PRESENZA RELIGIOSA NELLO SPAZIO PUBBLICO.

Presenza religiosa nello spazio pubblico

Partecipano: Giuliano Amato, Presidente della Treccani; Joseph H. H. Weiler, Director Straus Institute for the Advanced Study of Law & Justice and Co-Director Tikvah Centre for Law & Jewish Civilization at the New York University; Giorgio Feliciani, Docente di Diritto Canonico e Diritto Ecclesiastico all’Università Sacro Cuore di Milano. Introduce Lorenza Violini, Docente di Diritto Costituzionale all’Università degli Studi di Milano e Responsabile Dipartimento Pubblica Amministrazione della Fondazione per la Sussidiarietà.

 

LORENZA VIOLINI:
Buongiorno a tutti, siamo qui per questo incontro molto atteso e molto importante per la cultura del Meeting, un incontro che ha a tema la religione. I temi relativi alla convivenza fra i popoli e alla liberà religiosa stanno davvero tanto a cuore al Meeting, e da sempre sono stati trattati con attenzione e con profondità. In una edizione dedicata al cuore, non poteva mancare una riflessione su questo tema: abbiamo visto tanti interventi che trattavano tematiche che spaziavano dalle persecuzioni religiose a che cosa significhi incontrare altre religioni di tutte le aree del nostro mondo. Oggi affrontiamo un tema più particolare, più specifico, un tema che ha mosso molto l’opinione pubblica, perché abbiamo tanto discusso sul tema del crocifisso e quindi sul tema della presenza religiosa nello spazio pubblico. Si può leggere questa tematica da varie angolature. Ci sono persone che ritengono che la sola idea di una religione che abbia qualcosa da dire alla dimensione pubblica sia una negazione della laicità dello Stato. Altri hanno la consapevolezza che occorrono manifestazioni di identità, perché la religione è una manifestazione di identità, e che questo implichi la possibilità di dialogare tra diverse identità. Nel caso del crocifisso, qualcuno ha cercato di giustificare la presenza, non della religione in generale, ma di specifici simboli, dentro le mura di un edificio pubblico: un modo ancora diverso di riformulare il tema. E poi, c’è anche tutta una corrente che ritiene che questa presenza debba essere abolita, che esista un diritto a non vedere e a non sentire, perché questo è in contrasto con i diritti fondamentali di ogni persona.
Quindi, abbiamo tante possibilità di guardare a questo tema, sappiamo anche che è un tema aperto, problematico. Siamo qui dunque per ascoltare i nostri ospiti, molto illustri e anche molto amati dal pubblico del Meeting: e svolgeremo questo tema nei tre interventi, partendo dalla parte più specifica, affidata a Joseph Weiler, che è Director Straus Institute della New York University e grandissimo amico del Meeting. Il secondo intervento è stato affidato al professor Giorgio Feliciani, Ordinario Docente di Diritto Canonico all’Università Sacro Cuore, dove dirige un Centro Studi sugli Enti Ecclesiastici. E infine, last but not least, Giuliano Amato. Certamente non ha bisogno di nessuna presentazione, ma in questo caso lo accogliamo nella sua veste ufficiale di Presidente della Enciclopedia Italiana Treccani. Questo è il nostro programma, un momento di lavoro che durerà circa un’ora e mezza. I relatori vi parleranno ciascuno mezz’ora, e speriamo di poter uscire più rinfrancati e più coscienti di cosa voglia dire essere presenti oggi nella società italiana e nella società europea. La parola dunque a Joseph Weiler, a cui lascio il microfono.

JOSEPH H. H. WEILER:
Mille grazie. Giuliano, devi aiutarmi, ho un piccolo problema. Stamattina, ho fatto una lezione sulla Bibbia, in una piccola aula, a qualche dozzina di persone. Era un discorso sulla religione. Oggi pomeriggio non si tratta di un discorso sulla religione, è un discorso sulla politica della religione, e parlo in una grande aula a centinaia o migliaia di persone. Come si spiega? Ho due ipotesi. L’ipotesi che fa più bello il mio ego è che la gente sia più interessata alla politica della religione che alla religione stessa. L’altra ipotesi è che la gente sia più interessata a Giuliano Amato che a Joseph Weiler. C’è solo un modo per verificarlo: tu vieni l’anno prossimo e fai una lezione sulla Bibbia. Ma a quest’ora non bisognerebbe scherzare, perché la domanda sui simboli religiosi nella piazza pubblica oramai non è più uno scherzo. Come sapete tutti, in Italia, definita dalla propria Corte Costituzionale come Paese laico, c’è la tradizione del crocifisso nelle aule scolastiche: fa parte della cultura e della identità italiana. Quasi un anno fa, nel 2009, ci fu una decisione della Camera della Corte Europea dei Diritti Umani a Strasburgo che condannava l’Italia per quel crocifisso in aula, e questo non è uno scherzo. Perché il ragionamento della Camera era assai radicale, non era una decisione sul caso specifico, ma un ragionamento che vale per tutta l’Europa. Lo Stato deve essere neutrale, e avere un simbolo religioso a scuola non è neutrale. Perciò l’Italia è stata condannata per la violazione della Convenzione e, per implicazione, con lei tutti gli altri Stati che hanno simboli religiosi nello spazio pubblico.
L’Italia ha fatto ricorso davanti alla Grande Camera. La Grande Camera è composta da diciassette giudici, è l’istanza praticamente più alta del sistema dei diritti fondamentali europei. Accanto all’Italia, c’erano altri dieci Paesi che sostenevano la posizione italiana, dalla Russia – figuriamoci – fino a San Marino. E mi hanno chiesto di rappresentarli davanti alla Corte Europea. Io ho fatto un piccolo video, di qualità pessima, devo avvertirvi, per darvi il gusto di vedere come è andato il procedimento davanti alla Grande Camera. Sono quattro minuti. Non c’è stata ancora la decisione – sarà a novembre, a dicembre, può darsi all’inizio dell’anno prossimo -, e dopo questo piccolo brano di quattro minuti, quello che vorrei fare è leggere la mia arringa davanti alla Corte Europea, dove cercavo di spiegare che la Camera, condannando l’Italia, aveva preso una decisione molto sbagliata. Allora, prima vediamo questo brano – e di nuovo mi scuso per la qualità pessima, è scaricato da Internet – poi parliamo.

Video

Mi chiamo Joseph Weiler, Professore di Diritto presso la New York University, Professore Onorario presso la London University. Ho l’onore di rappresentare i governi dell’Armenia, della Bulgaria, di Cipro, della Grecia, eccetera, tutti gli otto Stati intervenuti, ognuno dei quali è dell’ opinione che la seconda Camera abbia sbagliato nell’interpretazione e nel ragionamento relativi alla Convenzione, e nelle conclusioni che ne sono derivate. La Camera, nella sua decisione, formula tre principi chiave: gli Stati che intervengono sono pienamente d’accordo con due di essi, ma dissentono decisamente dal terzo. Concordano pienamente con il principio che la Convenzione garantisce sia la libertà di religione, sia la libertà dalla religione, la libertà religiosa positiva e negativa; essi concordano anche pienamente sulla necessità che un’aula scolastica educhi alla tolleranza e al pluralismo. La Camera formula anche un principio di neutralità – ascoltate bene, questa è la Camera -: lo Stato ha il dovere di neutralità e imparzialità, e ciò è incompatibile con ogni genere di potere, da parte sua, di valutare la legittimità delle convinzioni religiose o modi di espressione di quelle condizioni. Questo è il principio di neutralità articolato dalla Camera, condannando l’Italia. Da una tale premessa, la conclusione è inevitabile: l’esposizione di un crocifisso su un muro di una classe è stato ovviamente ritenuto espressione di una valutazione della legittimità di un convincimento religioso – il cristianesimo -, e quindi una violazione della Convenzione. Questa formulazione della neutralità è basata su due errori concettuali, che sono fatali per le conclusioni. Primo: nel sistema previsto dalla Convenzione, tutti i membri devono, in effetti, garantire agli individui la libertà di religione, ma anche la libertà dalla religione. Tale obbligo rappresenta un assetto costituzionale comune dell’Europa. E’ tuttavia controbilanciato da grande libertà, quando si tratti della religione o dell’eredità religiosa, nell’identità collettiva della nazione e nella simbologia dello Stato: allora, libertà individuale da una parte e libertà collettiva e identità religiosa dall’altra parte.
Così, ci sono Stati membri in cui la laicità è parte della definizione di Stato: l’articolo 1 della Costituzione Francese definisce la Francia come uno Stato laico, nel quale, di conseguenza, non ci può essere un simbolo religioso approvato e patrocinato dallo Stato in uno spazio pubblico. La religione nella concezione dello Stato laico è un affare privato. Ma nessuno Stato è obbligato, nel sistema della Convenzione, a sposare la laicità. Così, dall’altra parte della Manica, c’è l’Inghilterra, nella quale vi è una Chiesa di Stato, in cui il capo dello Stato è anche capo della Chiesa, nella quale i leader religiosi sono anche membri d’ufficio del Legislativo, dove nella bandiera c’è la croce e l’inno nazionale è una preghiera a Dio di salvare il Monarca e di concedere a lei, o a lui, la vittoria e la gloria. Anche se qualche volta Dio non ascolta, come è capitato in una certa partita di calcio, pochi giorni fa: quando ho fatto l’arringa, l’Inghilterra ha perso in Sudafrica.
Nella sua stessa definizione di Stato, con una sua Chiesa ufficiale, l’Inghilterra sembrerebbe, nella sua ontologia, violare la strettoie poste dalla Camera, perché come si farebbe a non dire, con tutti quei simboli, che non vi sia un certo tipo di valutazione circa la legittimità di un credo religioso? Non è che tutti debbano essere cristiani protestati anglicani, ma c’è uno statement che afferma che non è una brutta cosa l’esserlo, se la Regina, la bandiera, ecc.
In Europa, c’è una straordinaria varietà di relazioni fra Stato e Chiesa. Più della metà della popolazione d’Europa vive in Stati che non potrebbero essere denominati laici. Inevitabilmente, nell’educazione statale lo Stato e i suoi simboli hanno un loro posto. Molti di questi, però, hanno un’origine religiosa o esprimono un’identità religiosa. In Europa, la croce è l’esempio più visibile, apparendo su innumerevoli bandiere, crinali, edifici. Sarebbe sbagliato sostenere, come alcuni hanno fatto, che la croce sia solo e meramente un simbolo religioso nazionale: no, è un simbolo religioso ma è ugualmente sbagliato argomentare, come alcuni hanno fatto, che ha solo un significato religioso. Ci sono entrambi gli elementi, data la storia, parte integrante dell’identità nazionale di molti Stati europei. Ci sono studiosi che sostengono che anche le dodici stelle del Consiglio d’Europa abbiano questa stessa velleità. Perché se voi chiedete: come mai la bandiera del Consiglio d’Europa ha dodici stelle? E’ una balla, quella che dice che erano rappresentano i dodici membri fondatori: non erano dodici! Queste dodici stelle sono i dodici apostoli, sono le dodici tribù. Cioè, nella stessa bandiera del Consiglio d’Europa c’è un elemento religioso.
Era bello vedere la faccia del giudice in quel momento!
Consideriamo una fotografia della Regina di Inghilterra appesa in una classe in Inghilterra. Come la croce, quella immagine ha un significato duplice: è l’immagine del Capo dello Stato ed è anche immagine del Capo titolare della Chiesa d’Inghilterra, è quasi come il Papa, che è capo di Stato e capo di una Chiesa. Sarebbe accettabile che qualcuno richiedesse che la foto della Regina non fosse appesa nella scuola, per il fatto che non è compatibile con la sua convinzione religiosa o con il suo diritto di educazione, perché cattolico, ebreo, musulmano? Oppure con la sua convinzione filosofica, perché non credente? Potrebbe la Costituzione irlandese, o quella tedesca, non essere appesa in una classe o non venire letta in classe, dal momento che nei loro Preamboli troviamo un riferimento, nella prima, quella irlandese, alla Santa Trinità e a Gesù Cristo, Divino Signore, nella seconda, a Dio? Certamente il diritto della libertà dalla religione deve garantire che un alunno che obietta possa non essere coinvolto in un atto religioso, possa non partecipare ad un rituale religioso, non debba avere affiliazione religiosa come pre-condizione ai suoi diritti statali. Lui o lei dovrebbero certamente avere il diritto di non cantare, all’assemblea della scuola, God save the Queen, se è contrario alla loro condizione religiosa o atea, se contrasta con la loro visione del mondo. Ma può questo studente chiedere che non lo canti nessuno?
Qui devo raccontare una cosa divertente della mia storia personale. Mia mamma è cresciuta in Africa, in Congo. La sola scuola per i bianchi era un convento cattolico, e loro erano di una famiglia ebrea. Fu mandata al convento cattolico, ma c’era un concordato fra la sua famiglia e la scuola, per cui ogni volta che loro cantavano Gesù, lei cantava Mosè: una bella storia, anche di tolleranza.
Questa situazione presenta – da una parte la Francia, dall’altra l’Inghilterra – una enorme lezione di pluralismo e tolleranza: tutti i bambini, in Europa, atei o credenti, cristiani, musulmani ed ebrei, imparano come parte della loro eredità europea che l’Europa garantisce, da una parte il loro diritto di praticare una religione liberamente, entro i limiti del rispetto dei diritti degli altri e dell’ordine pubblico, e dall’altra, i loro diritti di non credere affatto. Allo stesso tempo, come parte di questo pluralismo e di questa tolleranza, l’Europa accetta e rispetta una Francia e una Inghilterra, una Svezia e una Danimarca, una Grecia e una Italia, ognuno dei quali Stati ha un modo molto differente di riconoscere i simboli religiosi, avvallati pubblicamente da parte dello Stato, cioè negli spazi pubblici. Tutto questo è l’Europa. E’ una lezione importante di tolleranza e pluralismo.
Ora, Vostro Onore, per evitare di commettere errori, in molti di questi Paesi non laici, ampi settori della popolazione e forse la stessa maggioranza non sono certamente più religiosi loro stessi; e il continuo coinvolgimento di simboli religiosi, nei loro luoghi pubblici e dallo Stato, è accettato dalla popolazione secolare come una parte della loro stessa identità nazionale.
Sono sicuro che molti tra le migliaia o le decine di migliaia che cantano con gusto God save the Queen non credano loro stessi in Dio. Ciò nonostante, sarebbero delusi se venisse qualcuno a dire loro di cambiare l’inno nazionale britannico. Poiché questo è parte della loro identità nazionale, del sentirsi britannici. Ora, potrebbe anche essere che, nei tempi a venire, gli inglesi o i britannici cambino idea, e decidano di non riconoscere la Chiesa, di cambiare l’inno nazionale, di ridisegnare la loro bandiera. Ciò sarebbe parte dell’insieme dei loro diritti democratici e costituzionali: ma spetterebbe a loro decidere, non a questa distinta Corte, e la Convenzione certamente non richiede loro di farlo.
L’Italia ha il diritto di essere, e ha scelto di essere, uno Stato laico, e non credo che questa Corte debba essere invitata a interpretare la Costituzione italiana e a imporre il dettato della stessa Costituzione all’Italia. Lasciate questo lavoro alle Corti italiane. L’Italia ha il diritto, se vuole, di essere uno stato laico, ma quello che la ricorrente signora Lauzi vorrebbe richiedere a questa Corte, è di imporre il dovere di essere uno Stato laico, una cosa che non può essere, poiché non rientra in una corretta interpretazione di questa Convenzione. Non esiste alcun dovere di laicità per i membri della Convenzione Europea sui Diritti Umani.
Nell’Europa di oggi, i Paesi hanno aperto le loro porte a molti nuovi residenti cittadini. Noi dobbiamo offrire a questi nuovi residenti cittadini un giusto trattamento, una accoglienza calorosa, non discriminarli, ma il messaggio di tolleranza verso l’altro non deve essere tradotto in un messaggio di intolleranza verso la propria identità. E l’imperativo giuridico della Convenzione non deve estendere il giusto obbligo che lo Stato garantisce – una libertà religiosa positiva e negativa -, sino ad una affermazione ingiustificata e senza precedenti, cioè che lo Stato si spogli di una parte della sua identità culturale solo perché l’espressione di tale identità è religiosa o d’origine religiosa. La posizione adottata dalla Camera non è una espressione del pluralismo proprio del sistema delle Convenzioni, ma è una espressione dei valori dello Stato laico. Estenderla all’interno, vorrebbe dire, con grande rispetto, l’americanizzazione dell’Europa da due punti di vista: primo, una singola e unica regola per tutti, come avviene in America; secondo, una rigida separazione, in stile americano, tra Chiesa e Stato, come se non si potesse fidarsi del fatto che i popoli di quegli Stati membri, la cui identità non è laica, vivano i principi della tolleranza e del pluralismo. Questa, ancora una volta, non è l’Europa.
L’Europa della Convenzione rappresenta un compromesso unico tra la libertà individuale, in termini di religione, e la libertà collettiva di definire la nazione o lo Stato, usando simboli religiosi, e anche avendo una Chiesa riconosciuta nello Stato. Noi ci fidiamo delle nostre istituzioni democratiche e costituzionali per definire i nostri spazi pubblici, i nostri sistemi educativi collettivi. Noi riponiamo fiducia nelle nostre Corti, inclusa questa Corte, per difendere la libertà individuale. E’ un equilibrio che ha servito bene l’Europa nei passati sessant’anni, ora non va cambiato. E’ anche un equilibrio che può agire come guida per il resto del mondo, dato che dimostra a Paesi che credono che la democrazia implichi la perdita della propria identità religiosa che non è così. La decisione della Camera ha rovesciato questo equilibrio unico e rischia di appiattare il nostro panorama istituzionale, rubandoci questa qualità superiore e questa diversità costituzionale. Questa egregia Corte dovrebbe recuperare questo equilibrio.
Passo ora al secondo errore concettuale della Camera: la confusione pragmatica e concettuale tra laicismo, laicità e neutralità. Oggi, nei nostri Stati, la principale divisione sociale che riguarda la religione non è tra cattolici e protestanti, ma tra il credente e il secolare. La laicità non è una categoria vuota, che significa assenza di fede. In tanti, la considerano un ampio punto di vista di chi sostiene, inter alia, la convinzione politica che la religione trovi un suo posto legittimo solo nella sfera privata.
Ora vorrei dire una cosa che non ho detto alla Corte. Si può pensare che la persona religiosa rifiuti sempre l’opzione laica? Non è così. Io conosco tante persone religiose che credono che il modo giusto per organizzare lo Stato sia che lo Stato debba essere secolare e che la religione debba essere una cosa privata. Tu puoi essere molto religioso e poi, per convinzioni politiche, credere che il sistema francese sia il migliore. Anche il contrario: tu puoi essere un ateo, e allo stesso non avere nessuna obiezione che lo Stato non sia laico. Conosco tanti inglesi, tanti danesi, tanti greci che sono atei, ma accettano che un sistema permetta che ci siano simbologie religiose nello spazio pubblico. Non c’è una coincidenza fra la convinzione personale e quel principio politico. Dico un’altra cosa, molto importante per questo pubblico. Si parla di libertà di religione e di libertà dalla religione. Si può pensare che il religioso insista sulla libertà religiosa, sulla libertà di praticare la propria religione, e un ateo insista sulla libertà dalla religione. Sbagliato. Io sono una persona religiosa e insisto molto sulla libertà dalla religione, e insisto sulla libertà dalla religione, non soltanto perché sono liberale e pluralista, ma perché, dal punto di vista religioso, come ha insistito Papa Ratzinger a Regensburg, non c’è nessun significato religioso in un atto religioso che non sia autonomo, che sia forzato dallo Stato: questa non è religione. E voi dovete saperlo benissimo, perché era un tema molto vicino al cuore di don Giussani. Lui ha sempre insistito: una religione forzata, un atto religioso che non sia autonomo nel senso kantiano, non ha nessun significato. Allora, l’idea che solo l’io religioso voglia la libertà di religione e non insista sulla libertà dalla religione, è una menzogna.
Ora per finire presto: l’ho detto mille volte. Bisognerebbe una volta per sempre liquidare quella sciocchezza per cui lo Stato laico è una posizione neutrale. Non è una posizione neutrale! E’ una posizione onorevole, è una posizione accettabile, ma la laicità non è un principio neutrale, né lo è la divisione politica fra quelli che pensano che il miglior modo per sistemare il rapporto fra le religioni e lo Stato sia la religione come affare privato, e chi accetta che lo Stato possa esporre simbologie religiose. O si sceglie l’uno o si sceglie l’’altro. Né l’una né l’altra sono posizioni neutrali. E qui – e con questo finisco – ho anche qualcosa da dire sulla questione sensibile nell’aula scolastica. Allora, la mia favola è la parabola di Marco e Leonardo, due amici che stanno iniziando la scuola. Leonardo va a trovare Marco a casa sua: entra e nota un crocifisso. “Che cos’è?” gli chiede. “Un crocifisso. Perché, non ne avete uno voi? Ogni casa dovrebbe averne uno”. Leonardo ritorna a casa agitato. La sua mamma con pazienza gli spiega: “Loro sono cattolici praticanti, noi no. Noi seguiamo le nostre convinzioni, che sono altrettanto nobili. Non siamo gente meno importante”. Ora, immaginiamo una visita di Marco a Leonardo. “Caspita” esclama, “nessun crocifisso? Un muro vuoto?”. “Noi non crediamo in queste assurdità” risponde Leonardo. Marco ritorna a casa agitato. “Perché abbiamo un crocifisso? E’ un’assurdità avere un crocifisso sul muro”. E la mamma spiega: “Sì, noi abbiamo le nostre convinzioni, e la nostra convinzione religiosa è che ci vuole il crocifisso”. Il giorno dopo entrambi vanno per la prima volta a scuola. Ora, due ipotesi. Immaginiamo la scuola con un crocifisso. Leonardo ritorna a casa agitato: “La scuola è come la casa di Marco. Sei sicura, mamma, che vada bene non avere un crocifisso?”. Questo è il nocciolo della domanda. Ma immaginiamoci anche che, in questo primo giorno di scuola, i muri siano vuoti, niente crocifisso. Marco tornerebbe a casa agitato: “La scuola è come la casa di Leonardo” griderebbe, “vedi? Te l’avevo detto che non abbiamo bisogno di queste scemenze”.
Non c’è una posizione neutrale. Con il crocifisso o senza crocifisso, si è davanti ad una presa di posizione. Allora, come si esce da questo? Con un’educazione alla tolleranza. Tanti amici ebrei mi hanno chiesto come mai io, che sono un ebreo, sono andato a difendere la croce. Non sono andato a difendere la croce, sono andato a difendere la possibilità degli italiani di definire la loro identità, rispetto alla loro religione, alla loro storia. Ho difeso questo diritto fondamentale all’identità. E se io fossi stato in Italia – ho vissuto qui sette anni, ma a quell’epoca non avevo bambini -, posso immaginare quale sarebbe stata la mia reazione. Mia moglie e io ne abbiamo parlato. Abbiamo immaginato cosa sarebbe successo se fossimo stati qui in Italia e, ebrei praticanti, avessimo dovuto mandare i nostri figli a una scuola italiana con il crocifisso. Cosa avremmo detto ai nostri figli? Avremmo detto più o meno questo. Noi siamo italiani, l’Italia ha una certa storia, nella storia d’Italia c’è un coinvolgimento molto importante con la fede cristiana. E’ difficile immaginare il nostro popolo italiano senza questo coinvolgimento che trova espressione nella croce.
Ma vedete, malgrado questo fatto, noi ebrei qui siamo cittadini pieni. Domani tu puoi essere anche Primo Ministro italiano. Non c’è nessuna discriminazione verso di te, che non sei cristiano o sei ateo o sei musulmano. Ma il fatto è che questo fa parte dell’identità italiana. Quando tu entri in una scuola, nello Stato di Israele, è normale trovare il Menorah, che è il simbolo dello Stato. Il Menorah era nel Tempio vecchio, su ogni porta del settore ebreo. Anche quando la maggioranza degli ebrei sono atei, c’è un Menorah sulla porta. Fa parte dell’identità dello Stato. Non c’entra che l’alunno sia religioso o meno. Questo avrei insegnato ai miei figli. Mille grazie.

LORENZA VIOLINI:
Noi tutti sappiamo che la prima Decisione Lauzi è stata 7 a 0, e il professor Weiler ricordava che 7 a 0 è stata la decisione contro la tortura. Quindi, sicuramente è una strada in salita, quella di cambiare la Decisione Lauzi. Però, credo che sia una strada altrettanto in salita controbattere a queste argomentazioni. La parola adesso al professor Feliciani, che da canonista ed ecclesiasticista qual è, farà la sua riflessione sul tema della laicità e della presenza della religione nello spazio pubblico.

GIORGIO FELICIANI:
Grazie, presidente. Ometterò gran parte del mio discorso perché sono cose già dette ottimamente dal professor Weiler. Partirei da una premessa molto semplice: la presenza della religione nello spazio pubblico è, almeno tendenzialmente, inevitabile per due ragioni. Primo. I singoli credenti, di qualunque confessione religiosa, abbracciano la propria religione come strada verso il loro personale destino. Di conseguenza, la religione, qualunque essa sia, proponendo una concezione della vita e della morte, indica un atteggiamento, una posizione di fronte alla realtà, posizione che tende a permeare qualunque aspetto dell’esistenza, da quelli più intimi a quelli concernenti la sfera politica e sociale. Gli esempi possono essere innumerevoli. Si pensi all’abbigliamento e all’alimentazione, soprattutto per gli ebrei e per gli islamici, all’atteggiamento nei confronti della pace e degli armamenti. O, per stare ad esempi nostrani, all’accoglienza degli immigrati, ai temi attinenti alla bioetica e, ultimamente, ai conseguenti atteggiamenti di fronte agli orientamenti di elettori ed eletti. Si aggiunga che, almeno di norma, il fenomeno religioso dà vita a gruppi sociali: la Chiesa, le confessioni religiose, dotate di propria autorità, struttura, norme interne, riti, riguardanti anche i momenti salienti della vita sociale, come il matrimonio. Questi gruppi costituiscono una componente tanto rilevante della società civile che in tanti casi hanno contribuito, e tuttora contribuiscono, a definire l’identità di un popolo, dalla letteratura alla pittura, dalla musica all’architettura.
Il professor Weiler ci ha offerto già numerosi e significativi esempi della rilevanza pubblica della religione in diversi Paesi. Io mi permetto di ricordare, come integrazione, che negli stessi Stati Uniti, la Casa Bianca è forse l’istituzione che più rappresenta e riassume la tradizione religiosa americana, perché in tutti i momenti, dalla campagna elettorale all’insediamento del Presidente, dall’ostentazione della sua appartenenza religiosa alla continua invocazione di Dio – a proposito e, qualche volta, a sproposito – nei discorsi pubblici e nei momenti più solenni della vita nazionale, continuamente ci si appella a Dio.
Ma mi sembra anche più interessante dire che non si può nemmeno affermare che la religione sia del tutto assente nello spazio pubblico dello Stato comunemente indicato come il Paese occidentale più ostile: la Francia. Posso ricordare, se volete, un retaggio storico ma in vigore, che il Presidente della Repubblica francese, oltre ad avere il privilegio, a cui non ha mai voluto rinunciare, di nominare due Vescovi cattolici – dico nominare, è l’unico Capo di Stato che ha questo privilegio -, è anche Canonico Onorario della chiesa di San Giovanni in Laterano. Voi sapete cos’è un Capitolo e cosa sono i canonici. E’ un collegio di preti, un insieme di preti che ha come compito quello di rendere più solenne la celebrazione del culto. Bene, il Presidente della Repubblica francese non solo è Canonico Onorario, ma prende sempre regolarmente possesso di questo ufficio. E allora leggiamo anche che cosa ha detto Sarkozy, prendendone possesso. “La laicità non ha il potere di tagliare alla Francia le sue radici cristiane. Ha cercato di farlo, non avrebbe dovuto. Come Benedetto XVI, ritengo che una Nazione che ignori l’eredità etica, spirituale, religiosa della propria storia”, attenzione, “commetta un crimine contro la propria cultura”.
Si potrebbe dire: queste sono vecchie storie, queste sono parole, però c’è qualche dato di fatto, uno imponente: che in Francia, le scuole cattoliche sono integrate a tutti gli effetti nel sistema di istruzione pubblica. Notate che in Francia non si parla di istruzione pubblica ma di educazione nazionale. Quindi, la scuola come fattore di educazione all’identité française. E le scuole cattoliche, quindi, essendo integrate, sono largamente finanziate dallo Stato, cosa che non accade nell’Italia concordataria. Non sto facendo l’apologia della Francia, sto dicendo semplicemente dei dati. Ma ce n’è un altro, una notizia dell’altro ieri: di fronte alla reazione dell’Episcopato, molto critica alle misure di Sarkozy in tema di immigrazione, il ministro competente non ha dichiarato: “I Vescovi si occupino della salvezza delle anime e della devozione alla Madonna”. Ha riconosciuto a tal punto il loro diritto a pronunciarsi su questi argomenti, che si è dichiarato disponibile a un incontro con i rappresentanti dell’Episcopato. Non mi risulta che, almeno formalmente, cose di questo genere siano avvenute in Italia. Poi, ma il professor Amato queste cose le sa meglio di me, si saranno sentiti, ma informalmente.
Da questo breve excursus, risulta evidente che le tradizioni dei diversi Paesi, circa la presenza della religione nello spazio pubblico, sono varie e differenziate, come ha già detto il professor Weiler. Questo non deve sorprendere, dal momento che queste tradizioni sono venute plasmandosi nel crogiolo delle vicende storiche di ogni popolo, fino a divenire una componente non trascurabile della propria identità. Si tratta dunque di tradizioni che, fin quando non comportino violazioni evidenti e specifiche della libertà religiosa, sono da ritenere pienamente legittime, come più volte ha riconosciuto la Corte di Strasburgo. La Corte di Strasburgo ha avvallato le Chiese di Stato, dove può accadere che i Vescovi siano nominati dal Governo; ha avvallato la tassa ecclesiastica, cioè un sistema tributario in vigore in Germania e in altri Paesi del Centro Europa, dove lo Stato impone ai fedeli il pagamento di un addizionale destinato alle rispettive confessioni; ha avvallato la proibizione di portare il velo islamico nelle Università della Turchia; ha approvato, legittimato provvedimenti restrittivi di diversi Paesi nei confronti di libri, film e dipinti determinati da ragioni di natura morale e religiosa. Quindi, la sentenza sul crocifisso è decisamente criticabile per vari profili, su cui non mi soffermo anche perché sono già stati ottimamente illustrati dal professor Weiler.
Non posso evitare, però, perché mi sembra giusto e doveroso farlo, di ricordare che cosa ha detto il nostro Presidente della Repubblica in rapporto alla sentenza di Strasburgo. Ha osservato Napolitano: “Secondo il generale principio di sussidiarietà, che ha finora costantemente ispirato la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, la questione particolarmente sensibile dell’atteggiamento da tenere nei confronti delle simbologie religiose può essere più opportunamente affrontata dai singoli Stati, che sono in grado di meglio percepirne la valenza in rapporto ai sentimenti diffusi nelle rispettive popolazioni”. E ha sottolineato la necessità di salvaguardare e valorizzare il tradizionale patrimonio identitario e dei valori espressi, in particolare nei Paesi europei e nel nostro Paese, dalla millenaria presenza cristiana e cattolica.
Su questo merita ricordare un’altra cosa, benché riguardi solo i Paesi che fanno parte dell’Unione Europea. La Corte di Strasburgo è un organismo del Consiglio d’Europa, non dell’Unione Europea, del più vasto Consiglio d’Europa. Il trattato di Lisbona, che regola il funzionamento dell’Unione Europea, assicura il rispetto delle tradizioni nazionali, impegnando l’Unione a rispettare e a non pregiudicare lo status di cui le Chiese e le associazioni o comunità religiose godono negli Stati membri in virtù del diritto nazionale. E si aggiunga che il Trattato riconosce espressamente la rilevanza pubblica delle religioni, dal momento che non manca di impegnarsi a riconoscere l’identità e il contenuto specifico delle diverse confessioni religiose, mantenendo con esse un dialogo aperto, trasparente e regolare.
Circa la sentenza di Strasburgo, vorrei aggiungere, se volete, una battuta ma non solo. Se davvero i principi della sentenza di Strasburgo dovessero essere applicati rigorosamente, ne deriverebbe una singolare conseguenza: tutti i Paesi che fanno parte del Consiglio d’Europa dovrebbero rinunciare a usare il calendario attualmente in uso. Questo calendario pone al centro l’anno vero o presunto della nascita di Cristo. Infatti, la Rivoluzione Francese si era ben resa conto della portata religiosa del calendario, tanto che lo aveva sostituito con un proprio calendario ispirato a principi illuministici. Non so se è questo che vuole la Corte di Strasburgo, ma la conseguenza di quello che dice è questo. Allora, dove sta il problema, dal momento che questa presenza è inevitabile, almeno tendenzialmente, dal momento che, in un modo o in un altro, si presenta in tutti i Paesi? Non parliamo poi dei Paesi ortodossi, dove c’è addirittura spesso una Chiesa nazionale, per non dire dei Paesi islamici dove la cosa è fin troppo clamorosa. Dobbiamo constatare che nei processi culturali è presente una mentalità laicista, ancora minoritaria ma in espansione, che trova ampia eco, oltre che nelle sentenza di alcuni giudici e in saggi più o meno poderosi, nei mass media, dove non si manca di osannare queste posizioni come se fossero progressiste.
Di più. Secondo alcuni studiosi, la sentenza di Strasburgo si collegherebbe, in un disegno diretto, alla neutralizzazione dello spazio pubblico europeo mediante l’imposizione a tutti gli Stati, in spregio delle loro Costituzioni, di un modello ispirato alla laicità propria dello Stato francese, che però, come abbiamo visto, è molto meno laico di quanto comunemente si creda. Comunque sia, la radice ultima di questi e di consimili orientamenti è da riconoscere in una ideologia caratterizzata dal pregiudizio antireligioso. Secondo i fautori di questa ideologia, il fenomeno religioso appartiene alla sfera dell’irrazionale e quindi non ha alcun diritto di cittadinanza in una società moderna. Quanto alle singole religioni, esse si oppongono al progresso, alla diffusione delle conoscenze scientifiche, producono divisioni tra gli uomini, favoriscono l’insorgere di fondamentalismi che sfociano nella violenza e nel terrorismo. L’ideale sarebbe che sparissero anche dalle coscienze degli individui ed occorre adoperarsi in questo senso. Per lo meno, stiano lontane dallo spazio pubblico.
Queste posizioni sono sostenute da noti e qualificati autori, anche su importanti quotidiani nazionali, se qualcuno ha la bontà di leggere i più importanti quotidiani nazionali. Qui non poniamo minimamente in discussione il diritto di chi abbraccia questi argomenti a propugnarli in pubblico e in privato, con tutti i mezzi di cui dispone e come meglio crede. Il problema è un altro: quello che non si può accettare è che si pretenda di imporli come principi ispiratori della convivenza sociale al di fuori di qualunque confronto e verifica democratica e con falsi pretesti. Esempio. L’opposizione alla presenza dei simboli religiosi negli spazi pubblici, simboli religiosi cattolici, viene frequentemente motivata con l’esigenza di tutelare le religioni di minoranza, mentre essa, a ben guardare, nasce da ultimamente da un atteggiamento negativo nei confronti di qualunque confessione. In proposito, è significativo che tra i numerosi ricorsi presentati contro tali simboli nelle varie sedi, nessuno risulta proposto da una comunità religiosa. Aggiungerei anche che, quando lo Stato francese limitò, più che vietare, l’uso del foulard islamico nelle scuole pubbliche, si pronunciarono contro non solo le autorità islamiche, ma anche l’Arcivescovo di Parigi e il Gran Rabbino di Parigi.
Vediamo un’altra prospettiva: l’opposizione alla presenza della religione nello spazio pubblico sembra però avere anche un’altra radice sempre di natura ideologica, che si può definire come ostilità all’appartenenza. Intendo riferirmi a quella concezione di società civile che considera i corpi intermedi, io proferisco parlare di formazioni sociali, con la nostra Costituzione, come possibili elementi disgreganti l’unità statale, e come un ostacolo al rapporto diretto tra il cittadino e lo Stato. Ha osservato Paolo Grossi: “L’età moderna di matrice settecentesca, eliminando tutte le società intermedie, ha operato una colossale operazione. Ha infatti ridotto il paesaggio giuridico a due sole individualità: il macroindividuo, cioè lo Stato, e il microindividuo, il singolo cittadino, l’uno e l’altro oggetto di enfatizzazione. Quindi, lo Stato è il potere supremo, l’individuo è un soggetto solitario senza legami, senza rapporti, senza appartenenza. Una concezione” osserva Grossi “di cui non ci siamo ancora interamente liberati, al punto che qualche giurista continua a farsene promotore”. Potrei portare altri dati ma sorvolo per ragioni di tempo.
Due battute sulla situazione italiana. In Italia, da qualche tempo a questa parte, nelle discussioni circa una materia di grande rilevanza sociale, come la bioetica e la famiglia, non pochi politici e opinionisti sostengono in modo più o meno coerente e assoluto la seguente tesi: i credenti si astengano pure da comportamenti e prassi incompatibili con le loro personali convinzioni, ma non pretendano di vietarli ad altri, come si diceva durante la campagna per il divorzio. I cattolici non divorzieranno, ma perché devono imporre agli altri di non poter divorziare? In pratica, gli uomini di fede, fatto salvo il doveroso rispetto dello Stato, possono senz’altro comportarsi come meglio credono, ma non hanno titolo a promuovere una legislazione che rispetti la loro concezione della persona umana e della società. Queste concezioni, derivanti dalla religione, non hanno diritto di cittadinanza fuori dalle coscienze. Non è certo il caso di ricordare qui tutte le motivate e approfondite critiche che sono state formulate contro queste tesi. Si può solo rilevare che queste tesi risultano incompatibili con il diritto fondamentale dell’uomo alla libertà religiosa, perché questo diritto garantisce a chi crede di esprimersi secondo la propria fede con tutte le implicazioni, culturali, sociali e politiche che ne derivano. Certo, poi, nel confronto democratico, si vedrà. Non a caso, Giovanni Paolo II ha decisamente respinto la pretesa che una società democratica debba rilegare al puro ambito delle opinioni personali i credo religiosi dei suoi membri e le convinzioni morali derivanti dalla fede. E Benedetto XVI ha definito come ipocrisia la tolleranza che ammette, per così dire, Dio come opinione privata ma gli rifiuta il domino pubblico, nel mondo e nella nostra vita.
In ultima analisi, le tesi rilevate, se sostenute in modo assoluto e coerente, finiscono con l’auspicare una sorta di inaccettabile discriminazione dei cittadini, riconoscendo a tutti il diritto, per non dire il dovere, di concorrere nelle modalità previste dalla Carta Costituzionale alla modulazione della vita pubblica nei suoi diversi aspetti; a tutti i cittadini tranne ai credenti, in quanto intendono agire secondo le loro più profonde convinzioni. Potrei aggiungere che questa è in particolare una critica che viene rivolta, più che ai singoli credenti, se non in modo generico, contro la gerarchia, in occasione di interventi di Vescovi in materia di fecondazione assistita e di unioni di fatto. Potremmo dire che forse, o almeno in una certa misura, queste prese di posizione contro gli interventi della gerarchia non sono degni di particolare considerazione, perché puramente strumentali. Un editorialista del Corriere della Sera ha osservato che non pochi esponenti laici adottano una sorta di semaforo ideologico. Quando le posizioni della gerarchia coincidono con le loro, ecco un bel verde; se l’orientamento cattolico diverge, scatta un perentorio rosso. L’atteggiamento è diffuso a sinistra come a destra, con il risultato che ogni intervento dei Vescovi in materie, per così dire, sensibili, provoca applausi e fischi, ma le parti fluttuano secondo l’occasione. In realtà, le vivaci reazioni determinate da questi pronunciamenti episcopali meritano attenzione in quanto rivelano una marcata insofferenza, per non dire una decisa ostilità, non tanto nei confronti di determinati precetti o di dottrine morali o del cristianesimo genericamente intese, quanto della stessa Chiesa. Le contestano infatti il diritto di pronunciarsi nelle materie che possono essere oggetto della legislazione statale, con motivazioni che ripetono quelle già ricordate, ma anche con argomentazioni di natura più propriamente istituzionale.
Ad esempio, una lettera pubblicata senza alcun commento su un diffuso quotidiano nazionale, riesuma la risibile tesi che la Chiesa non avrebbe alcun titolo per interloquire negli affari italiani, in quanta soggetta al Sovrano di un Paese straniero, il Vaticano. Attenzione, un’argomentazione decisamente preoccupante, perché induce a considerare i cattolici cittadini di seconda categoria, come è avvenuto più volte nella storia. Non si è esitato a ricorrere al ricatto economico, minacciando l’abrogazione dell’otto per mille, che non ha nulla a che vedere con la tassa tedesca, senza far presente che non si tratta di un privilegio della Chiesa cattolica ma di una forma di finanziamento già in vigore per altre cinque confessioni religiose formalmente previste, come ricordano i quotidiani di oggi, e accessibile a tutti i culti che pervengano alle Intese previste dall’articolo 8 della nostra Costituzione. Non sono mancate neanche argomentazioni più sottili e articolate, come quella di chi ha osservato che in sé e per sé i pronunciamenti della gerarchia sarebbero leciti, ma cessano di esserlo in presenza di un Concordato. Interpretazione del tutto fantasiosa, in quanto è proprio il Concordato che, non solo riconosce la piena legittimità della presenza della Chiesa in campo sociale, ma l’impegna in questo senso. Perché l’articolo primo – evidentemente chi sostiene queste tesi, anche se accreditato come intellettuale competente di queste materie, non ha mai letto il Concordato – dice che la Repubblica italiana e la Santa Sede, dopo aver ribadito la propria sovranità e indipendenza, come da Costituzione, si impegnano alla reciproca collaborazione per la promozione dell’uomo e il bene del Paese.
Concludo rapidissimamente. La Chiesa, se vuole essere fedele alla sua missione, non può e non deve essere neutrale in politica. Certo, essa non si ritiene legata ad alcun regime o sistema politico, ma rivendica con forza il proprio diritto-dovere di predicare sempre e dovunque, con vera libertà, la fede, e di insegnare la sua dottrina alle società, esercitare senza ostacoli la sua missione tra gli uomini e dare il suo giudizio morale anche su cose che riguardano l’ordine politico, quando ciò sia richiesto dalla persona e dalla salvezza delle anime. Concludo con un’avvertenza. Anche nella situazione del nostro Paese, che nel contesto del mondo si rivela tra le più favorevoli, la libertà religiosa non può mai darsi come pacificamente acquisita e assolutamente scontata, ma deve essere continuamente e attentamente rivendicata e tutelata contro ogni tentativo di circoscriverla o di limitarla. E a questo proposito, va segnalato che la questione si pone soprattutto a livello educativo e culturale, perché, come ha osservato Giovanni Paolo II, i diritti dell’uomo, più che norme giuridiche, sono innanzitutto dei valori che devono essere custoditi e coltivati nella società, altrimenti rischiano di scomparire anche dai testi di legge o, aggiungo io, di restarvi confinati senza alcuna incidenza sulla realtà. In ogni caso, il mezzo più efficace di cui i credenti dispongono per tutelare la libertà religiosa, è quello di esercitarla effettivamente in tutte le sue dimensioni ed espressioni, dal culto pubblico alla testimonianza negli ambienti di vita, dalle iniziative culturali ed educative alle opere sociali. E’ questa prospettiva di presenza che don Giussani ci ha sempre insistentemente proposto e di cui si può senz’altro indicare come esempio particolarmente significativo questo Meeting.

LORENZA VIOLINI:
Grazie davvero, perché, come vedete, il tema si allarga. Non solo un caso, ma una situazione letta con intelligenza e profondità. La parola adesso al Presidente Amato, nostro graditissimo ospite, che ci darà delle conclusioni forti su questo tema. Grazie.

GIULIANO AMATO:
Bene, io vi ringrazio per avermi invitato. C’è una ragione, in fondo. E’ da tempo che sostengo esattamente l’opposto di ciò che sembra prevalere in termini di laicità. Noi non abbiamo bisogno di tenere le religioni fuori. Noi abbiamo bisogno di tenerle dentro. Noi non abbiamo bisogno, per vivere insieme, per sperare nel futuro di questo mondo, per sperare che cambi una vita sociale nella quale è sempre più difficile che uno riconosca se stesso nell’altro, che le comunità che riescono a vivere insieme vedano questo insieme al di là della categoria economica o al di là dell’etnia, in modo che ci sia quella cosa che molti hanno ancora il coraggio di chiamare fratellanza degli esseri umani. Ecco, se il futuro del mondo è questo, se, come è mia convinzione, il futuro è Babele, ma una Babele in cui i diversi devono imparare a riconoscersi, apprezzarsi e amarsi, se il futuro è questo, non lasciate la vostra fede al di fuori della sfera pubblica, non lasciatela sotto il tappeto di casa, quando vi muovete per incontrare gli altri. Questo è un tema classico delle democrazie. Le democrazie hanno come proprio presupposto, e come proprio modo di vivere, il rispetto degli altri, il riconoscimento della dignità umana in ciascuno: la democrazia è i diritti e le libertà riconosciuti a tutti coloro che ne fanno parte.
State attenti, in Italia questo tende troppo spesso ad essere dimenticato. Le democrazie funzionano attraverso il principio di maggioranza, è vero, ma le libertà e i diritti sono di tutti, non della sola maggioranza; e nessuna maggioranza ha il diritto di privare di libertà e diritti coloro che non ne fanno parte. Ma se questa è l’essenza della democrazia, la democrazia che funziona in base al principio di maggioranza non è in grado di garantire i propri presupposti. Perché, cosa garantisce, quale regola legale può garantire quelle qualità civili e morali che sono essenziali perché un sistema democratico funzioni? Ecco che questo dilemma lo risolve qualcosa che viene prima, qualcosa che sta nella coscienza di ciascuno di noi, qualcosa che sta nei valori in cui crediamo, nei principi ai quali ispiriamo la nostra azione quotidiana. Ebbene, questi principi sono ciò che per molti di noi le religioni insegnano, ciò di cui il funzionamento, non solo della vita privata ma anche pubblica, ha uno straordinario bisogno. Allora, si tratta di domandarsi come sia venuto fuori che si dica, a chi ha una fede religiosa: guarda che la sfera pubblica è la sfera dell’assenza della fede. La fede, gli affari religiosi stanno da un’altra parte. Noi viviamo il temporale e sul temporale la religione non ha voce. La religione ha voce su ciò che sta dentro e su ciò che sta al di là della vita temporale. State attenti, c’è un elemento di verità, in questo. Di sicuro, la religione porta dentro di sé un elemento trascendente, comporta che si pensi che c’è un Dio al di sopra di noi, col quale i fedeli pensano di ricongiungersi al di là della vita terrena. Ma se c’è questo elemento, non è affatto vero l’opposto, e cioè che il temporale non sia sotto l’influenza della religione e dei sentimenti religiosi. E in realtà, se si vuole insistere su questa separatezza, è perché – io ne sono profondamente convinto – si confonde tra la questione che nei nostri Paesi europei si è posta storicamente nei secoli, e cioè la separazione dell’istituzione Stato dall’istituzione Chiesa, con ciò che sta nella coscienza di ciascuno di noi, dove non ha nessun senso che si operi un’analoga separazione.
Quando si dice: “degli affari temporali si occupa lo Stato, degli affari spirituali si occupa la Chiesa”, si dice in fondo una cosa che è giusta, una volta superato il potere temporale della Chiesa. Si dice che, se tu commetti un furto, è lo Stato che ha il potere di decidere se condannarti o meno. Si dice che, quando ti nasce un figlio, è quello che certifica che la tua famiglia è cresciuta e che quella creatura è figlio tuo, mentre tocca alla Chiesa valutare se ammetterti o meno ai riti religiosi, ovvero ai sacramenti, in ragione di comportamenti che possono essere in violazione con le regole religiose, e compete alla Chiesa ordinare i sacerdoti e stabilire quali sono le loro vicende e stabilire eventualmente le ragioni per le quali si può essere privati delle prerogative sacerdotali. Questo è assolutamente vero, ma non ha nulla a che fare con il fatto che buona parte del temporale, per chiunque viva la sua vita terrena con la normalità con cui chiunque la vive, non debba risentire al contrario dei valori nei quali crede, dei principi ai quali si ispira.
Se la religione riguardasse solo l’aldilà, voi avreste il diritto di essere credenti solo dopo che avete reso la vostra vita al Signore. Paradosso inaudito, questo. Voi non avreste il diritto di essere credenti nella vostra realtà quotidiana, perché questo violerebbe una sorta di neutralità che la sfera pubblica deve avere rispetto agli affari religiosi. E’ vero invece il contrario. Voi avete non il diritto ma il dovere di portare ciò in cui credete nelle discussioni, e soprattutto in quelle in cui si affrontano questioni che hanno un risvolto morale. Questo viene oggi troppo spesso dimenticato. Badate, non c’è soltanto la bioetica. Oggi si dice che la religione è tornata perché vi sono questioni che attengono alla vita e alla morte. Certo, questo è sicuramente vero, ma tutte le questioni che vengono affrontate nella sfera pubblica, per il solo fatto che vengono decise, scegliendo in un senso o nell’altro, sono questioni sulle quali viene fatta una scelta morale. Perché? Quando si decide, lo ricordava giustamente il collega Feliciani, per esempio, di mandare via i rom, non c’è una scelta morale, in questo? E’ possibile che noi vediamo una questione del genere soltanto come una questione di ordine pubblico. Se io ho una fede religiosa, non potrà scattare dentro di me la consapevolezza che sono miei fratelli anch’essi? Quando qualcuno mi disse che siamo tutti figli dello stesso Dio, non si riferiva anche ai rom? E se si riferiva anche ai rom, posso mandarli via, ignorando questa fondamentale comunanza che c’è e che mi viene dalla mia religione?
Vedete, questo è il punto. Non esistono questioni in relazione alle quali la religione sia irrilevante. Tutte le questioni, o quasi tutte, certo. Insomma, quando per misurare i millesimi di un condominio occorre l’unanimità, o lo si può decidere a maggioranza, una Cassazione può stabilire su questo, probabilmente, una distanza dai principi religiosi, immagino. Sarei in qualche modo inquieto, se vi fosse qualcosa che viene dalla religione a proposito dei millesimi di una condominio. Ma al di fuori di queste piccole cose, voi avete sempre nella sfera pubblica decisioni che implicano una questione fondamentale, scegliete sempre tra il giusto e l’ingiusto, e in genere è giusto ciò che punisce chi ha fatto del male, ma ciò che non nega l’altro quando l’altro è vittima del male, e forse ne deve riconoscere un po’ anche in chi ha fatto del male. Temi sui quali potremmo intrattenerci a lungo. Ecco, allora, che viene fuori un punto essenziale: la religione non è fuori dalla sfera pubblica. La religione, la religione interpretata da chi? Ecco, questo è il tema davanti al quale i Paesi che hanno avuto il potere temporale della Chiesa, come l’Italia, tendono ad avere una pelle facilmente irritabile. Ma appunto, altro sono le gerarchie ecclesiastiche, le quali adottano atti che producono effetti nella loro sfera, che esprimono una voce, che è probabile che sia più autorevole in Italia di quanto possa esserlo in altri Paesi lontani dalla religione cattolica: ma è una questione di autorevolezza perché, alla fine, badate, a decidere è sempre la coscienza del singolo. L’importante è che il singolo, questa coscienza, la sappia attivare.
Qui non si deve mai dimenticare un tema di fondo, che ciascuno di noi, anche il credente, sta nella sfera pubblica come cittadino: deve portare dentro di sé i suoi sentimenti religiosi e ciò in cui crede, ma deve saperli confrontare con gli altri, misurare con gli altri, valutare in relazione alle reazioni che gli altri possono avere, introdurre con quella generalizzabilità che anche Benedetto XVI ha sottolineato come qualità essenziale dell’argomento con il quale si fa valere ciò in cui si crede nella sfera pubblica. Non potete accettare che nella sfera pubblica entri qualunque principio ritenete di imputare alla vostra religione, o di dovere alla vostra religione, come un credendum al quale voi e anche gli altri si debbano rimettere. Stiamo attenti quando assumiamo atteggiamenti di questa natura che sarebbero sbagliati. Voi vivete ormai in un Paese nel quale anche altre religioni sono entrate o, per meglio dire, sono tornate. E si fa i conti con le interpretazioni che di queste altre religioni vengono date da coloro che ne sono fedeli.
Immaginate, per seguire Joseph Weiler nella esemplificazione astratta, che qualcuno proponga domani nel Parlamento italiano una legge che prevede la lapidazione delle donne adultere, ritenendo con ciò di ottemperare a una prescrizione che ritiene religiosa. Non sta a me stabilire se il Corano possa davvero prevedere una cosa simile. Io sono abbastanza candido da ritenere che nessun Dio, dal momento che poi nelle religioni monoteiste è sempre lo stesso, comunque chiamato, possa prescrivere ai suoi fedeli di uccidere l’altro, perché uccidere un uomo è la negazione di Dio. E non credo che il Dio unico chiamato Allah dia prescrizioni diverse da quelle che dà il Dio chiamato Dio, secondo la nostra lingua. Ma c’è chi ritiene che sia una prescrizione religiosa, quella di lapidare una donna adultera. Se vi venisse proposto in Parlamento, voi reagireste e pretendereste che chi lo propone reagisse e fosse consapevole del fatto che questo viola dei principi fondamentali che riguardano i diritti dei singoli, la dignità della persona e la convivenza civile. La generalizzabilità. E, come diceva Joseph Weiler, la tolleranza per l’altro. La sfera pubblica, questo lo diceva Maritain, è qualcosa nella quale si incontrano società naturali diverse, anzi, meglio, comunità naturali diverse. La comunità religiosa è una delle comunità naturali ma è destinata a incontrare altri, e con questi altri procedere verso il bene comune.
Io vorrei che di questo mio intervento vi rimanessero fondamentalmente due cose: che in questa compresenza con gli altri, voi portiate i vostri valori di credenti, non li lasciate fuori dalla porta, ma li ritenete parte essenziale del vostro modo di collocarvi davanti alle questioni, di fare la diagnosi della realtà e di arrivare verso la soluzione. Allo stesso tempo, però, lo dovete saper fare essendo capaci di andare al nocciolo di ciò che la vostra stessa religione vi porta a ritenere giusto. Qualora vi accorgiate che portare avanti fino in fondo la vostra soluzione è una negazione dell’altro, dovete porvi il problema del limite: fino a che punto ho il diritto di imporre me stesso agli altri, pretendendo che gli altri siano come me. Guai a uno scontro di assoluti senza limite nella sfera pubblica. Se c’è un’altra cosa sbagliata, e finisco presto, è dire che la sfera pubblica è la sfera in cui non hanno accesso gli assoluti. Questa è un’altra fesseria che viene detta in realtà per tenere fuori la religione. Ma perché? Che nella sfera pubblica di una democrazia debba decidere la maggioranza e non la minoranza, non è un assoluto? Che per una democrazia tutti gli esseri umani siano eguali e che non si possano fare leggi che favoriscano i cittadini di razza ariana, non è un assoluto? Il problema non è se entrano gli assoluti, è che dobbiamo tutti sapere che c’è un limite. La vera differenza tra gli integralisti e i non integralisti è qua, è nella consapevolezza o meno del limite, è nella questione che, in testi che voi conoscete, è detta hybris, è l’eccesso, è l’andare oltre. L’andare oltre è contrario ai principi della religione. Il confine tra il creatore e la creatura è anche nell’argomentazione. La mia argomentazione non può mai essere così sicura di sé da escludere comunque che il contributo di altri possa migliorarla o portare ad una soluzione che per il bene comune è migliore.
Ecco, questo è il punto su cui oggi io mi sono trovato a criticare più spesso i non credenti dei credenti. Perché i credenti in quanto tali, appunto, questa distinzione tra creatore e creatura la sentono dentro di sé, e quindi spesso sono più consapevoli dell’esistenza di un limite invalicabile. La dea ragione, quella che riemerge ogni tanto ancora oggi, come ai tempi di Comte e di altri nell’Ottocento, tende a fornire soluzioni che sono talmente vere da non ammettere repliche, da non ammettere obiezione. Questo è davvero pericoloso, può portare verso i totalitarismi e le dittature culturali. Noi andiamo verso una Babele, in ogni caso andiamo verso una società o delle società nelle quali ci troveremo in diversi, e la distinzione a cui siamo abituati in Italia, che è fondamentalmente quella che chiamiamo tra laici e credenti, che poi è tra credenti e non credenti, è una distinzione che sarà accompagnata tra appartenenti ad una religione e appartenenti ad altre religioni, che potranno diventare sempre più numerosi. E’ fondamentale che, di questa Babele, mettiamo a frutto ciò che essa è in grado di offrirci. Io non sono un teologo e quindi non ho titolo a interpretare i sacri testi. So che Babele è da molti interpretata come una maledizione del Signore, che volle che l’eccesso che si stava formando in quella torre finisse per centrifugarsi, e gli uomini e le donne sparse per il mondo. Quella cosa che chiamiamo globalizzazione sta riportando Babele a ricomporsi. Nella torre che un giorno fu distrutta, si ricreano ambienti nei quali i diversi, a suo tempo centrifugati, vivono l’uno accanto all’altro. Questo fa riemergere interpretazioni che portano a ritenere che l’Onnipotente volesse insegnarci a vivere meglio, vivendo tra diversi. Questo lo si trova scritto nel Corano, a dir la verità, in un bellissimo passaggio che dice: “Io vi ho creato in nazioni e tribù, non perché restaste ciascuno tronfio nella propria tradizione, ma perché imparaste a conoscervi ed amarvi meglio”. Sapete cosa vi dico? E’ un bel Corano, e sarebbe bello che tutti partissimo da qui.

LORENZA VIOLINI:
Grazie a tutti i relatori e in particolare a questo ultimo intervento, perché ci chiama proprio a qualcosa che è dentro la nostra esperienza. Noi possiamo e speriamo di poter incontrare tutti, perché siamo profondamente convinti che il desiderio di felicità, di verità e di giustizia alberghi in ciascuno di noi, e questo è il segno della presenza del Mistero in noi. Grazie a Giorgio Feliciani che ci ha ricordato che la libertà religiosa deve essere praticata per essere ben difesa. E grazie ancora, come sempre, a Joseph Weiler, per il cuore grande che ha nei confronti degli amici del Meeting e per averci poi ricordato che abbiamo dei buoni argomenti per continuare a lottare per un’Europa che non sia un’Europa appiattita, un’ Europa che non sia neutrale ma che sia veramente il luogo dei popoli e delle persone che hanno un cuore grande. Arrivederci a tutti e buona serata.

(Trascrizione non rivista dai relatori)

Data

27 Agosto 2010

Ora

15:00

Edizione

2010

Luogo

Sala A1
Categoria
Incontri