“Il bisogno di essere fissati per tornare a sperare”

Sofia Bronzetti

Il racconto di esperienze di disagio e rinascita come un carcere minorile bello e accogliente, dunque libero

 

Rimini, 18 agosto – La bellezza può curare il disagio dei minori, specie di quelli costretti in un angusto spazio di un carcere. È quanto emerso dall’incontro “Vedendo, abbracciamo e incontriamo” che si è tenuto oggi pomeriggio nell’Arena Cdo for Innovation D3. Un emozionante appuntamento coordinato da Matteo Ferracin, di Cdo opere sociali, che ha visto la partecipazione di Claudio Burgio, fondatore e presidente dell’associazione Kayros Onlus, Gianluca Guida, direttore dell’istituto penale minorile di Nisida, Felice Iovinella, architetto e responsabile del laboratorio edile di Nisida, la famiglia Santuari che ha offerto propria testimonianza di accoglienza. Quest’ultimi, riportando la loro esperienza genitoriale – quattro figli naturali e diciannove accolti, tra adozioni, accoglienze stabili e temporanee – si sono alternati in un coinvolgente racconto a due mani: «Ogni occasione di accoglienza, ogni richiesta giunta dalle assistenti sociali – ha raccontato la mamma – sono sempre state opportunità per scoprire che questa era la modalità con cui Dio ci preferiva. Quando nessuno rispondeva io mi chiedevo: perché non possiamo farlo noi?». Il padre, da parte sua, ha raccontato una particolare esperienza di affido: «Quando ho riconsegnato a suo padre un bambino che avevamo in affido per due giorni a settimana mi sono voltato a guardare i miei figli naturali. In quel momento ho compreso che anche loro non sono miei e che, in qualche modo, anch’essi mi sono affidati».

Nisida è una splendida cornice tra cielo e mare, sede del carcere minorile. In un video proiettato durante l’incontro si intravede un artista affrescare una parete: “Anadiomene” è il titolo dell’opera, Bosoletti l’autore che, dopo aver conosciuto Nisida, ha deciso di contribuire a rendere quel luogo bello. Un’esperienza raccontata da Felice Iovinella, architetto coordinatore di un progetto di recupero edile con i detenuti del carcere minorile, che ha aggiunto: «Un giorno eravamo con i ragazzi a togliere l’intonaco ammalorato di una stanza. Erano bravissimi, capaci, velocissimi. Poi è stata la volta di rifarlo nuovo, e in quel momento non tutti erano così motivati: del resto, quando c’è da costruire si fa più fatica… Ce n’era uno in particolare che stava in disparte e non riusciva a lavorare. Ho chiesto allora ad un altro più bravo di dargli una mano. E così è stato: quest’ultimo fisicamente ha preso il braccio al primo, lo ha avvicinato con tutta la spatola alla calce e lo ha accompagnato nel gesto. Mi sono commosso e sorpreso a pensare che anche io ho bisogno di uno che dia una mano a me così! I ragazzi vivono il passato e l’errore con una intensità molto forte, e pensano al futuro come al momento della liberazione. Per questo, non vivono mai il presente. Il lavoro che facciamo, in definitiva, li aiuta a dare consistenza al presente, alla loro vita di ora. E quando vengono le visite sono fieri e orgogliosi di mostrare una parete fatta da loro».

Gianluca Guida, direttore del carcere di Nisida, da parte sua ha raccontato che «i ragazzi che arrivano da noi sono quelli raccontati da Gomorra, fanno paura alla società, eppure hanno una domanda di senso molto forte, occorre intercettarla. Nell’esperienza del nostro carcere cerchiamo di creare uno spazio nel quale possano trovare la libertà di esprimere se stessi, le proprie emozioni. Lo facciamo attraverso la ricerca del bello e del bene. Tentiamo di restituire il loro essere belli in sé, belli dentro. Questo può restituire l’identità. Appartenere a un luogo bello, ad una identità positiva».

Infine, l’intervento di don Claudio Burgio, circondato dai ragazzi del Centro di accoglienza Kayros, che lo guardavano con occhi pieni di gratitudine e responsabilità. Il sacerdote non ha parlato di loro ma ha parlato a loro raccontando di sé: «Dal carcere impari a fissare lo sguardo su questi ragazzi e cominci ad imparare a capire qual è la tua identità. Noi non siamo in grado di salvare alcuno, possiamo però conoscerci e capire la direzione del nostro cammino insieme». Riprendendo l’immagine del Vangelo in cui Gesù incontra Zaccheo, don Claudio ha concluso dicendo che «l’evangelista racconta l’episodio usando tre verbi: si fermò, lo guardò e disse. Con i ragazzi siamo chiamati a fare questo. Fermarci, sospendendo il giudizio. Guardare, per conoscere e comprendere, infine parlare, non sempre con le parole. Spesso con i gesti. Talvolta con il silenzio».

 

(MG.DA.)

 

Responsabile Comunicazione Eugenio Andreatta tel. 329 9540695 eugenio.andreatta@meetingrimini.org

 

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