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ESPERIENZE ALLA PROVA. INCONTRO CON…
Esperienze alla prova. Incontro con...
21/08/2011 ore 15.00Partecipano: Raffaele Pugliese, Direttore del Dipartimento Chirurgico Polispecialistico all'Ospedale Niguarda Ca' Granda; Stefano Scaringella, Responsabile Hospital St. Damien, Madagascar. Introduce Davide Perillo, Direttore di Tracce.
Partecipano: Raffaele Pugliese, Direttore del Dipartimento Chirurgico Polispecialistico all’Ospedale Niguarda Ca’ Granda; Stefano Scaringella, Responsabile Hospital St. Damien, Madagascar. Introduce Davide Perillo, Direttore di Tracce.
DAVIDE PERILLO:
Buon pomeriggio a tutti e benvenuti a questo Meeting. Ci vuole un po’ di coraggio, bisogna ammetterlo, di questi tempi, a parlare di certezza, a dire che l’esistenza può essere, è un’immensa certezza. Tutta la realtà intorno sembra fatta apposta per dire il contrario, per lasciarci nella confusione, tutti, o quasi tutti, dicono che è impossibile arrivare alla certezza. Ma noi diciamo il contrario, e se lanciamo questa sfida lo facciamo fondamentalmente per due motivi: il primo ce lo ha ricordato il Santo Padre nel saluto al Meeting, lo avete sentito questa mattina, è molto semplice, la certezza è un bisogno essenziale dell’uomo, senza certezza non possiamo vivere, l’uomo non può vivere senza una certezza sul proprio destino, come ricordava il Papa nel messaggio, non può costruire, non può generare senza un terreno solido su cui poggiare i piedi, non può costruire nulla, nella vita è essenziale essere certi di qualcosa, è essenziale per vivere. Non è un optional, è qualcosa di indispensabile. Ma il secondo motivo è che nella storia è accaduto un fatto che ad alcuni ha reso possibile che da questa esperienza iniziasse qualcosa. Un fatto che ha reso certi, rende certi delle esperienze che vivono alcune persone, e le rende capaci di costruire, di generare. Ecco, per questo le testimonianze, quelle che con il Meeting abbiamo sempre chiamato testimonianze, il fascino di incontri che, come vedete, vanno sotto il titolo di “Esperienze alla prova”. Quest’anno è ancora più brutale, ha questo valore di far vedere, di mostrare, di incontrare persone nella cui vita è capitato qualcosa che ha permesso loro di diventare certi, di iniziare un itinerario che porta a costruire, a generare.
Ora noi, conoscendo loro, incontrando loro, siamo aiutati a guardare a quel fatto che rende certi loro. Attenzione, non ad appoggiare la nostra certezza sulla loro ma a guardare lo stesso fatto, perché possa diventare ancora di più nostro, perché possiamo conoscere di più. Allora, le testimonianza di quest’anno avranno questo impianto, questo valore. I primi due amici, che abbiamo invitato a raccontarci di come la loro vita, la loro esistenza, si stia generando grazie alla certezza che vivono, sono quelli che vedete qui sul palco accanto a me. Hanno molte cose in comune, sono entrambi medici ma non è l’unica cosa. Entrambi, nel percorso che stanno facendo, sono all’origine di due opere molto interessanti. Tutto il resto lo diranno loro, raccontandosi e presentandosi. Quello alla mia sinistra e alla vostra destra è padre Stefano Scaringella, salutiamolo. Frate cappuccino, medico chirurgo, le due cose vanno insieme, e missionario in Africa da lungo tempo, in particolare in Madagascar dal 1983. Arrivato lì, ha trovato in questa zona un antico lebbrosario che ormai non funzionava più come doveva e un po’ alla volta, forte dell’esperienza che stava vivendo, l’ha cambiato, l’ha modificato, l’ha fatto diventare quello che ci racconterà e ci farà vedere. Il collega di padre Stefano è invece il professor Raffaele Pugliese, che vedete qui alla mia destra, chirurgo, come si dice, di chiara fama, lavora all’ospedale Niguarda di Milano, qualcosa come diecimila interventi di alta chirurgia nel suo profilo curricolare. Attualmente dirige la struttura di Chirurgia Generale e Oncologia mini-invasiva del Niguarda di Milano. La cosa che ci racconterà di più è come a un certo punto, incontrando un bisogno, abbia iniziato a lavorare su alcune tecniche particolari e abbia sperimentato il desiderio che altri potessero imparare quello che stava imparando lui. Ci racconterà di come è nata questa Accademia, Aims Academy, un centro di formazione che, grazie a lui e ai suoi amici, è nato e sta educando i suoi colleghi a fare il mestiere che possono fare. Allora, li abbiamo presentati e adesso do a loro la parola cominciando da padre Stefano, a cui chiediamo fondamentalmente una cosa: come la sua vita, la sua esistenza dentro la certezza che ha incontrato, abbia generato e costruito. Prego.
STEFANO SCARINGELLA:
Buongiorno a tutti. Mi chiamo padre Stefano Scaringella, sono nato nel ’48 e adesso, parlando qui, non so dire come ma ho avuto la sensazione di essere condotto per mano dalla divina Provvidenza. Nella mia vita ho avuto sempre la sensazione di essere portato per mano dalla Divina Provvidenza. Tutta la mia vita è stata improntata a questo incontro con I fratelli lontani, sia geograficamente sia culturalmente e soprattutto di religioni diverse. Da quello che racconterò, sarà evidente anche per voi questa presenza della Provvidenza.
Un’infanzia normale, in una famiglia modesta, nella cittadina di Ostia Lido, anni 1960.
Molto vicini alla Parrocchia “Regina Pacis” e in particolare con l’assistente agli Scout don Mario Picchi. La domenica, dopo la SS Messa, si andava a vedere la proiezione di un film per ragazzi nella sala parrocchiale “Il cinema Cucciolo”.
Una domenica, al posto del solito film western, ci viene presentato da un anziano cappuccino spagnolo un film sulle missioni in Africa. Vecchie immagini, quasi nello stile cinema muto, dove si vedevano delle religiose alle prese con I malati dei villaggi.
Vuoi la figura di questo cappuccino, mutilato della guerra di Spagna (gli mancavano un braccio e una gamba), vuoi le immagini piene di pathos per quelle orribili piaghe, al mio ritorno a casa dico ai miei genitori: «Vado in seminario per diventare cappuccino e andare in missione come medico».
Nel 1961 entro in seminario e negli anni 1963-64 vado al noviziato presso il convento di Fiuggi città. Nel mese di aprile del 1973 vengo ordinato sacerdote. A quel punto debbo affrontare il problema degli studi in medicina e chirurgia per dare completezza alla mia vocazione.
Come tutti sanno, non è nella mentalità dei religiosi essere allo stesso tempo medico chirurgo. Anche in questa circostanza, la Divina Provvidenza si è fatta carico di risolvere il problema. Con una successione di eventi (concorso, iscrizione, ecc.), sono potuto entrare all’università Cattolica di Roma, Policlinico Gemelli. Ho ricevuto l’avviso favorevole dei Superiori che ha stupito tutti i miei confratelli (e forse i Superiori stessi). Nei tempi regolamentari, nel 1980, ho conseguito il diploma di medicina e chirurgia. Dopo un soggiorno di quasi tre anni in Zaire (regione a nord dell’Equatore), sono maturati i tempi per il Madagascar. Non è stata una scelta a caso, e forse neppure una scelta: era lì che la provincia monastica di Roma aveva le sue missioni.
Nel 1983, il mese di settembre arrivo in Madagascar. Come medico sono destinato al lebbrosario della città di Ambanja (dove abito tutt’oggi). Non sto lì a descrivervi lo stato di abbandono di questo villaggio di lebbrosi. La foresta aveva ripreso (è il caso di dirlo) I suoi diritti e mi ci è voluto qualche giorno per poterlo localizzare. I malati che lo abitavano sopravvivevano, come zombi, di una magra agricoltura. Come presidio medico erano affidati, in pratica, alle cure di uno di loro a cui avevano insegnato i rudimenti delle medicazioni. C’è voluto un grosso lavoro per ridare al villaggio un aspetto di normalità. Nello stesso tempo, avevo organizzato in città (se così vogliano chiamare il grosso villaggio di Ambanja) un consultorio per I malati ordinari. La sanità a quel tempo era in un totale abbandono.
Questa mia attività sanitaria fu subito apprezzata dagli abitanti stessi per il fatto che non vi erano distinzioni di ceto, razza, religione. L’impegno nel curare i malati era reale, e ho voluto dare a tutti l’impressione di essere trattati come persone umane degne di rispetto. Mi ha detto, un giorno, un responsabile della moschea: “Da quando lei è qui, ci trattano meglio anche all’ospedale di Stato” (per inciso, sono stato l’unico sacerdote cattolico invitato, in quanto tale, alla moschea in occasione della venuta di alti dignitari religiosi dell’Arabia Saudita).
Con il passare del tempo, fu chiaro che mancava del tutto una assistenza chirurgica. Personalmente ho visto morire un bambino di 12 anni per peritonite e una giovane donna per emorragia post-partum.
Da questi fatti e ben altri ancora è nata l’idea di creare il centro saint Damien, oggi considerato anche dallo Stato “centro di referenza della regione”. I lavori per la costruzione sono iniziati a fine 1986 e l’attività chirurgica è iniziata nel 1988. In tutti questi anni, sono stati eseguiti più di 50.000 interventi chirurgici. Non si è trattato solo di attività medica. Tutta la mia azione e la mia presenza sono state impostate sulla testimonianza umana e cristiana.
Vi racconto alcuni casi: otto anni fa, Soansia, di 14 anni, viene portata da un villaggio della regione (Anaboranifaso) per un cesareo. Essendo il parto cominciato due giorni prima, l’utero si presentava in cattivo stato. Dopo il cesareo (il bambino è sopravvissuto per miracolo), la piccola Soansia è vittima di una setticemia. E’ dovuta restare per otto mesi in ospedale. La famiglia non l’ha più ripresa ed è vissuta da allora con noi. Incaricata di piccoli lavori, col tempo si è completamente rimessa e da qualche mese ha avuto una bambina.
Una signora vittima di una cataratta giovanile bilaterale ha potuto vedere per la prima volta i suoi tre bambini dopo l’intervento chirurgico. Ad un bambino di 10 anni, caduto a testa in giù da un albero di mango, abbiamo ricostruito la calotta cranica. E’ sopravvissuto con piccole sequele neurologiche che non disturbano significativamente la sua vita di tutti i giorni.
Nel 2005, abbiamo riaperto, con l’aiuto importante della CEI, la scuola di infermieri. Vi studiano 150 alunni distribuiti su 3 anni di corso. Al termine, conseguono il diploma di Stato. Questo permette di migliorare il livello sanitario dei singoli villaggi dove vengono sostituiti quegli operatori sanitari che tali non sono.
Dal 1990 abbiamo due fuoristrada equipaggiati, il primo, con :ecografo portatile, laboratorio analisi, medicine, latte in polvere: si occupa di seguire lo stato sanitario delle donne in gravidanza (nel 2010 ne sono state visitate e assistite circa 3000) e dei bambini (nel 2010 ne sono stati visitati 14.000 circa). Si fa istruzione sanitaria per evitare aborti, gravidanze precoci, e per seguire il modo di reagire di un bambino di fronte ad una malattia, debbo dire con buon risultato. Il secondo fuoristrada è equipaggiato con un riunito dentario: va negli stessi villaggi e nelle scuole, cura i denti ai bambini e fa istruzione sull’igiene della bocca. I villaggi visitati sono 12, i principali della zona, con frequenza mensile.
Al mio arrivo in Madagascar, pensavo che l’impegno di assistere I malati fosse la vocazione e il destino che mi attendeva. Il Signore dispose in altro modo. Dopo pochi mesi dal mio arrivo, sulla veranda del lebbrosario, viene abbandonata una bambina di tre anni, Zafenie, in uno stato di malnutrizione grave. Grazie ai controlli, abbiamo scoperto che soffriva di una tubercolosi polmonare. Dopo mesi di cure la bambina guarisce. Vado dal Presidente del Tribunale di Ambanja e gli domando di trovare una casa di accoglienza per Zafenie. Mi risponde che queste strutture non esistono, “a meno che non ne faccia una tu stesso”. Fu l’inizio della casa famiglia riconosciuta dallo Stato e dall’Unicef. Attualmente ospita 27 bambine e 3 maschietti, da 0 a 14 anni.
Anche il progetto agricolo e di riforestazione è nato per caso. In un villaggio (Andrafiabe), nel mezzo di un pianoro desolato, dove la tournée di stomatologia va avanti da anni, il consiglio degli anziani del villaggio, per ringraziarmi, mi regala dieci ettari di terra. In un primo tempo la mia reazione è stata di dire: “cosa me ne faccio di questo terreno?”. Pensavo di non accettare. Ma loro dicono che la gente sarebbe rimasta male. Accetto e vado a vederlo. E’ un posto bellissimo, sopra un pianoro da dove si vede un panorama unico. Il problema è che, purtroppo, a forza di bruciare, il terreno è divenuto completamente sterile.
Penso che ci si potrebbero piantare degli eucaliptus. Crescono senza troppi problemi dappertutto. Il consiglio del villaggio mi domanda se possono farlo anche loro. Da qui, il progetto di riforestare, curare l’agricoltura (per migliorare il rendimento del riso), diversificare le colture (mais, manioca, legumi), mettere allevamenti di animali da cortile, creare delle piccole strutture per utilizzare, con le dighe, l’acqua per irrigare e allevare i pesci. L’intenzione, in poche parole, era mettere queste persone in condizione di badare a se stesse per non continuare a vivere di stenti e di carità. Il progetto comporta una scuola elementare dove si insegna ai giovani anche a curare le piante per il rimboschimento. Su consiglio di qualche tecnico, oltre agli eucaliptus si piantano specie endemiche. I semi ce li dà l’Istituto di Agricoltura del Ministero. Abbiamo lavorato per un anno per vedere se funzionava: il risultato sono 350 ettari piantati a bosco e 35 ettari a riso. Il progetto vero e proprio inizia quest’anno e prevede una durata di tre anni.
Nell’arco di 25 anni, la mia esperienza personale è stata di solitudine, forse a causa della mia attività, forse perché vivevo in luoghi molto lontani dai centri. Con gli anni, mi sono abituato ad una riflessione personale, un attaccamento all’opera di assistenza ai malati, senza un confronto con altre persone e senza pormi troppo il problema del perché facevo questo. Lo facevo e basta.
Questo isolamento è finito un giorno di dicembre del 2009, in un bar di Piazza del Popolo a Roma. Era una giornata piovosa e fredda. Un mio amico, Salvatore, mi dice: “Ci vediamo domani pomeriggio? A Milano ho parlato di te e della tua opera ad una persona che conosco e penso che sia interessato a quello che fai”. Mi presento all’incontro con i documenti di bilancio, di spesa, il rapporto sulle attività, la descrizione del luogo, dell’ospedale, ecc. Insomma, le solite cose. Questa persona è Franco Cavallo e appartiene al movimento di Comunione e Liberazione. Non guarda neppure i documenti e mi dice subito: “Tutto questo non mi interessa, l’unica cosa a cui sono interessato è la tua amicizia”. In un primo momento, ho avuto la sensazione di non aver capito bene. Nessuno mai si era interessato alla mia amicizia, a me come persona, indipendentemente da quello che facevo. Tutti mi chiedono i bilanci, i rapporti d’attività, quanti malati ho operato, ecc.
Di fronte alla mia espressione sorpresa, Franco ha ripetuto il concetto un paio di volte: da quel momento siamo divenuti amici. Mi ha introdotto nel movimento, dove ho conosciuto tante persone che vivono l’ideale (se la mia interpretazione è buona, vuol dire: vivere la vita cristiana nel proprio posto di lavoro, nel proprio ambito sociale, famiglia, quartiere, città, insomma nel proprio mondo). Ho partecipato agli esercizi spirituali, a incontri di inizio anno, alla Scuola di Comunità. Ho incontrato i vari responsabili: don Carrón, Carras, Vittadini, tanti amici a Milano, don Mauro Inzoli, Lucchini, Dragonetti, Guenda, Sogaro, Del Bianco, Siboni, ecc.
Questi amici fondano una Onlus “Hafaliana – La Gioia” (hafaliana nella lingua del Madagascar vuol appunto dire la gioia), per sostenere l’opera dell’ospedale. Fino al dicembre 2009, avevo sentito parlare del movimento, tra amici universitari, ma solo in modo superficiale. La lettura degli scritti di don Giussani, l’aver partecipato agli esercizi spirituali, all’apertura dell’anno, mi hanno dato la sensazione di non essere più solo e di poter contare su tanti amici.
In questo contesto ho incontrato una signora di Milano, Laura, che vive da molti anni nell’isola di Mauritius con la sua famiglia. E’ del movimento da sempre. Domando come mai non ci siano altri del Movimento a Mauritius. Mi risponde di aver fatto qualche tentativo ma senza seguito. Conosco bene il Vescovo dell’isola, Mons. Maurice Piat. Ho la fortuna di essere invitato da lui a pranzo ed ho l’occasione di parlare del movimento e di mostrargli degli stampati che ho avuto via Internet. La settimana dopo, lui vuole incontrare Laura e la incoraggia a far conoscere il movimento a Mauritius. Mi risulta che ora si faccia anche lì Scuola di Comunità.
In Madagascar, e particolarmente ad Ambanja, la facciamo regolarmente, vi partecipano in media una ventina di persone, per il momento, solo personale dell’ospedale. Anche se la Scuola di Comunità è iniziata da poco tempo, da marzo, si spera in settembre di poter coinvolgere un gruppo di giovani della città. Ci teniamo in contatto con Franco Cavallo e Stefano Siboni, e condividiamo con loro la nostra esperienza comunitaria.
Aver conosciuto il movimento è stata una svolta molto importante della mia vita. E’ la mia bella avventura del momento. Mi sono reso conto che l’aspetto della comunità, dove ognuno, con la propria esperienza di vita e la propria famiglia, può esprimere meglio il carisma cristiano, è la forza che ci aiuta ad essere utili al prossimo.
DAVIDE PERILLO:
Non siamo progetto, siamo qualcosa che partecipa a un progetto e questo permette di generare. Provate a pensare a cosa sono quattordicimila bambini assistiti, quattordicimila carne, sangue, volti, storie, tremila donne, pensate cosa vuol dire, eppure non è opera nostra. E su quest’altro fronte, invece, che cosa ha voluto dire per Raffaele, che ha fatto lo stesso lavoro ma in condizioni differenti, che l’esistenza è una certezza, poggia su una certezza che permette di generare, di costruire, di lavorare e di fare quello che c’è da portare avanti. Prego.
RAFFAELE PUGLIESE:
Buon pomeriggio a tutti. Grazie per questa occasione che il Meeting mi dà perché ha voluto dire riflettere e guardare in faccia di nuovo la mia esperienza. Mi sono accorto che tutti noi praticamente compiamo un’opera vivendo tutto. Non si può dire nemmeno che sia un compimento, accade dentro un’opera che c’è, direi da sempre; ma in modo cosciente da quando ho incontrato il movimento di CL. Per me è accaduto così: quando sono venuto a Milano, avevo deciso che il fatto cristiano non mi interessava. L’avevo conosciuto come un insieme di regole che ti permettono di guadagnare eventualmente, nel futuro, il paradiso. Mi ero detto che questo non mi poteva interessare. Poi mi è accaduto di incontrare il cristianesimo come l’espressione di una umanità impensabile e questo ha generato in me un fascino incredibile.
La storia di quest’opera ha la sua genesi nell’incontro con don Giussani e l’esperienza di conversione che da esso è nata per la mia vita. Lì ho imparato che Gesù Cristo c’entra con tutto (“sia che mangiate sia che beviate….”) e in modo particolare con i fattori principali dell’espressione dell’io nella storia: affettività e lavoro. In modo particolare mi preme ricordare un’esperienza per me particolarmente pedagogica come la realizzazione della Fondazione Moscati di Milano.
E’ stato grazie ad un richiamo rivolto da don Giussani ai sanitari del movimento, perché la loro presenza non fosse inincidente nella società, che alcuni di loro, tra cui io stesso, si sentissero scossi profondamente da tale provocazione e desiderassero interrogarsi su questo punto.
Così, seguendo le circostanze che man mano si presentavano, anche se discostanti dai nostri iniziali progetti, ho partecipato alla realizzazione di un’opera in ambito assistenziale-sanitario: la Fondazione san Giuseppe Moscati, ricovero per anziani e poliambulatorio, per la cui costituzione si erano riuniti professionisti sanitari, amministrativi, gestionali ecc. i quali, insieme, lavoravano per approfondire sia le motivazioni da cui nasceva l’opera, sia per cercare finanziamenti che ne permettessero la vita, sia per stringere rapporti con le istituzioni e infine per seguire chi credeva possibile che si realizzasse ciò che apparentemente sembrava impossibile.
Qui ho visto accadere una realtà che è andata aldilà delle iniziali aspettative e che mi è apparsa frutto evidente della fede. Avrò modo di ritrovare questa stessa esperienza nella realizzazione dell’opera di cui sto per parlarvi.
Sono chirurgo ormai da quarant’anni e da quasi venti dirigo un reparto di chirurgia generale.
Posso dire di aver sempre svolto il mio lavoro con diligenza, serietà e passione, seguendo le tecniche tradizionali, aperto alle innovazioni, disponibile a mettermi in gioco, a confrontarmi e a lavorare con gli altri, a offrire il massimo della competenza per creare una scuola e garantire ai collaboratori più giovani una educazione pari alla grandezza delle domande che vengono poste.
Alla fine degli anni Ottanta e inizio dei Novanta, una sorta di rivoluzione tecnologica ha cominciato ad imporsi con forza: la chirurgia mininvasiva. Tale tecnica consente di effettuare interventi chirurgici senza ricorrere alle classiche incisioni, utilizzando appositi strumenti altamente tecnologici. L’obiettivo era ed è offrire ai pazienti un vantaggio dato da un minor trauma, una più rapida ripresa, minori dolori post-operatori e migliori risultati estetici (addirittura si punta alla chirurgia senza cicatrici).
Io, fin dai primi anni Novanta, ho accettato la sfida che i primi pionieri avevano posto, ma non senza interrogarmi sulla reale utilità di queste tecniche innovative e valutandone i rischi per i pazienti.
Infatti, gli indiscutibili vantaggi realizzati si accompagnavano ad un aumento della complessità nell’esecuzione delle procedure, per la necessità di acquisizione di nuove capacità tecniche.
La diapositiva presenta alcuni dati delle esperienze iniziali evidenziandone i punti critici: tempo operatorio, tasso di conversione, tasso di complicanze, risultati a distanza. Sono proprio le criticità che hanno rallentato la diffusione della metodica, come dimostrato dalla diapositiva.
Alcuni anni fa, negli USA, la diffusione era di poco più del 6%, attualmente in Italia la procedura viene applicata nel nord Italia in poco più del 20% dei pazienti e nel reparto da me diretto in oltre il 75%.
Questo evidente limite nell’utilizzo introduce la questione che riguarda l’apprendimento dell’uso delle nuove tecnologie. Il paradigma del Ventesimo Secolo, “guarda e ruba il mestiere”, non corrisponde più alla complessità che la domanda pone e alla necessità di risposta alle situazioni. Tanto più se vogliamo offrire il massimo della sicurezza. In tal senso, dobbiamo affermare che sperimentare sul paziente non è accettabile. Questo mi ha suscitato il desiderio che venissero realizzate idonee piattaforme per training: strutture appositamente disegnate per essere dedicate all’insegnamento pratico delle tecniche mininvasive.
Il primo centro realizzato di questo tipo, con una piattaforma complessa e completa, dove si associano formazione e ricerca, è l’IRCAD, ideato e realizzato dal prof. Marescaux a Strasburgo.
Successivamente è stato realizzato a Guildford ( Londra) dal prof. Bailey, il MATTU, altro centro di formazione, il secondo in tutta Europa dopo l’IRCAD. All’inizio dello sviluppo della mia attività professionale, relativa a queste nuove tecnologie, avevo avuto modo di frequentare l’IRCAD: in un primo momento per vedere l’applicazione del robot e successivamente per presentare la mia esperienza nell’ambito delle patologie del colon e dello stomaco. Esperienza che già rendevo pubblica all’interno di corsi da me organizzati all’ospedale Niguarda di Milano. Già dopo la prima visita all’IRCAD, sono stato talmente affascinato da questo centro, per la completezza ed organicità del modello, e tale era la corrispondenza con la domanda che stavo coltivando, che, ritornato in Italia, ho fin da subito cercato di verificare la possibilità di realizzare qualcosa di simile in Lombardia, nell’ospedale Niguarda.
Provvidenziale a questo scopo è stato l’incontro con il dottor Forgione, che da cinque anni lavorava a Strasburgo e che ho invitato a venire a lavorare con me in ospedale e a collaborare alla fondazione del centro, conscio dell’importanza che avrebbe avuto l’esperienza da lui maturata a Strasburgo.
La scelta si è dimostrata nel tempo quanto di più appropriato allo scopo. La mia idea, all’inizio, interessava molti, ma appassionava pochi. Intanto, il rapporto umano con il prof. Bailey e con il prof. Marescaux si era consolidato. Questo è stato un importante sostegno allo sviluppo e all’affermazione del progetto del centro da realizzare in Italia, che man mano prendeva forma. E’ stato un lungo percorso. Bisognava convincere dell’utilità del progetto per un bene comune, essendo la sicurezza dei pazienti un bene comune.
L’occasione dell’inaugurazione del MATTU, a cui eravamo invitati sia il prof. Marescaux che io, mi ha offerto l’opportunità di invitare ad accompagnarmi il dottor Cannatelli, direttore dell’ospedale Niguarda, il quale è stato molto favorevolmente colpito dalla realizzazione di questo centro che gli ha mostrato l’immagine del progetto che da tempo andavo proponendo. Successivamente, essendo stato invitato a tenere una presentazione all’IRCAD, ho organizzato con il prof. Marescaux una visita del dottor Cannatelli al suo centro e un lungo colloquio comune. Il risultato è stato una spinta decisiva sulla forma da dare al nostro centro e sulla totale adesione dell’istituzione ospedaliera. L’entusiasmo del dottor Cannatelli fu tale che si fece promotore di una nuova visita all’IRCAD, questa volta insieme all’assessore alla sanità della Regione Lombardia dottor Bresciani e all’assessore alle tecnologie.
Ricordo bene come già in aeroporto abbiamo trovato l’accordo sul contributo pubblico alla realizzazione del centro. La strada restava ancora lunga, anche perché l’accordo con le istituzioni, secondo la concezione tipica della sussidiarietà, prevedeva che al contributo pubblico per la costruzione dell’edificio corrispondesse una quota maggioritaria di derivazione privata per il completamento tecnologico.
A tale scopo è stata costituita una fondazione no profit, di cui sono presidente, idonea a convogliare finanziamenti privati e alla successiva gestione del centro. Molti sono gli amici che hanno sostenuto con le loro diverse competenze la realizzazione della fondazione nei suoi vari aspetti, così come era già accaduto in passato per la Fondazione Moscati. Da me, poi, sono stati coinvolti una serie di istituti e aziende nel finanziamento dell’opera. Ovviamente ognuno trovava in questo corrispondenza con il proprio “core business”. Mentre il consorzio delle risorse si precisava sempre di più, anche il progetto veniva realizzato e approvato in tutti i particolari.
La costruzione iniziava nel febbraio 2009, ma noi eravamo coscienti che il contenitore non era sufficiente per un progetto che aveva uno scopo e un compito. Bisognava fin da allora pensare al contenuto e sviluppare il modello formativo. Nello stesso anno, abbiamo quindi realizzato cinque corsi propedeutici e alcuni viaggi all’estero per formare tutori, veterinari, tecnici, personale infermieristico che sarebbero stati coinvolti nel progetto. Abbiamo anche investito risorse per l’apprendimento della lingua inglese in previsione dell’apertura dei corsi in tutta Europa e dato particolare attenzione allo sviluppo di rapporti internazionali, avendo deciso che la faculty doveva essere formata di volta in volta dai maggiori esperti mondiali. In questo periodo, abbiamo organizzato il Comitato scientifico, diretto dal dottor Forgione, a cui prendo parte come presidente e di cui fanno parte in modo continuativo i più stretti collaboratori attuali della mia divisione e gli ex allievi che ora dirigono unità chirurgiche in altri ospedali.
Finalmente, nel marzo 2010, il centro di formazione è stato inaugurato. L’AIMS Academy è una palazzina di 2500mq che si sviluppa su quattro livelli e comprende laboratori per la ricerca, la sperimentazione e la formazione per le nuove tecniche chirurgiche. Nel primo anno sono stati espletati sette corsi frequentati da circa 500 chirurghi, per la fine del 2011 saranno espletati 10 corsi e per il 2012 sono previsti circa 20 corsi.
Al piano terra, oltre alla hall di accoglienza e alla spazio catering, c’è una sala conferenze di 80 posti con sala regia e sala traduzione simultanea. Al primo piano è sita un’aula didattica, un laboratorio multimediale per l’archiviazione e l’editing del materiale chirurgico, un locale per simulazioni e un’aula con sette postazioni di endolaparoscopia. Al piano seminterrato, ci sono sette postazioni operatorie complete, con apparecchiature anestesiologiche e tecnologie per la chirurgia minivasiva all’avanguardia. Qui è possibile eseguire interventi chirurgici sugli animali in anestesia, usando tutte le più moderne tecniche, sia a scopo sperimentale che formativo.
Abbiamo voluto che la ricerca avesse uno spazio significativo, perché siamo consapevoli che non c’è attività clinica e formativa che possa prescindere dalle domande che emergono dal quotidiano svolgimento delle attività e che esprimono il desiderio di un maggior apporto di sicurezza e utilità allo scopo. Poiché sappiamo che non c’è risposta a una domanda che non si pone, abbiamo voluto costruire un contesto dove le domande potessero incontrare un’interlocuzione. Abbiamo così costruito spazi dove è possibile la collaborazione con altre professionalità: informatiche, ingegneristiche, ecc. Le ricerche su cui stiamo attualmente lavorando riguardano l’applicazione della realtà virtuale alla chirurgia e la micro robotica.
Nel percorso di realizzazione di quest’opera, che è nata in me dall’accorgermi di un bisogno e dalla passione nel rispondervi, sono accaduti alcuni incontri che mi hanno aiutato a mettere a tema, in modo sempre più chiaro, le ragioni più profonde per intraprendere questa fatica, ragioni che mettono in gioco più chiaramente la concezione dell’io in azione e quindi lo sguardo sulla realtà e il desiderio di verità.
Primo di questi avvenimenti è stato l’incontro con la madre superiora delle suore trappiste del Cile che, in occasione di un congresso, sono andato a trovare. Raccontando dei miei progetti, sono stato invitato in modo sorprendente a comunicare la mia esperienza a tutto il capitolo. Questo mi ha stupito, e la loro attenzione, le loro domande, nonché l’impegno a pregare per questa opera mi hanno sollecitato a ricomprendere più profondamente le motivazioni di ciò che andavo progettando. La stessa cosa si è verificata nella casa madre delle suore di Vitorchiano e nel monastero benedettino della Cascinazza. I monaci sono stati quindi i primi a intuire la portata culturale di quest’opera che da allora è diventata per me oggetto di costante riflessione.
Infatti, quando affermiamo il concetto di bene e di bene comune e cerchiamo la sicurezza nell’utilizzare la tecnologia, vogliamo affermare che ogni tecnologia è strumento per uno scopo e quindi la definizione della domanda sullo scopo deve essere costantemente ripresa e riposta, perché facilmente nell’azione dell’uomo lo strumento può assurgere a scopo in se stesso.
Questo è vero anche per la ricerca. Chi pone la domanda? E per quale scopo? Se lo scopo è il bene dell’uomo, l’uomo va conosciuto nella sua verità e totalità. Chi è l’uomo perché te ne curi? Chi è l’uomo perché io lo curi? Qualsiasi ricerca, per essere utile, deve paragonarsi con la verità costitutiva dell’essere umano più che con la fattibilità del risultato. In un tempo in cui il sacro tende ad essere eliminato, bisogna con decisione affermare la sacralità dell’uomo, segno e coscienza attraverso cui il Divino guarda la realtà e il cui segno compiuto si è rivelata nell’umanità di Cristo. Questa posizione umana, che fa parte dell’esperienza cristiana, mi è diventata più sperimentalmente evidente in questo percorso. Posso dire che quest’opera, più che averla realizzata, l’ho vista accadere e ne ho compreso il valore mentre accadeva, assecondandone la realizzazione, che ha di gran lunga superato le intenzioni.
Ultimamente stiamo lavorando sul sito perché vogliamo che lì appaia la concezione che ci guida nei percorsi di formazione e di ricerca. Formare vuol dire accettare di essere continuamente formati, sia dal punto di vista delle tecniche sia dal punto di vista della autocoscienza. Grazie.
DAVIDE PERILLO:
Se abbiamo seguito il percorso che hanno raccontato i nostri due ospiti, il dato impressionante che emerge è che il primo seme della certezza è il nostro desiderio, è il cuore, è il desiderio di costruire, il desiderio che la vita sia utile, desiderio di bene, di verità, di giustizia che è all’origine di quello che ci hanno raccontato. Il primo seme della certezza è questo. E quando il desiderio incontra ciò che risponde, incontra l’avvenimento cristiano, come è capitato per vie imprevedibili – ma capita sempre per vie imprevedibili – a Padre Stefano, andando al cinema, la vocazione l’ha scoperta andando al cinema, Cristo è entrato nella sua vita così, oppure sui banchi di scuola, quando il cuore incontra ciò che risponde alla promessa di bene che è, allora inizia il percorso della certezza. Inizia questa traiettoria che permette di costruire, di generare, di fare un passo dopo l’altro. Il secondo passo è più sicuro e certo di quello precedente, e quello dopo ancora di più: e si cade e si zoppica e si sbaglia, ci si rialza e si va avanti. Perché la promessa inizia a compiersi. Dentro a un incontro, la promessa inizia a compiersi, non dentro un incontro qualsiasi, ma un incontro che ci ricorda continuamente, come ci richiamava il Papa questa mattina, che siamo fatti, creati e amati. Un incontro come quello di cui diceva il prof. Pugliese, come le suore che imprevedibilmente riuniscono il capitolo e iniziano a sostenere fattivamente l’opera. Capite? Per ricordare a lui che è amato, non solo che l’idea era buona. O come l’incontro fatto in quel bar a Piazza del Popolo. Un incontro, una compagnia che ti richiama continuamente al fatto che sei voluto e amato. Ti richiama continuamente alla positività della tua vita, e allora il desiderio riparte, si riaccende e i passi diventano certi e costruiscono quello che abbiamo sentito, che è impressionante ma non solo per i numeri, per le dimensioni, non solo perché dietro a questi numeri ci sono volti, persone, ma anche per un’altra cosa.
Perché, se siamo leali con quello che abbiamo sentito, incontri qualcosa per cui sul lavoro non puoi più essere cinico, non ci sono più due realtà parallele. Accade che la realtà diventi una, come ci raccontavano loro, cioè che tutto vada al suo posto, che uno strumento non sia più uno scopo, cioè che le cose siano dove devono essere: è quello che desideriamo tutti, nella vita. Non so quanti siano i medici in sala, non so quanti siano i chirurghi, credo non siano la maggioranza, ma questo desiderio, questa necessità l’abbiamo tutti. Che la vita sia una, che le cose siano al loro posto, che si possa generare e costruire quello che hanno raccontato, quello che sta accadendo, quello che, seguendo questa compagnia, accade. Soprattutto accade la cosa che mi colpiva di più, nel loro racconto: tutti e due hanno raccontato di una vocazione che si compie. Il problema non è più l’opera, non é più quello che stai facendo, non é più la carriera: il problema è che la tua umanità si compia. Usavano la parola vocazione tutti e due, ma non a sproposito. Allora possiamo iniziare a costruire con la certezza – come ci veniva detto adesso – che le mani sono tue ma l’opera è di un Altro. Questa è la cosa più grande che possa accadere nella vita. Allora, l’augurio che ci facciamo per questi giorni, per questa settimana, è di imparare un po’ di più questo, è di scoprire un po’ di più questo, di diventare un po’ più certi di questo, di ciò che un Altro sta compiendo attraverso il nostro sì, attraverso il fatto che prendiamo sul serio la nostra umanità, il nostro cuore, il nostro desiderio. Il Papa ci ha invitato a rendere ragione della speranza che è in noi. Questo Meeting vuole fare questo, allora, buona settimana e buona scoperta a tutti, che alla fine ci ritroviamo più certi di quando siamo entrati in questi padiglioni della fiera. Grazie.
(Trascrizione non rivista dai relatori)