QUANDO LE RELIGIONI GENERANO UNA SPERANZA: IL PAPA IN EGITTO

Quando le religioni generano una speranza: il papa in Egitto

Partecipano: Sayed Mahmoud Aly, Direttore Editoriale di Al-Ahram, già Vice Direttore del settimanale Al-Kahera; Mostafa El Feki, Direttore della Biblioteca di Alessandria; Javier Prades López, Rettore dell’Università San Dámaso di Madrid. Introduce Wael Farouq, Professore di Lingua e Letteratura Araba all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

 

WAEL FAROUQ:
Buonasera a tutti, stasera parliamo della speranza che ha generato la visita del Papa Francesco in Egitto, ma non possiamo parlare della speranza senza condividere il dolore. Non possiamo parlare della speranza del Cairo senza condividere il dolore di Barcellona. Non possiamo non partire dalla realtà, una realtà che oggi viviamo in tutto il mondo, una realtà che impone un volto di morte. La morte è a Barcellona, la morte è al Cairo, la morte è ad Aleppo, la morte è a Tunisi, la morte è a Istanbul. Puoi morire in un caffè, in un teatro, in un parco, in uno stadio, in una strada, nella metro. La morte ti prenderà di sorpresa, non potrai evitarla perché arriverà per caso, il tuo assassino non ti conosce, non ha mai visto il tuo volto, non ha mai sentito il tuo nome, non sa se la tua morte farà sanguinare i cuori di chi ti ama o farà felice chi ti odia, non sa a quale religione appartieni o a quale nazionalità. Lui non conosce la tua etnia né il tuo sesso, non conosce le cose buone in te né quelle cattive. Il tuo assassino non uccide te, uccide la vita che è in te, uccide la vita. L’attentatore suicida non conosce nulla della sua vittima, conosce solo se stesso. Ma cosa conosce di se stesso che lo spinge alla morte, cosa non conosce di se stesso che lo spinge a scappare dalla vita? Conosce l’odio e non conosce l’amore. È morto prima di morire, si fa esplodere per sfuggire a questa morte, il tuo assassino ti offre in sacrificio alla morte. Chi non conosce l’amore non ha altra salvezza che la morte. Non c’è resurrezione per la sua anima perché lei stessa è la tomba, lei stessa è la prigione. È vero, la fede nell’amore non ti proteggerà da una pallottola o da una scheggia che va a conficcarsi nel tuo cuore, ma proteggerà il tuo cuore dalla morte prima della morte, dal vivere la vita come una continua fuga dalla morte. Ecco, noi siamo oggi qui in una fuga dalla morte. Nella sessione precedente con Pino, don Stefano Alberto e Olivier Roy, è stato chiaro che il vuoto nel cielo ha fatto un grande vuoto nel cuore. Con il vuoto nel cuore, è finita l’utopia della ideologia, rimane solo la morte. Ma la morte, la violenza non sono solo causate da questa ideologia, anche dall’assenza del coraggio di annunciare che crediamo in questo amore. Ci vuole una presenza per riempire questo vuoto e se c’è una lezione della visita del Papa in Egitto è esattamente questa presenza, essere presente. Nel modo più semplice il Papa è riuscito a conquistare i cuori del popolo egiziano, a riempire questo vuoto, a far cadere stereotipi. Nessuno dei nostri relatori di oggi è stato invitato per il suo altissimo incarico, tutti sono stati invitati per il loro ruolo come protagonisti nella realtà, come una vera presenza che è riuscita a riempire questo vuoto. Don Javier Prades è molto conosciuto qui al Meeting, da quasi vent’anni godiamo della sua presenza, è professore di Teologia e anche Rettore all’Università San Damaso di Madrid. Undici anni fa, don Javier è stato a Il Cairo e ho avuto il grande piacere e onore di invitarlo nella mia casa. Era pochi giorni dopo la nascita della mia prima figlia. Quando è arrivato da me a casa, mia mamma ha visto che era vestito come un prete e ha detto “Ma un prete?”. Ho detto: “Si”. È entrata nella camera della bambina, ha preso la bambina e con il suo arabo ha chiesto a Don Javier di benedirla. E lui ha capito l’arabo, ho visto che ha avuto un attimo di difficoltà, ma poi ha pregato per mia figlia. Dopo che lui se n’era andato, ho detto a mia mamma: “Ma come, hai messo l’ospite in difficoltà chiedendogli di pregare per nostra figlia!”. Ha risposto: “Tu non capisci niente, è un uomo di religione, ci vuole bene”. Parlando dopo con don Prades, anche lui davanti a questo gesto di mia mamma era confuso perché aveva il desiderio di benedirla ma non voleva fare il segno della croce per non offendere la mamma. Quindi, alla fine ha pregato con le mani aperte, così. E io sto raccontando questo per mostrare una sensibilità e un desiderio e una fiducia che è mancata in questo momento nel nostro mondo. Il nostro secondo relatore, Sayed Mahmoud, è il direttore editoriale del giornale Al-Ahram, già editore capo del giornale Al-Kahera, uno dei più noti giornalisti in Egitto e anche nel mondo arabo, perché collabora anche con tantissimi giornali di altri Paesi arabi. Anche lui è stato invitato per una interessante osservazione che ha fatto negli articoli che ha scritto sulla visita del Papa. Il nostro terzo relatore è un arabo, diciamo sempre che l’ultimo è il più dolce, il dottore El Feki, direttore della biblioteca di Alessandria. Un accademico di primo livello: è stato Rettore di diverse università in Egitto, ha avuto un grande numero di pubblicazioni, ha fatto il dottorato sul cristianesimo nel Medio Oriente, ha studiato le condizioni delle mi-noranze cristiane nel Medio Oriente, ha passato metà dell’ultimo secolo combattendo per difendere i diritti delle minoranze cristiane nel Medio Oriente. Tanti incarichi di altissimo livello, nazionale e internazionale, ma neanche lui è stato invitato per questo. Non abbiamo invitato il direttore della gloriosa biblioteca di Alessandria, ma abbiamo invitato l’intellettuale coraggioso che il giorno dopo la visita del Papa ha chiamato il Governo egi-ziano a insegnare il discorso del Papa nelle scuole dei popoli in Egitto. Quindi, non è un dialogo di parte o un incontro fra protagonisti che vengono da diverse realtà, ma sono protagonisti della stessa causa, se possiamo dire. Partiamo con il discorso di don Javier Prades Lòpez.

JAVIER PRADES LÓPEZ:
Ringrazio sentitamente gli amici del Meeting di Rimini che hanno ancora voluto invitarmi per partecipare a questo splendido gesto di incontro e di dialogo con il grande mondo della cultura e della religione, in questa fase di “cambiamento di epoca”, come ama dire papa Francesco. Sono molto onorato di poter condividere questa tavola rotonda con un carissimo amico, Wael Farouq, che, incontrandolo al Cairo, ha di fatto cambiato il mio sguardo sul mondo musulmano, nonché con i signori Mostafa El Feki, Direttore della Biblioteca di Alessandria e Sayed Mahmoud, Direttore editoriale di Al-Ahram, ex editore capo del settimanale Al-Kahera.
I. Un contesto travagliato e aperto
Il viaggio di Papa Francesco in Egitto alla fine di aprile offre alcune chiavi di lettura originali per comprendere il futuro non solo di questo Paese ma di tutto il Medio Oriente e più in generale per favorire la convivenza tra mondo occidentale e islamico nel secolo che stiamo iniziando.
Molti sono gli indizi di quanto sia fragile questa convivenza, quando non è immersa in un conflitto permanente. Per citare solo alcuni esempi di questo anno 2017, il tentativo del presidente Donald Trump, a fine gennaio, di approvare un decreto presidenziale tramite cui vietare o limitare l’ingresso negli Stati Uniti di cittadini di vari Paesi musulmani non è stato un fatto isolato. Nella sua campagna elettorale per le elezioni presidenziali francesi, Marine Le Pen ha bollato come “insopportabile” l’influenza islamica e ha descritto la Francia come un Paese chiamato a una “scelta di civiltà”. E non è l’unica in Europa. Altri leader politici hanno parlato apertamente contro l’Islam. La diffidenza e la sfiducia sono molto profonde, alimentate dal terrorismo islamista che colpisce indiscriminatamente e dai sospetti generalizzati che accompagnano i processi d’immigrazione di massa verso l’Europa e l’America originati nelle guerre in Iraq e in Siria.
La questione è delicata perché non è chiaro se si stanno paragonando culture e civiltà in generale o se si allude a una problematica specificamente religiosa. Di primo acchito sembra che i protagonisti degli episodi citati percepiscano il fenomeno della religione nelle sue inevitabili implicazioni per la vita sociale e politica. Per questo, se vogliamo affrontare la questione con qualche speranza di successo, servirebbe un dialogo a più voci, che coinvolga attori secolari e religiosi.
Fino a non molti anni fa la cultura occidentale si era abituata a pensare che le “perturba-zioni” che la religione produceva nella vita pubblica fossero gli ultimi rantoli di un mondo antico che andava a morire per lasciar definitivamente posto al mondo moderno e secola-rizzato. Per usare le parole di Ulrich Beck, era «l’idea che con l’avanzare della moderniz-zazione l’elemento religioso si sarebbe autoliquidato». La realtà ci indica che le cose non sono andate esattamente così. Per menzionare solo l’ultimo rapporto del Pew Research Center circa l’evoluzione della religione nel mondo, la somma di Cristianesimo e Islam, senza contare le altre religioni, rappresenterà nel 2060 quasi il 63% della popolazione mondiale. A fronte di dati empirici di questo tenore, figure molto importanti della sociologia della religione avvertono che la tesi di un processo di secolarizzazione universale e ineluttabile non è più sostenibile. Di conseguenza alcuni di essi reclamano un ruolo pubblico delle religioni nel mondo moderno (José Casanova) o rilevano i “numerosi altari della modernità” (Peter Berger) o alludono a una “seconda modernità” con differenti tipi di secolarizzazione (Ulrich Beck).
A livello mondiale la religione non scompare, ma anzi conserva molto vigore e si espande. In Occidente, si sentono voci che mettono in guardia circa l’ambivalenza di questa diffusione sociale della religione. La maggiore vitalità della religione può tradursi in un contributo efficace alla pace o, al contrario, in una moltiplicazione della violenza. La questione in sé è estremamente complessa e non possiamo trattarla qui. Ci limitiamo a proporre alcuni spunti che possano favorire – così speriamo – questo dialogo.
II. Il rapporto fra Islam e Cristianesimo per l’Europa
In questo orizzonte l’evoluzione interna di Cristianesimo e Islam e della loro relazione reciproca è del massimo interesse per il dibattito sociale in Europa. In effetti l’Islam predica una forma di monoteismo che intende riformare e superare il monoteismo giudaico-cristiano, oltre a pretendere di essere una verità universale, diversamente – ad esempio – dalle religioni dell’Estremo Oriente. Per questo, la crescente presenza di musulmani in Europa riapre la domanda sulla compatibilità tra diverse mondovisioni nella sfera pubblica. È possibile un incontro tra Occidente e Islam o sono condannati allo scontro?
Le società europee si trovano in difficoltà nell’affrontare questa delicata situazione, con ovvie differenze interne che non è possibile dettagliare. Alla luce di quanto abbiamo appena suggerito sui processi di secolarizzazione in Occidente, la cultura dominante ha messo in crisi le affermazioni antropologiche di portata universale e specialmente quelle della religione vissuta in Occidente, cioè il Cristianesimo. L’unità culturale e politica della fede medievale si ruppe, in seguito alla Riforma, in partiti che si combatterono scatenando guerre dagli effetti devastanti per la vita sociale. Per questo la filosofia moderna nacque – tra le altre cose – con l’intenzione di superare le divisioni confessionali e proporre altre forme di riferimento all’universale che garantissero la convivenza.
Al termine del processo fu messo in dubbio il valore universale della rivelazione cristiana, mentre apparivano forme alternative d’universalità secolarizzata. Il posto di Dio veniva co-sì occupato prima dalla Ragione, e poi dalla Scienza, dallo Stato, dalla Storia, dalla Razza, dal Mercato… Nonostante questi tentativi, alla fine si arriva a parlare frequentemente di una “modernità insoddisfatta”: vale a dire, l’indiscutibile progresso tecno-scientifico dell’Europa occidentale, il suo altissimo livello di sviluppo economico e sociale (che tanti invidiano e perciò vogliono viverci) non è stato accompagnato da un progresso analogo per quanto riguarda le domande ultime sul senso della vita e su Dio. Le due atroci guerre del XX secolo e i totalitarismi hanno steso un’ombra cupa sull’Europa.
Anche la cultura islamica, tuttavia, conosce difficoltà profonde per poter essere un interlo-cutore adeguato. Le “rivoluzioni” degli ultimi anni sono sorte dal fatto che in queste società va germogliando l’esigenza di libertà e di altri diritti economici e sociali. Molte rivolte sono nate in condizioni di marcata povertà, di mancanza di opportunità, in particolare di lavoro (pensiamo recentemente al caso del Marocco). Questa richiesta di una libertà effettiva, concreta, può essere percepita come una minaccia all’universalità religiosa, vincolata all’ordine sociale fino al punto che la religione può apparire come una forma di credenza subordinata a tale ordine. L’Islam dovrà affrontare questa domanda di libertà, e specialmente di libertà religiosa, che chiede di esaminare a fondo la comprensione della dignità umana. Attraverso la rivendicazione di una maggiore partecipazione civile si farà strada l’interrogativo circa il tipo di uomo che possa essere protagonista del terzo millennio. E questo interrogativo è sul tavolo anche in Occidente.
Per il momento ci sono più domande che risposte, tanto nel mondo occidentale che in quello islamico. La presenza musulmana in Europa mette in luce come non abbiamo una risposta condivisa circa il valore universale dell’antropologia e in particolare della religione. A partire dalle irrinunciabili acquisizioni sociali e giuridiche degli ultimi secoli, è necessario rivedere il modello finora vigente perché esso non è in grado di raccogliere le sfide poste dalla crescente presenza musulmana. E viceversa il lungo cammino percorso in Occidente offre elementi molto preziosi ai popoli musulmani. Un Cristianesimo vivo rappresenta un’eccezionale opportunità per l’Islam e, a sua volta, l’universalismo islamico ci obbliga a ripensare i motivi della crisi antropologica e culturale che vive l’Occidente di tradizione cristiana.
A nessuno sfugge che la convivenza tra cristiani e musulmani è stata molto complessa e a volte enormemente violenta. I sospetti sono molto profondi. La storica visita di papa Francesco in Egitto ci spinge a decidere se vogliamo perpetuare un’esclusione reciproca o se intendiamo favorire una cultura dell’incontro, assecondando il “processo di meticciato di civiltà e di culture” (Angelo Scola), a partire dalle esperienze di relazioni reali, per quanto conflittuale siano, che già esistono in Europa e nel Vicino Oriente.
III. La visita del papa Francesco in Egitto
Alla luce di queste considerazioni, può risultare di interesse generale porsi una domanda concreta a partire dalla cronaca recente: che contributo offre il viaggio del Papa in Egitto per una migliore comprensione reciproca tra cristiani e musulmani lungo questo secolo XXI?
Il primo dato notevole è l’accento che il Papa ha posto sull’importanza storica dell’Egitto nell’attuale congiuntura socio-politica. Rivolgendosi alle autorità politiche, il Papa ha attri-buito loro un compito molto impegnativo: «L’Egitto è chiamato a condannare e a sconfig-gere ogni violenza e ogni terrorismo; è chiamato a donare il grano della pace a tutti i cuori affamati di convivenza pacifica, di lavoro dignitoso, di educazione umana». E ha aggiunto: «Dalle nazioni grandi non si può attendere poco!».
Per cogliere la portata delle espressioni di Francesco, è bene non dimenticare il grande orgoglio nazionale che caratterizza gli egiziani, radicato in migliaia di anni di civiltà ininterrotta, dal tempo dei faraoni in avanti. Non è strano che essi affermino compiaciuti: «Misr umm al-dunya, l’Egitto è la madre dell’universo». Si può però ipotizzare che il Papa, oltre a stimolare la coscienza storica della nazione egiziana, parlando in questi termini abbia messo in gioco la sua concezione “geopolitica” del concetto, a lui così caro, di “periferia”.
Nell’impostare i rapporti con l’Islam, ha scelto di passare attraverso una nazione molto grande dal punto di vista demografico (100 milioni di abitanti), ma povera. Una società in cui, d’altra parte, esiste un’ampia tradizione di convivenza a livello di popolo (conflittuale finché si vuole, ma reale) tra musulmani e cristiani. Qualcosa di simile era accaduto anche nelle visite ad altri Paesi con caratteristiche analoghe in fatto di povertà e in cui ci sono forme precarie di convivenza tra cristiani e musulmani, come la Repubblica Centrafricana, l’Albania e la Bosnia. In tutti questi Paesi, d’altra parte, il pericolo della crescita del fondamentalismo è molto reale, quasi sempre a partire da predicatori finanziati e formati in Paesi arabi più ricchi e esportatori di versioni fondamentaliste dell’Islam.
A partire da questa premessa il Papa è entrato in rapporto con le autorità politiche e anche religiose dell’università sunnita dell’Azhar. Ha potuto pronunciare parole molto esigenti circa il terrorismo e le forme di violenza che accampano una giustificazione religiosa. È risuonato con particolare solennità l’appello a privare i fanatici fondamentalisti di legittimità sociale o religiosa: «Abbiamo il dovere di smascherare i venditori di illusioni circa l’aldilà, che predicano l’odio per rubare ai semplici la loro vita presente e il loro diritto di vivere con dignità, trasformandoli in legna da ardere e privandoli della capacità di scegliere con libertà e di credere con responsabilità».
Francesco però non si è limitato a denunciare il fondamentalismo, per quanto questo sia un’evidente preoccupazione nel mondo intero. Il terzo elemento che spicca nel suo viaggio è la proposta di un modo alternativo di vivere l’esperienza religiosa. Alcune piste di straordinario valore le ha lasciate nella celebrazione della Messa con i cattolici egiziani, a cui hanno partecipato circa 30.000 fedeli, cioè circa uno su dieci di tutti i cattolici d’Egitto. Davanti a loro ha pronunciato alcune frasi realmente categoriche: «L’unico estremismo ammesso per i credenti è quello della carità; qualsiasi altro estremismo non viene da Dio e non piace a Lui!». Ancora, ha sottolineato il rifiuto delle forme fossilizzate della religione, puramente convenzionali e ideologiche: per Dio «è meglio non credere che essere un falso credente, un ipocrita», perché «non serve tanta religiosità se non è animata da tanta fede e da tanta carità».
L’omelia, pronunciata in italiano e subito dopo letta in arabo, è stata trasmessa in diretta dalla televisione egiziana. L’immagine del Papa, vestito di bianco e con il capo coperto da uno zucchetto bianco, contrasta totalmente con il discorso dei telepredicatori fondamenta-listi che invadono le reti satellitari egiziane e del mondo arabo. Anche loro sono avvolti in vesti bianche e con il capo coperto, ma qualsiasi osservatore non può non notare evidenti differenze…
Sicuramente queste affermazioni rappresentano il cuore di tutto il viaggio. Gli altri interventi hanno, per così dire, dissodato il terreno, per permettere a parole di questo calibro di penetrare nel cuore degli ascoltatori, disseminati in tutto il Paese. Che effetto reale avranno? Non lo sappiamo, chiaramente. I movimenti sociali a volte nascono impercettibilmente e crescono poco alla volta, incidono nella vita quotidiana, finché d’improvviso irrompono nella piazza, arrivando alle istituzioni. Probabilmente si può ancora aggiungere un ultimo elemento in questo bilancio della visita: le parole e i gesti di Francesco si sono trovati in totale sintonia con la testimonianza pacifica e disarmata dei cristiani copti-ortodossi d’Egitto. La menzione dell’“ecumenismo del sangue” che avvicina i cristiani copti e i cattolici non è stata per nulla retorica. Papa Tawadros II, massima autorità religiosa copta-ortodossa, aveva dichiarato recentemente dopo uno dei sanguinosi attentati contro le sue chiese: i terroristi «vedranno questo perdono immenso che i copti offrono ogni volta che sono colpiti, la tolleranza davanti alla violenza dei cattivi. E sono sicuro che i loro cuori si muoveranno». Non è dunque strano che l’incontro tra Tawadros II e Francesco sia stato tanto cordiale e sia arrivato fino al punto di una Dichiarazione comune. Se il dialogo interreligioso intrapreso dal Papa con il mondo musulmano e il dialogo ecumenico con i copti continueranno a progredire, ne guadagneranno la convivenza in Egitto e in Medio Oriente, sarà favorito il rispetto della dignità delle persone e cresceranno le aspettative di pace e progresso sociale nel mondo durante questo XXI secolo che ha già accumulato molte sofferenze e minacce nei suoi due decenni scarsi di vita.
Il gesto del Papa non permette a noi cristiani di disinteressarci del momento attuale. Ci spetta testimoniare davanti a tutti, e in primo luogo davanti ai musulmani, che la verità universale e la libertà si richiamano vicendevolmente. Staranno o cadranno insieme. La loro relazione più perfetta è quella dell’amore: «La vittoria della verità è la carità» (Sant’Agostino). Il viaggio del Papa ha messo in discussione aspetti cristallizzati della no-stra forma convenzionale di vivere la fede in società e ci urge ad avviare processi d’incontro e di educazione. Ogni incontro degno di questo nome cambia gli interlocutori. Anche quest’oggi. Sarà possibile per noi tutti cambiare affinché questa identità aperta contribuisca alla vita buona di tutti? Tanti nostri fratelli cristiani d’Oriente e d’Occidente, tanti musulmani in Egitto e in altre nazioni, lo attendono. Grazie

WAEL FAROUQ:
Grazie a don Prades che ha mostrato la visita del Papa in Egitto nel suo contesto europeo, davanti alla difficoltà che nasce dalla realtà europea e dalla difficoltà che nasce anche dall’islam come la società in cui viene praticato oggi. Da questo contesto, passiamo al contesto egiziano. Ieri, il carissimo amico Sayed Mahmoud mi ha detto una cosa molto interessante. “Neanche il più fondamentalista che nega il cristianesimo può tagliare via il cristiano dalla sua storia personale. È sempre presente: compagno in classe, collega al lavoro, vicino di casa… è sempre presente. E questo rapporto personale è la speranza. Perché secondo me sarà difficilissimo integrare l’Islam, ma è veramente possibile integrare i musulmani. L’evidenza di questo è quello che abbiamo visto nella visita del Papa in Egitto e ci viene adesso presentata da Sayed Mahmoud. Prego.

SAYED MAHMOUD ALY:
Sono impressionato nel rivolgermi a questo pubblico che ha ascoltato Chomsky, che ha ascoltato il Dalai Lama e altri grandi prima di me: mi rassicura il fatto che parlo del Papa, un uomo che infonde serenità. E ciò che anche mi rassicura è che sono accanto a un altro papa accademico, intendo il dottor El Feki. Ringrazio l’amico Wael Farouq che mi ha presentato, mi ha candidato a prendere la parola dinnanzi a voi. Il relatore precedente ha illustrato la posizione e il ruolo svolto dalla religione nelle società di ieri e di oggi: io vorrei tornare su questi pensieri filosofici citando alcuni fatti egiziani. È stato citato un testo che dice che il mondo è cambiato in trenta ore. Io parlo della decina di ore che il Papa ha trascorso in Egitto e che hanno trasformato radicalmente l’opinione di chi ha assistito a quanto è accaduto. In questa pagina, vediamo l’illustrazione di queste trenta ore. Propongo come titolo al mio intervento La diplomazia spirituale. Ora che la diplomazia tradizionale è fallita, non riuscendo a proporre delle soluzioni, ci sono alternative. C’è la diplomazia popolare, c’è la diplomazia culturale e io propongo la diplomazia spirituale in quanto persone che hanno una esistenza ispirata alla religione o leadership religiose, il Papa o al-Azhar in Egitto, possono dare tantissimo al mondo per aiutarlo ad affrontare la paura, come ha detto ieri il Ministro degli Esteri italiano. La visita del Papa in Egitto è stato come un dono dal cielo, perché il timing era critico. Due settimane prima della sua visita, infatti, l’Egitto aveva vissuto due attacchi terroristici contro due chiese: e quando il Papa insistette a venire in Egitto nella data prestabilita, ha rassicurato i cristiani egiziani ma anche il mondo intero e tutto l’Egitto. Prima dell’arrivo del Papa, difatti, c’era grande attesa perché il suo passato indicava chiaramente che si trattava di una personalità importante: in Egitto prima della visita era stata pubblicata la sua opinione sui rifugiati siriani e sugli immigrati. Tutti furono colpiti quando il Papa, il Giovedì Santo, aveva lavato i piedi ad alcuni immigrati: tra di loro, c’era addirittura un musulmano. Queste immagini, quella foto erano state rilanciate tantissime volte sui social media. Come sapete, la maggioranza degli egiziani è musulmana: dopo avere visto il Papa che lavava i piedi a un musulmano, questa maggioranza, alla notizia che il Papa aveva deciso di venire in Egitto, aveva fatto suo lo stesso motto della visita papale: la fratellanza. Il tweet del Papa, “visito l’Egitto domani come pellegrino di pace” è stato rilanciato tantissimo sui vari social media. E il dottor Feki mi ha detto che questa visita era stata un regalo, una visita storica. È vero che in Egitto parliamo sempre di storia, qualunque discorso finisce sempre per parlare di storia, ma questa visita davvero è stata storica. Questa foto che vedete accanto al tweet del Papa in arabo, è un disegno fatto da una alunna musulmana. Nell’immaginario di questa bambina, il Papa è ritratto con la colomba della pace in mano. Dicevo che è stato un dono, ma perché dico che è stato un dono dal cielo? Perché mentre nel mondo si ripete che la situazione in Egitto è instabile, il Papa è venuto e ha rassicurato i cristiani, ha rassicurato gli egiziani, ha ribadito che il terrorismo non ha nulla a che vedere con una data religione. La sua foto con il grande imam di Al-Azhar è una ulteriore riprova che il terrorismo non ha a che vedere con nessuna religione, tanto meno con l’Islam. Il problema non è l’Islam, la religione è parte della soluzione. Ma il fatto più simpatico è che la stampa, tutti i maggiori quotidiani egiziani – a destra vedete la foto del Al-Ahram, un quotidiano che vanta centocinquanta anni – hanno fatto l‘edizione religione monotematica sulla visita del Papa, intitolata “il Papa del Vaticano”. E chi conosce l’animo egiziano, sa bene che il popolo arabo è condizionato dai social media. In trenta ore, come ha detto addirittura la BBC, ci sono stati 450 mila tweet su Twitter e Facebook sulla visita del Papa, che esprimevano le speranze suscitate dall’evento. E poi ci sono stati manifesti affissi in tutte le strade principali d‘Egitto che salutavano Francesco. Qui vedete un autobus, gli autobus sono sempre sovraffollati: le scritte sugli autobus sono molto lette. E questo è un manifesto in inglese e in francese sulla visita del Papa. Ma insisto molto sui social media che sono ormai la stampa del grande pubblico. Dunque, 450 mila tweet in trenta ore, un record: chi legge l’arabo capisce che gli egiziani hanno detto e ripetuto tante volte che è stata una benedizione, un dono, questa parola ricorreva. Questo dono del cielo ha associato il Papa alla storia dell’Egitto, così abbiamo visto manifesti del Papa con le piramidi, del Papa con il patriarca copto-ortodosso, Papa Teodoro II. Questo concetto di benedizione legato al Papa è perdurato del tempo, di diceva che questa visita ha del miracoloso. E i giornali riferivano addirittura di miracoli o grazie ottenuti dal Signore. Mariam, ad esempio, si trovava in un luogo dove c’era il Papa, lui l’ha toccata e lei ha detto di avere sentito una serenità indescrivibile attraversarle il corpo. Non mi dilungo oltre su quanto già è stato esposto dal relatore precedente, ma voglio dire che il Papa ha pregato nello stadio del Cairo. Lo stadio è del Ministero della Difesa: chi conosce l’Egitto sa bene che questo stadio era collegato con un attacco in cui morirono molti giovani. Gli egiziani ora non ricordano più quel massacro, perché questo stadio è diventato il luogo dove il Papa ha pregato, nel posto dell’eccidio. Anche questo ha dato serenità. Evidentemente, il Papa si è adoperato per la causa dei cattolici in Egitto: ci sono stati incontri televisivi che hanno illustrato la presenza dei cattolici nella società e i collegamenti che ha la comunità. Ma devo ribadire che questa visita ha dato molta tranquillità e ha consentito una ripresa dei pellegrinaggi in Egitto, al monastero di Santa Caterina nel Sinai. È tra le ricadute della visita del Papa. E poi ci sono stati gli incontri tra il Presidente al-Sisi e il Papa. Anche il Presidente ha dato una valutazione positiva della visita e del suo impatto. La preghiera nello stadio ha portato a una popolarità simile a quella dei grandi giocatori, dei grandi calciatori egiziani. Grazie per il cortese ascolto.

WAEL FAROUQ:
Veramente molto commuovente quello che ha detto il dottore Sayed Mahmoud sulla visita del Papa in Egitto, per i gesti del popolo che parla di miracoli fatti dal Papa. La Messa del Papa è stata la più grande nella storia di Egitto, e forse anche nella storia del mondo isla-mico: è stata trasmessa in tantissimi Paesi islamici, in arabo, e ha offerto questa presenza del Papa che non nega la realtà ma cambia lo sguardo a questa realtà. Come hanno guardato gli egiziani alla presenza del Papa in un posto dove c’è stato un massacro, dove sono morti tantissimi giovani, alla scelta di fare la preghiera in questo posto, anche come preghiera per le vittime? Questo cambiamento dello sguardo alla realtà è esattamente quello che genera la speranza: e nessuno meglio del professore Mostafa El Feki può par-larci della speranza che ha generato la presenza del Papa in Egitto. Prego.

MOSTAFA EL FEKI:
Vorrei iniziare ringraziando lei personalmente, dottore Wael Farouq. Sono stato invitato molte volte a seminari ma questa volta mi sembra diverso, mi ricorda Davos, se Davos si concentrasse, oltre che sulle questioni politiche ed economiche, anche sulle questioni religiose e culturali. Qui c’è una differenza. Grazie di questo invito che mi è stato rivolto in un periodo molto critico: sapete che il terrore ci colpisce a prescindere dalla religione, dal colore, dal sesso. Il terrore è ovunque. Lo si vede a Barcellona, al Cairo, a Istanbul, a Lon-dra, a Parigi, a Bruxelles ed è un terrorismo che colpisce tutto il genere umano. Io sono un esperto di religioni comparate e mi sono occupato delle minoranze cristiane nel Medio Oriente, con particolare riferimento ai copti in Egitto, nella mia tesi: ricordo molto bene che dicevamo che le religioni sono movimenti di riforma. La parte spirituale della religione è un movimento di riforma che deve migliorare e innalzare il tenore di vita dell’essere umano, dare più valore al genere umano. Un valore di cui ha bisogno: è così il cristianesimo, è così l’ebraismo, è così l’Islam. Tutte le tre grandi religioni monoteiste predicano questo. Ho vissuto in India e conosco anche le idee del buddismo e dell’induismo e delle altre religioni. In generale, questi insegnamenti dovrebbero essere accettati, non ci dovrebbero essere differenze tra noi a causa dell’appartenenza religiosa diversa. Nel nostro Corano, Dio dice: «posso rendervi tutti uguali in una religione, ma la differenza tra voi e gli altri non esiste». Essere un buon credente, a prescindere dalla nostra religione, è bellissimo. Immaginiamoci se due persone si perdessero nel deserto: una di loro crede in Dio, ha fede; l’altro, invece, no. Vi posso garantire che chi crede in Dio sopravvive più a lungo e si salva, l’altro, invece, non ha speranza, non crede in Dio, non ha fede, non ha religione e quindi muore prima, non riuscirà mai a sopravvivere. Ecco perché, se lo guardiamo anche dal punto di vista pratico, si può capire che la fede tiene vivo l’essere umano, quindi è meglio essere credenti che non credenti. Nell’Egitto, il mio Paese, le religioni sono estremamente radicate: siamo un Paese in cui Ekhnaton, uno dei vecchi faraoni, scoprì che c’era un solo Dio e iniziò a parlarne. Ecco perché gli egiziani – forse non lo sapete – sono una delle nazioni più religiose al mondo. Quando Alessandro il Grande ha invaso l’Egitto, è stato avvisato dai suoi consiglieri di andare direttamente al tempio dei faraoni ad annunciarsi come figlio di Dio, per avvicinarsi al cuore degli egiziani. Quando Napoleone Bonaparte arrivò in Egitto, gli chiesero di parlare dell’Islam, la religione della maggioranza degli egiziani. E lui disse: «È l’unico modo per raggiungere i loro cuori». Ecco perché la religione è molto rispettata da noi. Non so se lo sapete, al Cairo, una città musulmana, abbiamo nove sinagoghe per gli ebrei, dove tutti possono andare e praticare la fede religiosa ebraica. Non sono state toccate nel ’56, nel ’67, nel ’73: non sono state toccate mentre eravamo in guerra con Israele, perché noi crediamo in Dio e nelle religioni. Abbiamo migliaia di chiese, abbiamo i più grandi monasteri del mondo (a Nabar, nel Nord), perché molti musulmani vanno in chiesa a chiedere la benedizione e vogliono che il prete tocchi i loro figli per benedirli. Nasser chiese a un prete di benedire suo figlio per salvargli la vita. Questi siamo noi! Non c’è nessuna differenza. Quello che vedete adesso non sono gli egiziani, non sono musul-mani, è qualcosa di completamente diverso. Queste persone non sono felici, non fanno altro che perpetrare violenza. Non sono religiosi, non sono credenti. Quando il Papa è venuto in Egitto e ho avuto l’onore di essere invitato a incontrarlo con il Presidente egiziano, ha detto: «Sono venuto in Egitto come pellegrino». Immaginatevi. E sapete perché? Perché l’Egitto è la terra di Mosè (abbiamo monasteri in Sinai), è la terra dove la Sacra Famiglia ha attraversato il Paese dall’Est al Sud ed è anche il Paese che poi ha ricevuto l’Islam. Ecco perché è una terra benedetta. E il Papa è venuto in un periodo molto difficile. Come ha detto il collega Mahmoud Aly, tutti pensavano che non sarebbe venuto e la voce cominciava a diffondersi: a causa dell’instabilità e della mancanza di sicurezza (dopo che erano state distrutte due chiese), il Papa non sarebbe venuto. Ma il grande leader spirituale religioso, il Papa, ha deciso, invece, di venire per il bene dell’Egitto, per il bene dei musulmani e dei cristiani che vivono in quella zona. E l’ha fatto per dare la propria testimonianza, dare la propria benedizione e promuovere un’atmosfera spirituale di pace. Ed è proprio questo che è successo: la sua visita è stata un grande schiaffo al terrore nella Regione ed è stata un grandissimo messaggio ai cristiani del Medio Oriente. Perché hanno sofferto tantissimo negli ultimi trent’anni – in Iraq, in Libano, in Siria e in altri Paesi, anche in Egitto – a causa di quelli che hanno una mente ristretta e che cercano di far loro pressione, di distruggerli. Ma vi posso garantire che la maggioranza dei musulmani sostengono i cristiani: crediamo che siano una parte integrante della nostra terra, che debbano rimanere lì a vivere e non debbano andarsene via. Sono triste nel dirvi che decine di migliaia di cristiani arabi hanno dovuto lasciare la loro terra negli ultimi vent’anni. È molto triste riconoscerlo ma è un dato di fatto. al-Azhar, il grande centro islamico del Cairo, una volta ha deciso di organizzare quella che chiamiamo la “casa della famiglia” per musulmani e cristiani insieme: c’era stato un incidente contro una chiesa in Iraq. Ecco perché in Egitto capiamo la sofferenza dei nostri amici cristiani: i loro problemi vanno al di là dell’immaginazione, hanno pagato un prezzo altissimo. Ecco perché noi vogliamo essere lungimiranti, siamo pronti a combattere per loro e a garantire i loro diritti nella loro terra. Sono le persone più radicate nel Paese, nessuno può contestarlo. Il Papa ha incontrato il grande Imam di al-Azhar e anche il grande Patriarca copto-ortodosso, mio amico. Ha detto che crede nel suo Paese, a prescindere dalle differenze di religione. Quest’uomo ci insegna la tolleranza e segue il percorso del grande Papa Francesco, che è venuto nel nostro Paese e ha dato prova di modestia, di tolleranza, di lungimiranza, di apertura. Ha parlato a tutti, creando un’atmosfera di amore, di pace e di stabilità in tutta la Regione. Come è stato detto, è stato un grande dono per l’Egitto, la visita di Papa Francesco, perché è venuto in un periodo molto difficile e anche perché è stato ricevuto molto bene, prima di tutto dai musulmani e poi dai cristiani. Nello stadio al Cairo c’erano quasi 100mila egiziani, forse la maggior parte musulmani: tutti volevano dare un messaggio di pace a un uomo che si fa portatore di pace e di solidarietà e d’amore per tutti noi. Questi sono, in breve, i punti essenziali che volevo segnalare. Essendo il Direttore della biblioteca di Alessandria, vorrei garantirvi che Alessandria, che è stata la città della diversità (di arabi, greci, italiani, armeni, ebrei) un secolo fa, tornerà al suo vecchio splendore e sarà pronta a ricevere tutti i popoli, a prescindere dalle differenze. E così l’Egitto. Perché tutti noi veniamo dallo stesso genere umano. Grazie della vostra attenzione.

WAEL FAROUQ:
È molto interessante quello che ha detto il professor Feki, soprattutto ricordando che la “casa della famiglia” egiziana, che è stata composta da musulmani e cristiani, è stata fon-data come risposta al dramma dei cristiani iracheni. Qui io voglio ricordare che questi cri-stiani non sono caduti a causa di una catastrofe naturale: questi cristiani erano davanti a una scelta e hanno scelto. Bastavano poche parole per evitare tutto il male e tutta la pena che hanno sofferto. Avrebbero potuto salvare il lavoro, il posto, la casa, tutto, ma hanno scelto di andare via senza tenere neppure le scarpe, per tenere una sola cosa: la loro fe-de. Questa cosa è una testimonianza che ci permette oggi di parlare delle religioni capaci di generare la speranza. Ma perché sono capaci di generare la speranza? Non perché hanno risposte alle domande difficili che ha proposto don Javier Prades, non perché pos-sono proteggerci dalla violenza, ma perché solo la religione è capace di creare lo spazio per questa testimonianza. La religione è l’unico spazio dove si vede tutto il bene e tutto il desiderio del bene che esiste nel cuore dell’uomo. Ricordo bene la rivoluzione egiziana, 25 gennaio 2011. Quasi tre settimane prima, la domanda più diffusa nei media egiziani era: «Può un musulmano fare gli auguri a un cristiano per il Natale?». Forse fare gli auguri a un cristiano per il Natale significava riconoscere una fede che per i musulmani è sbagliata. Sui giornali, in Tv, in tutti i posti sentivi: «Posso dire “Buon Natale” o no?». Tre settimane dopo, nella piazza di Tahrir, ho visto coi miei occhi come i corpi dei musulmani sono diventati chiesa, perché al momento della Messa i musulmani hanno usato i loro corpi per fare una catena umana, per creare uno spazio dove i cristiani potessero celebrare la Messa. Al venerdì succede la stessa cosa: anche i cristiani hanno fatto una catena umana e sono diventati moschea, affinché i musulmani potessero pregare. Quindi, quando c’è desiderio di libertà – la domanda più difficile che affrontiamo -, quando c’è la presenza di una certa religiosità, può nascere la speranza, può incarnarsi la speranza e possiamo di nuovo riguadagnare il bene che abbiamo ereditato dai nostri padri. Come ha mostrato l’amico Sayed Mahmoud all’inizio, quando è arrivato il Papa al Cairo in tutti i posti potevate vedere l’immagine del Papa vestito di bianco, con la colomba della pace, il Papa della pace nella terra della pace. Gli egiziani hanno fatto questi simboli che rappresentano la loro speranza, ma la presenza del Papa in Egitto, la sua umiltà, il suo amore sincero per tutti, l’abbraccio che ha avuto col grande Imam di al-Azhar ha fatto ricordare agli egiziani la presenza di San Francesco d’Assisi in Egitto. Riemerge l’immagine, vecchia di centinaia di anni, di San Francesco d’Assisi che abbraccia il sultano Kamel. La sua presenza ha riguadagnato questa memoria, ha reso la storia presente, ha fatto la storia attuale di nuovo. Questa è la condizione della speranza, perché non c’è futuro senza una certa identità. Quindi, ringrazio di cuore i nostri relatori oggi: don Javier Prades, Sayed Mahmoud e il dottor Mostafa El Feki. Ricordo che ieri sono stati colpiti dal Meeting di Rimini perché come intellettuali hanno studiato la storia d’Europa, hanno visitato la maggior parte dell’Europa e hanno notato che in Europa c’è una grande idea da cui nasce un movimento, un popolo, una società: ma quello che hanno visto qui al Meeting di Rimini è che c’è un popolo da cui sono generate tante idee. Questo è un grande dono e per tenere questo dono vivo dobbiamo fare la donazione al Meeting, dobbiamo donare al Meeting per tenere questo spazio aperto a questa speranza. Siamo egiziani, veniamo da un’altra realtà, veniamo da un altro mondo e quello che vediamo qui è veramente carissimo per noi, perché possiamo toccare la speranza. Grazie a tutti e buona serata.

Data

25 Agosto 2017

Ora

19:00

Edizione

2017
Categoria
Incontri