ESPERIENZA ELEMENTARE E DIRITTO NATURALE

Partecipano: Robert George, McCormick Professor of Jurisprudence and Director of the James Madison Program in American Ideals and Institutions at Princeton University; Mary Ann Glendon, Learned Hand Professor of Law at Harvard Law School. Introduce Marta Cartabia, Docente di Diritto Costituzionale all’Università degli Studi di Milano Bicocca.

Il testo dell’incontro è pubblicato nel libro “La conoscenza è sempre un avvenimento”, edizioni Mondadori Università.

 

MARTA CARTABIA:
Oggi abbiamo l’aiuto di due grandissimi, grandissimi davvero, giuristi americani la cui fama è di respiro mondiale e con loro vogliamo accostarci al mondo del diritto da una prospettiva che è inusuale per il mondo italiano. Avremmo dovuto avere qui con noi anche Paolo Carozza che all’ultimo momento e con grande dispiacere ha dovuto rinunciare ad essere presente, perché impegnato in un compito davvero di importanza eccezionale. In qualità di presidente della Commissione Interamericana per i Diritti Umani è in visita in Honduras, dove tutti sanno è in corso un colpo di stato, per supervisionare la situazione dei diritti umani. Il suo compito è quindi assolutamente eccezionale e d’importanza civile per tutto il mondo, quindi a lui dedichiamo un applauso in absentia. Dicevo, vorremmo accostarci al mondo del diritto da una prospettiva non comune, potremmo esprimerla così: il diritto attiene all’uomo, attiene alla struttura più profonda della persona umana. Questa affermazione potrebbe forse apparire banale, semplice, scontata, ma se fosse pronunciata in una qualunque delle facoltà giuridiche italiane getterebbe sconcerto. Perché la cultura giuridica dominante è abituata e ci ha abituati a pensare al diritto come a un fatto che attiene anzitutto al potere, non all’uomo; al potere politico o al potere dei giudici, ma l’uomo in qualche modo è in secondo piano. E, ce ne rendiamo conto o no, siamo un po’ tutti figli della modernità e identifichiamo la legge con ciò che viene stabilito e deciso dal parlamento e dai giudici. Se ci pensiamo un attimo, tutti ci troviamo addosso questo modo di pensare: in fondo crediamo che la legge non sia altro che un comando, un atto di volontà a cui adeguarsi, giusto o meno che sia. Potremmo dirlo con un’espressione latina ribaltata: Iustum quia iussum. Uno dei più grandi, autorevoli giuristi italiani, grande amico del Meeting, il Professor Paolo Grossi, giudice della Corte Costituzionale, nei suoi studi storici ci ha spesso mostrato che questa visione del diritto è frutto di una precisa svolta culturale, figlia dell’Illuminismo e che tuttora permane nel nostro mondo sotto le spoglie del positivismo giuridico, che predica l’autosufficienza del diritto positivo, la purezza del diritto, cioè una capacità del diritto di rimanere incontaminato dalle cose umane, incontaminato dalla vita sociale. Il clima culturale contemporaneo è davvero condizionato da questa mentalità e questo ci costringe, ci condanna in fondo, a una grande superficialità: si studiano o si subiscono una serie di regole della vita sociale senza mai lasciar sorgere la domanda sul loro significato, sul loro senso profondo, sulla loro origine. In questo clima, per questa ragione, dire che il diritto ha a che fare con la persona umana può apparire e apparirà sicuramente come un’affermazione eccentrica. Luigi Giussani ci richiama a non trascurare il legame profondo tra il fatto giuridico e la struttura antropologica della persona umana attraverso una delle categorie chiave del suo insegnamento, quella di ‘esperienza elementare’. Queste parole, questa categoria, è a molti nota in questa sala, ma permettetemi, a beneficio della discussione, di riprendere alcune flessioni che sono rilevanti per il discorso che andremo a fare oggi dal titolo: esperienza elementare e diritto naturale. Tra quelle esigenze profonde del cuore dell’uomo, con le quali ogni persona è proiettata nell’universale paragone, Giussani ha costantemente annoverato l’esigenza di giustizia, accanto a quelle della verità, della bellezza e dell’amore. Dire ‘esperienza elementare’ è dire di un contenuto e allo stesso tempo di un metodo, su questo ci soffermeremo un pochino più avanti, su questo secondo aspetto. Tre brevi accenni alla possibile importanza del contenuto dell’esperienza elementare. Anzitutto ricondurre la giustizia a una delle strutture fondamentali di ogni uomo dice che la giustizia è un’impronta interiore che accomuna ogni persona umana che sia nata da madre eschimese, giapponese o della Terra del Fuoco, come dice Giussani nel Senso Religioso. Dunque ‘esperienza elementare’ mette in gioco anzitutto un volto universale dell’esperienza umana e quindi anche dei suoi risvolti giuridici, un baluardo sotto gli assalti del relativismo tuttora dominante nella cultura occidentale. Ma, e questo è il secondo aspetto, in Giussani l’esigenza della giustizia non rimanda a una universalità di valori astratti, ma piuttosto – uso le sue parole – a “una legge scritta nel cuore di ogni uomo”. Cioè è al fondo di ogni individuo, di ogni singolo soggetto, che Giussani ravvisa una legge oggettiva, un oggettivo dentro il soggetto. In un’epoca come la nostra di individualismo esasperato, che spinge verso il soggettivismo, Giussani non contrappone una verità oggettiva esterna, limitatrice, nemica del soggetto, ma valorizza al massimo il soggetto, scoprendo al fondo delle sue esigenze ultime una legge oggettiva e scritta nel cuore di ogni uomo; e così lo valorizza più di ogni altra forma di individualismo. La terza flessione di questo concetto capitale di ‘esperienza elementare’, che vorrei notare, è che questa legge oggettiva e scritta nel cuore di ogni uomo non è anzitutto un valore morale o un precetto morale. L’esigenza di giustizia ha la natura anzitutto di un principio critico – queste sono parole di Giussani – un principio critico che permette al soggetto di valutare e giudicare ogni fatto umano. E’ un principio conoscitivo che gli permette di andare al fondo del dato che la realtà gli offre. Potremmo insomma dire che l’esigenza di giustizia inscritta nel cuore dell’uomo sia il più potente fattore critico del diritto positivo, che permetta a ciascuna di persona di bucare la superficie delle cose, nel nostro caso il puro dato giuridico, per poterla vagliare criticamente e dare origine a una possibile dinamica di sviluppo. Dice Giussani: senza la prospettiva di un oltre la giustizia è impossibile, ogni sistema giuridico positivamente determinato ha bisogno di un’apertura su un oltre, uno sbocco su un orizzonte a cui tendere, senza il quale ogni dinamica di sviluppo umano è bloccata. Questo oltre si radica nel cuore di ogni persona umana. Così, mi perdonerete, sommariamente e approssimativamente tratteggiata, l’esigenza di giustizia racchiusa nell’esperienza elementare presenta affinità e anche alcune significative peculiarità rispetto alla lunga tradizione del diritto naturale che ha radici antichissime e è stata teorizzata in modo tuttora insuperabile da San Tommaso. Anche il diritto naturale è stato un potentissimo richiamo a un oltre rispetto al diritto positivo che offre l’ordinamento dato. Oggi qui con noi c’ il professor Robert George dell’università di Princeton, che è uno dei più famosi studiosi del diritto naturale di fama non solo americana ma mondiale. Il professor George ha avuto e ha tantissime cariche: oltre a essere un gradissimo studioso e un grande professore appunto dell’Università di Princeton, è fondatore e direttore del James Madison Program sugli ideali e le istituzioni americane, è stato membro del Consiglio presidenziale degli Stati Uniti sulla bioetica e ha tantissime altre cariche che adesso non potrei elencare, esaurendo tutti i suoi importanti impegni accademici e civili. Tra i suoi scritti più importanti: Making Man Moral” e In Defence of Natural Law, un importantissimo scritto, punto di riferimento per tutti gli studiosi che vogliono accostarsi a questa grande tradizione del diritto naturale. A lui chiediamo, in questo contesto, di introdurci sui passaggi capitali nel linguaggio fondamentale di questo universo che così preziosamente ci è stato tramandato ininterrottamente dalla classicità.
Grazie, Professor George.

ROBERT GEORGE:
Grazie Marta per le tue gentili parole. E’ un piacere grandissimo per me essere qui con voi al Meeting di Rimini. E’ veramente un piacere per me essere qui e sono lieto della presenza della professoressa Glendon che è una cara amica di Harvard. Le cose corrette che sarò in grado di dire le ho apprese proprio da lei. Le cose sbagliate invece sono colpa mia. Vi chiedo scusa perché parlo in inglese. Non ho nessuna scusa per questo. I genitori di mia mamma, quindi i nonni, sono calabresi, pertanto dovrei poter parlare il dialetto calabrese, ma non è così, anche perché poi l’italiano è una lingua splendida. Tuttavia l’interprete mi ha chiesto di parlare lentamente in modo da potermi seguire. La nostra conoscenza del diritto naturale, come ogni forma di conoscenza, inizia con l’esperienza. Si potrebbe addirittura parlare di ‘esperienza elementare’, ma non si conclude né termina con essa. Il conoscere è un’attività, un’attività intellettuale, ma pur sempre un’attività. Noi tutti viviamo l’esperienza del conoscere, ma conoscere non significa sperimentare. Conoscere è un’attività complessa e dinamica. Il ruolo dell’esperienza nell’attività del conoscere consiste nel fornire dei dati sui quali l’intelletto indaga allo scopo di comprendere. Le intuizioni sono intuizioni relative ai dati. Esse, come ha brillantemente dimostrato Bernard Lonergan, invitando i lettori a osservare e riflettere sulle proprie operazioni intellettuali ordinarie, esse sono il frutto di un processo dinamico e integrato dell’esperienza del comprendere e del valutare. Quindi mi chiedo cosa sono i dati forniti dall’esperienza che sono la base della valutazione pratica, ossia le intuizioni che costituiscono la conoscenza del diritto naturale? Essi sono l’oggetto di una scelta intelligibile tra possibilità, possibilità nella misura in cui esse forniscono motivi d’azione di un certo tipo, ossia non sono ragioni solo, puramente strumentali. Ecco, esse, noi le cogliamo come opportunità. Nella nostra esperienza dell’amicizia, ad esempio, le cogliamo tramite ciò che viene di solito definito un esercizio senza sforzo – che Aristotele definisce la ragion pratica -, esse sono il fine che ci fa capire l’importanza di avere ed essere amici. Intendiamo che l’amicizia è auspicabile non solo per motivi strumentali, in quanto un’amicizia puramente strumentale non sarebbe affatto un’amicizia. Ma soprattutto la comprendiamo in quanto fine a se stessa. Questo è il motivo per cui diamo grande valore all’amicizia. E poiché comprendiamo il fine intelligibile di avere ed essere un amico, e comprendiamo che il fine fondamentale dell’amicizia è l’amicizia stessa – e indubbiamente non è un obiettivo estrinseco all’amicizia – in cui appunto l’attività dell’amicizia è solo un mezzo, allora giudichiamo in modo ragionevole che l’amicizia sia intrinsecamente preziosa: qualcosa che vale la pena di essere vissuta di per se stessa. Sappiamo che l’amicizia è un elemento costitutivo ed irriducibile del benessere e della realizzazione dell’uomo e, precisamente in quanto tale, l’amicizia fornisce una motivazione per l’agire che non richiede per la propria intelligibilità, un’ulteriore o più profonda motivazione o fattore motivante subrazionale di cui possa essere strumento. Lo stesso vale se spostiamo la nostra attenzione alla nostra esperienza relativa all’attività del conoscere stesso. Nella nostra esperienza della meraviglia, la curiosità, o il sollevare domande, elaborare strategie per ottenere le risposte corrette in ogni campo di indagine o nel mettere in pratica tali strategie, scegliendo linee di indagine, sviluppando e maturando intuizioni, in tal modo, tramite ciò che per la maggior parte delle persone è un esercizio privo di sforzo – un esercizio di ragion pratica – cogliamo il motivo della ricerca della verità e del trovarla. Sappiamo che la conoscenza, per quanto essa possa avere un enorme valore strumentale, è intrinsecamente preziosa. Essere attenti, informati, profondi, lucidi, critici, giudiziosi nel nostro pensiero e giudizio, significa essere intrinsecamente arricchiti in una dimensione importantissima della vita umana. Noi giudichiamo ragionevolmente l’attività della conoscenza, quindi la riteniamo un bene umano intrinseco o di base, un aspetto costitutivo e irriducibile del nostro star bene come esseri umani. Come l’amicizia e tutta un’altra serie di attività, la conoscenza non richiede per essere intesa come tale alcuna ulteriore o più profonda motivazione o alcuna fonte di motivazione subrazionale di cui possa essere strumento. La conoscenza del diritto naturale, pertanto, non è innata; essa non si svincola dall’esperienza o dai dati forniti dall’esperienza. Anche quando essa è facilmente raggiunta, la conoscenza pratica, ossia la conoscenza del diritto naturale, è una conquista, è un avvenimento, un avvenimento temporale; è qualcosa che accade, o forse sarebbe meglio dire, è qualcosa che si compie in un momento del tempo grazie all’agire umano. E’ il frutto delle intuizioni che, come tutte le intuizioni, sono intuizioni relative ai dati, dati che sono forniti dall’esperienza. L’intuizione, la percezione, la conoscenza, secondo cui l’amicizia o la conoscenza stessa sono appaganti intrinsecamente per l’essere umano è radicata nella nostra esperienza elementare dell’attività dell’amicizia e del conoscere. A prescindere da queste esperienze, non ci sarebbero dati sui quali la ragion pratica potrebbe operare per comprendere i fini intelligibili e quindi il valore dell’amicizia o della conoscenza e la valutazione che queste attività sono intrinsecamente appaganti per la persona umana e, in quanto tali, sono oggetti dei principi della ragion pratica e precetti di base del diritto naturale. Naturalmente non tutta la conoscenza pratica è conoscenza morale, per quanto tutta la conoscenza morale sia conoscenza pratica o include centralmente la conoscenza dei principi per guidare e orientare l’azione. Tuttavia, la conoscenza dei principi fondamentali pratici che orientano l’azione verso il bene umano di base o l’allontana dalle sue privazioni, anche se non strettamente conoscenza delle norme morali è la base per la produzione e l’individuazione di tali norme. Questo perché le norme morali sono i principi che guidano le nostre azioni in linea con i principi pratici e primari nella loro concezione integrale. Le norme della morale sono implicazioni della natura direttiva o prescrittiva intrinseca nei vari aspetti del benessere e della realizzazione dell’uomo, che insieme costituiscono la realizzazione piena dell’uomo. Quindi, se il primo principio della ragion pratica, come appunto dice San Tommaso d’Aquino, è, quanto segue, il bene – bonum – deve essere effettuato e perseguito e il male – malum – dev’essere evitato, allora il primo principio della morale dice che uno deve scegliere in modo compatibile con la volontà di operare verso la piena realizzazione dell’uomo. E, proprio come è definito il primo principio della ragion pratica, come chiaramente indicato da Tommaso d’Aquino, individuando i diversi aspetti irriducibili del benessere e della realizzazione dell’uomo – ossia amicizia, conoscenza, apprezzamento estetico, capacità, religione e quant’altro – allo stesso modo è definito il primo principio della morale, individuando le norme di comportamento che sono implicite nell’amore sincero del bene umano, ossia il bene degli esseri umani considerato nel suo insieme. La teoria del diritto naturale, pertanto, è una riflessione critica, una spiegazione sugli aspetti più fondamentali del benessere e della realizzazione umana – e quindi i beni umani di base – e delle norme di comportamento implicite nella loro natura direttiva intrinseca – le norme morali. Le varie proposte relative agli aspetti fondamentali del benessere umano sono di natura direttiva, pertanto prescrittiva nel nostro pensiero, sul fare o il non fare, in altre parole la ragion pratica, ossia sono o garantiscono delle ragioni ben più che strumentali per l’azione o per converso la moderazione. Quando tali principi fondativi della riflessione pratica sono insieme considerati – ossia in modo integrale – essi implicano delle norme che possono escludere talune opzioni e ne possono richiedere altre, in situazioni in cui la scelta è moralmente significativa. Le norme morali garantiscono dei motivi dirimenti alla scelta e all’azione in circostanze in cui si ha una ragione intelligibile a fare x o anche un motivo intelligibile o sovrarazionale a fare altro -y, magari, perché si ha motivo o ragione di compiere y, ove il fare y è incompatibile (per lo meno qui e ora) rispetto al fare x. Per quanto ogni operazione di scelta implichi una emozione, i principi pratici di base garantiscono la motivazione che non è solamente emotiva. I beni umani di base sono possibili oggetti di volizione ove la volontà è intesa come appetito razionale, ossia un appetito per l’intelligibilità e i dati presentati all’intelletto della persona che decide in merito a una questione allo scopo di scegliere e agire. Questa è la persona agente, come la chiamò Papa Giovanni Paolo II, in quanto soggetto che opera una scelta, come agente. Una persona che agisce, ha ragione di agire quando coglie la possibilità di trasformare in realtà uno stato di cose che non esiste, ma che si suppone possa essere portato alla realtà grazie alla scelta del singolo e dove la scelta del singolo ha uno scopo in virtù della intelligibilità del bene umano di base che la persona che decide ha in mente. Secondo Aristotele o seguendo Aristotele, San Tommaso d’Aquino distingue e rispetta con rigore tale distinzione tra ragionamento pratico e speculativo o teoretico. Il ragionamento pratico consiste nel ragionare su ciò che si deve o si dovrebbe fare. I suoi principi guidano le scelte e la condotta attuata nell’eseguire tali scelte. Il ragionamento teoretico è il ragionamento su ciò che accade nel mondo naturale per esempio, incluse le scelte dell’uomo, le azioni, la realtà sovrannaturale – se esiste -, la società e la storia umana e via dicendo. Le teorie sul diritto naturale sono fondamentalmente teorie relative al ragionamento pratico, anche se, come ragionamento pratico stesso, tali teorie necessariamente includono talune premesse che sono il frutto del ragionamento teorico e non pratico. Per evitare incomprensioni è importante sapere che nel distinguere fra queste due tipologie di ragionamento – pratico e teoretico – i teorici de diritto naturale non presuppongono che l’essere umano disponga di due menti o intelletti distinti. Piuttosto, ciascuno di noi possiede un intelletto unico, complesso ma pur unico, che può essere rivolto a comprendere diverse tipologie di oggetti. Da un lato l’indagine può essere rivolta alla scoperta di fatti naturali: Dio o le divinità, la società, la storia o altri argomenti. D’altro lato, l’indagine può essere rivolta alla comprensione del fine, per esempio perseguire la conoscenza intellettuale coma qualcosa che ha un valore intrinseco. Oppure formare e mantenere un’amicizia o cercare una lettura critica di un’opera letteraria, artistica o musicale. Qualsiasi teoria plausibile del diritto naturale vede il bene umano come qualcosa di molteplice e variegato. Vi sono molti aspetti di base del benessere e della realizzazione dell’uomo. Le persone possono stare bene, prosperare o stare male in molte dimensioni della propria vita; poiché tali dimensioni, quella corporea, razionale, emotiva, spirituale non possono essere ricondotte a un tutt’uno o a un fattore comune, i teorici del diritto naturale parlano di beni umani al plurale. I beni, dando forma alle opzioni per operare scelte moralmente significative, sono per certi versi incommensurabili. Le scelte implicano dei costi, se non altro il costo di opportunità, come pure benefici. Le norme morali che guidano le scelte, riconducendole a un certo tipo di commensurabilità al momento concreto della decisione, non possono essere utilitariste o consequenzialiste se presuppongono la possibilità di individuare una scelta moralmente corretta, che includa tutto il bene possibile in altre opzioni più alte. Secondo la teoria del diritto naturale questa possibilità non esiste. Quindi il lavoro di alcuni di noi teorici del diritto naturale si è orientato a una severa critica dell’utilitarismo e di altre forme di consequenzialismo nell’etica. In un passaggio importante nella sua dissertazione sul diritto naturale, S. Tommaso d’Aquino si chiede se i primi principi della ragion pratica, che sono secondo alcuni i precetti di base del diritto naturale, sono molteplici o se ve ne sia uno solo. Egli conclude che essi sono molteplici, in particolare perché il bene umano è variegato e molteplice. Di solito molti beni umani di base, aspetti irriducibili del benessere, della realizzazione dell’uomo, sono il referente di un principio pratico che S. Tommaso d’Acquino definisce come principio primo interamente generico e per certi versi formale; ancora una volta questo principio del bene – bonum – deve essere fatto e perseguito e il male – malum – deve essere evitato. Egli indica chiaramente che il suo concetto di malum è privativo; l’ignoranza e gli altri mali sono privazioni dei beni umani. Il male, il cattivo devono essere evitati, cioè ignoranza, malattia, animosità e così via sono privazioni del bene che dovrebbe essere fatto e perseguito. Tuttavia né questo primo principio formale, né i primi principi sostanziali della ragion pratica sono, strettamente parlando, principi morali; essi orientano la scelta dell’azione verso ciò che è auspicabile in modo intelligibile e ci distolgono ciò che non lo è; tuttavia nel far questo essi non dirimono il problema morale. Naturalmente è la pluralità e diversità di questi principi e le possibilità della loro realizzazione che generano problemi morali e richiedono di individuare principi specificamente morali sotto forma di norma per guidare la libera scelta ove la gente coglie un ventaglio di scelte appetibili, ma a volte incompatibili, per cui la scelta di esse si rende necessaria. Questi principi morali definiscono ciò che serve a far sì che possa reagire alla natura direttiva integrale dei primi principi della ragion pratica, ossia alla natura direttiva che essi assumono quando sono presi insieme. Tale natura direttiva si rivolge alla piena realizzazione dell’uomo, ossia al benessere e alla realizzazione di tutte le persone delle comunità in tutte gli ambiti in cui stanno bene. Naturalmente, fatta una serie di scelte, non sono in grado di conseguire una piena soddisfazione dell’essere umano; tale piena realizzazione è qualcosa di ideale. Non può essere un obiettivo operativo. Potremmo stare qui milioni di anni, ma non sarebbe possibile attuare la piena realizzazione degli esseri umani e delle comunità. La natura aperta del vivere e le opportunità della vita precludono tale possibilità. Tuttavia il principio secondo cui si deve scegliere e agire solo in modi compatibili con un’azione che porti alla realizzazione piena non è un’idea campata in aria, non è una cosa ideale; quando è definita, è in grado di orientare veramente l’azione, per esempio escludendo le scelte che violano la regola aurea dell’onestà o il principio paolino che non si può commettere il male nemmeno a fin di bene. Le norme morali non possono sempre limitare le azioni pienamente ragionevoli a una sola scelta corretta. Spesso, nella maggior parte dei casi, la nostra scelta si colloca tra opzioni che sono quasi sempre tutte compatibili con il primo principio della moralità ossia essere aperti alla realizzazione dell’uomo. La maggior parte delle nostre scelte operano tra diverse scelte morali, non possiamo attuare entrambe, non possiamo farle, dobbiamo sceglierne una ma le altre sono valide da un punto di vista morale. Non tutte le nostre scelte si collocano tra ciò che è moralmente corretto o sbagliato, tra il giusto o lo sbagliato, anche se alcune lo sono e le norme morali guidano, ci distolgono da ciò che è irragionevole, sbagliato moralmente e ci orientano verso ciò che è corretto dal punto di vista morale. Insomma il rapporto tra i primi principi della ragion pratica e le norme morali è questo: i principi morali come la regola aurea o come altre norme morali specifiche, come ad esempio quelle che ci impediscono di uccidere, sono norme di comportamento implicite nella natura direttiva o prescrittiva integrale del bene di base dell’uomo. Per usare questi principi di ragionevolezza nello scegliere, scegliere in linea con essi e non in spregio degli stessi, nonostante motivi sub-razionali che potremmo avere per operare scelte contrarie, la cosa importante è rispettare la loro natura direttiva integrale, rispettare il bene umano, la persona umana. Una scelta compatibile con tale natura direttiva è una scelta del tutto ragionevole e pertanto del tutto corretta dal punto di vista morale. Con questo non voglio dire che le scelte immorali siano solamente qualcosa di irrazionale, non è così; la maggior parte delle scelte immorali è fatta sulla scorta di una propria ragione. In quanto immorali, le cose immorali sono carenti di tutte le cose richieste dalla ragione; in tal senso sono irragionevoli, essendo la ragionevolezza pratica il criterio della moralità secondo il diritto naturale, anche quando non sono semplicemente irrazionali. Consideriamo il caso di un padre benestante la cui amata figlia è affetta da un vizio cardiaco potenzialmente letale; supponiamo che la ragazza potrebbe essere salvata solamente da un trapianto di cuore, ma che non vi siano cuori disponibili. Pertanto, spinto dalla disperazione, dall’amore e dalla preoccupazione per la figlia, il padre compie un atto disperato; trova un cardiochirurgo corrotto disposto a trapiantare un cuore senza chiederne la provenienza. Questo padre si mette poi in contatto con un criminale per garantirsi un cuore che dovrà essere ottenuto da una persona che verrà uccisa. Ora, per quanto malvagia questa azione possa sembrare, non si tratta di un atto irrazionale. Per quanto il padre sia spinto da una forte emozione e non si attiene a quanto richiesto dalla morale, cioè non si attiene ai motivi conclusivi che ha per non partecipare all’omicidio, alla corruzione, fa una cosa cattiva che non si dovrebbe fare, si comporta in modo immorale. Pur tuttavia lo scopo ultimo della sua azione è indubbiamente il bene umano di base, cioè la vita e la salute di sua figlia. Quindi agisce per un motivo, anche se fa qualcosa che non dovrebbe fare; quindi agisce sotto uno dei primi principi della ragion pratica ma in modo tale da non rispettare la natura direttiva integrale di tali principi; la sua azione viola le norme morali che sono implicazioni della loro natura direttiva e indicano che la persona scelga in modo compatibile al bene comune. La razionalità del su atto pecca in un modo che potrebbe essere definito irragionevolezza e l’irragionevolezza in scelte che riguardano il bene umano è qualcosa di immorale, ciò che definiamo immoralità. Quanto segue dovrebbe chiarire i modi in cui le teorie solide del diritto naturale sono simili e diverse dall’approccio utilitaristico consequenzialista alla moralità, o all’approccio kantiano o deontologico dall’altro. Come gli approcci utilitaristici a differenza di quelli kantiani, le teorie del diritto naturale riguardano fondamentalmente il benessere dell’uomo e la sua realizzazione e, naturalmente, considerano il bene umano di base come il punto di partenza della riflessione etica. A differenza dagli approcci utilitaristici tuttavia essi intendono le forme di base del bene umano, come appaiono nelle opzioni di scelte moralmente significative, come elementi incommensurabili, al punto di rendere priva di senso la strategia utilitaristica della scelta dell’opzione che in generale nel lungo termine può portare alla migliore proporzione tra benefici e danni, a prescindere da come li andiamo a definire. I teorici del diritto naturale condividono il rifiuto kantiano con la spiegazione quantitativa della morale, ossia il conseguimento di conseguenze sufficientemente buone o l’evitamento di altre sufficientemente cattive, come scelte che sono giustificate, che sarebbero escluse dall’applicazione dei principi morali in circostanze ordinarie. A differenza dei kantiani, tuttavia, non credono che le norme morali possano essere individuate e giustificate a prescindere dalla considerazione della natura direttiva e integrale dei principi della ragion pratica che guidano la scelta dell’uomo e della sua azione verso ciò che è soddisfacente per l’uomo e lo distraggono da ciò che è contrario ad esso. I teorici del diritto naturale non ritengono le norme morali meramente deontologiche; il ragionamento pratico e il ragionamento sul giusto e sul bene sono collegati. Il contenuto del bene umano dà forma alle norme morali nella misura in cui tali norme sono conseguenze inevitabili degli aspetti del benessere e della realizzazione dell’uomo considerati nel loro insieme. Tale posizione presuppone naturalmente la possibilità della libera scelta, la libera volontà; ossia la scelta che non è puro prodotto di forme esterne o interne ma piuttosto di fattori motivanti sub-razionali come il puro desiderio. Pertanto una teoria completa sul diritto naturale andrebbe a includere un elenco, una spiegazione dei principi della ragion pratica, incluse le norme morali, come principi per l’orientamento razionale della libera scelta, una difesa della libera scelta come possibilità reale. Questo implica il rifiuto di un razionalismo secondo cui tutti i fenomeni sono considerati come aventi una causa; esso intende l’essere umano o alcuni esseri umani almeno qualche volta come soggetti che causano in modo deliberato e intelligente ciò che essi non sono chiamati a causare, in altre parole come qualcuno che esercita qualcosa che va ben al di là di una razionalità meramente pratica. Tale razionalità esiste in un rapporto di mutua conseguenza; se le persone non potessero scegliere liberamente tra le diverse opzioni, questo potrebbe risolvere il problema della scelta; effettivamente un’azione veramente razionalmente motivata non sarebbe possibile; al contrario se le azioni motivate razionalmente non fossero possibili, l’esperienza che noi abbiamo della libera scelta sarebbe illusoria. Un’altra caratteristica della spiegazione da parte del diritto naturale dell’azione umana è la distinzione chiaramente definita tra le diverse modalità di volontarietà; la morale riguarda la rettitudine nel volere; nel giudizio morale solido, nelle scelte corrette di azione, la volontà è orientata in positivo verso il bene umano nella sua integralità; nel scegliere dell’agire non si persegue ovviamente tutto il bene umano, questo non è possibile, ma si persegue per lo meno un bene umano in modo attento se si sceglie di agire in modo moralmente ineccepibile, rispettando gli altri. Tuttavia non è forse ovvio che molte scelte corrette, scelte di buoni fini perseguiti con i buoni strumenti morali hanno conseguenze negative? Per esempio non sappiamo forse con certezza morale che costruendo un sistema autostradale nel quale le persone possono guidare automobili alla velocità, diciamo, di 90 km all’ora, non sappiamo forse che in questo modo apriamo la strada al fatto che migliaia di persone ogni anno moriranno di incidenti stradali? Naturalmente lo sappiamo, ma secondo l’interpretazione del diritto umano dell’azione umana esiste una distinzione reale, e a volte moralmente critica, tra il volere il male o il pregiudizio al bene umano – quindi a una persona, poiché i beni umani non sono astrazioni, sono aspetti del benessere della persona in carne e ossa – e tra intendere e accettare il male come effetto collaterale, quindi non voluto, di una scelta che altrimenti sarebbe moralmente corretta. Si può volere il male in due modi diversi: come un fine in sé stesso o come strumento per raggiungere un altro fine. Si intende danno come un fine quando si vuole per esempio danneggiare o ferire qualcuno per odio, rabbia o per qualche altro forte sentimento negativo; oppure il danno può essere inteso come uno strumento, come per esempio quando si vuole uccidere qualcuno per beneficiare della sua assicurazione sulla vita. La cosa importante da vedere è che intendere la morte come fine o come mezzo è diverso dall’accettare la morte come effetto collaterale, anche se l’effetto collaterale, come nel caso dell’autostrada, è chiaramente prevedibile, come possiamo prevedere per esempio la morte di migliaia di persone in incidenti stradali ogni anno. I teorici del dritto naturale sottolineano il fatto che, tramite le nostre scelte e azioni, possiamo modificare lo stato delle cose nel mondo a noi esterno e, nello stesso tempo a volte, costituiamo noi stessi, nel bene o nel male, come persone con un certo carattere. Riconoscere questa qualità che consente di dare forma, questa qualità intransitiva della scelta moralmente significativa, ci porta a considerare le virtù come abitudini che derivano da una corretta scelta, che orienta o ci predispone a un’ulteriore scelta corretta, in particolare di fronte alla tentazione di agire in modo immorale, come ci ha insegnato Aristotele. Noi diveniamo buoni o cattivi facendo cose buone o cattive. Per cui le persone a volte si chiedono: “Il diritto naturale riguarda le regole o le virtù?” La risposta è: riguarda entrambi. Una teoria completa sul diritto naturale individua le norme per distinguere il bene dal male come pure le abitudini, i tratti del carattere, delle virtù che, se coltivati, ci predispongono a scegliere in conformità con le norme e pertanto in modo compatibile con ciò che potremmo chiamare, mutuando una frase di Kant: “la buona volontà”, ossia qualcosa che è orientato alla piena realizzazione dell’uomo. Grazie.

MARTA CARTABIA:
Verso una piena realizzazione della persona umana, verso uno sviluppo integrale della persona umana, questo è il richiamo più potente che questa introduzione così sintetica e così intensa al mondo del diritto naturale, di cui ringraziamo moltissimo, il professor George ci lascia. Ogni regola, ogni riflessione sull’uomo è per il bene dell’uomo. La legge, il diritto positivo non può che tendere a questa piena e completa realizzazione dell’uomo dove, tante volte, il nemico è nascosto in una parzialità. Tutta la riflessione sull’utilitarismo è una riflessione sulle deviazioni a cui può portare una condotta, una serie di principi che guardano all’uomo in una forma parziale, riduttiva. E’ un po’ il richiamo che percorre e attraversa anche l’enciclica di Benedetto XVI – La carità nella verità -, dove il continuo richiamo allo sviluppo integrale della persona vale come criterio sia per il singolo individuo, sia per la dimensione sociale. Ma il professore George, oltre a questo contenuto decisivo, capitale per ogni riflessione sulla vita comune, la vita sociale, ci ha fatto un richiamo, mi pare, molto significativo anche dal punto di vista metodologico. Diceva, in uno dei suoi passaggi iniziali: “la conoscenza del diritto naturale non è innata, parte dall’esperienza ma implica un’attività, è una conquista di tutta la ragione umana, di tutta la persona nella sua complessità. Ragione e libertà, ragione e volontà”. Questo richiamo mi pare molto prezioso e ci introduce anche al secondo relatore di oggi, perché ci mette in guardia contro il rischio di un facile empirismo. Pensare che esperienza sia solo un contraccolpo della realtà, può far indurre a un uso meccanicistico di questa parola. L’empirismo, come Julián Carrόn non smette di richiamare e non si stanca di ripetere, è una riduzione dell’esperienza. L’esperienza non è una semplice raccolta di dati o di fatti, un meccanico impatto che i dati producono. Il professor Gorge, richiamando il pensiero di Bernard Lonergan, dice e insiste sul fatto che occorre una valutazione, un giudizio, diremmo noi, un percorso di conoscenza. Non basta un passivo subire, l’impressione dei fatti e dei dati per accedere al livello più profondo e vero della conoscenza e, quindi, dell’esperienza elementare. Occorre un’attività, un’energia del soggetto. Questa componente è presente, in modo inequivocabile, nell’aspetto metodologico, cui accennavamo prima, del pensiero di Giussani. Esperienza, dice Giussani, non significa esclusivamente provare, accumulare molti fatti e sensazioni. Si possono vivere tante sensazioni, tanti fatti, tante emozioni, senza fare nessuna esperienza, rimanendo vuoti, perché, dice Giussani, senza una capacità di valutazione l’uomo non può fare alcuna esperienza. Ciò che caratterizza l’esperienza è capire una cosa, cioè scoprirne il senso. Occorre l’incontro tra un oggetto e un soggetto. Un grandissimo giurista italiano che andrebbe riscoperto, Giuseppe Capograssi, esprime così lo stesso concetto: “questa è la legge del soggetto finito che per conoscerla occorre che la verità sia vissuta”. La giustizia, come aspetto della verità, per poterla riconoscere ha bisogno di un soggetto vivo. Alla professoressa Glendon, grande studiosa di tradizioni giuridiche comparate, di diritti umani, professore ad Harvard, già ambasciatrice degli Stati Uniti presso la Santa Sede e presidente dell’Accademia Pontificia per le Scienze Sociali, ma soprattutto grande amica del Meeting, chiediamo come, attraverso quale metodo conoscitivo, si arrivi a questa soglia della giustizia a cui ogni uomo aspira, qual è il percorso conoscitivo possibile che ci può far uscire dalla prigione della superficialità del diritto positivo, fino a quel senso profondo di giustizia a cui ognuno di noi tende.

MARY ANN GLENDON:
Grazie Marta e grazie a tutti per essere venuti. Buongiorno a tutti. Parlerò…

MARTA CARTABIA:
Ringraziamo la professoressa Glendon che, quest’anno, per affetto nei nostri confronti, parlerà in italiano, uno sforzo non indifferente.

MARY ANN GLENDON:
Devo dire con il grande aiuto della mia nipote Chiara. Parlerò questa mattina specificamente della purificazione della ragione. Grande problema per il diritto naturale. L’argomento di questo incontro, come il titolo del Meeting di Rimini di quest’anno, sfida le convinzioni diffuse nei circoli intellettuali contemporanei. Nel mondo accademico odierno, è alquanto insolito sentir parlare qualcuno senza ironia di “conoscenza” o “legge naturale”. Celeberrimi filosofi si sono costruiti delle carriere negando la possibilità di conoscere qualunque cosa con certezza, e il concetto di legge naturale è ampiamente deriso come insignificante. Anche nell’ambito dei diritti umani – argomento centrale per i partecipanti a questo dibattito – i principi fondamenti sono fortemente contestati. La distruzione intenzionale della vita umana nascente, ad esempio, è considerata dalla maggior parte del mondo una grave violazione dei diritti umani, eppure le più grandi organizzazioni per i diritti umani appoggiano con vigore l’aborto come diritto umano. Come è possibile che la stessa esperienza elementare appaia così diversa a così tanta gente?
Il poeta danese e scrittore di fiabe Hans Christian Andersen ha cercato di spiegare il problema dell’errore sistematico nella percezione e nel ragionamento attraverso un mito all’inizio di una delle sue fiabe più famose: La Regina delle Nevi. In questa ci racconta che tanto tempo fa esisteva un demone molto cattivo e intelligente, così intelligente che in realtà era il capo di una scuola per demoni. Questo demone aveva inventato uno specchio che aveva la facoltà di far apparire insignificanti tutte le cose belle e buone; quello che invece era brutto e che appariva orribile, risaltava ancora di più. Era così contento della sua invenzione che lui e i suoi allievi corsero intorno al mondo con lo specchio, e raccontavano in giro che era successo un prodigio: adesso finalmente si poteva vedere come erano veramente il mondo e gli uomini. Poi ebbero l’idea che sarebbe stato più divertente portare lo specchio fino in paradiso per vedere quali guai avrebbe causato lassù. Più volavano in alto con lo specchio, più questo diventava pesante, finché sfuggì loro di mano e precipitò verso la terra, dove si ruppe in centinaia di milioni di pezzettini. E così fece molto più danno di prima, perché alcuni pezzi entravano negli occhi della gente e vi rimanevano, così la gente vedeva tutto storto, oppure vedeva solo il lato peggiore delle cose. Alcune schegge caddero addirittura nel cuore di qualcuno, e il cuore divenne come un pezzo di ghiaccio.
Nel caso del bambino protagonista della fiaba di Andersen, ci volle molto tempo prima che riuscisse a liberarsi dei granelli nell’occhio e nel cuore, e dovette superare molte difficoltà. E così è per ciascuno di noi nella nostra ricerca di una conoscenza fidata. Cosa possiamo fare con tutte le distorsioni e i punti ciechi che ci entrano negli occhi, distorcendo le nostre percezioni, pregiudicando i nostri giudizi e rendendo così difficile parlare con fiducia di cose come la verità o la legge naturale? Come possiamo crescere nella conoscenza, tenendo presente le parole di San Paolo ai Corinzi che la nostra ricerca non sarà mai completamente riuscita, perché "ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa"?
Per quanto riguarda il mio contributo al dibattito di oggi, desidero offrire alcune riflessioni su tale problema alla luce del lavoro del filosofo Bernard Lonergan sulla comprensione dell’essere umano che, a mio parere, si inserisce perfettamente nel fine dichiarato di questo Meeting di "riporre al centro del dibattito la dinamica attraverso cui l’uomo conosce il reale”.

"La conoscenza è sempre un avvenimento"

Giussani descrive la conoscenza come un “avvenimento” – un "incontro tra un’energia umana e una presenza" in cui "l’energia della conoscenza umana è assimilata all’oggetto”. Lonergan, che dedicò gran parte della sua vita allo studio del comprendere umano, situa tali "avvenimenti" entro la struttura dinamica della cognizione umana: i processi ricorrenti e cumulativi dello sperimentare, capire e giudicare. Quelle operazioni mentali ricorrenti sono identiche sia che il conoscitore sia uno scienziato genio o un infante che sta imparando a camminare e a parlare. Tutti noi, nella nostra vita quotidiana, partecipiamo ai dati di senso e di esperienza elementare. Ci interroghiamo, ci poniamo domande, cerchiamo di capire e alla fine diamo giudizi e prendiamo decisioni. E poiché la struttura del sapere umano è la stessa per chiunque nel mondo – Oriente e Occidente, Nord e Sud, nazioni sviluppate e in via di sviluppo – è uno degli elementi cardini del fondamento di qualunque teoria sulla legge naturale.
Orbene, una cosa particolarmente interessante di questi processi ricorrenti è che generano regolarmente momenti "aha", "avvenimenti" che irrompono ed alterano il nostro modo di pensare e di essere. Conosciamo tutti la storia di Archimede che mentre si lavava in una vasca dopo essersi inutilmente scervellato per escogitare un metodo per misurare la proporzione dell’oro in una corona realizzata per il Re. Qui, secondo la leggenda, gli era capitato di accorgersi che le sue membra, immerse nell’acqua, perdevano una consistente porzione del peso reale diventando più leggere; e nudo per come era in quel momento si sarebbe dato a correre per le pubbliche vie gridando ripetutamente quell’"Eureka" che riecheggiò nel corso dei secoli.
Un interessante filo comune in numerosi racconti di prima mano di scoperte innovative in campo scientifico e matematico è l’incapacità manifesta dello scopritore di spiegare la scoperta in questione. Spesso dicono di essere pervenuti alla risposta all’improvviso, piuttosto che come risultato di un processo logico, sistematico di induzione o deduzione. Molte di queste storie sono raccolte nel libro di Arthur Koestler, L’atto della creazione. Un racconto tipico è la descrizione del matematico Karl Friedrich Gauss di come è giunto alla soluzione di un problema matematico che aveva resistito a quattro anni di studi: "Finalmente," scrisse, "ce l’ho fatta, non grazie a uno sforzo faticoso, ma, per così dire, per grazia di dio. Come un lampo di luce improvviso, l’enigma è stato risolto…. Quanto a me, non sono in grado di definire la natura del filo conduttore fra ciò che conoscevo in precedenza e ciò che ha reso possibile il mio successo”. Il racconto di James Watson della scoperta sua e di Francis Crick della struttura a doppia elica del DNA è attribuita a una simile intellezione improvvisa.
Non si potrebbe mai conoscere la reale sequenza delle operazioni mentali di questi sviluppi scientifici dal modo in cui sono presentati nei libri di testo. In tali documenti, la scoperta viene presentata solitamente come il risultato di una serie di fasi logiche, mentre in realtà spesso veniva prima l’intellezione, mentre la dimostrazione che la convalidava era elaborata a posteriori. Talvolta la dimostrazione è giunta molti anni dopo, ed è stata trovata da una persona diversa rispetto a quella che intuitivamente era giunta alla soluzione, come nel caso dell’ultimo teorema di Fermat.
Un altro elemento comune di queste storie è che le intellezioni innovative tendono a prodursi solo dopo uno sforzo intenso e laborioso. In altre parole, non possono essere generate su richiesta, ma le persone possono determinare delle condizioni che ne aumentano la possibilità di realizzarsi. Come disse Louis Pasteur : "La fortuna favorisce la mente preparata”. E come osservò Lonergan : "Anche in presenza di talento, alla conoscenza si perviene lentamente, se non faticosamente. Segnare una svolta… richiede anni di vita più o meno costantemente consacrati allo sforzo di capire, in cui la propria capacità di comprensione gradualmente elabora una spirale di punti di vista..”. (n.d.t. Libera interpretazione del traduttore)
Fortunatamente per quanti di noi che non sono grandi geni, le intellezioni, grandi e piccole, avvengono in ogni momento nella mente di ciascuno, ogni giorno, nel corso delle nostre ordinarie operazioni mentali. Ma come tutti sappiamo, non ogni idea brillante che ci viene in mente sotto la doccia merita di essere proclamata al mondo intero. Alcune idee sono insignificanti. Quindi riflettiamo sulle nostre intellezioni, le selezioniamo, mettiamo in ordine le prove, la esaminiamo a fondo; testiamo la nuova idea rispetto a ciò che conosciamo e a ciò che altri hanno scoperto; ne investighiamo i presupposti e le implicazioni; lasciamo che scaturiscano ulteriori domande; ed infine decidiamo se accettarla o contestarla.
Queste scoperte, assieme alle esperienze e alle operazioni che ne preparano il terreno, e i procedimenti logici che ci consentono di convalidarle e di consolidarle, sono ciò che permette alla conoscenza umana di progredire. Giussani narra dell’esperienza di un grande matematico Francesco Severi, il quale si avvicinò alla fede quando, più approfondiva le sue ricerche, più traguardi perseguiva, più si accorgeva che il particolare orizzonte che raggiungeva ne prevedeva un altro, portandolo a vedere ogni vittoria come temporanea, incitandolo a trovare un’altra "x" oltre le condizioni in cui operava. Severi giunse a credere che tutto ciò che scopriva, mentre procedeva passo dopo passo nella sua ricerca, era una funzione di un infinito – un noto-ignoto, come la x in algebra. Arrivò a capire che l’orizzonte è solamente il limite della nostra vista.
Questo tipo di esperienze sembrano essere molto presenti nei pensieri di Papa Benedetto, che conclude la sua recente enciclica, Caritas in Veritate, con alcune osservazioni importanti sul carattere misterioso della conoscenza. "Tutti gli uomini," afferma, "sperimentano i tanti aspetti immateriali e spirituali della loro vita”. Spiega:

Conoscere non è un atto solo materiale, perché il conosciuto nasconde sempre qualcosa che va al di là del dato empirico. Ogni nostra conoscenza, anche la più semplice, è sempre un piccolo prodigio, perché non si spiega mai completamente con gli strumenti materiali che adoperiamo. In ogni verità c’è più di quanto noi stessi ci saremmo aspettati, nell’amore che riceviamo c’è sempre qualcosa che ci sorprende. Non dovremmo mai cessare di stupirci davanti a questi prodigi. In ogni conoscenza e in ogni atto d’amore l’anima dell’uomo sperimenta un « di più » che assomiglia molto a un dono ricevuto, ad un’altezza a cui ci sentiamo elevati (77).

Vedendo “come in uno specchio, in maniera confusa”: Il problema della distorsione

Come l’apostolo Paolo ricordava ai Corinzi, la nostra conoscenza è imperfetta. Tutti noi siamo soggetti ad punti ciechi e a distorsioni che, come le schegge dello specchio del demone, possono distorcere non solo i nostri processi di pensiero, ma anche le nostre stesse percezioni della realtà. A dire il vero, possiamo superare questi problemi fino ad un certo punto, ma nelle scienze umane—ancor più che nelle scienze naturali—i nostri sforzi di progredire nella comprensione sono cosparsi di difficoltà. Tanto che, come ci dice Aristotele, nel regno degli affari umani ci troviamo a che fare con premesse che sono solo "per la maggior parte vere," e a giungere a conclusioni "che non sono migliori.…"
Le distorsioni cognitive possono derivare da molte fonti. Esiste il tipo di distorsioni che derivano dalla propria psicologia individuale, le distorsioni che assimiliamo dalle nostre famiglie e da altri gruppi a cui apparteniamo, e le distorsioni culturali generali di cui sono permeate le nostre società. Come afferma Lonergan: "Il seme della curiosità intellettuale deve diventare un ruvido tronco per reggere contro i desideri e i timori, i conati e gli appetiti, gli impulsi e gli interessi che albergano nel cuore dell’uomo”.
La lotta per superare questi ostacoli è il lavoro di una vita. Il filosofo Papa Giovanni Paolo II ci ha ammonito che lungo il cammino è necessario prestare attenzione "ad ogni frammento di verità" che la fede e la ragione di ciascuno ha portato ad acquisire "nell’esperienza di vita e nella cultura dei singoli e delle nazioni”. Dobbiamo affermare tutto questo nel dialogo con gli altri e verificare il nostro retaggio di valori a livello esistenziale, testandoli nelle nostre stesse vite e lottando "per distinguere gli elementi validi nella tradizione da quelli falsi ed erronei, o da forme obsolete che possono utilmente essere sostituite da altre più consone ai tempi”.
La cattiva notizia sembra essere il fatto che non esistono scorciatoie. Ma la buona notizia è che, nel tempo, i processi ricorrenti, cumulativi e potenzialmente auto correttori dello sperimentare, porsi domande, capire, valutare criticamente, giudicare e scegliere possono aiutarci a superare alcuni dei nostri errori e distorsioni, gli errori e le distorsioni della nostra cultura, e gli errori e le distorsioni racchiusi nei dati che abbiamo ricevuto da coloro che se ne sono andati prima di noi. Nessuno ha mai dato una risposta migliore a quella di Clifford Geertz ai pensatori che deridono la possibilità di obiettività nella ricerca della conoscenza. Il fatto che non si possa mai avere una sala operatoria perfettamente sterile, ha detto, “non significa che è necessario operare un intervento chirurgico in una segheria”. E, dopo tutto, per giungere ad una conclusione che sia "per la maggior parte vera" non è un risultato di poco conto. Nel regno degli affari umani, è un ideale per il quale vale la pena di lottare, e un incoraggiamento a portare a termine quel che si è cominciato.
Ora vengo all’affermazione di Giussani secondo cui la "conoscenza" può essere un "avvenimento" che cambia la vita. Man mano che accumuliamo intellezioni e definiamo modelli che ci permettono integrazioni superiori, il nostro orizzonte si sposta. Quando passiamo ad un punto di vista superiore, ci rendiamo conto di dover rivedere in qualche modo le nostre conoscenze, di una certa trasformazione delle nostre stesse personalità. Parti del passato assumono un nuovo rapporto tra loro, i sentimenti cambiano; le porte si aprono nella mente e nel cuore. Qualche volta il cambiamento è così grande che quando cerchiamo di esprimere ciò che è successo, usiamo parole come conversione e redenzione.
Talvolta, questo tipo di cambiamento può trasformare un intero ambito dell’attività umana o persino un’intera cultura. Nella letteratura, come ha sottolineato T.S. Eliot, un poeta filosofico molto ammirato da Giussani, una nuova opera significativa può di fatto trasformare quello che c’è stato prima. Quando viene creata una nuova grande opera, afferma, accade qualcosa all’intera tradizione da cui scaturisce–"i rapporti, le proporzioni, i valori di ogni opera d’arte trovano un nuovo equilibrio"—tanto che, in questo senso, il passato è modificato dal presente quanto il presente è condizionato dal passato. Pertanto, non leggiamo Virgilio allo stesso modo di Dante; o Dante allo stesso modo dopo Eliot; o le Scritture ebraiche, dopo gli Scritti apostolici.

Esperienza elementare e diritto naturale

Ora potrà sembrarvi che io abbia divagato un po’ dalla parte giuridica dell’argomento di questo gruppo di esperti. Ma ecco come io vedo il collegamento: lo sviluppo di norme giuridiche a partire da norme consuetudinarie nel corso della storia rappresenta un modello operativo particolarmente interessante di acquisire conoscenza come iniziativa di un gruppo. Quando sono praticati da una comunità di conoscitori, i processi potenzialmente auto correttori dello sperimentare, del comprendere e del giudicare possono contribuire in misura importante a portare alla luce le parti difettose di una tradizione oltre che a ingenerare un ulteriore sviluppo delle parti sane. Questo è quello che volevano dire gli studiosi di diritto del Rinascimento quando chiamavano il diritto romano riscoperto ratio scripta, ragione scritta. E questo è quanto intendeva Lord Edward Coke quando disse una cosa che restò famosa: "La ragione è la vita del diritto, e il common law in sé non è nient’altro che ragione". Quando parlava di "ragione", Coke lo specificò, faceva riferimento a un processo collaborativo che chiamò "ragione collegiale", la "perfezione artificiale della ragione, frutto di lunghi periodi di studio, osservazione ed esperienza,…fatta e rifinita nei secoli da generazioni di uomini serie e eruditi…”. . Nelle memorabili parole di Coke, il common law era "l’orgoglio dell’intelletto umano, che con tutti i suoi difetti, le sue ridondanze e i suoi errori, è una raccolta della ragione di tutte le epoche, e che unisce i principi della giustizia originaria all’infinita varietà degli interessi umani”.
Una tradizione giuridica costituita in questo modo promuove il bene comune richiedendo che avvocati e giudici si sforzino di superare i propri personali pregiudizi, forniscano buone giustificazioni in relazione alle conclusioni che traggono, adducano fatti a loro sostegno, e affrontino in modo convincente le contro-argomentazioni. Questo è il motivo per cui la tradizione giuridica occidentale, nei suoi momenti migliori, è stata una potente forza nella costante battaglia condotta dall’umanità per un governo delle leggi anziché un governo degli uomini. Nei suoi migliori momenti ha dimostrato una impressionante capacità di tenere a bada potere e pregiudizio. E nei suoi migliori momenti, ha provato che gli esseri umani sono in grado di ordinare le proprie vite assieme con "riflessione e scelta", anziché lasciarli semplicemente soggetti al "caso e alla forza" (Federalist No. 1).
Nel corso del secolo scorso, tuttavia, l’esercizio delle tradizioni giuridiche delle nazioni occidentali è stato indebolito da una diffusa accettazione degli attacchi alla ragione che iniziarono ad essere sferrati alla fine del 1900 in Inghilterra, Francia, Germania, Scandinavia, e negli Stati Uniti. Negli Stati Uniti, ad esempio, è stata una vera disgrazia che il resoconto meglio noto di quello che fanno gli avvocati e di quello che dovrebbero fare, ci sia stato dato da un uomo che ha dichiarato guerra totale alla ragione nel diritto.
Nell’articolo di analisi giuridica citato più di frequente mai pubblicato in Inghilterra, Oliver Wendell Holmes Jr, ha attaccato il processo a cui la tradizione giuridica occidentale deve il proprio dinamismo e la propria capacità di auto-correzione. A proposito dell’affermazione di Lord Coke secondo cui "La ragione è la vita del diritto," Holmes scrisse: "Troverete alcuni redattori di testi che vi dicono che il diritto è un sistema della ragione”. Rigettando questa affermazione come un’assurdità, Holmes disse che il diritto non è nulla di più né di meno di un "comando," espresso nelle decisioni dei tribunali e nelle leggi e sostenuto dal potere armato dello Stato. L’obiettivo dei vostri studi, ha detto agli studenti di giurisprudenza, non è nulla di più della predizione di "dove cadrà l’accetta”. Se volete conoscere il diritto, "dovete guardarlo come fa un uomo cattivo"—mi dice che devo fare questo o astenermi da fare quello altrimenti "useranno le maniere forti su di me”. Consigliava ai lettori di utilizzare “acido cinico” per lavare via tutte le incrostazioni moralizzanti sul diritto. Holmes, quindi, come il demonio con il suo magico specchio, disse, “Vedrete il diritto così come è veramente”: “un amalgama di potere, opportunismo, preferenza e opinioni, "dichiarato o inconscio”.
Holmes ha anche scritto un articolo dal titolo “Diritto Naturale,” in cui ha deriso l’idea stessa di norme universali basate sulla ragione e sull’esperienza. Negando che la moralità abbia alcuna base diversa dalla preferenza, ha asserito che, "Le credenze di una persona sono buone quanto quelle del suo simile," aggiungendo, "Ciò non vuol dire che non siamo disposti a combattere e morire per quello in cui crediamo. Un cane combatte per il suo osso”. (Sono lieto di segnalare che il mio collega partecipante al dibattito, Robert George, ha brillantemente demolito tale tesi in un memorabile convegno ad Harvard nel 2008.)
Holmes e i suoi omologhi europei hanno preparato la strada per il carnevale della teoria giuridica del ventesimo secolo screditando lo stesso retaggio di cui essi stessi si erano nutriti. In nome del realismo, hanno demolito ideali, dimenticando quello che gli antichi sapevano: che gli ideali sono altrettanto reali quanto la terra e l’acqua. Nel nome del pragmatismo, hanno abbassato gli standard della condotta umana, dimenticando che gli esseri umani solitamente producono maggiormente quando sono incoraggiati ad alzare anziché ad abbassare gli occhi. In nome della razionalità, hanno ridotto la ragione a un calcolo egoistico o a mera razionalizzazione. Ciò facendo, hanno privato i propri successori del proprio legittimo retaggio, e hanno ridotto le possibilità che i futuri giuristi siano in grado di dimostrarsi all’altezza delle nuove sfide che si profilano all’orizzonte.
Che cosa fare quindi? La tradizione cristiana, a cui molti di noi appartengono, non ci consente di ritirarci dal mondo né di arrenderci alla disperazione. Ci insegna che la ragione, per essere liberata dalle distorsioni, deve essere purificata—e che la purificazione della ragione coinvolge non solo la testa ma anche il cuore. L’autentica crescita dell’uomo, dice Papa Benedetto nel passaggio preso da Caritas in Veritate che ho citato in precedenza, "richiede nuovi occhi e un nuovo cuore”. Ma come si possono avere nuovi occhi o un nuovo cuore?
Un fatto appare chiaro – nessuno può farlo da solo. Questo pare essere il messaggio della fiaba di Hans Christian Andersen, La Regina delle Nevi. Nel caso vi siate chiesti come il ragazzino nella fiaba sia riuscito a estrarre le schegge dal proprio occhio e dal proprio cuore, ecco che cosa è successo. Il piccolo Kai ha abbandonato casa e famiglia per seguire una bella donna vestita di bianco fino al suo regno di ghiaccio nel lontano nord. Qui rimase intrappolato per anni. Kai fu tuttavia sufficientemente fortunato da avere un vero amico, una ragazzina di nome Gerda, che non smise mai di cercarlo, e una nonna che non smise mai di pregare per lui. Dopo essere passato attraverso così tanti pericoli, Gerda finalmente trovò Kai nel palazzo della Regina delle Nevi. Qui, presso un lago ghiacciato chiamato “lo specchio della ragione,” stava infruttuosamente cercando di risolvere un puzzle realizzato con i pezzi di ghiaccio. Quando Kai non riconobbe Gerda, quest’ultima scoppiò a piangere con grosse lacrime che caddero su di lui sciogliendo il blocco di ghiaccio che il suo cuore era diventato. Allora la riconobbe e scoppiò a piangere anche lui e le sue lacrime espulsero la scheggia dal suo occhio. Assieme ritornarono a casa dove trovarono la vecchia nonna seduta al sole che leggeva la Bibbia.
La fiaba – forse la si dovrebbe chiamare parabola – pare dirci qualcosa sulla purificazione della ragione. Sembra altresì illustrare l’affermazione di Giussani secondo cui "l’evento che disturba e altera la dinamiche della umana conoscenza non è solo qualche-cosa ma necessariamente è qualc-uno – è quello che chiamiamo un testimone”.

MARTA CARTABIA:
Ringraziamo davvero di tutto cuore la professoressa Glendon che non solo ci ha spiegato, ma direi ci ha testimoniato, che cosa può essere una conoscenza con nuovi occhi e un nuovo cuore, carica di tutta la nostra umanità, tradizione, storia, errori, veli sugli occhi, schegge negli occhi, incontri che permettono alla ragione umana di essere liberata e di liberarsi. Non voglio aggiungere commenti e parole ma una semplice osservazione conclusiva. Tante volte noi guardiamo al mondo di oltre Atlantico per trarre un insegnamento di realismo. In fondo noi europei pensiamo di essere affetti da un grave vizio della ragione che tende a proiettare un’ideologia astratta sul reale ed è incapace di guardarlo. Oggi con gli interventi del professor George e della professoressa Glendon abbiamo anche imparato che ci può essere un realismo fuorviante, un condensato di acido cinico, come ci richiamava la professoressa Glendon attraverso le parole di Holmes. È invece un’umanità integrale in tutti i suoi aspetti di conoscenza e in tutta la sua affettività che può avvicinarsi alla soglia, incessantemente da raggiungere, della verità e della giustizia. Noi ringraziamo davvero di tutto cuore il professor George e la professoressa Glendon per averci dato degli spunti così profondamente radicati nella nostra tradizione eppure nuovi, tutti da esplorare. Nuove piste di lavoro e di conoscenza per ciascuno di noi. Possiamo solo augurarci che questo congedo sia solo un arrivederci. Grazie di cuore.

(|Trascrizione non rivista dai relatori)

Data

27 Agosto 2009

Ora

11:15

Edizione

2009

Luogo

Sala A1
Categoria
Incontri