L’essere umano e la sua infinita ferita

Redazione Web

L’essere umano e la sua infinita ferita
«Si può cercare la verità solo nella dolcezza dell’essere amici»

Rimini, 23 agosto 2022 – In un clima estremamente colloquiale, pur di fronte alla gremita platea dell’Auditorium Intesa Sanpaolo D3, si è svolto il dialogo “L’essere umano e la sua in-finita ferita” tra Josep Maria Esquirol, professore di filosofia all’Università di Barcellona e di-rettore del Gruppo di Ricerca Aporia, e Costantino Esposito, professore ordinario di Storia della Filosofia all’Università di Bari. Le domande poste dal giornalista Davide Perillo, che ha moderato l’incontro, hanno intessuto un ricchissimo e appassionato approfondimento filo-sofico senza che scadesse in pura astrazione, ma ben ancorato all’esperienza umana, perché – come citato da Esposito – «la filosofia o serve a vivere meglio oppure non è filosofia». E l’esperienza umana è stata scandagliata a partire dall’indagine sulla “ferita infinita”, come da titolo dell’incontro.
«Cos’è questo grido, questa ferita infinita?», ha chiesto Perillo. Si sono alternate le riflessioni di Esquirol ed Esposito, a partire dall’indagine sulle capacità tipiche dell’uomo, la più costitutiva delle quali è l’apertura: «L’uomo è “poroso”» ha detto Esquirol. Questa porosità rende l’uomo pronto a ricevere, come una sorta di passività che diventa vero principio di azione: «Passività e passione hanno la stessa radice». Esposito ha proseguito: «La “porosità” è un al-tro modo di indicare la ferita, che non è handicap o solo mancanza, ma la capacità di stare davanti a una Presenza. La ferita è la capacità che l’uomo ha di porre delle domande, anzi noi siamo una domanda».
Ma, ha proseguito Perillo, oggi si ha fretta di colmare il bisogno, di chiudere la ferita. Serve allora “una cura”, secondo Esquirol: «La cura è tema antico; non come idea di chiudere o su-turare una ferita, perché in fondo la ferita è una meraviglia; occorre il buon accompagna-mento della ferita infinita». Poi Esposito fa un altro passo: «La cura può scadere in autoreferenzialità. Forse la vera terapia è riconoscere che noi siamo rapporto con un altro di cui la domanda è segno. Dunque cura non come moderazione del desiderio, perché la nostra do-manda vuole tutto. E non vi possiamo rispondere noi, dunque noi siamo un altro che ci ri-sponde». Esquirol approfondisce: «È decisivo “sentire” noi stessi; io “sento” che parlo, non come percorso meditativo, ma osservazione di sé, per cui uno “si sente” vivere. È la maniera di caratterizzare l’io non autarchico o indipendente, ma legato e vincolato alle cose e al mondo e soprattutto agli altri».
Dall’apertura al “noi”, il passaggio poi è alla “vocazione”, «parola scabrosa, non edificante, inquietante, perché la si usa in modo devozionistico e pio. Invece è parola laica, religiosa perché laica» dice Esposito. «Questo “sentire” o percepire sé porta a “sentirci” chiamati co-me percezione reale dell’umano. La realtà ci sta aspettando, aspetta che noi diamo seguito a quella chiamata». Esquirol riprende qui il tema della passività: «Il movimento più fondamentale è la passività di fronte a qualcosa che ci arriva, che si può chiamare anche “vocazione” (qualcosa che ci dice qualcosa d’altro). Il movimento successivo è una risposta. Nell’origine

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