondo: una potenza stabilizzata (Stati Uniti) e una potenza crescente (Cina). Gli storici ci dicono (non è il mio mestiere, ma leggo) che su sedici casi, dodici sono sfociati in una guerra. Io ritengo che noi andiamo negli altri quattro, perché il mondo si è molto impastato, le grandi imprese sono un po’ americane, un po’ cinesi, il commercio, nonostante gli ostacoli di questi giorni, tutto sommato regge, quindi sotto questo primo aspetto io sono abbastanza ottimista. C’è invece un altro aspetto che mi preoccupa, che tu hai accennato quando hai alluso alla Libia. Nella mia esperienza di inviato dell’Onu per l’Africa subsahariana, mi sono accorto che manca la forza dell’Onu, nonostante l’Onu intervenga quando c’è qualcosa che non interessa le cinque grandi potenze. Poi, se interessa le cinque grandi potenze, si ferma. È sempre più così! Viviamo in un mondo spaccato in due dal punto di vista di quella che dovrebbe essere la politica solidale. I grandi conflitti in mano ai cinque grandi, anche se i grandi oggi non sono quei cinque, però hanno il diritto di veto e la politica quotidiana che vede l’Onu sempre più assente e sempre più in difficoltà e sempre più impegnato in cause importantissime, profughi, assistenza, protezione dei più deboli, ma non più con lo spazio politico forte che regge il mondo. Attenzione che questa divisione in due non può mica durare a lungo. Ripeto quindi: non ho paura, anche se ho preoccupazione di una guerra mondiale (tipo Peloponneso), di un grande scontro fra le potenze, anche perché tutto sommato, le dottrine Stati Uniti e Cina alla fine hanno delle compatibilità fra di loro; sono molto preoccupato per queste guerre mondiali a pezzi alle quali vedo sempre meno un rimedio da parte della comunità internazionale e una assenza ancora più forte da parte dell’Europa. Noi ci prendiamo sempre più il compito di mettere qualche pezza, qualche rimedio, qualche buona parola, ma mai di prendere una iniziativa per sistemare un’area, anche le più vicine a noi, anche le più vicine a noi! Pensate al conflitto siriano, pensate al conflitto libico, che vede non l’Europa, ma un singolo Paese europeo che prende le iniziative. Quindi sotto questo aspetto stiamo facendo grandi passi indietro.

STEFANO MANSERVISI:
Sulla questione della dinamica tra intervento delle Nazioni Unite, capacità e volontà politica, il presidente Prodi ricorderà che quando era presidente della Commissione europea, insieme, se posso dire, inventammo un meccanismo per aiutare gli africani a far la pace in Africa. La facilità africana per la pace fu in fondo un’idea piccola ancorché i mezzi erano limitati, anche se dopo quasi dodici anni abbiamo già speso due miliardi e mezzo per aiutare gli africani nelle operazioni di peacekeeping. Però l’idea che in fondo la miglior soluzione sia quella trovata da chi è sotto stress, e quindi dagli africani stessi, rimane un punto fondamentale. Allora al presidente Obasanjo, nella sua qualità di membro fondatore dell’Unione africana, di opinion maker, anche parte del gruppo che era presieduto da Kofi Annan, l’African Panel, di cui è membro, chiedo: questa articolazione tra responsabilità africana e responsabilità globale, può essere la strada attraverso la quale oggi l’Africa più che ancora gli europei o altri, può prendere in mano il destino di territori come quelli del Sahel che sono infestati dal terrorismo jihadista, e della Nigeria, dove imperversa il fenomeno di Boko Haram? Gli africani hanno gli strumenti, possono farlo, hanno la determinazione per poter riempire questo vuoto tra un globale spesso prigioniero degli interessi di pochi e una realtà in cui, più che conflitti tra Stati, ci sono tensioni interne che comportano instabilità e drammi umani.

OLUSEGUN OBASANJO:
Grazie. Vorrei fare una distinzione fra la possibilità di una guerra mondiale e la continuazione di conflitti che siano grandi conflitti, piccoli conflitti, conflitti tra Stati o all’interno di Stati o fra Stati diversi, appunto. Secondo me una delle cose che ci ha aiutato a prevenire un’altra guerra mondiale dalla fine della seconda guerra mondiale è stato il bando, il veto alle armi nucleari. Di fatto ogni guerra mondiale potrebbe essere tra due grandi potenze e questo tipo di guerra prevedrebbe l’utilizzo di armi nucleari e se si vietano le armi nucleari questa guerra diventa impossibile. Io penso che questo sia un aspetto chiaro a tutti. Sebbene sia chiaro a tutti, cosa rimane? Rimangono guerre, conflitti di natura minore o per esempio guerre tra un’area e l’altra. E in Africa, noi siamo stati le vittime principali di questo tipo di conflitti. Abbiamo parlato ad esempio della situazione in Libia: l’Africa aveva una soluzione, per così dire un progetto per questa zona, ma quando i leader africani hanno cercato si organizzare questo progetto, in realtà c’è stato qualcuno che ha deciso al di sopra delle loro teste. L’America e l’Europa, questo è quello che è successo, sono state scavalcate. In una situazione in cui le risorse dell’Africa sono limitate, sarebbero in grado di gestire i conflitti, solo nella misura in cui potessero gestire tutte le risorse a loro disposizione. Per esempio in Sierra Leone la situazione è stata portata a compimento, abbiamo avuto un esito positivo e ci siamo riusciti, autonomamente; lo stesso in Liberia siamo riusciti a gestire il problema liberiano da soli. In base al principio di sussidiarietà, dovremmo essere lasciati in grado di gestire ciò che siamo in grado di gestire in Africa e se abbiamo bisogno di risorse, avere risorse aggiuntive per poter essere in grado di fare ciò che occorre fare per noi, da soli, ma non abbiamo mai avuto un grosso potere di intervento, da questo punto di vista. Quindi ci è mancata l’abilità di agire e di fare ciò che era necessario per noi. Per esempio nella Repubblica Democratica del Congo, nel 1960, io sono stato inviato in quello Stato come funzionario e il problema di quegli anni è lo stesso ancora oggi, e probabilmente continuerà ad esserci finché e fintanto che noi non consentiremo ai cittadini di quello Stato e ai nostri fratelli e alle nostre sorelle africane di risolvere autonomamente i loro problemi. E uno dei motivi per i quali i problemi in quel Paese non sono ancora risolti è che le risorse di quel Paese che è uno dei più ricchi dell’Africa, non sono a sua disposizione. Quindi la risposta è questa: lasciare funzionare il principio della sussidiarietà nella gestione dei conflitti in Africa, far applicare questo principio esattamente come si applica in tutto il resto del mondo. Se funzionasse, credo che il numero dei conflitti fra Stati e anche dei conflitti intestini si ridurrebbe. Le Nazioni Unite sono state come una sorta di piovra tentacolare nelle loro operazioni di peacekeeping. Per esempio hanno toccato unità regionali in Africa, in Asia, magari anche in America Latina, ma in realtà bisognerebbe lasciare queste aree a gestire le loro risorse e far fare a loro il lavoro che occorre fare lì. Non c’è stato nessun momento in cui abbiamo avuto completamente la pace, è stata quasi pace in molte zone. Il mondo si è originato grazie a due soggetti, Adamo ed Eva, e già all’epoca c’erano dei conflitti semplicemente per un frutto, già all’epoca si è avuto un conflitto. Un conflitto che poi in realtà ha in parte scatenato la maledizione e questo ha causato dei conflitti che sono stati poi mondiali, quindi non credo che ci sarà una pace assoluta, ci sarà forse una pace relativa, se facciamo ciò che dovremmo fare. E ciò che io chiedo è che le Nazioni Unite facciano applicare e applichino realmente il principio di sussidiarietà.

PAOLO MAGRI:
Eppure in questo quadro di incertezza sui conflitti si cresce economicamente, perché mentre noi, soprattutto in Occidente, ci lecchiamo ancora le ferite per la grande recessione di questo secolo, la crescita media del mondo non è assolutamente male. Guardiamo in questo caso un po’ indietro nel tempo. La linea rossa è la media degli ultimi 50 anni di crescita; vedete che nel 2018 siamo intorno al 3 per cento, e ci sono stati negli ultimi 60 anni almeno 25 anni in cui eravamo messi come crescita molto peggio di ora.
Ma ci sono dei “ma”. Il primo “ma” è questo: la crescita media è fatta di Paesi che per 15 anni sono cresciuti del 15 per cento, alcuni anche in Africa, e Paesi che in questi 15 anni sono andati indietro rispetto al Pil che avevano. Il secondo “ma” è che questa crescita che stiamo vivendo negli ultimi sessant’anni sta beneficiando di due condizioni eccezionali, se guardiamo indietro nel tempo. Tassi di interesse bassissimi (e non è detto che rimangano, anzi è molto probabile che aumentino) e dazi bassissimi. Parliamo molto di guerra dei dazi, ma stiamo vivendo in questo momento nella fase della nostra storia con meno dazi. Il terzo “ma” è che questa crescita, anche dove c’è stata, è stata con disuguaglianze. Guardate questa slide che ci dà il senso della disuguaglianza che è cresciuta: tutto ciò che vedete in questa slide in azzurro e blu vuol dire che in questi anni la disuguaglianza è aumentata. Vedete un po’ di bianco, ma il bianco sono Paesi dove non ci sono dati sulla disuguaglianza. Quindi in pratica tutto il mondo, salvo pochissime eccezioni, ha visto l’aumento della disuguaglianza. Cosa aspettarsi, presidente, su questi scenari economici?

ROMANO PRODI:
Posso spendere 30 secondi riguardo a quello che ha detto prima Olusegun Obasanjo? Proprio per dire i grandi problemi che abbiamo davanti. Ha parlato delle tensioni nella Repubblica Democratica del Congo. Adesso abbiamo delle elezioni complicatissime. Pensate ad una cosa: il mondo vuole trasformarsi e deve trasformarsi verso l’auto elettrica, verso le batterie. Il 70 per cento dei metalli rari che vanno in una batteria sono in un solo Paese, la Repubblica Democratica del Congo. Allora, di fronte a questa specie di polveriera, che può scoppiare da un giorno all’altro, non vedo niente, non c’è nessun senso di capire che lì potremmo avere un conflitto enorme, perché il cambiamento del mondo passa attraverso i metalli rari della Repubblica Democratica del Congo, a meno che non ci sia un cambiamento di tecnologia (ma oggi come oggi è questo). Per quello vi dico l’importanza di avere un arbitro per questi conflitti interni, perché lì può scoppiare di tutto. Scusate, ma mi sembrava opportuno dare questo senso delle cose. Secondo: è verissimo che i Paesi in via di sviluppo globalmente crescono un po’ più dei Paesi sviluppati. E questo è ovvio: se avete un reddito pro capite di 25.000 dollari o di 30.000 dollari, avete bisogno di minor crescita di chi ha un reddito di 500 dollari per anno. Il fatto incredibile è il problema delle disuguaglianze. Paesi comunisti, Paesi capitalisti, eccetto un po’ di Paesi scandinavi che hanno cambiato poco, la Francia per un paio di anni, il Brasile per cinque o sei anni, dappertutto sta aumentando la disuguaglianza e nella diversità assoluta dei sistemi. In Cina c’è una disuguaglianza impressionante e crescente. Perché? Qui è interessantissimo, perché nei nostri Paesi le ragioni sono abbastanza semplici, cioè la finanziarizzazione dell’economia, in cui tutto il valore aggiunto è passato alla finanza. E qui sta cambiando un’altra cosa: i nuovi intermediari, cioè i grandi protagonisti del nuovo mondo. Venti anni fa, quando guardavamo chi erano le più grandi imprese del mondo, trovavamo General Electric, General Motors, Ford, eccetera. Sono scomparsi. Adesso gli intermediari, cioè i veri ricchi del mondo, sono gli intermediari, Google, Alibaba, Amazon… tutti questi. Ormai stanno accumulando la grande ricchezza mondiale e guardate che stanno portando disuguaglianze impressionanti, non solo per quello che si dice (che è vero) che portano tutti i loro profitti dove le imposte sono minori, ma proprio perché prendono una fetta sempre crescente del reddito dell’umanità. Voglio dire, se voi prenotate un albergo su Booking, o cose di questo genere, questi si prendono il 20-25-30 per cento della somma (questo capita per tutte le cose); allora a chi lo tolgono il resto? Ai camerieri o anche ai proprietari dell’immobile degli alberghi? Ai cuochi? Cioè tutto questo passaggio tecnologico sta aumentando le differenze. Discutevamo con un amico più sapiente di me, alla fine della discussione dico: «Il nuovo marxismo dovrebbe avere questo motto: Intermediati di tutto il mondo unitevi!». Perché gl’intermediatori sono loro. Se noi ci abboniamo ai nostri giornali con Apple, sui 179 euro di abbonamento, il 30 per cento va all’intermediante e non al Corriere o alla Stampa o a Repubblica o agli altri. Cioè viviamo in questo mondo. Allora le differenziazioni per forza aumentano. Poi fanno le grandi fondazioni della carità, eccetera, ma questo è una piccola cosa. Secondo fatto: dopo la rivoluzione di Reagan e della Thatcher, il problema della politica mondiale è stato «l’imposta è sempre cattiva». E chiunque ha parlato di tasse, ha perso le elezioni o è venuto danneggiato. Io posso essere testimone oculare di quello che capita in questi casi. Ed è una tendenza impressionante: nell’immediato dopoguerra la tassa media, l’aliquota media americana superava il 70 per cento, oggi siamo a meno del 30 per cento. Ma non c’è niente da fare, l’elettorato quando si parla di tasse reagisce in questo modo. Ora è chiaro che questo è un’ulteriore aumento della differenziazione. Terzo: globalizzazione e tecnologia. Con l’esempio di prima ve ne ho già dato un quadro. Quindi attenzione: se non abbiamo una nuova sensibilità politica su questi temi, la differenza non potrà che aumentare, perché in questo momento le forze della democrazia liberale e del comunismo (dei Paesi a gestione centralizzata) vanno nella stessa direzione. E qui non c’è ancora una sensibilità per capire che a un dato punto questo qui si rompe. Anche nel nostro Paese il dibattito sulla disuguaglianza non ha mai preso la concretezza delle decisioni sui singoli provvedimenti e, ripeto, io ritengo che questo discorso non possa andare avanti a lungo, anche perché sta spaccando la solidarietà anche delle nuove democrazie dei Paesi in via di sviluppo. Non è un fenomeno solo dell’Occidente, è un fenomeno anche dell’Africa: in molti aspetti della democrazia africana chi vince le elezioni ritiene di essere il padrone fisico del Paese, di avere la proprietà del Paese e, quindi, può benissimo operare una politica coerente con l’aumento delle disuguaglianze senza che questo venga in qualche modo interrotto da correnti opposte. Qui se non c’è una sensibilità, questo discorso non può che andare avanti, purtroppo.

STEFANO MANSERVISI:
Presidente, per portare questo discorso in Africa: l’Africa, anche durante la grande crisi non ha mai smesso di crescere. Una crescita che è fragile, perché molto spesso (ma non così come una volta) è legata ai prezzi delle materie prime. Rimane il fatto che in questi giorni, in cui i prezzi sono ad un livello medio, l’Africa cresce del 4-5-6 per cento e, in certi settori, come quelli delle telecomunicazioni, molto di più. Abbiamo, dall’altro lato, una società africana giovane che è molto attenta alle tecnologie. D’altra parte l’utilizzo della telefonia mobile per trasferimenti bancari in Africa è più altro che in tutto il resto del mondo. Il numero di telefoni mobili che circolano in Africa è in media superiore a quello dei telefoni che circolano non solo in Europa, ma anche nelle Americhe. Quindi c’è una propensione alla tecnologia, non è il villaggio sperduto. Però, al tempo stesso, se guardiamo a quello che è il reddito o il prodotto nazionale lordo, abbiamo che, se applichiamo il metodo di cui Romano Prodi ha parlato, cioè dell’ineguaglianza, abbiamo Paesi che potrebbero perfettamente essere simili a Singapore come reddito pro capite, se lo applicassimo al 3 per cento della popolazione che lo possiede: Guinea Equatoriale, Angola. Il resto della popolazione non è povera, è più che povera. Allora, presidente, come si può, in un’Africa che cresce, in cui il reddito nazionale è marginalmente prodotto dalla fiscalità, tra il 10 e il 15 per cento, e in cui la concentrazione della ricchezza e, quindi, della disuguaglianza (che crea anche conflitti all’interno dei Paesi) è talmente alta da essere il fardello che si porta dietro, in qualche modo, il continente, come si può rompere questo circolo vizioso, di un continente ricco che arricchisce sempre di più delle élites e che marginalizza sempre di più, malgrado le ricchezze, chi è nella povertà e sarà destinato ad esserci per sempre?

OLUSEGUN OBASANJO:
Grazie molte. Vorrei sottolineare tre ambiti di disuguaglianza: la disuguaglianza all’interno dello Stato (la disuguaglianza fra le persone), la disuguaglianza tra Paesi (all’interno della stessa regione), e la disuguaglianza fra le regioni (all’interno del globo). Parlo ora della disuguaglianza, soprattutto in Africa, all’interno dei singoli Paesi. In Africa si è visto che, mentre il nostro Pil sta aumentando (aumento del 7 per cento, del 5 per cento, eccetera), nonostante questo aumento, ciò che fa sì che gli africani possano condurre una vita migliore in realtà non è lì, non è presente, le persone non hanno elettricità, non hanno l’acqua, i loro figli non vanno a scuola. Si dice che un Paese in Africa cresce, che il PIL di un Paese in Africa cresce del 7 per cento, in realtà non si ha il coraggio di andare nei villaggi di quello stesso Paese e dire alla gente: «Guarda il Pil del tuo Paese aumenta del 7 per cento, quindi il tuo stile di vita è aumentato del 7 per cento». Ti risponderebbero certamente che sei pazzo, perché loro non vedono gli effetti, non riescono a percepire le ripercussioni di questa crescita su di loro. Quindi credo che uno degli aspetti che occorre fare sia trovare degli altri parametri per decidere qual è il tasso di crescita e come si sta evolvendo un determinato Paese, non considerare solamente il Pil, ci devono essere degli elementi di misurazione, dei fattori, degli indici per indicare la crescita del benessere delle persone, per esempio la mortalità infantile, l’aspettativa di vita, il livello di istruzione, il tasso di occupazione. I pochi che sono riusciti a crescere da un punto di vista economico fanno sì che il divario fra se stessi e i più poveri sia sempre maggiore. Ed è responsabilità del Governo equilibrare un po’ la situazione, cercare di compensare un po’ questa situazione, le economie di mercato, il capitalismo (qualunque sia il termine che vogliate usare). Da soli non faranno questa correzione, non rimuoveranno la disuguaglianza, anzi la peggioreranno, ma sono le politiche governative che devono occuparsi di questo. Parliamo ora di disuguaglianza fra Paesi. Da questo punto di vista vorrei dire che, se il Governo di un Paese, per esempio della Repubblica Democratica del Congo, dispone di una risorsa, di un materiale particolare, che è particolarmente richiesto, molto importante per lo sviluppo di una particolare innovazione, di una data tecnologia, allora non solo quel minerale dev’essere di importanza per il mondo, ma anche lo sviluppo, le condizioni di vita dei cittadini della Repubblica Democratica del Congo devono essere importanti per gli interessi del mondo. E questo perché, finché si continua a prostrare quel Paese e si sfruttano le sue risorse (quel minerale), si arriverà ad un momento in cui ci saranno dei conflitti intestini che faranno sì che non si riuscirà neanche più ad accedere a quel minerale. Quindi bisogna adottare un approccio olistico, attuare delle misure olistiche. In Africa dico sempre che non c’è bisogno di avere un’oasi nel bel mezzo del deserto, perché tutti i Paesi africani devono sforzarsi per crescere e svilupparsi insieme. Perché se c’è un Paese che è abbastanza sviluppato, poi ce n’è un altro che non è bene sviluppato, non è affatto sviluppato, sicuramente ci sarà il problema della migrazione, che stiamo già sperimentando, e quindi la xenofobia. Motivo per cui ci sono problemi di xenofobia in Sudafrica: i giovani in Sudafrica credono che chi viene dalla Tanzania, chi viene dall’Angola o dal Mozambico, chiunque vada nel loro Paese non sia il benvenuto, quindi non vogliono che abbiano buone condizioni di vita. Questo non deve essere. Ora parlo, invece, della disuguaglianza a livello regionale. Anche questo tipo di disuguaglianza dev’essere affrontata e gestita. Se vogliamo vivere in un mondo equo, in un mondo in cui tutti abbiamo la sensazione di appartenere esattamente a quel mondo, allora le risorse di quel mondo devono essere condivise a vantaggio e per il benessere di tutti i cittadini del mondo. E, quindi, occorre ridurre il divario a livello di disuguaglianze regionali. Credo che questo possa essere fatto e debba essere fatto. Il fatto di non riuscire a farlo significa posticipare il problema e prima o poi questo problema si ripresenterà.

PAOLO MAGRI:
È già stato citato come tema, ma fra le forze che muovono il mondo, lo ha citato il presidente Obasanjo, ci sono anche le migrazioni. E le migrazioni sono il tema politico del momento, lo sono dalla Svezia all’Italia, dall’Europa all’America, in Messico (il nuovo presidente del Messico dovrà fronteggiare ore il tema del blocco americano che fa sì che i migranti dai Paesi dal centro America arrivino in Messico e restino in Messico, un problema che abbiamo visto anche in Europa), fino ad arrivare ad essere un problema in quella Australia che in questi giorni stiamo invocando come modello, dove negli ultimi 10 anni quattro primi ministri sono stati defenestrati, non solo per il tema migrazioni, ma anche sul tema migrazioni. Eppure, se guardiamo anche qui come abbiamo fatto in tutto questo tempo assieme, guardiamo indietro, e guardiamo la percentuale di popolazione che sta migrando, non stiamo vivendo un’incredibile emergenza migranti. Nel 1960 i migranti economici e di altro tipo nel mondo erano il 2,4 per cento della popolazione, oggi siamo al 3 per cento. Basta questo per scardinare la convivenza europea, i rapporti fra Paesi, far cambiare Governi in Europa, mettere in crisi Governi nel mondo? Ci sono dei ma anche qua: se guardiamo in valore assoluto e non in percentuale, abbiamo un quadro già diverso. Erano 72 milioni i migranti nel 1960, sono 243 milioni oggi. Ma ciò che forse ci fa sentire questa crisi dei migranti in modo più serio è che è cambiato, negli ultimi 15 anni, il luogo dove i migranti si indirizzano. Guardate in questa immagine, guardando il colore giallo, mi limito alle zone vicino a noi cioè l’Africa e l’Europa. Il grosso delle migrazioni, il grande giallo, lo vedete soprattutto in Africa quindi da un Paese africano all’altro e un po’ in Europa, erano le immigrazioni dell’est Europa delle persone che arrivavano dopo la caduta del muro gradualmente da noi. Guardate la stessa immagine oggi con sempre in giallo i flussi migratori. Cosa vediamo? Che l’Africa è ancor più di prima il luogo delle immigrazioni ma la novità, quella che fa percepire a noi la grande crisi dei migranti, è che il giallo è arrivato anche sopra e quel giallo ha due linee, qualcosa dall’Africa sì ma il grande flusso della Siria, quel giallo enorme che arriva, era l’anno che arrivavano in Turchia poi in Germania attraverso i Balcani e poi quel flusso che va verso la Russia che è il flusso dell’Ucraina, cioè dei russi ucraini che tornavano in Russia. Come commentiamo presidente Prodi e poi presidente Obasanjo queste immagini e questi flussi? Una battuta sulle immigrazioni è ancor più difficile che su tutto il resto, me ne rendo conto.

ROMANO PRODI:
IL’immigrazione è sempre stata importante nel mondo. Quando parliamo della grande migrazione parliamo di una migrazione biblica, perché nella bibbia tutto è migrazione, però la grande differenza fra il 2003 e il 2015 è che l’immigrazione di oggi sfugge il controllo dei Governi, è non guidata e quindi crea paura. Questa è la grande differenza. Se noi vedessimo il dato dal 2015 al 2017 non avremmo più la striscia che dalla Siria viene in Occidente perché con l’accordo, discutibilissimo, dell’Unione Europea con la Turchia è stato, in qualche modo, arginata e guidata. Allora, il problema della migrazione, che è diventato il problema globale, è cambiato perché si innesca con il problema della sicurezza del cittadino, perché l’immigrazione è ancora necessaria. Tutti i dati che ci dicono che porta concorrenza, ad esempio, all’occupazione italiana devono essere completamente cambiati, perché se non avessimo i marocchini non avremmo neanche il formaggio grana o la pulizia delle città con gli altri immigrati dei diversi Paesi, se non avessimo i rumeni, i rumeni che aggiustano le case non li avremmo e pagano la loro bella Inps. Il problema è che si è aggiunta un’immigrazione che è politicamente non controllata cioè il flusso dall’Africa, la spinta, c’è da parecchi anni. Io ripeto sempre che quando ero presidente della Commissione Europea o presidente del Consiglio italiano, questa spinta già esisteva moltissimo. Gheddafi stesso la strumentalizzava e spesso mi minacciava di mandare dei barconi di migranti, ma c’era un ordine internazionale per cui questo veniva gestito e non si traduceva in angoscia da parte della popolazione. Oggi è cambiato questo aspetto. Quindi, il problema dell’immigrazione nel futuro è gestirla, è regolarla, perché date le differenze demografiche che ho descritto prima, come possiamo pensare che non ci sia immigrazione? L’Europa perderà 30 milioni di abitanti prima della metà del secolo, non fra chissà quanto tempo. Il livello di natalità, in Germania negli ultimi due anni è un po’ cambiato, un po’ migliorato, ma il livello di natalità, fino a due anni fa, di Germania, Polonia, Italia, Spagna, per dire alcuni dei grandi Paesi, era tale da rendere indispensabile il fenomeno dell’immigrazione. Solo la Francia ha un suo equilibrio tra i grandi Paesi dell’Europa continentale. Anche la Francia non ha un equilibrio perfetto ma si avvicina molto. Gli altri Paesi hanno dei livelli di squilibrio che fanno impressione. In più aumenta la popolazione anziana, allora il discorso si deve trasferire a un discorso politico di regolamentazione dell’immigrazione, perché altrimenti il messaggio che viene dato al cittadino è di un’assoluta insicurezza e allora è l’immigrazione in toto che viene condannata. Il nostro dibattito nazionale è interessantissimo perché si pongono in rilievo i conflitti che spesso ci sono nell’assegnazione delle case, del welfare, ma non si tiene conto del fatto che addirittura, in molti casi, la percentuale di questi migranti che lavora è assai più alta della percentuale degli italiani che lavorano e quindi viene messo in rilievo soltanto l’aspetto negativo, ma questo è perché c’è la paura, c’è la mancanza di una gestione politica. È qui che il discorso europeo diventerebbe importante, perché si aggiunge, alla mancanza di gestione politica, il fatto dei singoli Paesi che si sentono abbandonati. Quindi doppio problema. Un discorso, per noi, di mettere la pace in Libia. Tanto per essere chiari: la Libia è diventata un drammatico commercio di carne umana, con tutte le conseguenze del caso. Se non si risolve questo, diventa un problema. Adesso, tra l’altro, fenomeni simili si vanno affermando nei confronti della Spagna e della zona Algeria-Marocco, di tutta questa parte del west Africa. Però, dico, il problema generale lo possiamo affrontare, in modo decente, solo se si ristabiliscono i rapporti tra Paesi. Ultimo punto: questi rapporti li potete ristabilire, non solo se c’è una ricomposizione della politica libica ma anche se c’è una spinta allo sviluppo africano. Per questo nel mio intervento iniziale ho detto che ci vorrebbe questo grande piano che coinvolga Europa e Cina, perché ricordatevi che l’immigrazione si regola, diventa meno drammatica, quando c’è la speranza in un Paese, non quando un Paese diventa ricco ma quando comincia a sperare. L’immigrazione italiana della povera gente, non parliamo di quella di oggi che è un’ immigrazione purtroppo di élite, ma l’immigrazione della povera gente è cessata non quando l’Italia si è tutta sviluppata, ma quando ha cominciato a sperare. Il mezzogiorno era ancora povero quando si è smesso di immigrare in Germania ma c’era questa prospettiva di sviluppo. Ecco, noi dobbiamo agire nei due sensi, con l’occhio politico e con una politica di interventi negli investimenti e nello sviluppo soprattutto dell’Africa.

PAOLO MAGRI:
Presidente, presidente Obasanjo, se potessi chiedere una battuta veramente molto diretta, da un punto di vista africano, su questa cifra di 243 milioni di migranti di cui un quarto, diciamo 60 milioni, provengono dall’Africa. Come leader africano, come vede lei questo dibattito sulla migrazione in Europa che rischia addirittura per alcuni di far saltare l’Unione europea, come lo vede lei come leader africano di fronte a questa realtà africana di 60, 70 milioni di migranti provenienti di Paesi esteri che ospitano più di un milione e mezzo di rifugiati, come vedete voi il nostro dibattito?

OLUSEGUN OBASANJO:
Grazie molte, vorrei ripetere ciò che ho affermato prima. Lo sviluppo del mondo, la diffusione della popolazione si sono sempre basati sull’immigrazione. E questo non cambierà. Ma brevemente vorrei anche dire che la colpa per così dire, il colpevole principale dell’immigrazione dall’Africa verso altre parti del mondo e anche all’interno dell’Africa e dall’Africa verso l’Unione Europea, per esempio attraverso il Sahara, va individuato nella responsabilità dei leader africani, i quali devono accettare le loro responsabilità. Non condivido l’opinione di coloro che continuano a puntare il dito sul colonialismo per tutti i mali dell’Africa. Sì, c’è stato il colonialismo, è vero anche che il colonialismo ha contribuito al sottosviluppo dell’Africa, ma questo è successo quasi 60 anni fa. E quindi dopo 60 anni di indipendenza, che cosa abbiamo fatto noi, oppure che cosa non abbiamo fatto? Credo che queste due domande debbano trovare risposta. E ora torno alle tre categorie di migranti. Migranti che fuggono per la propria vita a causa dei conflitti. Ci sono tanti conflitti in Africa, ci sono tanti conflitti in Asia e, ovviamente, c’è bisogno di compassione umana e la compassione umana rende necessario che bisogna prestare attenzione alle persone che fuggono dai conflitti. In secondo luogo ci sono dei migranti che in qualche maniera cercano nuove prospettive economiche, che cercano nuovi pascoli verdi economici e quindi fuggono non per via dei conflitti, ma a causa di cattive condizioni economiche nei loro Paesi di origine e quindi in questo caso i leader di quei Paesi, dei loro Paesi d’origine in cui queste condizioni sono negative, hanno la responsabilità. Poi ci sono invece quei migranti che vogliono andare in altri Paesi; queste persone sono i cittadini del mondo, perché hanno un livello di istruzione e competenze molto elevate. Ovviamente queste persone normalmente non hanno problemi, sono anche coloro a cui normalmente ci si riferisce quando si parla degli immigrati controllati. Credo che non si debba prestare attenzione soltanto agli immigrati controllati, ma anche a quelli che non sono controllati. So che nelle democrazie tutti i leader spesso cercano delle scuse per vincere la prossima tornata elettorale e il capro espiatorio sono gli immigrati. Ovviamente si vuole dimostrare che se si vinceranno le elezioni si farà qualcosa appunto per l’immigrazione. Passiamo all’Europa: le basi, i fondamenti, il fondamento dei valori europei sono la cristianità e noi non possiamo buttar alle ortiche i valori cristiani, le virtù cristiane, sacrificarli sull’altare della necessità di vincere un’elezione. Credo che questo sia molto pericoloso, sia addirittura un peccato. Credo nelle democrazie liberali che noi abbiamo in qualche maniera acquisito da voi come esempio e la base di queste democrazie è: ama il tuo vicino come te stesso. Ricordate forse la parabola del buon samaritano: chiunque abbia bisogno del vostro aiuto è il vostro vicino e questo indipendentemente da dove viene. Se dovessimo fare una scelta: quelli solo, coloro che sono ricchi e mandare via solo i poveri, io non credo che questo sia il modo in cui un cristiano, un buon cristiano si debba comportare, perché anche Gesù Cristo ha affermato: ama il tuo fratello come io amo te. Non ha affermato ama il tuo fratello e ama te stesso prima e ama dopo di te il tuo fratello. Di fatto se non obbediamo a ciò non obbediamo al il volere di Dio. Dio ha semplicemente affermato: prima il tuo fratello e poi tu, se invece tu ami prima te stesso, indipendentemente da come la vediamo, in realtà noi mettiamo Dio alla fine e non siamo dei buoni cristiani in questo caso. E io insisto molto su questo punto perché credo sia un aspetto a cui ci si debba attenere, l’unico che sono appunto gli insegnamenti cristiani, i valori cristiani. Se il gettiamo alle ortiche, allora potremo tranquillamente dire che non c’è più umanità, che non ci sono più democrazie liberali, che non c’è amore, compassione, gentilezza, ospitalità, tutti questi aspetti; aspetti che noi come cristiani dobbiamo personificare. Lo dico perché venendo da un Paese in cui la popolazione è in parte cristiana e in parte mussulmana, vediamo che i nostri fratelli mussulmani, ve lo posso dire tranquillamente, condividono con noi tutti questi valori, tutti questi insegnamenti che traggono dal Corano. Questo è quello che il Corano dice quando parla dell’amare il proprio amico, il proprio vicino, quando parla dell’essere compassionevoli, dell’essere gentili. Quindi, il punto che voglio sottolineare è che o siamo religiosi e quindi mostriamo i valori, i principi della nostra religione nel nostro agire quotidiano, oppure, in realtà, non ottemperiamo a ciò che dovremmo essere, quindi cristiani oppure mussulmani.

PAOLO MAGRI:
Continuiamo a guardare indietro e questa volta guardiamo indietro nel nostro pensiero a più di 2000 anni fa, quando tutte le strade portavano a Roma e questo era il simbolo di Roma Caput mundi. Fra qualche anno tutte le strade, esagero un po’, porteranno a Pechino, non solo le strade terrestri ma anche le strade marittime, quando il grande progetto della Cina, “the Belt and Road”, arriverà a compimento, pur con delle difficoltà che sicuramente incontrerà. E questa immagine è il simbolo, rubo il titolo di un film molto diffuso, molto noto in Italia, sarà difficile per il traduttore dirlo al presidente Obasanjo, “Benvenuti al sud” è il simbolo del benvenuti a sud-est, al nuovo sud-est del mondo che, sempre più, che ci piaccia o meno, avrà un peso economico, ma anche un peso politico. Se guardiamo a quello che era il simbolo della dominanza simbolica dell’occidente del nord-ovest, che era il G7, il G7 era il club, è il club, salvo il Giappone, del nord-ovest del mondo. E tutti sapete che questo G7, il simbolo del potere del nord-ovest, durante la crisi economica del 2007 – 2008, ha dovuto lasciar spazio al G20 e vedete che nel G20 c’è il nord-ovest, ma c’è molto sud e sud-est anche. E se noi facessimo un esercizio e provassimo a immaginare il G7, cioè le vere potenze economiche fra trent’anni, il G7 fra trent’anni non sarebbe quello di oggi, ma sarebbe questo, con tanto rosso, inteso con rosso il sud-est, chiaramente la Cina non essendo una democrazia, non entrerebbe nel G7, ma facciamo questo esercizio virtuale: dell’Europa solo la Germania appena appena e gli Stati uniti sarebbero rappresentati. Come la mettiamo presidente con questo nuovo mondo?

ROMANO PRODI:
Se dobbiamo evitar la guerra dobbiamo capirla, perché è la realtà, è di questo che noi dobbiamo renderci conto. Il mondo che tu descrivi è già, è già così sostanzialmente. Se vediamo la parità di potere d’acquisto è la gara di oggi questa, no? E poi tu prima hai legato questo con la via della seta. Che cos’è questa via della seta? Prima di tutto è la sola proposta di politica economica internazionale non militare dopo il piano Marshall. Interessantissimo, no? Gli Stati Uniti, la grande espansione degli Stati Uniti, è stata preceduta dal Piano Marshall. A mio parere la via della seta è la stessa proposizione tradotta oggi del ruolo che la Cina vuole avere in futuro. Che cos’è questa via della seta? Vabbè, a parte la retorica di Marco Polo, in cui mi dispiace che noi dovremmo essere il terminal europeo e invece facciamo casini. Il terminal europeo è o la Grecia o i porti del nord, ma lasciamo stare questo aspetto. È la Cina che vuole creare attorno a sé una grande alleanza di Paesi in modo da fruttificare il fatto che nell’Asia ci sia metà dell’umanità, come tu hai detto prima, e propone questo immenso investimento, uso questa parola immenso non a caso, perché è fuori dalla portata anche della Cina, cioè gli investimenti che propone sono esagerati anche per la Cina, ma valgono come messaggio per avere un grande ruolo regionale e per proporsi come partner dell’Europa, quindi in qualche modo concorrendo non militarmente, ma economicamente, politicamente con gli Stati Uniti. È interessantissimo, perché i messaggi che manda il presidente cinese per la via della seta, visitando Paese per Paese, sono educativi; non so, l’incontro col primo ministro pachistano, se voi leggete il verbale, è incredibile, perché il presidente cinese dice: «La nostra amicizia è più profonda dell’oceano, è più alta dell’Himalaya» e poi seguono gli investimenti del porto di Gwadar, delle autostrade, della presenza economica cinese nel Pakistan. Dico Pakistan, ma attenzione che questa presenza arriva fino in Iran, e le sanzioni nei confronti dell’Iran stanno completamente portando l’Iran in mano alla Cina, perché non lasciamo all’Iran delle alternative, giuste o sbagliate che siano le sanzioni, non voglio discutere, ma la situazione politica che abbiamo creato, fa sì che la via della seta, cioè questo grande blocco asiatico, più un certo rapporto positivo con l’Europa, sia il nuovo centro della politica mondiale e il futuro, come hai messo in rilievo, è proprio questo. Naturalmente tutto questo racchiude anche delle insidie, cioè la Cina ha accompagnato questa via della seta, a parte i meravigliosi investimenti eccetera, ma anche con una proposta politica estremamente pericolosa per noi, cioè che cosa ha fatto? Ha creato un rapporto privilegiato chiamato sedici più uno, in cui l’uno è la Cina e sedici sono i Paesi dell’Est Europa con un rapporto privilegiato nei confronti della Cina, anche, credo, con una certa intenzione di dividere l’Europa o perlomeno con la conseguenza non voluta, se vogliamo essere benevoli. E allora è chiaro che qui si ripropone il problema dell’Europa. Se vogliamo essere protagonisti di questo cambiamento del mondo, che è inevitabile, l’Europa deve essere unita e deve riprendere il suo gioco, il suo ruolo. Sbagliano i cinesi a fare il sedici più uno, perché l’Europa non è fatta di questi sedici, nove membri dell’Unione Europea dell’est Europa più sette Paesi estranei, ma è Germania, Francia, Italia, Spagna, Polonia. Secondo me è un errore quello cinese, ma il grande errore è quello europeo, di non capire che di fronte a questi grandi cambiamenti del mondo dobbiamo cambiare anche noi e cambiare la nostra politica. Certo, questo implica dei problemi molto forti. Può implicare anche problemi di conflitto con gli Stati Uniti che, a mio parere, devono rimanere un nostro alleato fondamentale, però quando vengono tolte le sanzioni all’Iran e in pratica non si può commerciare con l’Iran perché altrimenti le imprese che commerciano con l’Iran non possono più lavorare con gli Stati Uniti, è chiaro che una Renault, una Peugeot o la British Petroleum, tutte le imprese che operano in Iran, se debbono scegliere fra l’Iran e gli Stati Uniti, è chiaro che devono scegliere gli Stati Uniti, non c’è alcun dubbio, per motivi storici, per motivi quantitativi. Noi stiamo creando delle politiche contraddittorie, agendo con un’Europa divisa, quindi attenzione, che se proseguiamo così, noi saremo i protagonisti passivi di questa nuova grande proposta politica. Noi siamo i protagonisti passivi di un cambiamento del mondo che a mio parere è inevitabile.

PAOLO MAGRI:
Allora, presidente Obasanjo, credo siamo in chiusura, una battuta, magari una battuta anche di risposta. I cinesi investono massicciamente in Africa: prestiti non buoni, spesso a dei tassi di interesse misteriosi, imprese cinesi fanno strade, utili, ma sono imprese cinesi che le fanno. Imprese cinesi sfruttano le foreste, imprese cinesi per il mercato cinese, quadri cinesi definiscono quello che c’è da fare. Allora la domanda è: vi siete appena liberati di una colonizzazione che è quella europea, non rischiate di finire in mano a una colonizzazione delle imprese cinesi?

OLUSEGUN OBASANJO:
Grazie molte. È una domanda che spesso mi viene posta dai nostri amici e spesso mi viene fatta questa domanda. Se ci sono dei problemi da parte delle attività cinesi, anche l’economia americana avrà dei problemi. Perché se la Cina acquista beni dall’Africa, costruisce strade in Africa, non è che lo fa gratuitamente, ci sono dei fornitori europei che lavorano in Africa, ci sono dei fornitori americani che vengono a lavorare e costruire le strade in Africa e vengono pagati, allora perché la Cina, i cinesi, dovrebbero essere un problema? Che cosa sta succedendo con i nostri amici occidentali? In realtà loro non stanno lavorando correttamente. Se tutto il mondo negoziasse accordi sul cambiamento climatico e poi da un giorno all’altro arrivasse un Paese e dicesse: per me questo accordo non è più valido, che cosa vi aspettereste che il resto del mondo facesse, quando quell’accordo in realtà è sottoscritto da tutti tranne che da un Paese? In che modo potremmo essere ritenuti responsabili noi? Cosa dovremmo fare se gli Stati Uniti e l’Europa in realtà non intervengono, ma solo la Cina lo fa ed entra appunto in certi affari. Questo avviene non solo in Africa, ma anche in America Latina, in Australia. Sono rimasto sorpreso nello scoprire che la Cina investe ben il 40 per cento di alcune risorse in Australia. Il 40 per cento degli investimenti che vengono fatti in Australia vengono dalla Cina, allora l’Australia è una colonia della Cina? Allora, perché se l’Australia non viene ritenuta una colonia della Cina dovremmo esserlo ritenuti noi? Noi crediamo che tutti i nostri amici siano buoni, vogliamo mantenere buoni rapporti di amicizia con tutti, per noi l’amicizia è importante, sia quella dell’Occidente di cui utilizziamo appunto le lingue, ed anche il sistema legale, che è simile, sia quella con altri nuovi amici dell’Oriente. Quindi faremo amicizia con la Cina, faremo amicizia con l’India, faremo amicizia con altri Paesi asiatici che sono in realtà disposti a fare amicizia con noi e, tuttavia, vogliamo mantenere anche i nostri buoni rapporti con l’Occidente. Nessuno però ci deve ordinare e dire chi debbano essere i nostri amici così come noi non andiamo a dire a nessuno chi debbano essere i suoi amici e i suoi nemici. Credo che questo rientri nell’ambito delle nostre responsabilità globali, il fatto appunto di mantenere dei rapporti equi, equilibrati nei confronti di tutte le regioni del mondo, perché è nel nostro migliore interesse e anche nel migliore interesse del mondo.

PAOLO MAGRI:
Il tempo è tiranno, abbiamo molti altri temi, ma, Stefano, li lasceremo per il prossimo anno se il Meeting ci inviterà ancora, insieme a ospiti come il presidente Obasanjo e il presidente Prodi. Io ho aperto dicendo che avremmo insieme guardato anche al passato senza nostalgie; dopo questo straordinario dialogo, straordinario, tra il presidente Prodi e il presidente Obasanjo, io chiudo contraddicendomi platealmente davanti a voi. Io vi confesso che ho provato, provo nostalgia di una politica e di leader in grado di esprimere, le rubo le parolep presidente Obasanjo, holistic view, in grado di guardare indietro, avanti e attorno a noi con competenza e con valori. Grazie, grazie, grazie.

(trascrizione non rivista dai relatori)

Data

24 Agosto 2018

Ora

15:00

Edizione

2018
Categoria
Incontri