Siria, prigionieri di guerra

Press Meeting

La Siria è stretta tra due tenaglie. Tra l’esercito governativo e le forze armate dei ribelli. In mezzo i civili, rapiti, uccisi. Case sventrate, razziate, quartieri distrutti. Due milioni i profughi. Nei prossimi mesi diverranno due milioni e mezzo. Si sono rifugiati in campi costruiti con stoffe e plastica. C’è tutto nel reportage del giornalista Gian Micalessin ‘Siria, prigionieri di guerra’. Oltre mille persone gremiscono ben prima delle 19 – l’ora della proiezione – la sala D3. Roberto Fontolan introduce l’incontro, il primo della rassegna internazionale che proseguirà nei prossimi giorni: “È di pienissima attualità questo reportage delle realtà cristiane in Siria”. “Vasi di coccio tra vasi di ferro”, come le chiama Micalessin.

 

A luci spente i bombardamenti notturni su Aleppo sono ancora più reali. È subito mattina in quello che si immagina il giorno dopo, la telecamera riprende una città in macerie. Un abitante avvisa: “Lì c’è un cecchino, là un altro, oltre il ponte, dietro l’angolo”. All’interno di un edificio devastato restano muri crollati, fucili, mitragliere, granate inesplose. Fuori, corpi di uomini. Nemmeno l’ospedale di Aleppo è risparmiato. I ribelli hanno sparato dentro le stanze, un medico mostra il muro bucherellato, gli occupanti dei letti feriti. In cortile si volge un funerale dopo l’altro. Vediamo quello di un combattente dell’esercito. I commilitoni schierati per l’ultimo saluto, la famiglia che piange. Altre bare stanno aspettando al piano terra dell’ospedale. Un membro del gruppo democratico di opposizione nazionale al regime di Assad continua a credere nel dialogo. Ha perso un figlio che combatteva con i ribelli: “Era primario. Come medico curava i militanti. È morto. Serve una soluzione politica. Credo nel dialogo”. Quest’uomo resta lì, a opporsi alla forza delle armi. C’è anche la dichiarazione di un ribelle straniero: “Pensavo che combattere in Siria fosse un dovere per ogni buon musulmano”. E un testimone afferma: “Arrivano da fuori, per soldi”.

 

Le scuole sono trasformate in centri di ricovero per le famiglie che cercano scampo dai ribelli. Un uomo afferma: “Ci hanno chiesto: ‘Cosa ne pensate del presidente?’. Ho risposto: ‘È il mio presidente’. Ci sono saltati addosso con pugni, calci. Siamo scappati”.

 

La voce fuori campo spiega che le chiese restano il posto dove i cristiani si stringono tra loro e attorno al proprio vescovo, come accade ad Aleppo, dal vescovo caldeo Antoine Audo. I rapimenti nelle comunità cristiane sono all’ordine del giorno. “Uccidere e rapire, questa è la loro libertà” decreta un testimone. Imboccando l’autostrada si esce dalla capitale arrivando a Tal Khalak, un villaggio a trenta chilometri da Damasco. Una suora del convento racconta di combattenti armati che sono andati da famiglie cristiane e hanno intimato: O con noi o ve ne andate. Conclude: “Ma per noi la cosa più importante non è il rischio della vita. È il dono di sé. Qui nel convento ospitiamo cristiani e mussulmani”. Un’abitante, Carla Bitan, descrive: “I musallahin sparavano contro tutti. Senza l’esercito saremmo tutti morti”. I trentamila abitanti di Al Qusayr, invece, hanno visto la pace grazie a una mediazione tra ribelli e governo. A fine giugno è stato firmato un accordo di riconciliazione, le armi sono state deposte.

 

Al termine interviene Giampaolo Silvestri di Avsi, fondazione di volontari nel mondo che opera anche dentro un campo profughi in Libano. Commenta: “È una situazione senza sbocco. I profughi aumentano, cresceranno ancor più. Ci stiamo preparando ad affrontare l’inverno. Vi invitiamo ad aderire alla campagna #10forSyria, dieci euro per la Siria. Venite nello stand Avsi, aiutateci”.

 

 

(D.T.)

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