L’opera d’arte: là dove lo sguardo palpita

Agosto 2020
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di Davide Amata

Giuseppe Frangi, presidente dell’Associazione Giovanni Testori, giornalista, segue il Meeting dal 1982. Nell’incontro in  programma oggi alle 17 documenterà il percorso di alcuni artisti contemporanei che nell’imprevisto del presente scoprono meraviglia e sublime.

“Là dove lo sguardo palpita” è il titolo dell’incontro. Perché è stato scelto?

“Il titolo nasce dal desiderio di capire come nella creazione di ogni opera d’arte è l’artista il primo che si sorprende di quello che sta creando. L’opera non è solo esito delle capacità dell’artista, egli si scopre come tramite, c’è un’intensità umana che si comunica. L’artista, nella sua dimensione più compiuta, è un tramite che dà corpo e immagine a un’esperienza di bellezza.  Davanti alla quale “il suo sguardo palpita”.

In questi anni, insieme alla squadra di Casa Testori, ha curato diverse mostre al Meeting che hanno avvicinato il pubblico all’arte contemporanea, “Tenere vivo il fuoco”, “Il passaggio di Enea”, “Now Now”. Che cosa vi ha sorpreso di più in questa ricerca?

“Oggi, l’arte contemporanea parte da presupposti diversi dal passato, non ha più una committenza. Quasi nessuno chiede a un artista di realizzare un’opera su un determinato tema. Per questo si aprono per l’artista percorsi di senso completamente inediti in un’esperienza di libertà che può essere anche spaesante. Una libertà che significa anche mettere in conto i rischi di una caduta di qualità, data la mancanza di canoni di riferimento. Si allarga enormemente il campo delle possibilità, ma gli artisti sono comunque chiamati ad intercettare momenti di verità che rendono testimonianza dell’intensità drammatica della vita”.

Quali opere e quali artisti documentano questa avventura nel sublime?

“Maestri contemporanei tra cui Christo hanno offerto straordinari esiti di meraviglia, come l’installazione sul lago d’Iseo. Per il Meeting ho preferito un approccio diverso, partendo da un suggerimento di Romano Guardini: «Io non rendo giustizia all’opera d’arte se la “gusto”, ma se rivivo l’incontro dell’artista creatore con l’oggetto». Per questo ho cercato di indagare su questo momento decisivo in rapporto a quello che è probabilmente il più importante artista vivente, Gerhard Richter. Nato a Dresda nel 1932 ha attraversato tutte le tragiche ideologie del 900.  La sua esperienza, piena di ferite e di contraddizioni, è anche l’esperienza di un ostinato desiderio: che la pittura possa essere rivelazione di un qualcosa che come lui dice «trascende la nostra comprensione».  Percorrerò una serie di opere in cui in modo sorprendente seppur implicito affronta il tema dell’Annunciazione. Nel 2003 a Richter era stata commissionata una vetrata del Duomo di Colonia, distrutta dai bombardamenti della Seconda Guerra mondiale. Una committenza importante proprio a lui che non aveva mai fatto professione di fede. In partenza gli era stato chiesto di rappresentare i martiri del nazismo ma Richter aveva declinato la proposta rilanciando l’idea di una vetrata astratta con i 72 colori intercettati nelle altre vetrate antiche che si erano salvate dalle bombe. Chi entra nella cattedrale fa un’esperienza del sublime attraverso la luce. La vetrata consente di percepire la luce come metafora di Dio: l’artista e l’opera sono un tramite. La ricerca di Gerhard Richter è davvero emblematica. Il regista Florian Henkel von Donnersmarck, noto per Le vite degli altri, gli ha dedicato un film nel 2018, Opera senza autore”.

Da profondo conoscitore dell’arte contemporanea, c’è un augurio che condivide in questo momento difficile.

Un ritorno alla pittura come amore e dedizione al reale. Dobbiamo ricordarci che è un grande dono del cattolicesimo poter rappresentare la realtà, a partire da Dio stesso, che si è fatto carne e si è reso visibile. Altrimenti non resterebbe che rifugiarsi nell’ornamentale. Il cuore dell’annuncio cristiano è l’imprevisto che irrompe nella storia e diventa un volto. Mi auguro che gli artisti possano proporre esperienze figurative nuove proprio a partire dalla pittura. L’esperienza di Richter insegna: la sua è un’esperienza di una radicalità assoluta, c’è stato un momento, raccontato nel film, in cui davanti alla tela bianca si è trovato letteralmente paralizzato. È ripartito lavorando dalle fotografie amatoriali della sua famiglia, ciò che la realtà gli poneva davanti. Spero davvero possa esserci ancora una grande pittura capace di documentare la meraviglia dell’umano.