Nella storia, il destino dell’uomo

Press Meeting

È tradizione del Meeting e si ripete anche quest’anno. Il titolo della manifestazione diventa origine e spunto per una riflessione su un tema centrale della vita di ogni persona. Nel caso dell’incontro appena terminato nel salone Intesa San Paolo (D5), non si è però partititi dalla prima parte “verso le periferie del mondo e dell’esistenza”, ma dal periodo che la segue: “Il destino non ha lasciato solo l’uomo”. Affermazione densa di implicazioni e ricadute sulla nostra vita, anche e soprattutto nel momento di crisi e difficoltà, non solo economica, che stiamo vivendo.
Sono partiti da qui i relatori del dibattito “Nella storia, la compagnia dell’uomo”, moderato dal portavoce di Cl Alberto Savorana e a cui hanno preso parte il professore di Storia e archeologia della Ucla (l’Università della California di Los Angeles), Giorgio Buccellati e Ignacio Carbajosa Pérez, docente di Antico testamento all’Università San Dámaso di Madrid.
Alberto Savorana introduce l’incontro citando una frase di don Giussani, fondatore di Cl: “Per me la storia è tutto. Ho imparato tutto dalla storia”. È questa la chiave che apre i due interventi dei relatori: cos’è il destino, quale la sua relazione con l’uomo, come si è sviluppata questa relazione oggi come duemila anni fa. Una domanda che non ha nulla di polveroso e accademico e che cerca invece “un’accanita aderenza alla realtà”, che fa emergere anche nell’analisi di un versetto della Bibbia apparentemente poetico o favolistico, la ricostruzione di un fatto storico che ha modificato la vita degli uomini.
L’analisi di Giorgio Buccellati parte dal confronto di due differenti impostazioni del rapporto destino/uomo: quella politeistica e quella monoteistica. L’archeologo parte dalle civiltà mesopotamiche, da sempre al centro della sua attività di studio e ricerca, e dal popolo di Israele come ci è raccontato dalla Bibbia. Per Buccellati leggendo la seconda parte del titolo del Meeting ci sono due presupposti che possono sfuggire all’attenzione. “Il primo è che il destino sia un soggetto capace di prendere iniziativa. Il secondo, che il destino, così concepito, possa, a un certo punto, ‘lasciar solo’ l’uomo, mentre prima lo stava accompagnando”.
Le risposte possibili, per lo studioso sono due: “Il destino è o coerenza o fedeltà. Nel concetto politeistico il destino è la coerenza delle cose, il codice genetico della realtà, iscritto in tutto quello che c’è o può esserci. Il motivo di fondo è la certezza della coerenza dell’essere. È quello che intendiamo quando parliamo di natura, di “madre natura”. La nostra conclusione di fronte a ciò che è imprevedibile o incomprensibile è ‘Ci sarà pure una ragione …’. Ciò implica la fede in un sistema, dove tutto si articola in modi regolari e prevedibili, dove tutto è, per l’appunto, coerente”.
La prospettiva cambia radicalmente nel concetto di destino che emerge dalla prospettiva monoteistica: “Dio è il destino che interpella l’uomo, lo sollecita, addirittura lo provoca. La provocazione ne è l’aspetto forse più sorprendente. Sembra proclamare l’incoerenza del destino. Alla radice di questa concezione sta l’accettazione di Dio come ‘vivente’. È una delle caratteristiche centrali della concezione biblica. La radice è il Dio vivente. Questa ‘vita’ implica un forte elemento di imprevedibilità, che emerge ai nostri occhi come ‘incoerenza’. Così nell’ottica biblica la coerenza di base è ricostituita dal concetto di fedeltà. Il destino è una realtà personale, fedele alla dinamica della vita”.
Carbajosa invece si muove ancora una volta dalle periferie: “Il Mistero che fa tutte le cose non ha mai lasciato solo l’uomo e gli è venuto incontro in un dialogo, da persona a persona. Nella storia questo è accaduto nella periferia dei grandi imperi d’allora, scegliendo un uomo sconosciuto della Mesopotamia, Abramo, e un piccolo popolo, Israele, irrilevante nel concerto delle nazioni nel secondo e nel primo millennio avanti Cristo”. Carbajosa si sposta avanti di qualche secolo per arrivare fino al centro culturale di quel periodo, non più la Mesopotamia ma l’Egitto, per soffermarsi nell’ultimo quarto del primo secolo a.C. nella città di Alessandria. “Qui ritroviamo un mondo che è passato dalla tensione della ricerca della verità nella filosofia greca a un edonismo e a un cinismo disperato per la mancanza di significato della vita”.
Il parallelo con il nostro tempo è evidente, ma Carbajosa ricorda come Dio “non ha voluto lasciar solo questo centro culturale divenuto periferia esistenziale, così simile al nostro mondo odierno, ed è venuto incontro alla sua disperazione con la presenza della piccola comunità ebraica”. È il libro biblico della Sapienza a testimoniarci che “quella comunità ebraica si trova sfidata, anche all’interno della propria fede, dallo scetticismo dell’ambiente in cui si trova. Nella risposta del popolo scelto, troviamo la carezza del destino che vuole raggiungere anche la periferia esistenziale della grande metropoli”.
Nel suo intervento il teologo ricostruisce i rapporti della comunità ebraica con un mondo e una cultura cinica, disincantata, dove il piacere e la sua soddisfazione sono innalzati a unica ragione di vita. Una forma estrema, assoluta di “carpe diem” nel quale l’orizzonte si spopola di ogni trascendenza per lasciare unico spazio alla morte ed esaltare il suicidio come libera scelta di fronte a dolore, vecchiaia, malattia. Logiche prestazionali e funzionali dell’esistenza con cui facciamo i conti anche oggi.
Eppure nel libro della Sapienza la comunità ebraica trova risposta a questa deriva umana. La risposta è semplice e diretta: “I misteri di Dio (del destino) sono accessibili a ogni uomo buono e giusto, ma impenetrabili per quanti ragionano in modo contorto, per gli empi e per gli sciocchi”. Il piccolo popolo ebraico che pellegrina ad Alessandria, annota Carbajosa, si è fatto portatore di una conoscenza più acuta del reale grazie alla convivenza nella storia con i mysteria di Dio. “È così che il destino viene incontro alla paura della morte che soffrono i pagani, svelando il grande mistero: Dio ha creato l’uomo per l’immortalità; siamo fatti a immagine Sua”.
(F.Pi., L.T.)

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