IL MIO IMPEGNO PER L’AFGHANISTAN E LA DEMOCRAZIA

Il mio impegno per l'Afghanistan e la democrazia

Rula Ghani: "Il mio impegno con l'Afghanistan e la democrazia"

Incontro con Rula Ghani, First Lady della Repubblica Islamica dell’Afghanistan. Introduce Roberto Fontolan, Direttore Centro Internazionale di Comunione e Liberazione. Intervento di saluto di Emilia Guarnieri, Presidente Fondazione Meeting per l’amicizia fra i popoli.

 

EMILIA GUARNIERI:
Eccellenza, siamo profondamente onorati di accoglierLa al Meeting per l’amicizia tra i popoli. Siamo grati a Lei per avere accettato il nostro invito e alle autorità della Repubblica Islamica dell’Afghanistan per avere favorito e reso possibile questa per noi eccezionale occasione di incontro. La Sua presenza e la Sua persona sono l’immagine che l’amicizia tra i popoli è una esperienza possibile, che le diversità di cultura e di religione possono essere una opportunità e non un ostacolo, che il coraggio dell’affermazione della propria identità è tanto più vero quanto più, come Lei spesso ama ripetere, vive nell’ascolto dell’altro. In questi mesi, nei quali abbiamo coltivato e cercato di realizzare il progetto di averLa con noi oggi, abbiamo avuto modo di accompagnare, attraverso i media, il suo percorso, dal settembre del 2014, quando Lei ha assunto il ruolo di First Lady della Repubblica islamica dell’Afghanistan. Lei ha spesso sottolineato che la condizione perché i singoli diritti possano realizzarsi è la costruzione di una società dove si viva in armonia. Credo che questo termine “armonia” non sia molto distante da ciò che il Meeting, nella definizione di sé, chiama “amicizia”. Armonia e amicizia descrivono innanzitutto una concezione di sé, una esperienza di persone che guardano all’altro con simpatia, per il fatto stesso che l’altro uomo esiste. Il Meeting in questi 36 anni di storia ha scommesso su questa amicizia possibile e tutti gli incontri che abbiamo visto accadere davanti ai nostri occhi, tra cristiani e mussulmani, tra mussulmani ed ebrei, tra cattolici e buddisti, tra credenti e non credenti, sono stati la conferma dell’intuizione iniziale. Così abbiamo imparato da quello che accadeva. E anche oggi vogliamo ascoltare per imparare, certi che il più grande contributo che ogni donna e ogni uomo possono dare per la costruzione del mondo e delle nostre società, sia la testimonianza concreta della propria umanità all’opera. Grazie, Eccellenza, della Sua presenza!

ROBERTO FONTOLAN:
In tanti anni di Meeting – mi scuserete questa confessione personale – per me è veramente una giornata grande ed emozionante. Bibi Gul è il nome afgano di questa nostra straordinaria ospite di oggi, Bibi Gul, cioè fiore. E la sua presenza qui da ieri è proprio come un fiore del Meeting 2015. Perciò, grazie ancora di essere qui. La signora Rula Ghani – ora uso il suo nome registrato, diciamo anagrafico – è la First Lady dell’Afghanistan da un anno, dal settembre 2014, quando il marito Ashraf Ghani è stato eletto Presidente. Ed è così che Bibi Gul ha messo piede nel palazzo presidenziale di Kabul. Time ha inserito Bibi Gul tra le cento persone più influenti del mondo contemporaneo, il Washington Post, “la donna piena di forza e tranquilla”. La sua vita è cambiata da allora, da un anno fa. Ma tanti cambiamenti, tante avventure ci sono state nella sua vita, come sentiremo da lei stessa tra poco. Libanese di origine, studi in Francia e nell’amato, amatissimo Libano, e poi New York, sposata dal 1975, due figli. Nella sua biografia c’è tanto, e c’è tanto anche di dedizione a opere, iniziative di volontariato, di accoglienza. E anche oggi Bibi Gul lavora incessantemente, come dice lei stessa, per promuovere un ambiente positivo, in particolare per aiutare i bambini diseredati di Kabul.
Ha accettato il nostro pressante invito – spero che non siamo stati troppo invadenti – perché è alla vigilia di un altro viaggio che la porterà in Giappone tra pochissimi giorni. Ha accettato questo invito, al quale veramente abbiamo tenuto tantissimo, anche per i rapporti tra il nostro Paese e il suo. Rapporti che datano da oltre un secolo nella nostra storia recente, un secolo che ha visto l’Afghanistan cambiare drammaticamente, quasi soffocare nella guerra e nella violenza. Io stesso – mi consentirete questo piccolo ricordo personale perché sono stato in Afghanistan giovanissimo reporter, nel 1980, gennaio, all’indomani dell’invasione sovietica di quel Paese – ho sempre con me il ricordo di un Paese meraviglioso e aspro, bellissimo e duro come la roccia, la roccia che tanta parte ha nel panorama di questa terra. In Afghanistan, come molti sapranno, ci sono i nostri militari da tanto tempo. Da allora, da quegli anni, dal 1979, l’Afghanistan è una nazione in guerra, che ha vissuto e vive una tremenda esperienza di violenza e di sangue. E in questa storia si è anche rafforzato il legame con il nostro Paese: ci sono i nostri militari lì, e anche molti nostri militari hanno perso la vita in Afghanistan, in questi anni, in azioni terroristiche, nel corso di conflitti armati, nel tentativo di aiutare la pace in questo Paese. E oggi l’impegno del nostro Paese è anche un impegno economico, è anche un impegno di solidarietà, di aiuto, e direi che è un impegno di affetto e di amicizia e di amore per questo Paese meraviglioso e terribile. E allora vorrei che insieme ascoltassimo ora il discorso che Bibi Gul ha preparato per questa occasione. E dico anche una novità che la signora Ghani ha chiesto, ha desiderato, ha voluto. Sapete che normalmente il Meeting non offre l’incontro con le platee, ma la signora Ghani ha chiesto di poter interloquire direttamente con le persone, ama tantissimo parlare con le persone, e perciò dico già fin d’ora che se qualcuno, al termine del suo discorso, avrà qualche domanda, avremo qualche minuto perché qualcuno di voi possa offrire una sua domanda o un suo tema. Su questo raccomando solo la sensibilità e la responsabilità. Grazie ancora di essere qui con noi.

RULA GHANI:
Prima di iniziare il mio intervento, desidero ringraziare i membri del comitato organizzatore del 36mo Meeting per l’amicizia tra i popoli per avermi invitato qui. Sicuramente voglio ringraziare Emilia per la sua bellissima introduzione e Roberto per avermi presentato a voi in questo modo. Ieri ho partecipato ad una delle sessioni sul ruolo delle religioni, dove ci si chiedeva se la religione fosse una soluzione o un problema. Ed è stata una sessione molto interessante, che mi è piaciuta tantissimo: ho visto qual è il livello dei dibattiti qui, a questo Meeting. Qui ho sentito teologi, pensatori, mi dispiace di non essere nessuna di queste persone, piuttosto sono una persona che fa, una persona concreta, che lavora nel concreto. Quindi, oggi, quello che sentirete da me riguarda fondamentalmente la mia esperienza, quello che ho fatto nella vita. Nel nome di Dio, misericordioso e compassionevole, illustri membri del comitato organizzatore del 36mo Meeting per l’amicizia tra i popoli, carissima amica mia, moglie del Primo Ministroe illustri signori del pubblico, che ai miei occhi siete tutti illustri. Vengo da voi in pace. L’Afghanistan che ho nel mio cuore è l’Afghanistan che ho scoperto quarant’ anni fa, quando sono arrivata a Kabul da giovane sposa. La vita era tranquilla, serena, per certi versi era provinciale. La vita sociale ruotava intorno a quella di una grande famiglia. Spesso andavamo in provincia a far visita ai parenti, oppure facevamo gite e pic-nic in belle zone naturali, magari vicino a sorgenti di acqua fresca che zampillava fuori da una montagna. Mio marito ed io lasciammo Kabul dopo tre anni per continuare gli studi negli Stati Uniti. Per molto tempo non riuscimmo a tornare indietro. Quando alla fine tornai, nel marzo del 2002, ho fatto fatica a riconoscere quei luoghi. Vivevamo a Kabul ovest, e quella zona era totalmente distrutta dalle bombe. Anche altre parti erano totalmente devastate. Il Paese stava uscendo da ventitré anni di conflitto e di guerra civile, come appunto si poteva vedere dalle sue cicatrici. Mi ricordo comunque di avere detto a mio marito, alcuni mesi dopo essere tornata, che forse il Paese era distrutto ma sicuramente non lo spirito del suo popolo. Potevo ancora riconoscere la determinazione e la resistenza dei normali cittadini, la vedevo intorno a me. All’epoca passavo le mie giornate nei vari centri di Assana. Assana è un’organizzazione afgana che si occupa di aiutare i bambini che lavorano nelle strade di Kabul. Così facendo, sono riuscita a vedere la rapida crescita di Kabul, mentre migliaia di rifugiati afgani tornavano dal Pakistan e dall’Iran. E la città, che non aveva nemmeno mezzo milione di abitanti nel 2002, si ingrandì molto rapidamente, fino ad arrivare a quasi sei milioni di persone. All’inizio Kabul era piena di vita e di energia, c’era tantissimo da fare, le persone erano piene di speranza e si misero al lavoro con entusiasmo, soprattutto chi era tornato dopo avere provato l’amarezza dell’esilio e aveva vissuto in circostanze difficili, a volte addirittura disumane. Per loro, riuscire a tornare nel Paese era già di per sé un successo. Cominciavano ad arrivare gli aiuti internazionali; ed in questa sede desidero cogliere l’opportunità per ringraziare il popolo e il Governo italiano per il loro contributo militare all’ISAF, e per avere continuato ad aiutarci nello sviluppo, soprattutto in ambito medico. La situazione politica aveva raggiunto un certo livello di stabilità, ma non c’era ancora un vero e proprio Stato di diritto. Dentro di me, spesso paragonavo la Kabul di quegli anni al Wild West dei film dei cowboy, film dove normalmente coesistono armi e violenza. E questo però era in contrasto con la speranza dei cittadini di vivere una vita normale. Purtroppo, per mantenere la stabilità tra le fazioni precedentemente in conflitto, la corruzione veniva tollerata e questo a danno dello sviluppo economico del Paese.
In questo contesto di disillusione e di malcontento popolare, si svolsero le elezioni presidenziali del 2013/2014. Mio marito, Ashraf Ghani, era candidato con un programma dallo slogan: “Il cambiamento nella continuità”. E fece in modo di portare la campagna in tutti gli angoli del Paese. Fu un’elezione molto contesa al primo round, ma i risultati del ballottaggio gli assicurarono la vittoria con un ampio margine, un margine di quasi un milione di voti. Questo sorprese gli esperti e gli analisti, analisti quasi saccenti. Venne chiesto quindi di ricontare i voti, sotto la supervisione delle Nazioni Unite, e ci vollero diversi mesi. Ma dopo averli ricontati per tre volte, i risultati non cambiarono di molto. Il popolo afgano aveva chiaramente scelto lui, mio marito, come loro leader. Alla fine, si raggiunse un Governo di unità nazionale, confermando mio marito alla Presidenza dell’Afghanistan e il dottor Abdullah, suo avversario al ballottaggio, come Chief Executive Officer. Quindi, da un giorno all’altro, ero diventata la First Lady dell’Afghanistan. Sono nata e cresciuta in Libano, in una famiglia felice, che dava molta importanza al servizio della comunità. Mio padre, che aveva dedicato la sua vita a portare l’agricoltura moderna in Libano, trovava sempre il tempo di occuparsi di attività sociali, per fare del bene ai suoi concittadini, oppure per fare del bene a singole persone. Dopo due settimane che mi ero trasferita al palazzo presidenziale, ho iniziato a pensare a quelli che erano i miei nuovi obblighi. L’Afghanistan aveva già conosciuto altre First Ladies. Cent’anni prima, durante il regno di Amanullah, dal 1919 al 1929, la regina Soraya assunse la carica di Ministro dell’Istruzione e riuscì a gettare le basi di uno straordinario sistema scolastico, che era ancora pienamente in funzione negli anni Sessanta e Settanta e di cui aveva usufruito anche mio marito. Da allora, però, le First Ladies ebbero un ruolo più simbolico e negli ultimi decenni apparivano raramente in pubblico. Quindi, stavo entrando in un territorio inesplorato. In un paio di settimane mi sistemai in un piccolo edificio con un segretario e una consulente. Nel suo discorso di insediamento, mio marito aveva già detto che da parte mia si aspettava un impegno sociale e che mi sarei dovuta occupare del destino degli sfollati interni. Passai quindi le mie prime settimane a raccogliere informazioni dalle varie Agenzie di aiuti internazionali, che si occupavano di fornire aiuti umanitari agli sfollati interni e ai profughi in ritorno. A dicembre, il mio ufficio, che già allora contava cinque persone, organizzò una distribuzione di cibo e di beni di prima necessità in tre province a tremila famiglie. Fu un’esperienza che mi aprì gli occhi, che confermò le difficoltà. L’assistenza umanitaria ha costi incredibilmente elevati e non riesce assolutamente a risolvere il problema delle famiglie sfollate. La soluzione quindi doveva essere un programma a lungo termine per riportare le famiglie a vivere permanentemente in centri abitati con accesso a servizi, a strutture e, ovviamente, anche con possibilità di lavoro. Un compito che per il mio piccolo ufficio era troppo grande, ma di cui il Governo poteva farsi carico, e io potevo incoraggiarlo. Ma mentre cercavamo di capire la situazione degli sfollati interni, diverse persone e membri della società iniziarono ad avvicinarsi a me, soprattutto quando si trattava di problemi di donne, di problemi femminili. Gruppi e associazioni di donne venivano a trovarmi, ambasciate che si occupavano di programmi per l’emancipazione femminile regolarmente mi invitavano come speaker. Una conferenza ad Oslo che si occupava di emancipazione delle donne afgane mi chiese di tenere una presentazione. Varie conferenze di medicina, che si occupavano di tematiche squisitamente femminili, mi invitavano, e così avanti. Avevo deciso di concentrarmi sull’ascolto, volevo ascoltare le persone e volevo accogliere chiunque volesse venire a trovarmi. Non sapevo di rispondere ad un’esigenza radicata, profonda, soprattutto tra le donne, in particolare tra le donne che abitavano in provincia. Nei primi sei mesi ci furono più di 345 gruppi che vennero in ufficio a trovarmi. Sono convinta che alcuni di loro venissero semplicemente perché era una novità, una First Lady che apre le porte e che si prende tutto il tempo per sedersi e parlare con chiunque. Ma con me si aprivano e condividevano le loro preoccupazioni. Alla fine dell’incontro, la maggior parte dei visitatori pensava che finalmente qualcuno li aveva ascoltati e che adesso avevano veramente un posto dove andare ad esprimere le loro lamentele. Mi ricorderò sempre uno di questi primi incontri, con un gruppo di donne che venivano da una delle province meridionali. All’inizio mi chiesero come dovevano chiamarmi, se dovevano chiamarmi con il mio nome oppure se dovevano usare il nome afgano oppure rivolgersi a me con il titolo. In realtà, non sapevo che cosa dire, e quindi dissi loro che per me qualsiasi cosa andava bene. Alla fine dell’incontro, una delle donne si alzò dicendomi: “A me non interessa come gli altri la chiamano, per me lei è mia sorella e io la chiamerò così”. Sono ormai dieci mesi che con il mio team, che adesso conta nove membri, lavoriamo senza mai fermarci. Il nostro motto è esserci per ascoltare, per aiutare a risolvere i problemi, per quanto possiamo fare. Quando c’è un problema sistematico, cerchiamo di individuare i soggetti interessati, li aiutiamo ad organizzarsi e li sosteniamo. Vi faccio un esempio. Una donna, parlamentare, un giorno è venuta da me lamentandosi che le era stata fatta una diagnosi sbagliata a Kabul e che poi aveva scoperto di avere il cancro durante un viaggio all’estero. Una delle mie consulenti si occupa proprio di questioni mediche e immediatamente si è messa al lavoro, cercando di vedere tutte le possibilità per il trattamento oncologico a Kabul. Dopo avere girato gli ospedali per due mesi, dopo avere parlato con i medici e con il Ministero della Sanità, confermò che Kabul non era attrezzata in maniera adeguata e che Kabul aveva un grande bisogno di un centro per la diagnosi e il trattamento del cancro, quindi di un centro oncologico. Un afgano medio, per capire se è malato di cancro, deve andare all’estero pagando molti soldi, semplicemente per avere una diagnosi. La mia consulente quindi si è impegnata ancora di più e ha incoraggiato molti professionisti ad organizzare degli incontri sotto l’egida del Ministero della Sanità. Oggi può dire con orgoglio di avere aiutato il Paese a raggiungere tre decisioni. Una decisione da subito, e cioè, recentemente, due piani di un ospedale sono stati dedicati alla diagnosi di vari tipi di cancro. Un’altra decisione invece richiederà più tempo e riguarda la costruzione di un centro oncologico. Almeno, grazie ai suoi sforzi, è stato individuato un donatore locale che è pronto a dare dei terreni in una location ideale e adesso siamo all’ultima fase, quella dei negoziati. Una terza decisione riguarda invece il ripristinare il reparto oncologico che si trovava in uno dei più antichi ospedali di Kabul. Questo in realtà è un progetto più complicato, perché richiede la partecipazione dell’agenzia atomica di Vienna, visto che il reparto è stato distrutto durante la guerra e quindi si teme una possibile contaminazione di cobalto. Questa consulente mi ha accompagnato in questa visita, voglio presentarvela, se ti vuoi alzare…
Questo è ciò che fanno i miei consulenti, lavorano moltissimo. Inoltre abbiamo lanciato delle iniziative per molti progetti di varia natura, come ad esempio una campagna contro l’abuso di sostanze stupefacenti. E c’è un programma scolastico che chiamiamo “La settimana dell’Afghanistan”, per fare si che i giovani si interessino all’ambiente, al loro Paese. Abbiamo anche organizzato una fiera del lavoro on line, per chi è abbastanza fortunato per andare all’estero con una borsa di studio, ma poi deve esser incoraggiato a tornare a servire il proprio Paese. Abbiamo organizzato poi diversi incontri di organizzazioni femminili per aiutarle a far sentire la loro voce, soprattutto quando si trattava di formare il Gabinetto. E sono riuscita a fare nominare quattro donne Ministro e anche a nominare una donna alla Corte Suprema, e poi tante altre cose. Come vedete, il nostro lavoro ruota intorno ad alcune linee guida fondamentali. Prima di tutto, il nostro impegno nei confronti di tutto il popolo afgano, a prescindere dall’età, dal genere, dall’appartenenza etnica o religiosa. Non dimentico come queste stesse persone mi hanno accolto tra di loro con tanto calore quarant’anni fa e mi hanno adottato come se fossi una di loro. E non dimentico come le stesse persone abbiano sofferto negli ultimi trenta, quarant’anni, e ancora oggi stiano soffrendo. Le porte del nostro ufficio sono sempre aperte per chiunque voglia discutere problemi con noi: il nostro ruolo è ascoltare, facilitare e sostenere. Non stiamo cercando le luci della ribalta e non vogliamo creare delle istituzioni parallele, quello che vogliamo è trovare un modo per rafforzare le istituzioni sociali e governative che già esistono. Stiamo in altre parole cercando di ricostruire il nostro Paese. E’ questo che facciamo, è questo il nostro codice di comportamento. Ma forse vi state chiedendo come definire il nostro impegno verso il popolo afgano. Una giornalista una volta mi ha chiesto che cosa vorrei avere raggiunto alla fine del mandato presidenziale di cinque anni. Ho risposto: “Rispetto: che tutte le persone, soprattutto le donne, siano trattate con rispetto, che vengano trattate come merita un essere umano”.
La guerra è una cosa orrenda perché non solo distrugge gli edifici e annienta le città, non solo uccide e storpia le persone. La guerra, soprattutto una lunga guerra civile, distrugge il vero e proprio tessuto sociale di una comunità, le sue norme, le sue tradizioni, le sue credenze, e il suo senso di quello che è giusto o sbagliato. La guerra è barbara, la guerra trasforma gli esseri umani in mostri senza morale. La guerra permette di commettere atrocità, la guerra glorifica l’assurdo e la mancanza di senso, la guerra è quando le persone perdono la loro umanità. Il nostro impegno verso il popolo afgano è cercare di trovare il modo per ricostruire il tessuto sociale: dobbiamo reclamare la nostra storia, le nostre tradizioni, le nostre credenze e i nostri valori. Dobbiamo ricordare che abbiamo un bel Paese e che dovremmo essere tutti uniti per ricostruirlo. Dobbiamo opporci alla violenza e rifiutare di farci intimidire, dobbiamo ricordare che la vita è un bene per tutti ed era un bene per tutti quando esisteva lo Stato di diritto. Dobbiamo ricordare che siamo tutti esseri umani e che, in quanto tali, dovremmo rispettarci l’un l’altro. E vivere in armonia. Che Dio ci aiuti in questo viaggio.

ROBERTO FONTOLAN:
Bene, penso che condividerete con me l’emozione e il sentimento di avere sentito una grande persona. Devo fare subito ammenda perché, nell’emozione di prima, non ho salutato Agnese Renzi che è qui in prima fila, che è venuta appositamente per ascoltare Rula Ghani. Vedo anche altri amici, Pasquale Valentini di San Marino, il professor Grassi, che ieri è intervenuto all’incontro inaugurale, e Victoria Alvarado, dell’Ambasciata degli Stati Uniti presso la Santa Sede a Roma. Mi scuso con gli altri che non riesco a vedere in questo momento. Come dicevo prima, abbiamo questa novità che con dolcezza Rula Ghani ha imposto: e quindi rinnovo l’invito, se c’è qualcuno che ha qualche domanda su quello che abbiamo ascoltato, dovrà intervenire dal podio. Io, intanto, per favorire questo momento, ho una mia domanda personale, poi mi ritirerò in disparte. I giovani dell’Afghanistan, che cosa può offrire questa nuovo leadership del Paese, qual è la preoccupazione fondamentale che vi sta muovendo? E qual è la speranza che potete proporre a loro, a una generazione che in gran parte è nata e cresciuta senza conoscere altro che la guerra?

RULA GHANI:
E’ un’ottima domanda. I giovani in Afghanistan sono come i giovani di tutto il mondo. Si preoccupano del loro futuro: se troveranno un lavoro, se riusciranno ad avere abbastanza soldi per sposarsi, per avere una casa di proprietà oppure un appartamento. Purtroppo la situazione è molto negativa. Come dice Roberto, hanno conosciuto solamente la guerra, questi giovani, hanno conosciuto solo la regola della violenza, lo stato della violenza. Non sono mai stati abituati a pensare in temi di umanità, quindi bisogna lavorare tantissimo, c’è moltissimo da fare per mostrare loro qual è la strada giusta e cosa significa essere umani. Alcuni di loro sono bravissimi e brillanti, molto intelligenti. Alcuni sono riusciti ad avere borse di studio e ad andare a studiare all’estero. Quando tornano nel loro Paese, la società non è pronta ad accoglierli. Quindi devono trovare un lavoro attraverso il nepotismo, attraverso le conoscenze, grazie a un cugino, grazie a uno zio. Purtroppo, nella nostra società tutte le persone vogliono avere accesso ad una serie di vantaggi. Io credo di dover spiegare a questi giovani che il viaggio della vita in realtà inizia dal sé, inizia dall’io. È il giovane che deve farsi avanti perché niente viene regalato, niente arriva su un piatto d’argento. Bisogna promuoversi, bisogna iniziare da soli e credo che sia la stessa cosa per tutti, credo che sia lo stesso per tutti i giovani del mondo. Quello che può veramente aiutare è entrare al servizio della comunità, fare qualcosa di utile socialmente, perché quando ci si impegna nella comunità si capiscono e si vedono i problemi degli altri e forse i propri sembrano molto più piccoli, per niente importanti. Inoltre, aiutando la comunità si diventa una persona rispettata perché aiuti le persone a diventare qualcuno, perché la propria autostima si può sviluppare e si capisce che cosa siamo capaci di fare, in che cosa siamo bravi. Magari uno ha studiato Scienze Politiche, poi scopre che è bravissimo nel management. O magari pensiamo di non essere bravi a livello sportivo però magari possiamo aiutare i bambini nello sport. Ci sono tantissime opportunità nel mondo. So che i giovani sono sempre preoccupati del loro futuro. Che cosa darà senso alla mia vita? si chiedono. Io incoraggio i giovani a non fare troppa introspezione e, al contrario, a uscire da sé, a cercare altre persone, a trovare il proprio ruolo all’interno della comunità e magari, viaggiando, anche all’interno di altre comunità. Non potete immaginare quanto sia importante per la vostra vita.

ROBERTO FONTOLAN:
Grazie, propongo a Bibi Gul di venire in Italia più spesso e di aprire una scuola di formazione anche per le nostre giovani generazioni, perché questo invito a prendere in mano il proprio destino e a uscire da sé, essere protagonisti di se stessi, è proprio quello che tutti i giovani del mondo e tutte le generazioni hanno bisogno di ascoltare. Una esperienza come la sua, in questo, è veramente straordinaria, che questo invito possa venire da un Paese come il suo, da una storia come la sua.

DOMANDA:
Innanzitutto, grazie. Dopo tanti anni di conflitto, quando le ferite sono così profonde, da dove rinasce la speranza di un Paese ma soprattutto del cuore degli uomini?

RULA GHANI:
La speranza è qualcosa che deve riaccendersi. Non si può vivere senza speranza. Come dicevo nel mio discorso, il popolo dell’Afghanistan ha una grandissima resilienza ed è estremamente determinato. Non smetterà mai di tentare e tentare ancora. Molte persone mi hanno detto che non riuscirò a raggiungere nulla, ma io ho sempre cominciato passo dopo passo. E invece mi sono accorta che, dopo poco tempo, le persone mi chiedevano di fare di più. Quindi, ho cominciato dal piccolo e sono cresciuta: oggi, grazie anche alla mia squadra di collaboratori, riesco a fare delle cose e a innescare dei cambiamenti. Quindi vorrei che il mio esempio fungesse da ispirazione per riaccendere la speranza.

DOMANDA:
Ho sentito che lei si è sempre occupata di migranti e sfollati. L’Europa oggi sta vivendo una situazione probabilmente mai vista prima: le volevo chiedere perché secondo lei l’Europa è impreparata. Dall’alto della sua esperienza, cosa può fare l’Europa e dove stiamo sbagliando nella questione sfollati e migranti? Grazie.

RULA GHANI:
Grazie per questa domanda, che mi dà l’opportunità di citare quello di cui ha parlato anche Emilia ieri, il problema dei rifugiati che stanno arrivando in Europa. A mio parere, si tratta di una delle emergenze più gravi e importanti che l’Europa stia affrontando. Purtroppo, l’Europa è diventata cosi civilizzata e i vostri sistemi sono diventati molto rigidi che non consentono l’assorbimento di così tanti rifugiati. Molti Paesi europei hanno l’istituto del diritto d’asilo, e molti di questi rifugiati sono dei richiedenti asilo, ma le cifre sono diventate così alte che i Governi stanno cominciando a dire basta. Personalmente credo che stiano dimenticando che parliamo di esseri umani. Queste persone sono persone come voi, come me, sono persone che hanno anime, hanno speranze e hanno vissuto situazioni difficilissime. Hanno riposto le loro speranze in Europa sperando di potersi costruire lì una vita migliore. Non voglio sembrare presuntuosa, al punto da proporre soluzioni, ma credo che quello che sarebbe opportuno fare sia che voi, come popolo dell’Europa, cominciaste a dibattere di questo tema, a parlare degli aspetti umani di questo tema, cercando di individuare modi e soluzioni per far sì che queste persone vengano trattate in modo umano, perché non si sentano disperate al punto da perdere la speranza. Grazie.

DOMANDA:
Buongiorno, Lei ha parlato molto del suo lavoro per le donne, per il loro inserimento nella società e nel mondo del lavoro. Negli ultimi anni ho letto tanti libri, ho visto documentari, ecc. Mi piacerebbe sapere dalla sua viva voce la situazione dell’istruzione delle bambine, delle ragazze, perché l’immagine che viene fuori da queste cose che leggo è che sia data poca importanza, che siano tenute da parte. Invece lei forse ci può dire qualcosa di diverso.

RULA GHANI:
Lei ha perfettamente ragione. Il nostro sistema di istruzione, in passato, era uno dei migliori di quella regione del mondo e persone dall’India e dal Pakistan venivano da noi per frequentare le università. Ma oggi il nostro sistema è in pezzi. Quindi dobbiamo fare tantissimo per ricostruirlo. Quello che io personalmente ritengo sia necessario fare, come ho detto anche nel mio discorso, è tantissimo. Io stessa ho lanciato un programma nelle scuole, si chiama “La settimana dell’Afghanistan. Il mio Afghanistan” e sicuramente abbiamo bisogno di tanto aiuto. Quarant’anni fa c’erano 40 milioni di abitanti, oggi siamo 32. Oggi il numero dei bambini che inizia il livello primario di scuola è di 1,3 milioni. Sicuramente abbiamo tanti problemi da risolvere per quanto riguarda l’istruzione e cercheremo di fare qualcosa. Pregate per noi, perché riusciamo a trovare una soluzione.

ROBERTO FONTOLAN:
Abbiamo ancora tempo per un paio di domande.

DOMANDA:
Ci ha parlato del suo Afghanistan come di un Paese da ricostruire, un Paese da rilanciare. Allora, che contributo di riflessione il vostro Paese può portare a tutti dal punto di vista dello sviluppo sostenibile? Ci può fare altri esempi, come quelli che ha fatto, di come scegliere modelli di sviluppo che rispettino integralmente la persona, l’ambiente, la famiglia, il desiderio di felicità che caratterizza ciascuna persona? Grazie.

RULA GHANI:
Mi fa pensare al 2002. Ricordo che quell’anno venne un’esperta dagli USA per tenere una conferenza sul riciclo dei materiali. Ricordo che ero molto curiosa di sentire cosa quest’esperto avesse da dirci, poiché in Afghanistan tutto viene riciclato. Questa esperta tenne un intervento, nessuno fece delle domande, e lei se ne andò, ripartì. Spero che almeno abbia trascorso un buon soggiorno nel nostro Paese. Lei ha assolutamente ragione, forse ci sono cose che si possono imparare dall’Afghanistan. Quando si riceve un regalo, solitamente si apre con grande cautela la carta, per poterla poi riutilizzare quando magari bisogna fare un dono a qualcun altro e impacchettarlo. Non si butta via niente, né una bottiglia vuota, né un barattolo vuoto, si riutilizza tutto, si trova sempre un modo per riutilizzare le cose. Il problema oggi è posto dai sacchetti di plastica: la consulente che vi ho presentato prima, la mia collaboratrice, ha lanciato una campagna per utilizzare le borsine in tela invece di quelle di plastica. Ma anche noi abbiamo ancora tanto da fare.

ROBERTO FONTOLAN:
Ancora qualche minuto, un paio di domande, poi ci avviamo alla conclusione.

DOMANDA:
Eccellenza, lei ha citato l’incontro di apertura del Meeting dal titolo “Le religioni sono parte della soluzione, non il problema”. La domanda è questa: come il confronto, il dialogo fra le religioni, può contribuire allo sviluppo dell’Afghanistan e, per certi versi come può contribuire allo sviluppo e al miglioramento dell’Europa? Cosa pensa insomma di questa affermazione? Grazie.

RULA GHANI:
Bene. Vorrei che chi ha partecipato all’incontro che ho menzionato si concentrasse su quello che l’Imam Gaci ha detto. Ha parlato di un dialogo e di come un dialogo sia possibile soltanto se innanzitutto si ha rispetto verso l’altro. Inoltre, ieri, l’Imam Gaci ha parlato di come la tolleranza in realtà sia qualcosa che sminuisce l’altro. Quando si tollera qualcuno, in realtà si desidera sotto sotto che quella persona non ci sia proprio, e quindi la si tollera. Invece di tollerare l’altro, bisogna cercare di conoscerlo, da pari a pari. Quando si conosce l’altro su un piede di uguaglianza, e c’è fiducia, allora si può cercare di cominciare a capire quali sono i principi in cui crede l’altro. E’ solo quando si riconoscono i principi dell’altro che può avvenire il dialogo interreligioso. Ma come si può realizzare tutto questo? Bisogna semplicemente viverlo. Spero che la mia risposta sia soddisfacente.

ROBERTO FONTOLAN:
Avanti velocemente, prego, perché dopo Bibi Gul ha anche un impegno con i giornalisti.

DOMANDA:
Buongiorno, volevo farle due domande. La prima: qual è la sua posizione nei confronti del male? La seconda: nel gennaio 2015 il Presidente egiziano Al Sisi, in un discorso all’università Al-Azhar, ha coraggiosamente chiesto una rivoluzione religiosa nell’Islam. I credenti ed in particolare le donne musulmane possono favorire questo?

RULA GHANI:
Non voglio essere pretenziosa, faziosa, ma io non sono una teologa, non sono una filosofa, non sono una pensatrice, e quindi purtroppo temo di non essere in grado di darle una risposta su questa domanda sul male. Ma quello che posso dire è che, in base alla mia esperienza, ogni persona racchiude in sé del buono, e io cerco quel buono in ogni individuo. Per quanto riguarda la seconda domanda, non sono sicura di averla colta appieno. Lei forse fa riferimento a quello che sta avvenendo in Egitto, e probabilmente al ruolo dei giovani lì e al ruolo svolto dalla religione nello sviluppo di quel Paese. Si tratta di una situazione molto complicata. C’è stato un Presidente che ha governato per molto tempo, e credo ci siano buoni motivi per cui i mandati presidenziali devono avere una durata limitata, perché si rischia che dopo un po’ di tempo queste persone non siano più interessate al bene comune ma soltanto ad accumulare vantaggi per sé. Quel Presidente fu deposto da una rivoluzione popolare a cui parteciparono molti giovani. Voi stessi l’avete vista attraverso gli schermi televisivi, così come ho fatto anch’io. Quei giovani hanno dimenticato una cosa: hanno dimenticato che le persone che detenevano il vero potere economico erano i generali dell’esercito, che sono stati molto abili a manovrare e a manipolare in modo da avere elezioni che potevano sembrare democratiche. Non so, non c’ero, ma i Fratelli Musulmani sono riusciti ad avere il verdetto delle urne. Ebbene, questa è la mia interpretazione. Io ho studiato Scienze Politiche, quindi ho un’infarinatura su questi temi. La mia interpretazione della situazione è questa: i generali sono stati abili a manovrare in modo da spingere i Fratelli Musulmani, poi, a compiere un certo numero di errori, cosicché il popolo è stato manipolato fino al punto da insorgere contro il Governo che c’era e nel giro di un anno quel regime è caduto, i Fratelli Musulmani sono stati incarcerati, alcuni di loro sono stati condannati a morte. Quindi, essenzialmente, ora l’esercito può continuare ad avere il controllo sul Paese e lentamente impedire che i diritti umani vengano realizzati. Non so se la sua domanda racchiudeva un aspetto spirituale. Bene, su questo posso dire che probabilmente i giovani sono molto delusi e sicuramente si possono trarre delle lezioni da questo esempio. I giovani facevano molto affidamento su Internet, sui sistemi di messaggistica istantanea, su Facebook e strumenti simili: in un certo senso hanno fatto affidamento sul mondo virtuale, ma la politica avviene nel mondo reale e quindi devono organizzarsi, devono eleggere dei leader, devono elaborare liste di richieste, lo sapete molto bene qui in Italia. E là non è stato fatto. Quindi, tutti gli sforzi profusi sono stati vanificati. Quello che vorrei dire a questi giovani, se per qualche motivo il mio messaggio potesse giungere loro, è: cercate di imparare dai vostri errori. Se davvero siete ancora animati dalla voglia di fare una rivoluzione, allora organizzatevi meglio e lavorate sodo.

ROBERTO FONTOLAN:
Velocissima, l’ultima domanda, proprio perché è un ragazzo molto giovane.

DOMANDA:
Mrs Ghani, io avrei una domanda sul piano personale. Mentre ricopriva il suo ruolo di First Lady della Repubblica Islamica dell’Afghanistan, le è mai capitato di avere dei momenti di cedimento, stanchezza o sfinimento? E se la risposta è sì, cosa l’ha fatta andare avanti?

RULA GHANI:
Spesso alle donne succede di sentirsi così sovrastate dagli eventi, dalle cose. Ma abbiamo i nostri modi per superare quei momenti, penso che tutte le donne in sala lo sappiano. Siamo molto pazienti. Grazie tante.

ROBERTO FONTOLAN:
Allora, mi perdonerà Bibi Gul se anch’io ho un piccolissimo quesito. Da dove trae questa dolce ma possente forza spirituale?

RULA GHANI:
Credo di trarla dalla mia educazione, dalla mia famiglia. Ho vissuto abbastanza per essere parte di una generazione che non si aspettava nulla, non si aspettava che gli altri facessero le cose per noi. Sapevamo che la vita sarebbe stata una serie di situazioni da risolvere e quindi ci siamo preparati a farlo, rimboccandoci le maniche. E credetemi, è molto interessante e davvero dà grande stimolo alla vita.

ROBERTO FONTOLAN:
Bene, grazie. Dicevo all’inizio che quel giorno di settembre la vita di Bibi Gul è cambiata ma oggi abbiamo capito che certamente è cambiato qualcosa nella storia dell’Afghanistan, grazie anche a Bibi Gul. Come augurio, facciamo tutto il bene per il suo Paese. Penso di interpretare i sentimenti di tutti nel dirle che desideriamo essere con voi, per voi, ancora a lungo. Grazie.

RULA GHANI:
Mille grazie.

Data

21 Agosto 2015

Ora

13:00

Edizione

2015

Luogo

Sala eni B1
Categoria
Incontri