VERSO IL XVII CENTENARIO DELL’EDITTO DI MILANO

Verso il XVII centenario dell'Editto di Milano

Partecipano: Francesco Braschi, Dottore incaricato della Biblioteca Ambrosiana; Giorgio Feliciani, Docente di Diritto Canonico all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano; Alfredo Valvo, Docente di Storia Romana all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano; Giovanni Maria Vian, Direttore de L’Osservatore Romano. Introduce Stefano Alberto, Docente di Teologia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

 

VERSO IL XVII CENTENARIO DELL’EDITTO DI MILANO
Ore: 15.00 Sala C1 Siemens

STEFANO ALBERTO:
Buon pomeriggio, benvenuti a tutti. Questo incontro dal titolo nello stesso tempo semplice, evocativo e impegnativo, Verso il XVII Centenario dell’Editto di Milano, dice che quando si celebra un centenario, per giunta il XVII, si deve trattare di qualche cosa di molto significativo. L’incontro di oggi vuole iniziare a renderci consapevoli che quello che è successo nel 313 d.C., grazie all’imperatore, al serbo Costantino, è qualche cosa che riguarda la vita nostra, la vita della Chiesa, la concezione dei rapporti tra Stato e Chiesa, più profondamente la libertà più importante di tutte, che è quella religiosa. Vi ricordo, forse molti di voi l’hanno ancora in mente, che il Meeting, come accade in molti altri aspetti, ha un po’ precorso i tempi con la grande mostra che per molti mesi è stata ospitata in centro città: Costantino il grande. Il convegno, che fu organizzato già nel 2005, anno per noi molto significativo per tante ragioni, ha voluto iniziare ad accendere i riflettori sulla ricorrenza dell’anno prossimo. Riprendendo un’osservazione di Marta Sordi, “totalmente ed esclusivamente di Costantino”, osserva lei acutamente, “è il concetto di libertà religiosa, non appena di tolleranza, secondo cui il diritto della divinitas, di essere adorati come vuole, fonda nei singoli la potestà di seguire la religione che ciascuno avesse voluto”. Quello che è accaduto nel 313 è qualche cosa di profondamente rivoluzionario, innanzitutto la separazione della religione come culto dello Stato: il protagonista del fenomeno religioso non è più lo Stato, con i suoi riti, con i suoi culti, ma è la persona, la singola persona, con la sua coscienza, l’esplicitarsi del suo credo religioso anche in forma comunitaria ed associativa. Oggi si parla tanto della laicità dello Stato, laicità negativa, laicità positiva, ma non dobbiamo dimenticarci il momento in cui storicamente, se non compiutamente, sono state poste le premesse dell’attuale, data da tutti per scontato sia pur in forme molto diverse, separazione tra stato e Chiesa in una forma che non è di contrapposizione ma di sempre auspicabile collaborazione. Visto il numero e la qualità dei relatori, e la pretesa che speriamo alla fine risulti, soprattutto per voi, non appena un desiderata ma una realtà, di inquadrare il fenomeno da diversi punti di vista, vorrei, presentando di volta in volta i relatori, iniziare a chiedere al professor Valvo, Docente di Storia Romana all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, se ci aiuta ad inquadrare nel contesto storico del IV secolo l’importanza e anche le dinamiche che hanno portato a questo editto dell’imperatore Costantino.

ALFREDO VALVO:
Lo faccio ben volentieri, grazie. “Dalla distruzione della Chiesa alla sua restaurazione erano trascorsi dieci anni e circa quattro mesi”. Con queste parole, lo storico Lattanzio conclude il capitolo nel quale ha esposto i provvedimenti di Costantino e di Licinio, emanati nel 313. Il testo, più che un editto è una circolare che i due Augusti, Costantino e Licinio, avevano concordato nel loro incontro di Milano, all’inizio del 313. Il documento, conservato anche nella traduzione greca da Eusebio di Cesarea, garantiva non soltanto la libertà ai cristiani di professare la loro fede ma prevedeva la restituzione dei beni che erano stati loro espropriati e riconosceva a tutti i cittadini dell’impero il diritto di professare la propria religione liberamente. Questa la sostanza del contenuto, del quale si parlerà tra breve. Il decennio al quale fa riferimento Lattanzio copre lo spazio di tempo compreso fra il 23 febbraio 303 e il 13 giugno 313. Il 23 febbraio 303 fu emesso il primo di quattro editti che ripristinavano la legislazione anticristiana e persecutoria di quasi mezzo secolo prima. Suonava beffardo nei confronti dei cristiani che in quello stesso giorno cadesse anche la festa del dio Terminus, protettore dei confini, con implicito riferimento alla fine imminente del cristianesimo. La seconda data, 13 giugno 313, segna la fine di Massimino Daia, un altro concorrente all’impero e implacabile persecutore dei cristiani. Nel 311, due anni prima dell’editto di Milano e otto dall’inizio della grande persecuzione, Galerio, ormai alla fine della sua vita, aveva emanato un altro editto, detto di Serdica o di Nicomedia, dal luogo di pubblicazione, che consentiva ai cristiani la libertà di culto e la ricostituzione delle loro comunità. Il testo di questo editto di tolleranza ci è conservato ancora da Eusebio (H.E. VIII 17, 3-10) e da Lattanzio (de mort. 34), il quale restituisce con queste parole il contenuto centrale dell’editto: “In nome della nostra mitissima clemenza e della costante abitudine in ogni occasione di perdonare a tutti gli uomini, abbiamo ritenuto di dovermostrare pure con i cristiani senza esitazione la nostra indulgenza. In tal modo potranno essere nuovamente cristiani e ricostituire le loro comunità, fatto salvo da parte loro il rispetto assoluto dell’ordine costituito”. Ancora più importante, è la conclusione del testo dell’editto: “In ossequio a questa nostra indulgenza [i cristiani] dovranno pregare il loro dio per la nostra salute, quella dello Stato [da sottolineare] e la loro propria, affinché lo Stato si conservi sicuro dappertutto ed essi possano vivere tranquilli nelle loro sedi”.
La richiesta di una preghiera intercessoria dei cristiani rivolta al loro dio, posta quasi come condizione in cambio della libertà di culto, per le condizioni in cui fu rivolta lascia pochi dubbi sulla sincerità del richiedente. Gli dei tradizionali, in nome dei quali Galerio aveva perseguitato ferocemente i cristiani, venivano messi da parte in extremis perché non erano più in grado di assolvere al compito per il quale i Romani li avevano sempre venerati: la grandezza e la salvezza di Roma e dell’imperatore. Di questo distacco dagli dei patri, che costituivano il nucleo più antico dei mores antiqui, si può proporre una spiegazione razionale, in parte letteraria. Secondo una antica concezione evolutiva della storia, la “successione degli imperi” non sarebbe dovuta andare oltre l’impero romano ma concludersi con esso (imperium sine fine); questa idea era stata fatta propria da alcuni storici romani di età repubblicana e augustea. Tuttavia la decadenza degli dei e delle loro promesse aveva lasciato spazio al timore del futuro, come ci richiama l’espressione bono rei publicae natus (nato per la salvezza dello Stato) che troviamo incisa sulle monete e sulle iscrizioni dal III secolo d.C. in poi, a testimoniare la speranza riposta nell’ultimo arrivato. Il clima di crisi – economica e militare, politica e istituzionale – era del resto ormai cronico: all’esterno i barbari, Sarmati e Goti, premevano ai confini, all’interno l’instabilità politica per le faide fra i tetrarchi e l’impoverimento generale sembravano irreversibili.
L’editto di Serdica o di Nicomedia precede di pochi mesi l’evento della presunta conversione di Costantino prima della battaglia di Ponte Milvio. Celebrato dalla storiografia costantiniana, rappresentata principalmente da Eusebio e Lattanzio, questo evento è ineludibile per una comprensione del seguito degli avvenimenti. Cosa vide Costantino per credere improvvisamente che la vittoria gli sarebbe venuta dal dio dei cristiani? Non si trattò, infatti, di una adesione al cristianesimo. Su questo fatto Lattanzio ed Eusebio, sebbene non siano coincidenti, sono tuttavia sostanzialmente concordi. Costantino, la cui testimonianza diretta venne raccolta da Eusebio, raccontò di aver avuto una visione straordinaria, sicuramente di origine divina: gli sarebbe apparso in sogno o in cielo un segno (una croce o il cristogramma) che egli fece riprodurre sulle armi e sulle insegne del suo esercito, e che lo confermò sulla potenza del dio dei cristiani, al quale attribuì il merito della vittoria su Massenzio. Un episodio che conferma l’abbandono della religione pagana e l’adesione ad una nuova e più affidabile fede religiosa è il comportamento tenuto da Costantino dopo la vittoria su Massenzio. Costantino non salì al Campidoglio per rendere grazie a Giove Ottimo Massimo né sacrificò agli dei, come era costume dei generali vittoriosi, ma si limitò a compiere gesti tradizionali come l’incontro col popolo e col senato, affermando così il radicale cambiamento di posizione nei confronti della religione tradizionale. Rileviamo tutto questo dal Panegirico di un anonimo autore, sicuramente pagano, presentato a Costantino nel 313. Esso si discosta in modo evidente da altri panegirici precedenti nei quali sono nominate le principali divinità del pantheon romano; invece, nel Panegirico del 313 queste divinità sono del tutto scomparse, mentre trova spazio una divinità identificata col sommo dio, che secondo il panegirista “volle avere tanti nomi quante sono le lingue dei popoli e di cui non possiamo sapere come egli stesso voglia essere chiamato” (26, 1 ss.): quindi, un dio in definitiva ancora sconosciuto, col quale Costantino aveva un rapporto unico e privilegiato, come testimonia l’espressione instinctu divinitatis, per ispirazione divina, incisa sull’arco dedicatogli a Roma, ma che il precedente di Costanzo, padre di Costantino, adoratore del Sole, suggerisce di identificare con la divinità solare. D’altra parte, le monete e la non ricca epigrafia costantiniana richiamano spesso il motivo di Sol Invictus, titolo che si addiceva al culto solare e all’imperatore, primo dei generali vittoriosi, come nei secoli III e II a.C. l’epiteto Felix, e dunque la Felicitas, era manifestazione del godimento del favore divino. E’ evidente l’ambiguità – ma anche la potenzialità sincretistica – implicita nel culto solare, “punto di convergenza fra le diverse filosofie”, al punto che Cristo era per i cristiani Sol Iustitiae. E’ dunque in concomitanza con la battaglia di Ponte Milvio che si consuma un radicale cambiamento di prospettiva: dalla “rottura della connessione indissolubile nella stessa Roma tra esercizio del potere politico e pratica del sacerdozio” (Fraschetti) al rapporto privilegiato ed esclusivo fra l’imperatore e il sommo dio.
Al principio del 313 Costantino e Licinio, convenuti a Milano per il matrimonio di Costanza, sorella di Costantino, con Licinio, si accordarono per risolvere la questione dei rapporti fra Stato e Chiesa. Per comprendere meglio l’anima romana – e anche i provvedimenti del 313 – occorre tenere presente che soltanto all’interno dello Stato l’uomo romano realizza la sua vocazione di cittadino; solo avendo a cuore il destino della civitas (il corpo sociale), fino al punto di dare la vita per difenderla, egli compie il suo dovere. Ma la condizione necessaria perché Roma possa conservare il primato che gli dei le hanno consegnato è stabilire con loro un patto di alleanza. Per questo si può dire che fra lo Stato e gli dei esiste un rapporto che definirei ontologico, senza il quale cioè non è possibile immaginare una societas, una alleanza. Perciò, anche per i Romani, con i limiti che emergono da quanto stiamo dicendo, si può affermare che “la natura dell’uomo è rapporto con l’infinito”. Tutto questo comporta una moralità temprata e una solidità nell’impegno di difendere lo Stato e quindi i propri concittadini. Per questo il giuramento militare (sacramentum) impegnava a difendere chi combatteva al proprio fianco, coscienti che la leggendaria invincibilità dell’esercito romano dipendeva dal coraggio di ciascuno. Per questo S. Clemente Romano, terzo successore di Pietro, addita come esempio di concordia alla litigiosa comunità dei Corinti l’esercito romano e non altro. Questo indistruttibile accordo con gli dei più che costituire un ostacolo per Costantino rappresentava un’esigenza di coerenza. La cosiddetta pax deorum (patto con gli dei) – tema caro a Marta Sordi, che qui ricordo – andava rispettata, ma la salvezza dello Stato dipendeva dal dio più forte di tutti col quale instaurare uno stretto rapporto. Potremmo dire che la battaglia di Ponte Milvio rappresentò l’occasione per aggiornare il rapporto con gli dei. Quanta prudenza Costantino dovesse mettere nelle sue iniziative soprattutto di carattere religioso è suggerito dal fatto che egli rivestì fino alla morte il pontificato massimo, la più alta carica religiosa della Roma
pagana, risalente al periodo monarchico (rex sacrorum). E quale peso avesse tutto questo emerge da un passo del dialogo ciceroniano Sulla natura degli dei (III 2): di fronte alle contestazioni razionalistiche sulla esistenza e la natura degli dei, il pontefice massimo Aurelio Cotta dichiara di anteporre l’autorità della tradizione, e quindi la religione su cui è costituito lo Stato romano, a qualsiasi speculazione filosofica. Costantino aveva ben presente che la stabilità dello Stato romano poggiava ancora sulla religione tradizionale, quella pagana. Il sommo dio e il culto solare potevano costituire un utile ponte fra paganesimo e cristianesimo, senza provocare la reazione delle élites ancora pagane perché legate alla tradizione. In questo complesso intreccio, Costantino e Licinio stesero il documento che, come anticipato sopra, va sotto il nome di editto di Milano, conservato da Lattanzio (mort. 48) sotto forma di rescritto (litterae) sulla restaurazione della Chiesa (de restituenda ecclesia) e reso pubblico da Licinio a Nicomedia il 14 giugno del 313; nella forma conservata da Eusebio (H.E. IX 5) è lo stesso testo, in lingua greca, pubblicato poco tempo dopo in Palestina. Il contenuto fondamentale di esso, che lo differenzia dall’editto di Serdica e ne fa il provvedimento più aperto e rispettoso della libertà religiosa, consiste nel fatto che, oltre ad essere ribadita la libertà di culto per i cristiani, a tutti gli altri abitanti dell’impero era consentita la libertà di culto nei termini seguenti: «Abbiamo ritenuto doveroso regolare prima di tutto i provvedimenti relativi al rispetto della divinità, concedendo sia ai cristiani che a tutti la libera possibilità di seguire la religione che ognuno si è scelta; in questo modo “tutto ciò che c’è di divino nella sfera celeste” (espressione ambigua e aperta ad ogni interpretazione) potrà riconciliarsi e cooperare con noi» (mort. 48, 2) e aggiunge: «non si dovrà più negare questa libertà assolutamente a nessuno che abbia aderito in coscienza alla religione dei cristiani, o a quella che abbia ritenuto la più adatta per sé (qui il Cristianesimo vale tutte le altre religioni professate nell’impero ed ha già assunto una posizione di primato); così la suprema divinità, al culto della quale ci inchiniamo pure noi con animo libero, potrà accordarci in tutte le circostanze il suo continuo favore e la sua benevolenza (su tutto prevale la speranza, genuinamente romana, di un rinnovato accordo con la divinità)». A queste parole e ad altre disposizioni di minore importanza o ripetitive circa la libertà di culto per tutti (mort. 48, 4-6), il documento aggiunge: “I luoghi dove i cristiani avevano in precedenza l’abitudine di riunirsi… dovranno essere restituiti senza pagamento e senza nessuna richiesta d’indennizzo, evitando ogni frode e ogni equivoco, da parte di quelli che risultano averli acquistati in epoca precedente”. Il documento si conclude così: “Il favore divino da noi sperimentato in circostanze così importanti continuerà a propiziare in ogni occasione i nostri successi, per la prosperità di tutti” (48, 11).
Altri provvedimenti e disposizioni furono emanati in seguito da Costantino. Uno dei segni più profondi e dolorosi lasciati dalla persecuzione dioclezianea fu la questione dei lapsi, cioè di coloro che erano scivolati nell’abiura e avevano rinnegato la propria fede. La questione era particolarmente delicata nel caso dei diaconi. Erano validi i sacramenti amministrati da loro? La questione, che ebbe il suo centro a Cartagine, scivolò, è il caso di dirlo, nello scisma – il donatismo – aggravatosi per la piega anti-romana che aveva assunto. Per comporre la frattura fu richiesto l’intervento diretto dell’imperatore che si trovò a dover svolgere un duplice compito: conservare la pace dell’impero e comporre una questione di carattere religioso (sarebbe stata solo la prima). La “coscienza missionaria” (A. Alföldi), come fu definito l’impegno di Costantino nel mettere ordine nelle questioni religiose, apriva le porte ad una ingerenza stabile, anche se sollecitata dalle parti in causa, nelle vicende religiose. Più che ad un “principe sagrestano” vien fatto di pensare ad una concezione messianica di Costantino della propria presenza sulla terra, strettamente legata alla concezione del potere. Era sua convinzione, che lo accompagnava da Ponte Milvio, che esistesse un rapporto privilegiato tra lui e la divinità, già individuata nel dio dei cristiani, anche se l’adesione ad essa dovette essere lunga e faticosa. Tra i provvedimenti assunti nel 313 e negli anni immediatamente seguenti Costantino riconobbe alla episcopalis audientia, cioè alla giurisdizione esercitata dal vescovo, il giudizio di seconda istanza. Era questa la nuova versione della provocatio ad populum, la maggiore fra le conquiste plebee dopo le XII tavole (metà del V secolo a.C.). Quale rilievo assumesse il ruolo dei vescovi si può immaginare. Tuttavia questa attribuzione di competenze giurisdizionali nuoceva al principio di separazione fra Stato e Chiesa e spingeva, nei fatti, verso una sempre più marcata confusione dei poteri, che sarebbe sconfinata prima o poi in una forma di teocrazia.
E’ curioso e significativo che Costantino abbia stabilito per legge il riposo domenicale, nel 321. Anche in questo caso, la sospensione delle attività giudiziarie riproduceva nella forma riveduta e corretta alla luce del cristianesimo l’antichissima distinzione in dies fasti e nefasti dei giorni del calendario romano, con tutte le valenze di ordine civile e politico che essi rivestivano. Infine un altro capitolo delle novità amministrative fu la concessione della immunitas, cioè l’esenzione dalle tasse riconosciuta al clero. Poiché, oggi diremmo, il saldo non poteva subire tagli, gli oneri fiscali venivano trasferiti in egual misura sugli altri cittadini delle comunità alle quali appartenevano gli esponenti del clero, con una duplice conseguenza: da una parte l’incremento delle vocazioni e dall’altro l’aggravio sempre meno sostenibile per i ceti elevati delle comunità. La resistenza opposta all’affermazione del Cristianesimo da parte delle élites induce a pensare che l’aggravio fiscale per queste ultime non fosse esente dall’intenzione di penalizzarle. Molto altro ci sarebbe da dire, ma se una conclusione si può trarre da quanto detto, per modesta e parziale che sia, è che il cosiddetto editto di Milano apre, pur nella continuità con le tradizioni civili della romanità antica, uno sguardo completamento nuovo sul rapporto uomo-dio, come impronta definitiva dell’impero romano e cristiano dal IV secolo in poi.

STEFANO ALBERTO:
Grazie al professor Valvo per questa disamina direi suggestiva, che ci ha anche permesso di vedere le luci e le ombre di una personalità non certo priva di contraddizioni, ma sicuramente grande. Questo “romano de Roma”, per usare un’espressione scientifica del professor Valvo, non dimentichiamo che è nato in Serbia, a Nisc: tra l’altro, mi permetto di ricordare che Emilia Guarnieri, con alcuni della direzione del Meeting, sono stati proprio in visita a Nisc in occasione dell’inizio dei festeggiamenti che anche lì saranno solenni e numerosi per questa figura controversa ma sicuramente grande. Don Francesco Braschi, che è dottore della Biblioteca Ambrosiana, classe di slavistica, nonché esperto di Ambrogio, altro straniero ma anche lui romanissimo, la domanda: come questo editto incide nella vita della Chiesa, come incide nei rapporti tra Chiesa e impero e soprattutto qual è il ruolo imprescindibile per la presa di forma espressiva e operativa di questa apertura, di questa distinzione, di questa collaborazione tra Stato e Chiesa? Un nota bene: non so se, Francesco, vorrai dedicare qualche battuta all’accenno di Ambrogio, particolarmente attuale e significativo, non solo perché ubi fides ivi libertas è sempre una considerazione valida, se c’è la fede c’è libertà, quando la libertà scricchiola vuol dire che scricchiolano altre cose fondamentali, ma perché, e questo è uno sviluppo molto interessante, forse non tutti sanno che don Francesco da qualche tempo collabora in modo molto intenso con la fondazione prestigiosa di Russia Cristiana. Uno degli aspetti più nuovi è questo grande interessamento, da parte della Chiesa ortodossa, del patriarcato di Mosca, della figura di Ambrogio. Sembra incredibile, ma uno dei padri comuni, perché parliamo di IV-V secolo, molto prima del tragico scisma, è pochissimo conosciuto in ambito ortodosso. Quindi, don Francesco sta curando la traduzione, dovremmo averne i primi frutti già entro quest’anno, dell’opera omnia di Ambrogio in Russia, cosa destinata ad avere, nei tempi di Dio che sono sempre notoriamente lunghi, ampi, un rilievo non indifferente. Prego.

FRANCESCO BRASCHI:
Grazie. Perché parlare di Ambrogio a seguito di un dibattito sulla figura di Costantino? Soprattutto sapendo, come vedremo tra poco, che il giudizio di Ambrogio su Costantino non è un giudizio particolarmente lusinghiero. La ragione la si può trovare innanzitutto nella collocazione di Ambrogio. Ambrogio diventa vescovo nel 374 d.C., Costantino è morto nel 337 e in quei quasi quarant’anni che sono passati sono capitate molte e importanti cose. Possiamo dire, per essere molto sintetici, che se, come accennava prima anche il professor Valvo, Costantino aveva un’alta coscienza, possiamo dire di tipo messianico, del suo ruolo, quello che avviene dopo Costantino è il crollo dell’idea di cui soprattutto Eusebio di Cesarea era stato un cantore, una ideale sinfonia dove all’uomo viene offerta la possibilità di vivere uno spazio civile, per usare una terminologia nostra e quindi imprecisa per l’epoca, che abbia una configurazione che corrisponde anche allo spazio della sua fede. L’ideale della sinfonia tra potere politico e potere religioso non è da buttar via, come a volte siamo un po’ abituati a fare, perché esprime in ultima istanza questa idea: che l’uomo è uno e che l’unità della sua persona esigerebbe, desidererebbe, tenderebbe a questa unità. Ebbene, dopo la morte di Costantino, soprattutto con il figlio Costanzo, che porta avanti una politica molto ambigua, dove l’idea di fondo è quella di favorire una fazione che non condivide più quello che il Concilio di Nicea aveva deciso, cioè la piena divinità di Cristo, in quegli anni si rivedono le stesse cose che si erano viste prima sotto gli imperatori pagani: vescovi mandati in esilio, confische dei beni, deposizioni, processi organizzati per deporre dei vescovi scomodi. E tutto questo suscita un grande sconcerto, potremmo dire un vero e proprio scandalo, perché questa volta l’imperatore che perseguita è un imperatore battezzato, è un imperatore cristiano. Ecco, Ambrogio arriva alla fine di questo periodo, quando si vive la fine anche della controversia con gli ariani, e arriva portando con sé una sua formazione che è certo quella di una famiglia cristiana da lungo tempo – aveva una parente che era andata martire durante la persecuzione di Diocleziano – ma che era anche la formazione di un uomo che aveva davanti a sé una carriera giuridico-amministrativa all’interno dell’impero: era un governatore. Ebbene, Ambrogio inizia un confronto di durata più che ventennale con gli imperatori, che vede dei punti di grande sviluppo e di grande ripresa rispetto a quello che era capitato con Costantino.
Un flash: siamo nel 386, Ambrogio è vescovo da dodici anni ormai, a Milano c’è un imperatore, Valentiniano II, che ha quindici anni, è un ragazzo ed è guidato ancora dalla madre Giustina, di sentimenti ariani. L’imperatrice madre Giustina vuole una Chiesa perché la comunità ariana, guidata dal vescovo Aussenzio, possa celebrare la Pasqua. Ambrogio viene convocato a palazzo per ricevere l’ordine di requisizione di una delle basiliche che ora esistevano a Milano. E cito quello che Ambrogio scrive: “Mi si ordina: consegna la basilica. Rispondo: non è lecito a me consegnarla, né a te, imperatore, è utile riceverla. Tu non puoi violare a norma di legge la casa di un privato e pensi di poterti prendere la casa di Dio? Mi si risponde con il pretesto che all’imperatore tutto è lecito, che egli è il padrone di tutte le cose, nessuna esclusa”. Abbiamo davanti due concezioni diametralmente opposte del potere imperiale. Da una lato, la concezione di un potere autocratico, di un potere che è al disopra di ogni legge: tutto è lecito all’imperatore. Dall’altra parte, Ambrogio che dice: no, imperatore, a norma di legge tu non puoi nemmeno violare senza motivo la casa di un privato e nemmeno puoi pensare di avere dei diritti non sugli immobili pubblici, ma sugli immobili che appartengono a Dio, alla Chiesa. Questa contrapposizione ci dice esattamente qual era la posta in gioco. Ambrogio si trova davanti una concezione del potere imperiale che è ancora assoluta e questa concezione viene da parte di un imperatore che è cristiano. La risposta di Ambrogio, e questo ci sorprende, è una risposta che non nasce immediatamente dalla sua fede ma nasce dalla sua famiglia di appartenenza, una famiglia senatoria, una famiglia che portava avanti una tradizione minoritaria ma mai sopita a Roma, per cui comunque l’origine del potere era un’origine condivisa della classe aristocratica e dove quindi il potere assoluto dell’imperatore era solamente una degenerazione dovuta alle contingenze in cui ci si trovava.
Ma accanto a questa visione, Ambrogio porta avanti un’altra idea. Sempre qualche anno dopo, questo stesso imperatore che gli voleva portar via una basilica morirà per mano di un usurpatore. E Ambrogio pronuncerà un’orazione funebre per Valentiniano II, dove metterà in luce come il valore più grande di Valentiniano II sia stato l’aver ricevuto il battesimo da piccolo, da giovane, a differenza di Costantino che aveva atteso fino alla fine della sua vita. Perché un’insistenza così grande su questo fenomeno? Perché il vero punto di novità cristiana su cui Ambrogio insiste è una formulazione che resterà proverbiale. Sempre in quello scontro, durante la questione della basilica contesa, Ambrogio dirà all’imperatore: “Ricordati che l’imperatore non è al disopra della Chiesa, ma l’imperatore è dentro la Chiesa ed è un figlio della Chiesa”. Che cosa vuol dire questo? Vuol dire che la Chiesa, nel momento in cui non riconosce più all’imperatore un diritto assoluto, una potestà senza limiti, offre dall’altra parte all’imperatore una prospettiva nuova. Offre all’imperatore la prospettiva di prendersi cura della sua umanità, offre all’imperatore la possibilità di essere considerato come un uomo, non dico come un semplice uomo, come un uomo nella sua accezione più piena. Potremmo dire che uno degli apporti più grandi di Ambrogio ai rapporti tra la Chiesa e il potere imperiale è esattamente questo: Ambrogio non misconosce il compito istituzionale dell’imperatore, anzi, sarà sempre lealissimo al ruolo che l’imperatore ha per il bene della res publica, ma nello stesso tempo Ambrogio considera l’imperatore alla stregua di ogni cristiano chiamato a realizzare una propria vocazione. E dunque l’offerta che Ambrogio fa all’imperatore è quella di poter trovare, attraverso la figura del vescovo ma potremmo dire nella comunione della Chiesa, la possibilità di un cammino che lo aiuti a ridefinire le proprie virtù.
C’era nella concezione classica un raggruppamento di quattro virtù che erano tipiche dell’imperatore, e queste virtù erano: il coraggio in battaglia, la clemenza, la giustizia e la pietas, potremmo dire il senso religioso. Ambrogio dice che dopo Costantino queste virtù sono state ridefinite: il coraggio non è il coraggio in battaglia ma nasce dalla fede; non c’è più il senso religioso ma c’è il credere in Cristo, vero Dio e vero uomo; non c’è più una clemenza che è quella del padrone che schiaccia la testa del suo nemico, del suo suddito, e per un gesto di magnanimità gli consente di vivere, ma c’è una misericordia che si modella sulla misericordia di Cristo; e c’è, da ultimo, come virtù tipica dell’imperatore, la humilitas, l’umiltà, quella umiltà che Teodosio seppe usare quando, dopo aver causato una strage nella città di Tessalonica, su richiesta di Ambrogio accettò di compiere un gesto di penitenza pubblica prima di essere riammesso nella Chiesa.
Possiamo bene immaginare che parabola enorme sia stata compiuta dal pensiero sull’imperatore in pochi decenni. Ma quale ne è il punto fondamentale? Il punto fondamentale è l’opera di Costantino. Ci stupisce tuttavia vedere come, secondo Ambrogio, l’opera più grande di Costantino non sia stato l’editto di Milano, non sia stata semplicemente la fine delle persecuzioni; piuttosto, l’opera di Costantino, la più importante, è stata quella di avere trovato, attraverso sua madre, il legno ed i chiodi della croce. E’ un racconto che Ambrogio inserisce nella orazione funebre per l’imperatore Teodosio, ed è un racconto nel quale si mette in luce come soltanto il riferimento alla croce di Cristo è ciò che rende il potere dell’imperatore diverso dalla sfrenata libidine, usa proprio questa espressione, Ambrogio, che rendeva gli imperatori precristiani schiavi del potere, come dei cavalli che nitriscono in preda alla passione più sfrenata. Questo è il bene che Costantino ha fatto all’impero e a tutto il mondo. Dice: beato Costantino per la madre che ha avuto, perché questa donna volle assicurare al figlio imperatore l’aiuto della protezione divina. E poi dice: sebbene a Costantino la grazia del battesimo abbia rimesso tutti i peccati solo in punto di morte, siccome fu il primo imperatore a credere, ottenne un posto degno del suo insigne merito, perché lasciò dopo di sé, ai suoi successori, l’eredità della fede. E’ una visione, dunque, quella di Costantino, riportata da parte di Ambrogio, sicuramente meno trionfale di quello che ci aspetteremmo ma è una visione che pone al centro, per usare una espressione che ci sta a cuore, un richiamo importante all’imperatore, cui viene restituita la centralità del suo essere uomo. E l’imperatore – lo dirà Ambrogio nel momento in cui descrive l’ingresso in cielo di Teodosio, di Valentiniano, di Graziano – viene giudicato sul parametro non delle vittorie riportate, non dei nemici sconfitti, ma della capacità di amare Cristo e, attraverso la Chiesa, di lasciarsi amare da Cristo.
Concludo. E’ una prospettiva, questa, certamente molto insolita per noi, è una prospettiva che forse ci sembra poco applicabile all’oggi, eppure, lascia a mio avviso due spunti importanti. Il primo: c’è una possibilità di redenzione anche per il potere, e questa possibilità di redenzione passa attraverso Cristo, ma passa anche per la considerazione dell’umanità di chi si trova a detenere il potere. Il secondo aspetto: anche chi detiene il potere ha bisogno di qualcuno che gli ricordi che è fatto per l’infinito, che è fatto per riconoscersi innanzitutto uomo e che attraverso questo riconoscimento passa la possibilità di un potere non tirannico. Penso che l’interesse a cui accennava don Pino per la figura di Ambrogio, che oggi si riscontra rinnovato non soltanto in Russia ma anche in altri Paesi, sia legato proprio a questa capacità. Ambrogio, che aveva una formazione giuridica, che conosceva benissimo le leggi dell’impero Romano, ha saputo trasformare questa sua conoscenza, questa sua umanità in una possibilità di offrire qualcosa di nuovo nel momento in cui lui stesso si è pienamente convertito alla fede, ha aderito pienamente a Cristo. Ed in questo modo oggi può offrire una visione secolare, intesa come la visione di chi conosce i meccanismi della storia ma che, conoscendoli, non rinuncia a portarvi la presenza di Cristo. Grazie!

STEFANO ALBERTO:
Questa fede ardente che non ha paura del potere ma che non si accontenta della distinzione, della separazione, che sente l’imperatore figlio della Chiesa, appartenente a Cristo, che sa argomentare con ragionevolezza usando le categorie del diritto romano. Questa stretta unità tra fede e ragione, questo voler andar nei punti in cui il potere si condensa, si esprime, si esercita, è molto moderna. Penso che a tutti voi verrà in mente l’affascinante avventura apostolica di Benedetto XVI, ma appunto, facendo un salto piuttosto forte ma non arbitrario, visto il tempo che ci è concesso, rivolgiamo al professore Feliciani, Ordinario di Diritto Canonico all’Università Cattolica di Milano – in molti Consigli Pontifici, ha partecipato ai lavori del nuovo Concordato, alla Commissione Paritetica, è l’uomo più adatto per rispondere – una domanda che formulo un po’ provocatoriamente: 1700 anni e li dimostra, non l’editto ma la libertà religiosa. A che punto siamo?

GIORGIO FELICIANI:
A distanza di tanti secoli dall’editto di Costantino, c’è da chiedersi quale sia la sua attualità, vale a dire cosa rimanga oggi del principio che vi venne solennemente sancito, in altri termini quale sia attualmente la situazione della libertà religiosa nel mondo. Si può positivamente constatare che essa si colloca indubbiamente tra i vari diritti umani che godono in modo esplicito di maggior riconoscimento ad opera di molteplici atti internazionali e delle legislazioni degli Stati democratici. Basti in questa sede ricordare la formula adottata dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo approvata dalle Nazioni Unite nel 1948 – poi ripresa dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell’uomo e delle Libertà fondamentali, e da ultimo dalla Carta dei Diritti dell’uomo dell’Unione europea – che riconosce ad ogni persona il diritto alla libertà di pensiero, di coscienza, di religione, precisando che essa implica necessariamente la libertà di cambiare religione o convinzione come pure la libertà di manifestare la propria religione o convinzione individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, la pratica e la celebrazione dei riti. Al contempo, si deve anche prendere atto che la libertà religiosa si colloca anche, paradossalmente, tra i diritti dell’uomo che sono più gravemente e sistematicamente violati. L’assunto non necessita di particolari dimostrazioni dal momento che trova conferma nelle cronache di ogni giorno. E qui non è certamente il caso di offrire una tipologia delle più gravi violazioni e indicare i Paesi in cui frequentemente esse avvengono ad opera di fazioni fanatiche o fondamentaliste, per lo più dichiaratamente islamiche, e degli stessi pubblici poteri. Una rassegna di questo genere esigerebbe troppo tempo. Ci si limiterà quindi ad alcune esemplificazioni che paiono di singolare attualità. Si deve purtroppo constatare che persino la caduta di regimi dittatoriali o autoritari ad opera di movimenti popolari o di interventi armati da parte di altri Stati finisce con il comportare gravi conseguenze per le minoranze religiose. Si pensi alla situazione dei cristiani in Iraq, o all’attuale condizione dei copti in Egitto o alle preoccupazioni delle minoranze religiose siriane di fronte alla prospettiva della caduta di Assad. Da un punto di vista più generale, appare quanto mai significativo che nei conflitti interetnici, anche quando il fattore scatenante non è costituito dalla differenza di religione, gli edifici di culto diventino sempre più frequentemente i luoghi privilegiati di espressione dell’odio nei confronti dell’avversario. Si pensi, ad esempio, alla distruzione e alla devastazione delle chiese in Kosovo e nella parte di Cipro occupata dai turchi. O si consideri come in diversi Paesi moschee e chiese – da ultimo in Nigeria – siano divenute il luogo privilegiato per sanguinosi attentanti. I fatti così denunciati sono di tale gravità da risultare evidentemente inaccettabili per ogni coscienza civile. Eppure si deve constatare che essi per lo più non ottengono molta attenzione da parte dei Governi dei Paesi democratici e che in ogni caso, nei loro confronti, la comunità internazionale, anche quando non del tutto assente, si rivela sostanzialmente impotente.
A prima vista, si potrebbe ritenere che nei Paesi di civiltà occidentale la situazione della libertà religiosa non presenti inconvenienti gravi e generalizzati a causa della protezione ad essa assicurata dalle costituzioni nazionali, dalle convenzioni internazionali e dalle pronunce di Corti come quella europea di Strasburgo. Eppure un attento osservatore delle dinamiche europee – e, merita sottolineare, di ispirazione decisamente laica – come Margiotta Broglio, presidente del Comitato giuridico dell’UNESCO, in un recentissimo scritto ha avvertito l’esigenza di richiamare i Paesi membri dell’Unione europea e la stessa Unione a vigilare “affinché una insensata concezione della indispensabile laicità dell’Unione non si trasformi in una vera e propria delegittimazione del fattore religioso”, che già si manifesta con particolare aggressività nei confronti del cristianesimo. Sotto tale specifico profilo, ritiene emblematica l’imperdonabile omissione del Natale di Cristo in una edizione dell’agenda che la Commissione europea distribuisce ogni anno tra gli studenti. E considera non meno significative le tendenze che si stanno affermando in alcuni Paesi a favore di una scristianizzazione delle festività. La questione così accennata merita approfondimento in quanto l’orientamento denunciato può, in prospettiva, costituire, e non solo nei Paesi dell’Unione, la più grave insidia per la libertà religiosa. Esso nasce ultimamente da ideologie caratterizzate da un pregiudizio antireligioso. Secondo i loro più radicali sostenitori il fenomeno religioso, appartenendo alla sfera dell’irrazionale, non ha alcun diritto di cittadinanza in una società moderna nata dalla civiltà dei lumi. Quanto poi alle singole religioni, esse si oppongono al progresso e alla diffusione delle conoscenze scientifiche, producono divisioni tra gli uomini, favoriscono l’insorgere di fondamentalismi che sfociano nella violenza e nel terrorismo. L’ideale sarebbe che sparissero anche dalla coscienza delle persone, e bisognerebbe adoperarsi in tal senso, ma almeno che siano bandite dallo spazio pubblico. In questa prospettiva si intende negare alle religioni, in particolare a quelle cristiane, ogni rilevanza culturale, sociale e politica, relegandole nell’ambito del privato e della coscienza individuale.
Contro queste tendenze hanno preso decisamente posizione gli ultimi pontefici. Giovanni Paolo II ha seccamente respinto la pretesa che “una società democratica debba relegare al puro ambito delle opinioni personali i credi religiosi dei suoi membri e le convinzioni morali derivanti dalla fede”. E Benedetto XVI ha denunciato come “ipocrisia” “la tolleranza che ammette Dio come opinione privata, ma gli rifiuta il dominio pubblico, la realtà del mondo e della nostra vita”. Per comprendere adeguatamente la severità di questi giudizi è opportuno mettere in luce con alcune esemplificazioni come le tendenze così riprovate finiscano inevitabilmente con l’incidere gravemente sull’effettivo esercizio della libertà religiosa, innanzitutto su quella delle singole persone. Al riguardo merita ricordare come, anche nel nostro Paese, nelle discussioni circa materie di grande rilevanza sociale come fecondazione assistita, aborto, eutanasia, unioni di fatto e matrimonio gay, non pochi politici ed opinionisti sostengano, in modo più o meno coerente e assoluto la seguente tesi: i credenti si astengano pure da comportamenti e prassi incompatibili con le loro personali convinzioni, ma non pretendano vietarli ad altri. In altre parole: gli uomini di fede, fatto salvo il doveroso rispetto delle leggi dello Stato, possono senz’altro comportarsi come meglio credono, ma non hanno diritto a promuovere una legislazione che rispecchi le loro concezioni della persona umana e della società. Tali concezioni in quanto derivanti dalla religione non hanno diritto di cittadinanza al di fuori delle coscienze. Si finisce così con l’auspicare una sorta di inaccettabile discriminazione tra i cittadini: si riconosce a tutti il diritto, per non dire il dovere, di concorrere, nelle modalità previste dalla Costituzione dei singoli Stati, alla modulazione della vita pubblica nei suoi diversi aspetti, salvo che ai credenti quando intendano agire secondo le loro più profonde convinzioni. Si giunge così a ledere direttamente la libertà delle singole persone, esigendo che i credenti, nell’esercizio delle loro responsabilità professionali e politiche, agiscano senza tenere nel minimo conto le proprie convinzioni religiose e persino in contrasto con esse. E vietando ai dipendenti, sotto pena di licenziamento, come è successo in Gran Bretagna, di portare simboli religiosi o di manifestare la propria fede, si è giunti a sanzionare per avere detto a una paziente: pregherò per lei!
Va peraltro osservato che questa sorta di interdizione alla religione nello spazio pubblico non viene opposta solo ai singoli credenti, ma anche, e in termini ben più espliciti e decisi, alla gerarchia, come si è avuto più volte modo di vedere anche nel nostro Paese. In proposito merita ricordare quanto avvenuto a Milano il mese scorso. Di fronte alle critiche di alcuni ambienti ecclesiali al progetto di istituire il registro delle unioni civili, la stizzita reazione del sindaco, il 23 luglio, è stata la seguente: “Così come rispetto le decisioni della Curia in campo religioso, la Curia deve rispettare le decisioni del Consiglio comunale”. In altri termini: l’autorità ecclesiastica si occupi solo di materie religiose e si guardi bene dal criticare gli orientamenti di chi detiene il potere in ambito morale e sociale. A prima vista, si potrebbe ritenere che la questione non meriti eccessiva attenzione, in quanto spesso le prese di posizione contro i pronunciamenti della gerarchia hanno carattere occasionale e strumentale. In realtà esse rivelano l’esistenza di una tendenza, diffusa negli ambienti culturali, politici e nei mass media con inevitabili ricadute sull’opinione pubblica, a contestare il diritto-dovere della Chiesa ribadito dal Concilio Vaticano II “a predicare sempre e dovunque con vera libertà la fede e insegnare la sua dottrina sulla società, esercitare senza ostacoli la sua missione tra gli uomini e dare il suo giudizio morale anche su cose che riguardano l’ordine politico, quando ciò sia richiesto dai diritti fondamentali della persona umana e dalla salvezza delle anime”. La tendenza in questione è senz’altro determinata da una concezione ideologica della laicità dello Stato che sfocia nel laicismo, ma si colloca nel quadro di una problematica ben più vasta e complessa. che si può così sintetizzare: in genere gli Stati e la stessa comunità internazionale non hanno difficoltà a sancire e tutelare i diritti individuali di libertà, almeno formalmente e nei profili essenziali. Dimostrano invece una più o meno tenace resistenze a riconoscere le prerogative delle confessioni religiose senza delle quali non si può parlare di libertà religiosa. E’ infatti di tutta evidenza che, di norma, l’impegno religioso implica l’inserimento, o meglio, l’appartenenza a una comunità di persone. Nella libertà religiosa si riscontra dunque la presenza di aspetti individuali e comunitari, privati e pubblici strettamente legati tra loro, in maniera che l’effettivo godimento della libertà religiosa accomuna dimensioni connesse e complementari. Sotto questo profilo, la stessa ricordata formula della Dichiarazione delle Nazioni Unite, ripresa dalle successive convenzioni, è tutt’altro che soddisfacente in quanto non accenna nemmeno all’esistenza delle confessioni religiose. Peraltro i più autorevoli studiosi, come pure diverse pronunce degli organismi preposti alla tutela dei diritti, umani, ritengono che essa tuteli implicitamente anche la libertà delle confessioni, ma questa constatazione non vale ad eliminare ogni preoccupazione. Infatti i giuristi, come più volte avvenuto, possono anche cambiare opinione e la giurisprudenza – vale a dire le sentenze delle corti e dei tribunali competenti – può rivelarsi ondivaga quando non contradditoria come dimostra la vicenda dell’esposizione del crocifisso nelle scuole pubbliche, peraltro conclusasi positivamente. Al riguardo si può anche ricordare che recentemente la Corte di Strasburgo ha dato piena soddisfazione alla Chiesa spagnola riconoscendole il diritto ad allontanare un insegnante di religione a causa di comportamenti incompatibili con la dottrina cattolica. E a distanza di poco tempo, la stessa Corte ha assunto una decisione considerata dalla Chiesa ortodossa romena gravemente lesiva della propria autonomia in quanto ha imposto il riconoscimento agli effetti civili di una associazione di sacerdoti. La questione relativa alle prerogative delle confessioni religiose riveste notevole attualità poiché in alcuni Paesi si pretende di imporre alle istituzioni educative e assistenziali cattoliche normative assolutamente incompatibili con la loro identità, che finirebbero quindi con l’impedirne l’azione. Una gravissima limitazione in quanto, come ha ricordato Giovanni Paolo II, le comunità confessionali, hanno bisogno per loro stessa esistenza e per il perseguimento dei loro scopi, di godere della “libertà di compiere attività educative, di beneficenza, di assistenza che permettano di mettere in pratica i precetti religiosi e l’amore verso i fratelli soprattutto verso quelli che più ne hanno bisogno”.
In particolare negli Stati Uniti, le leggi recentemente approvate in tema di riforma sanitaria prevedono, tra l’altro, che i datori di lavoro coprano le spese dei loro dipendenti per fecondazione assistita e aborto. La norma vale anche per le istituzioni cattoliche, a meno che tutto il personale sia cattolico e le stesse offrano i loro servizi esclusivamente a cattolici. L’episcopato statunitense considera questa imposizione gravemente lesiva della libertà della Chiesa e ha promosso una campagna in sua difesa. Analogamente, in Gran Bretagna si esige che gli organismi cattolici che si occupano di infanzia non discriminino nelle pratiche per le adozioni le coppie gay. E nello stesso Paese si impone alle istituzioni cattoliche che agiscono in convenzione con enti pubblici di togliere dai loro locali qualunque segno di appartenenza religiosa. Una limitazione certamente meno grave di quelle sopra ricordate, ma non priva di rilevanza in quanto si risolve in un impedimento a manifestare la propria identità.
Con quanto fin qui detto, si vuole semplicemente ricordare che anche nei Paesi democratici la libertà religiosa non può mai darsi come acquisita una volta per tutte, ma deve essere continuamente e decisamente rivendicata e tutelata contro ogni tentativo di circoscriverla e limitarla. Le diverse forme di protezione e tutela offerte dalle norme giuridiche sono sicuramente importanti ma sarebbe un gravissimo errore far conto su di esse. La questione infatti si pone soprattutto a livello educativo e culturale poiché senza una adeguata coscienza del valore e del significato della libertà religiosa le norme giuridiche, anche quando non mutino, rischiano di prestarsi a interpretazioni e applicazioni che le rendono del tutto inincidenti. In ogni caso, il mezzo più efficace di cui i credenti dispongono per tutelare la libertà religiosa è quella di esercitarla effettivamente, nella fedele appartenenza alla propria confessione, in tutte le sue dimensioni individuali e comunitarie: dal culto pubblico alla testimonianza negli ambienti di vita, dalle iniziative culturali e assistenziali fino all’impegno nelle istituzioni sociali e politiche per il bene comune. Ed è proprio questa prospettiva di presenza che don Giussani ci ha sempre proposto e che trova imponente espressione nel Meeting.

STEFANO ALBERTO:
Il quadro che emerge dall’esame del professore Feliciani è un quadro a tinte forti, dove le ombre tendono a prevalere sulla luce. Vorremmo chiedere al professor Vian un intervento conclusivo, non solo perché a chi conclude è richiesto di tirare un po’ le fila di un’argomentazione, di una problematica complessa dal punto di vista storico, religioso e civile, ma anche perché abbiamo la fortuna di averlo qui per la prima volta in duplice veste. Ma innanzitutto vorrei che voi lo ringraziaste, a nome delle migliaia di persone del Meeting e non solo, delle migliaia di lettori dell’Osservatore Romano, per l’attenzione che il suo quotidiano, non solo da quando lui è direttore ma, in modo particolare dal 2007, quando Benedetto XVI lo ha nominato direttore dell’Osservatore Romano, ha sempre riservato al Meeting. Vi rivelo un piccolo particolare: per essere qui oggi, ha voluto coscientemente interrompere il breve periodo di riposo che, per chi è impegnato intensamente nella vita, sapete quanto vale. Anche di questo gli siamo molto grati, ma vi dicevo non abbiamo solo il direttore della più libera e più affascinante testata mondiale, un osservatore a 360° nella vita della Chiesa nei cinque continenti, ma anche uno studioso profondo e preparatissimo. Non dimentichiamo che il Professor Vian è Ordinario di Filologia Patristica all’Università La Sapienza di Roma, autore di otre ottanta pubblicazioni. Vi segnalo solo quella che potete anche trovare, l’ultima di numerose ristampe: La donazione di Costantino, ed. il Mulino.
Ve ne consiglio la lettura, ma dopo questo breve anche spot, vorrei proprio chiedere al professor Vian se ci aiuta, dopo l’inquadramento giuridico fatto dal professor Feliciani, a capire, sia pure in un tempo estremamente limitato, di cui ci scusiamo ma così va il Meeting, perché questa questione è decisiva, non solo dal punto di vista esistenziale, dal punto di vista della nostra vita di cristiani, ma dal punto di vista tout court della civiltà. Grazie!

GIOVANNI MARIA VIAN:
Don Pino, il professor Alberto, mi ha un po’ spiazzato con questo ringraziamento che è del tutto inatteso, che onora soprattutto il giornale che dirigo. In realtà, c’è anche un po’ di conflitto di interesse perché ogni tanto don Pino scrive sull’Osservatore, come anche tutti i presenti a questo tavolo, quindi diciamo che la portata di questo elogio si riduce un po’. Ma a parte gli scherzi e le battute, sono io a essere grato per questo invito. Effettivamente è la prima volta, e sono davvero lieto di essere qui, a questo importante appuntamento culturale dove, non da pochi anni ma da oltre un trentennio, Comunione e Liberazione e l’organizzazione del Meeting sta cercando di mostrare, si può dire con una formula, la ragionevolezza della fede. È un luogo di confronto e di dibattito e sono onorato di essere stato invitato su un tema che mi è molto caro e che – si è visto dagli interventi che mi hanno preceduto – è molto complicato. Costantino è una vittima della storia, vittima della scarsa conoscenza della storia. La storia è sempre più emarginata, non è considerata abbastanza nell’ambito cattolico, e questo è un problema. Ma è anche vittima, come tutte le grandi figure, di miti contrapposti. Un grande storico di Roma di formazione marxista, forse il più grande che la storiografia italiana abbia espresso, Santo Mazzarino, ha definito Costantino “la figura politica più rivoluzionaria della storia d’Europa”. Non è una affermazione apologetica. E non è un caso che uno dei suoi allievi più raffinati abbia scritto, purtroppo, soltanto la prima parte di un’opera che per me è definitiva, per quanto possono essere definitive le opere storiografiche su Costantino. Sto parlando di Salvatore Calderone, Costantino e il Cattolicesimo. È la scuola di Mazzarino che lo ha così valorizzato. Del resto, se si guarda un po’ – lo abbiamo ascoltato da Valvo – la storia di questo personaggio, si capisce perché sia stato presto protagonista, già in vita, di una costruzione propagandistica e mitologica straordinaria. Non si sa quando Costantino nasca, si collocano le date della sua nascita tra il 271 e il 288. Si sa quando muore: il 21 maggio del 337. Si sa quando assume il regno: il 25 luglio del 306. Quindi, un regno più che trentennale, regno lunghissimo e rivoluzionario. In questo trentennio, si ricompone l’impero, l’impero che aveva da più di mezzo secolo compiuto mille anni, e sotto un imperatore di origine lontana, Filippo l’arabo, che regna dal 244 al 249, Roma celebra il suo millenario. E di Filippo l’arabo, la storiografia cristiana insinua che potesse essere stato cristiano, quindi è interessante, un dato forse propagandistico ma comunque interessante: Roma compie mille anni con un imperatore che privatamente confessa la fede in Cristo. Ma quello che è nuovo, è quello che succede durante il regno di Costantino, e cioè l’azzardo che questo imperatore comunque giovane, non giovanissimo, nell’anno 312 compie giocando la carta cristiana. È stato ricordato giustamente che il Meeting ha ospitato negli anni scorsi una mostra, che io vidi fuori dal Meeting, su Costantino, per mostrare anche la complessità di questa storia, una storia che adesso naturalmente non abbiamo tempo di ripercorrere. Valvo l’ha detto, l’editto di Milano, che è l’avvenimento che ci ha riuniti, segna l’affermazione della libertà religiosa. È preceduto dall’ultima grande persecuzione scatenata nel 304 da Diocleziano, e nel 311 il riconoscimento del fallimento di questa persecuzione induce Galerio a concedere un primo provvedimento di tolleranza che poi verrà rinnovato appunto da Costantino, subito dopo la vittoria di Ponte Milvio, ad saxa rubra. Poi confermata nel febbraio del 313 a Milano, insieme a Licinio, e confermata soprattutto da Licinio stesso, per l’Oriente, a Nicomedia, mi pare il 13 giugno del 313.
E’ l’inizio di un azzardo, perché non è stato un passo dettato dalla convenienza. Basti pensare agli studi, proprio nel catalogo di Costantino, con cui Manlio Simonetti e Marta Sordi hanno sottolineato questo fatto: che non era per nulla scontato che la carta cristiana fosse la carta vincente. Del resto, quest’uomo era affascinato dalla religiosità enoteista o monoteista del 310. È un panegirico pagano che racconta una visione. Si è molto ironizzato sulla visione diurna o notturna di Costantino, ma si dimentica che le visioni o i sogni costituiscono parte della storia. La visione pagana della Gallia, Apollo che compare all’imperatore, la visione di Giuliano, l’ultimo dei Costantinidi: su queste visioni non si ironizza o non si discute. Si discute invece sulla visione diurna o notturna, ma questo è un discorso che ci porterebbe troppo lontano e abbiamo poco tempo. Questo azzardo cristiano, questa carta cristiana viene giocata da un imperatore affascinato da una religiosità Solare, probabilmente, e che poi rapidamente assume i tratti di una benevolenza nei confronti della Chiesa cristiana, della Chiesa di Roma. Tant’è vero che, per usare una formula, si potrebbe dire un po’ brutalmente che non c’è niente di più vero della “falsa donazione di Costantino”, perché è innegabile la politica di elargizioni e concessioni nei confronti delle comunità cristiane da parte di un imperatore che non cede la minima particola del suo potere. È un imperatore che oggi definiremmo bipartisan. Arnaldo Marcone ha avuto la genialità di intitolare un suo libro su Costantino Pagano e cristiano, Valvo ha ricordato come non rinunci al titolo di pontefice massimo, eppure questo imperatore trova naturale, per quanto riguarda la Chiesa, nei confronti della quale opera “come un vescovo dal di fuori”, questa è l’espressione di Eusebio, governare anche la Chiesa, convocare il Concilio di Nicea. Non è il primo sinodo ma è il primo ecumenico. E dopo di lui, tutti i concili saranno convocati e presieduti dagli imperatori, ancora fino all’VIII secolo, ma sono tutti i concili riconosciuti da tutte le Chiese cristiane, soprattutto i primi quattro concili che papa Gregorio paragona al tetra vangelo. Ancora, questo imperatore non sopporta un granché Roma, romano de Roma fino a un certo punto, nel senso che decide – è una questione storiografica complessa – di trasferire la capitale dell’impero da Roma alla nuova Roma – così il concilio di Nicea e i concili successivi -, nella città di Costantino, a Bisanzio, sull’Ellesponto, là dove l’Europa tocca l’Asia. È una decisione, se ci si pensa bene, che raddoppia il millenario di Roma nel 328-334, sono queste le date di fondazione di Costantinopoli, consacrata con riti pagani e cristiani. Da allora passeranno 12 secoli fino alla caduta di Costantinopoli, quando comparirà nell’ultima battaglia l’ultimo Costantino, Costantino XII, se non vado errato, nel 1453, ancora di maggio. Sono mille anni, è il millennio bizantino.
E questo lo si deve a quest’uomo che decide, lo ha ricordato Valvo sulla base di Eusebio, alla fine dei suoi giorni di battezzarsi. E viene battezzato da un vescovo di confessione ariana, l’eresia che aveva fatto condannare l’imperatore. E così, la vigilia di Pentecoste dell’anno 337, deposta la porpora, racconta Eusebio, lo ha ricordato Valvo, si fa battezzare. E non tocca più la porpora, un segno evidente dell’imbarazzo che uno storico straordinario quale è stato Eusebio di Cesarea – che viene rivalutato in questi ultimi anni, grazie soprattutto alla storiografia italiana – prova nei confronti di un imperatore cristiano, perché si rende conto che un imperatore cristiano comanda come prima, una volta battezzato. Ma può comandare come prima alla Chiesa di Cristo? Qui si potrebbe discutere a lungo, ma ce n’è quanto basta, da questo quadro sommario, per capire come subito sia stato detestato dai pagani, Eunapio e gli storici successivi, dall’ultimo dei suoi discendenti, Giuliano, che poi i cristiani bolleranno come l’Apostata. Ecco, nasce la storiografia anticostantiniana pagana. Ma subito nasce anche la storiografia anticostantiniana cristiana. Ilario, Girolamo, una storiografia reticente nei confronti dell’imperatore. Perché? Perché è stato battezzato da un vescovo ariano, quindi Ilario nota che il figlio di Costantino è stato più pericoloso di Nerone quando ha blandito la Chiesa con il potere. Sei più pericoloso tu, Costanzo II, di Nerone. E quindi, la diffidenza anche di Ambrogio: abbiamo sentito da questa raffinatissima lezione di Braschi cosa significhi per Ambrogio la figura di Costantino. Si può poi passare a san Bernardo, a Dante, a Valla.
Ci sono due correnti in questa guerra sull’imperatore: costantiniani e anticostantiniani, fino alla storiografia contemporanea che nasce a metà dell’800 con Burckardt, viziata dalle precomprensioni cristiane e pagane. Una sola citazione di un grande storico della Chiesa antica, un francese, un corso che è stato direttore dell’École française de Rome, morto prematuramente, Charles J. Petrie, grande storico della Roma cristiana del IV secolo. Petrie lamenta tutto l’anticostantinianesimo successivo al Vaticano II, lamenta, cito, “queste reazioni appassionate di condanna nel nome di un’altra Chiesa ideale, liberata da tutti gli accomodamenti temporali”. Queste reazioni, denuncia lo storico, rischiano di oscurare le ricerche su una realtà complessa e sfumata, contraddittoria, forse. È una storia che manipola le povere certezze che lo storico discerne in una realtà molteplice e complessa. In questo caso, è il giudizio di Petrie, la cristianità costantiniana, non più di un’altra, non può rappresentare una sorta di archetipo. E bisogna mutilarla per farne il simbolo di una Chiesa sottomessa al potere o da questo compromessa. L’emblema di questo scontro è la considerazione opposta di due dei più grandi teologi del ’900, anch’essi francesi: Yves Congar, poi cardinale, e Jean Danièlou, poi cardinale anche lui.
Congar detesta Costantino anche se poi, di fronte agli scavi di San Pietro, riconosce l’umiltà dell’imperatore che rispetta la tomba del pescatore. Ed è Danièlou che, nel ’65, in un libretto, La preghiera come problema politico, prende le difese più appassionate di questa scelta dell’imperatore. Un’altra concezione, non in nome della difesa di una cristianità storica, quindi non in nome del costantinianesimo, ma in nome delle esigenze stesse dell’evangelo e di una visione realistica dell’avvenire. Per quelli che sostengono questa concezione, una caratteristica essenziale dell’evangelo è quella di essere la religione dei poveri, non nel senso di quelli che sono staccati da ciò che è terreno – qui è interessante il teologo gesuita – ma nel senso dell’immensa marea umana. E, continua Danièlou, “questa estensione del cristianesimo a un immenso popolo che rientra nella sua essenza, è stata ostacolata durante i primi secoli dal fatto che andava sviluppandosi all’interno di una società i cui quadri sociali e le cui strutture culturali gli erano ostili. L’appartenenza al cristianesimo richiedeva quindi una forza di carattere di cui la maggior parte degli uomini è incapace. La conversione di Costantino, eliminando questi ostacoli, ha reso l’evangelo accessibile ai poveri, cioè proprio a quelli che non fanno parte delle èlite, all’uomo della strada. Lungi dal falsare il cristianesimo” conclude Danièlou, “gli ha permesso di perfezionarsi nella sua natura di popolo”. Ecco Danièlou.
Quindi, riassumendo e concludendo, la vicenda di Costantino – che per gli ortodossi è un santo, qui c’è Marta Dell’asta che ci potrebbe raccontare tutto sul culto di Costantino, e alla biblioteca Ambrosiana c’è stato un incontro interessantissimo, all’inizio di giugno, sul culto dell’imperatore nelle tradizioni slave, non solo ortodosse ma anche slave, il patriarcato di Mosca considera autentica la ‘donazione di Costantino’ fino al 1800, a differenza di tutte le altre tradizioni cristiane – contribuisce nel suo complesso all’incarnazione della Chiesa, nel bene e nel male. Attenzione, nel bene e nel male! Santo, ma bisogna leggere il libro di uno straordinario romanziere cattolico inglese, Evelyn Waugh, che è stato ripubblicato in una bellissima traduzione nella Biblioteca della Spirito cristiano dalla BUR, un romanzo intitolato Elena, in cui Costantino fa una figura, di fronte a sua madre, veramente da poveraccio. Questo romanziere si è documentato rigorosamente: io ho fatto fare una tesi su questo romanzo (poi l’autrice della tesi è entrata a Vitorchiano, ma non credo per questo, credo per altri motivi!). Un romanzo che mostra come, appunto, i santi non sono i perfetti ma quelli che si rialzano, quelli che cadono e si rialzano. Ecco, l’incarnazione del cristianesimo nella storia significa la possibilità, oltre che il dovere, di relativizzare ogni potere, e questo paradossalmente lo ha reso possibile Costantino. Non a caso, nella ricostruzione di Braschi, Ambrogio ricorda ai discendenti di Costantino che uno dei chiodi della croce viene donato da Elena a Costantino. E Costantino cosa ci fa? Lo usa per il morso della sua cavalcatura, il frenum: sembra una cosa quasi blasfema, e invece basta pensare al termine latino, il morso, per capire che la croce di Cristo frena il potere del mondo. Questo è il simbolo. Più di mezzo secolo fa, a capire la direzione sostanziale di questo sviluppo, era un giovane teologo: naturalmente si tratta di Joseph Ratzinger, che nel 1971 poi ha condensato queste sue riflessioni della fine degli anni ’50, inizio anni ’60, in un piccolo libro, un po’ specialistico ma che vale la pena rileggere. È stato pure tradotto in spagnolo da poco, l’edizione migliore è quella spagnola. Quella italiana, ripubblicata dalla Morcelliana, si intitola L’unità delle nazioni. Ecco, in questo piccolo libro c’è già tutto il Ratzinger successivo e c’è Benedetto XVI che, come il suo autore prediletto, Agostino, da sempre è diffidente, se non addirittura si oppone, anzi, si oppone, nei confronti di ogni assolutizzazione politica del cristianesimo. Perché? Per un motivo molto semplice: perché l’aspirazione cristiana è ben diversa, cioè rendere presente in questo mondo la forza, dice così il giovane Ratzinger, rivoluzionaria della fede che relativizza tutte le realtà immanenti al mondo, indicando e rinviando all’unico Dio.

STEFANO ALBERTO:
Siamo veramente grati al professor Vian per averci offerto questo scenario conclusivo della figura di Costantino, in termini che – ve lo anticipo, poi voi siete liberi – ci costringeranno ad un’attenzione particolare, ad un lavoro su di noi, lì dove viviamo, lì dove ci muoviamo. Un valore che tiene presente quello che, non a caso, Nicea mette in risalto nel 325. Quando parliamo di Nostro Signore non parliamo appena di un uomo eccezionale, di un modello morale o di un ispiratore di dottrine altissime, ma parliamo del vero Dio che si è fatto uomo! Farsi uomo vuol dire affrontare tutti i rischi della storia, affrontare tutti i condizionamenti. Questa è l’avventura del cristiano, aperta, resa possibile a chiunque, non appena all’èlite: questa osservazione di Dianièlou è fantastica. Resa possibile a chiunque. E questa è anche l’avventura della Chiesa oggi. Consentitemi di ringraziare il professor Vian anche per questo squarcio sull’attualità. Questa ansia a volte di ristabilire forme di presenza, forme di incidenza politica, incidenza partitica, rischia di diventare un affanno e di ottenere l’effetto opposto a quella, pur necessaria e pur direi indispensabile, incidenza storica. Se non abbiamo chiaro qual è il punto di partenza, la freschezza permanente, la radice che permette chiarezza ideale e forza operativa, che è la fede in Nostro Signore, non andremo molto lontano. Ma riflettere su questa libertà che è la madre di tutte le altre, la libertà religiosa, vi ripeto, non è solo un’operazione di pensiero: avremo dei convegni molto importanti a Roma e a Milano, l’anno prossimo e non solo. E’ anche il titolo del Meeting di quest’anno che ci aiuta a riscoprire ogni volta che la nostra risorsa, la risorsa più grande, è il rapporto con l’infinito. L’infinito presente che ha un volto e un nome: Gesù Cristo nella sua Chiesa. Grazie ai nostri relatori, grazie a voi tutti. Buona serata.

Data

22 Agosto 2012

Ora

15:00

Edizione

2012

Luogo

Sala C1 Siemens
Categoria
Incontri