Soli si muore

Redazione Web

Soli si muore
Marzegalli, Berra, Donini: la cura passa attraverso la passione condivisa per l’altro

Rimini, 23 agosto 2022 – In Sala Ferrovie dello Stato B2, in prima fila, ad ascoltare il nonno, c’è anche Benedetto. Ha diciassette anni e una paralisi cerebrale infantile. Per i medici non avrebbe mai riso né comunicato. Il nonno, il dottor Maurizio Marzegalli, vice presidente Fondazione Maddalena Grassi, Milano, sul palco fra i relatori, fa andare una diapositiva che inquadra Benedetto al mare, disteso su un gommone. Si arrabbia e poi ride. Cioè comunica. «Bisogna scoprire persone come Benedetto e le altre come lui, sostenute da persone generose», si è commosso Marzegalli, 76 anni di cui quaranta passati in ospedale e ancora sulla breccia. «In Italia sono 35mila i minori con patologie invalidanti, che richiedono un’assistenza continuativa e un supporto specialistico adeguato».
Il dottor Marzegalli sa di cosa parla. Trent’anni fa, a 19 anni, per fibrosi polmonare morì una ragazza che lui aveva in cura: Maddalena Grassi. I genitori diedero vita a una fondazione che porta il suo nome e si occupa di garantire le cure domiciliari ai malati gravi. Marzegalli, cardiologo, ha la delega alla terapia a casa dei minori con severe disabilità. In due anni e mezzo la Fondazione, con i suoi trecento dipendenti, ha assistito quasi 6mila persone, di cui 450 minori.
Un bambino con gravi patologie può avere effetti devastanti su una famiglia. «Il 30% delle famiglie va in pezzi», ha detto Marzegalli, «la maggior parte dei genitori esprime comprensione e gratitudine. Altri, invece, pretendono sempre di più e ci accusano di non fare abba-stanza». Il personale non è sufficiente ma nessuno si tira indietro. Qualche anno fa, delle in-fermiere, di loro iniziativa, hanno assistito 24 ore su 24 una bambina che stava morendo. La malattia e la presenza di queste persone, che accompagnano le famiglie fino alla morte del bambino, a volte portano i genitori a guardare il figlio come una creatura prima ancora che come un malato. «“Mio figlio non è epilettico”, ha detto una mamma, “ma un bambino che ha l’epilessia. Mio figlio è molto di più della sua malattia, è il Mistero”. Noi entriamo nelle case con la nostra fede e la nostra speranza, senza imporre nulla a nessuno», ha spiegato il medico. «Abbiamo operatori e pazienti di varie religioni o atei, ma quel che ci accomuna è una passione per l’uomo». Tempo fa è morto un ragazzo musulmano, che la Fondazione aveva seguito per anni. Il padre al cimitero ha detto agli operatori: «Lo avete abbracciato voi, ora lo può abbracciare la vostra terra. Pregate il vostro Dio».
La testimonianza del dottor Marzegalli è stata introdotta da Marco Maltoni, direttore dell’Unità Cure Palliative Romagna (Forlì), che ha ricordato la genesi chestertoniana del titolo dell’incontro: “L’abisso fra l’essere soli e avere un alleato. La passione per la cura”. «In una situazione di dolore globale, fisico e psicologico, un conto è trovarsi da soli, un conto è esse-re al centro di una cura affezionata», ha detto. «Chi si prende cura non può sostituirsi alla persona sofferente, ma ha la possibilità di essere alleato, di non lasciare solo chi sta vivendo la condizione di prova».

Lorenzo Berra, l’altro ospite, ha imparato questa passione per la cura, questo lavorare in-sieme, facendo ricerca prima a Washington poi presso il Centro di anestesia del Massachusetts General Hospital di Boston. L’esperienza di quindici anni gli ha insegnato che «non si può lavorare e vivere da soli, perché la solitudine pesa quanto la malattia». Negli Usa, ha scoperto l’importanza fondamentale del “mentor”, il maestro. Ne ha avuti due decisivi: Theodor Kolobow, vero mito in fatto di anestesia e rianimazione, e Warren Zapol, altro grande nome. Da loro ha imparato l’impegno con la verità del dato, la capacità di lasciarsi guidare dall’evidenza senza restare schiavi delle proprie convinzioni, la curiosità. E la forza di un legame umano. Durante la prima ondata di Covid, la domenica, Zapol gli mandava dei videoclip in cui lui, scienziato, suonava Bach e Schubert, perché sapeva che Lorenzo, cattolico, non poteva andare a Messa. «Avere dei “mentors”», ha concluso, «mi ha permesso di conti-nuare a imparare e aver presente che la cura passa attraverso la passione condivisa per l’altro».
Raffaele Donini è assessore alle Politiche per la salute dell’Emilia Romagna. Ricopre anche l’incarico di coordinatore della commissione salute della Conferenza delle Regioni. È stato il primo guarito dal Covid in Emilia Romagna, nella primavera del 2020. Ricorda che in ospeda-le un giovane virologo gli disse che il vero abisso del Covid è che si rimane da soli, che si muore da soli. «Appena dimesso», ricorda, «cominciai a lottare contro questo isolamento e da allora abbiamo fornito almeno diecimila prestazioni di supporto psicologico a malati e operatori. Le Usca sono partite dall’Emilia Romagna e abbiamo fatto almeno mezzo milione di interventi a domicilio, convinti che la pandemia andava vinta sul territorio». Purtroppo la domiciliarità, secondo Donini, non è diffusa allo stesso modo su tutto il territorio nazionale e il diritto alla salute vede forti squilibri fra le regioni; la sua speranza è che con il Pnrr si possa arrivare a una maggiore omogeneità. Donini ha elencato, infine, altri interventi in campo sa-nitario nella sua regione: la salute mentale; l’ospedalizzazione dei profughi ucraini bisognosi di cure; esperienze di integrazione, come quella di Marina di Rimini dove, grazie a dei volon-tari, cento malati di Sla si godono l’estate; le cure palliative a domicilio e la formazione dei caregiver familiari.
Maltoni ha concluso ricordando le parole di Cicely Saunders, fondatrice del movimento Hospice: «“Dobbiamo imparare che cos’è questo dolore. Ancora di più, dobbiamo imparare che cosa significa sentirsi così malati… Dobbiamo imparare cosa significa sentirsi vicino ai pazien-ti senza sentirci come i pazienti, se vogliamo dar loro il genere di ascolto e di sostegno stabi-le di cui hanno bisogno per trovare la propria strada”».
(D.B.)

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