SUSSIDIARIETÀ E PUBBLICA AMMINISTRAZIONE

Workshop. In collaborazione con Unioncamere. Partecipano: Roberto Albonetti, Direttore Generale Direzione Istruzione, Formazione e Lavoro della Regione Lombardia; Carlo Lauro, Docente di Statistica all’Università Federico II di Napoli; Andrea Ranieri, Assessore alla Cultura, all’Innovazione e alla Tecnologia del Comune di Genova; Francesco Verbaro, Segretario Generale Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali. Introduce Salvatore Taormina, Segretario Generale della Presidenza della Regione Siciliana.

 

MODERATORE:
Buongiorno a tutti, benvenuti a questo incontro su sussidiarietà e pubblica amministrazione. “O protagonisti o nessuno” dice il titolo del meeting, e quale protagonismo può esserci per chi lavora nella pubblica amministrazione? E’ una provocazione tutta particolare quella che il titolo del meeting rivolge a chi lavora dentro la pubblica amministrazione. Come può, infatti, un tale protagonismo esprimersi in un ambiente di lavoro caratterizzato dalla gestione, in forma impersonale, di funzioni burocratiche che una crescente mole legislativa, spesso disorganica e contraddittoria, riversa sui più disparati settori della vita economica e sociale del paese? Il senso di una tale condizione, secondo me, può essere efficacemente riassunto da una citazione ironica, se volete, ma alquanto realistica che traggo dall’articolo 27 del codice della navigazione borbonico. L’articolo 27 disciplinava un comando che veniva impartito agli equipaggi della marina reale borbonica tutte le volte che un’alta autorità del regno faceva visita ad un battello o ad un legno reale. L’ordine impartito era questo: “All’ordine facite ammuina tutti chilli che stanno a prora, vann’a poppa e chilli che stann’poppa vann’ a prora; chilli che stann’ a dritta vann’ a sinistra e chilli che stanno a sinistra vanno a dritta; tutti chilli che stanno abbascio vann’ ncoppa e chilli che stanno ‘ncoppa vann’abbascio”. Con una precisazione però “passann’ tutti p’o stesso pertuso”, così passando tutti per lo stesso buco ovviamente c’era maggiore affollamento. E infine, disposizione residuale di chiusura di tutto l’articolo, “chi nun tiene nient’a ffa, s’aremeni a ‘cca e a ‘lla”. Questo è l’emblema visibilissimo di una disposizione normativa che poteva essere pedissequamente applicata dai destinatari della disposizione stessa, realizzando una perfetta attività senza che alcun obiettivo fosse raggiunto. Mi pare che da allora ad oggi, qualche elemento di continuità si possa ancora riscontrare nel funzionamento della pubblica amministrazione. Detto questo, e lasciando dietro le spalle l’ironia, nell’esperienza individuale di chi lavora nella pubblica amministrazione la risposta a questa domanda di protagonismo viene spesso ricercata nella gratificazione economica di cui il percorso di carriera è condizione necessaria, oppure in quelle continue forme di conflittualità da vivere e riproporre nei luoghi di lavoro lì dove si sente quotidianamente calpestata la propria dignità. Altre volte si cede a una sorta di programmatica demotivazione, una resistenza a ogni possibile forma di cambiamento giustificata dalle disfunzioni di un sistema che ritiene di poter frustrare qualsiasi tipo di iniziativa individuale. Questi sono atteggiamenti ricorrenti all’interno di quella che si è voluta definire, in un paese fatto da tante caste, la casta della pubblica amministrazione. E questo è accaduto a dispetto di tutte quelle riforme che, a partire dagli anni ’90, hanno tentato di cambiare il volto della pubblica amministrazione. Cito solo la legge 241 sul procedimento amministrativo e il decreto legislativo 29 93, meglio noto come “decreto Cassese”. Ora, rispetto a questo stato di cose, si sono moltiplicate le denunce, le ricette, e in ciascuno di questi interventi, di queste iniziative, è possibile cogliere il senso di una verità, di aspetti significativi. Però molti di questi interventi e di queste ricette sembrano concentrarsi esclusivamente sugli effetti finali di questo processo di degrado, tralasciandone l’origine più profonda, cioè quale sia il significato che mette in moto questo processo. Origine più profonda che forse è da ricercare nella obliterazione del significato del proprio lavoro e della stessa funzione, a cui deve rispondere un’organizzativa come tante ve ne sono nel nostro paese. Don Giussani ricordava nel 1987 ai quadri della Dc lombarda, riuniti ad Assago, che la persona, ogni persona, è caratterizzata da un “elemento dinamico”, cito testualmente, “che attraverso le domande e le esigenze fondamentali in cui si esprime la persona stessa, appunto, guida l’espressione personale e sociale dell’uomo”. Riteniamo sia la centralità di questo originario dinamismo, il punto di partenza comune in grado di mettere insieme chi lavora nel palazzo e chi lavora fuori del palazzo. E quindi, al di là di ogni retorica istituzionale o anche mediatica, temi come la legalità, la trasparenza, l’efficienza della pubblica amministrazione possono essere riproposti con una valenza del tutto nuova e concreta, che è quella dettata dal principio di sussidiarietà, in una parola. Questo principio ha orientato negli ultimi anni in maniera determinante esperienze di amministrazione e di governo alle quali è possibile guardare oggi come efficace termine di paragone, per rilanciare in chiave sussidiaria il ruolo della pubblica amministrazione, attraverso organici interventi legislativi di programmazione e gestione, interventi che sappiano mettere al centro la società e la sua capacità di risposta ai bisogni e alle attese di sviluppo che la stessa società porta. Riconoscere e sostenere tali tentativi è la chiave di volta di un’amministrazione pubblica nuova che, senza sovrapporre funzioni burocratiche a quanto già esiste, sappia riconoscere e valorizzare il protagonismo sociale ed economico emergente. E che, proprio in questa funzione, possa ritrovare il suo stesso protagonismo, attraverso una profonda riconsiderazione del proprio ruolo e dei propri modelli operativi e anche, consentitemi di dire, attraverso una nuova stagione della responsabilità personale di quanti lavorano nella pubblica amministrazione. Questa tavola rotonda ha voluto mettere insieme, a partire da ottiche e prospettive diverse, le esperienze di coloro che si confrontano su questa sensibilità e su questi temi nella quotidianità. Una quotidianità fatta di un’attività di studio e di ricerca come quella del professore Carlo Lauro, professore dell’università Federico Secondo di Napoli ordinario di statistica, o come quella del dottor Andrea Ranieri che vanta una militanza nel campo della ricerca in materia di formazione, di pubblica amministrazione e che oggi da poco ha una responsabilità al comune di Genova come Assessore alla cultura e all’innovazione. Così come il collega ed amico Francesco Verbaro, che ringrazio di essere qui, a cui faccio gli auguri per il suo recentissimo incarico di nuovo segretario generale del Ministero del welfare, e il collega e amico Roberto Albonetti direttore generale della direzione istruzione, formazione e lavoro della regione Lombardia. Quindi, proprio partendo dalle considerazioni che abbiamo appena fatto, chiederei nel primo veloce giro al professore Lauro di darci alcuni elementari dati di contesto. Usiamo spesso questa parola, sussidiarietà, ma qual è la percezione e la consapevolezza che ne ha la gente, è davvero così importante?

CARLO LAURO:
Grazie. Consentitemi di ringraziare Salvatore Taormina, il nostro presidente, per avermi invitato ed avermi dato l’opportunità di condividere con voi alcune riflessioni sulle ricerche che conduciamo nell’ambito della fondazione per la sussidiarietà. In particolare il mio contributo prende le mosse dal rapporto di sussidiarietà 2007 che è stato presentato all’inizio di quest’anno. Ho tentato di individuare quelli che sono i temi più vicini all’oggetto di questa tavola rotonda, cioè sussidiarietà e pubblica amministrazione. Non c’è niente di meglio della tavola di Ambrogio Lorenzetti del 1285 sugli effetti del buon governo sulla città, per sintetizzare l’obiettivo di questa ricerca. In particolare, le riformi istituzionali sono spesso avvenute sopra la testa degli italiani e piegate alla strumentazione politica. Rispetto a questo scenario il rapporto sulla sussidiarietà del 2007 ha messo al centro della discussione un aspetto nuovo: la percezione dei destinatari delle riforme, cioè i cittadini, cioè le persone. La scelta si è rivelata vincente perché dall’indagine emerge che le riforme sono un tema su cui i cittadini sanno dare risposte: la percentuale dei “non so” infatti è assai bassa, nell’ordine del 2-3%. Il filo conduttore dell’indagine è costituito sulla base del principio di sussidiarietà, il quale dà spazio alla persona e a corpi intermedi, esige una ridefinizione del rapporto tra rappresentanti e rappresentati, valorizza il nesso di responsabilità, pretende che chi paga sia messo nelle condizioni di comprendere. In un momento di alta referenzialità della politica che offre il destro all’antipolitica, la fondazione per la sussidiarietà ha voluto ascoltare l’opinione degli italiani sulle riforme istituzionali e sul ruolo della pubblica amministrazione, attraverso un apposito questionario somministrato ad un campione di 1600 cittadini italiani rappresentativo della popolazione con più di 18 anni e rappresentativo ancora per sesso e per regione di residenza. Gli obiettivi e i temi dell’indagine erano quelli di fare emergere come, attraverso il principio della sussidiarietà, si possa creare una cerniera tra stato e società, in particolare il rapporto aveva come obiettivo la verifica della conoscenza del principio di sussidiarietà, la valutazione e la percezione in generale della sussidiarietà, la propensione e il livello di gradimento riguardo all’applicazione della sussidiarietà, sia essa verticale o orizzontale, e infine la valutazione degli effetti della valutazione del principio della sussidiarietà. Come vedremo la sussidiarietà non è un assioma, va confortata da appositi strumenti di valutazione. Ai cittadini che, intervistati attraverso un sistema Cape, cioè interviste telefoniche gestite da computer, non conoscevano il principio della sussidiarietà, è stata spiegata declinando come l’articolo 118 della Costituzione introduca il principio della sussidiarietà verticale, secondo cui i bisogni dei cittadini dovrebbero essere soddisfatti dall’azione degli enti amministrativi pubblici più vicini agli stessi e quello della sussidiarietà orizzontale, secondo cui tali bisogni potrebbero essere soddisfatti dai cittadini anche in forma associata e o volontaristica. Uno degli scopi della ricerca è stato quello di indagare su questa prospettiva dal punto di vista dei cittadini. Nell’indagine del 2007 i cittadini in età superiore a 18 anni hanno dichiarato di conoscere la sussidiarietà in circa il 20% dei casi. Questo non è un dato basso se confrontato con una popolazione, diciamo un po’ più anziana rispetto al 2006, che riguardava sussidiarietà ed educazione dove la risposta di coloro che conoscevano la sussidiarietà era circa del 22%. Ciò che è importante è che questo principio è conosciuto in egual misura sia al nord che al sud del paese. E’ anche interessante notare che la conoscenza del principio di sussidiarietà evidentemente cambia in funzione dei target. Se per esempio ci riferiamo a coloro che operano nella pubblica amministrazione, il principio è nota al 66% degli intervistati, mentre questo dato vale all’incirca in egual misura nelle famiglie e nelle imprese. Quanto alla percezione della sussidiarietà dobbiamo dire immediatamente che, presentati alcuni esempi, presentato il principio declinato secondo l’articolo 118 della Costituzione, il giudizio sul principio di sussidiarietà degli italiani è molto positivo. Cioè, pur non sapendone dare una definizione precisa, presentandone alcuni esempi, come vedremo in seguito, il 67% degli italiani esprime un gradimento, un forte giudizio positivo per la sussidiarietà che cresce fino all’85% quando si tratta di laureati. In particolare, per quanto riguarda la sussidiarietà verticale, cioè quella che ha come obiettivo di avvicinare i servizi ai cittadini, il 61% degli italiani esprime un giudizio favorevole e 6 italiani su 10 esprimono un forte gradimento per la sussidiarietà orizzontale, con una prevalenza dei cittadini del nord che arriva al 66%. Ancora una volta, i laureati e i più giovani sembrano essere molto più sensibili al principio della sussidiarietà. Per quanto attiene il capitolo del metodo delle riforme, un risultato importante è che gli italiani sono a favore di riforme ampie e condivise, ma che prevedano la partecipazione della società civile, quindi non più riforma calate dall’alto. Infatti i cittadini italiani, nel 74% dei casi, hanno espresso un giudizio negativo sulle riforme a stretta maggioranza. A conferma di quanto avvenne per il referendum confermativo del giugno 2006 sulla riforma dell’articolo quinto, il giudizio è ancora più severo, raggiungendo l’81% nella popolazione con cultura più elevata. Come operare le riforme? La maggior parte dei cittadini preferisce che queste vengano attuate con interventi meno frequenti ma di ampia portata piuttosto che piccoli interventi molto frequenti. In particolare, è questo il primo dato che collima con il tema di questo meeting: i cittadini si aspettano di essere coinvolti. Quando si chiede quali debbano essere i soggetti che devono realizzare le riforme istituzionali, solo il 14% ritiene che sia il parlamento, mentre invece l’81-83% ritiene che al parlamento si debba affiancare la società civile. Questo mi sembra un dato molto importante, ed è immediatamente confermato quando parliamo del federalismo fiscale e della riforma del bicameralismo perfetto. In effetti gli italiani sono a favore di un cambiamento della diversificazione dell’operato delle due camere. Oltre il 56% degli italiani è d’accordo con la necessità di differenziare le funzioni di camera e senato, attualmente identiche, con la trasformazione del senato in senato federale che si occupi di questioni regionali. Un’altra espressione che riporta alla voglia di essere protagonisti degli italiani è il dato su chi debba eleggere i senatori federali: non già nominati dai governi regionali, non dai consigli regionali ma eletti direttamente dal popolo. Questo dato è confermato dal fatto che gli italiani chiedono un ritorno alla possibilità di potersi esprimere attraverso le preferenze o, se si vuole, attraverso un sistema di primarie. In particolare, una o più preferenze vengono richieste dall’88% degli italiani. Passiamo a un tema di grande attualità: quali sono le opinioni dei cittadini sull’attuazione del decentramento? Si evince dai dati che vi mostrerò che le aspettative per quanto realizzato finora sono state deluse. C’è una domanda di ulteriore cambiamento. Quanto al livello di governo che possa promuovere lo sviluppo economico, i cittadini in quasi la metà dei casi hanno risposto che lo stato centrale è il livello più efficace per promuovere lo sviluppo economico. Questo dato è evidentemente molto più basso nel caso del nord-est, nell’ ordine del 35% contro il 50% nazionale. Quando invece si parla di garanzia della solidarietà, i cittadini identificano nel comune prima, e nella regione poi il livello più efficace per garantire la sussidiarietà. Sul tema della riorganizzazione degli enti locali mediante accorpamento, che probabilmente preoccupa i cittadini, vi è poco entusiasmo in generale, perché i cittadini pensano probabilmente di poter perdere un contatto diretto, che sarebbe poi in contrasto con il principio della sussidiarietà verticale. E chiedendo un giudizio su quali siano stati gli effetti del decentramento, la maggior parte dei cittadini, il 35%, dice che la situazione è rimasta invariata, laddove addirittura quasi un altrettanto 35% dice che la situazione è peggiorata, contro appena un 23% che hanno visto una situazione migliorata dal decentramento. Da questo punto di vista, i cittadini esprimono tuttavia che per poter raggiungere gli obiettivi che il decentramento si poneva vanno ampliati i poteri legislativi delle regioni, infatti circa il 67% si dichiara abbastanza o molto favorevole all’ampliamento delle possibilità previste dall’articolo 116 della Costituzione, con maggiore forza della richiesta da parte dei cittadini del nord-est, 70%, contro un minimo dei cittadini del centro, 60%. Riguardo ai temi da affidare alle regioni, vengono scelti quelli che in parte sono già demandati alle regioni, cioè sanità, istruzione, protezione civile, tutela dell’ambiente. Ciò su cui viene richiesto maggiormente l’intervento delle regioni è la tutela dell’ambiente, mentre viene richiesto con meno forza di demandare alle regioni il servizio dell’istruzione. E’ interessante come, rispetto ad alcune politiche sussidiarie come i buoni di servizio, il 72% tra coloro che già lo conoscevano ha dato un giudizio molto positivo o positivo. Altresì c’è una dichiarazione molto a favore è della detraibilità fiscale dei buoni di servizio. Quanto a uno degli ultimi temi, quello del federalismo fiscale, di fatto c’è un timore abbastanza diffuso: il 56% circa degli italiani ritiene che il federalismo fiscale possa condizionare, diciamo, l’erogazione di servizi uguali in ogni parte del paese. Questo, però, credo che sia principalmente un difetto di comunicazione, visto che sui temi su cui la comunicazione è stata più precisa il 60% dei nostri concittadini è convinto che il federalismo fiscale possa ridurre gli sprechi. Ovviamente questo è espresso con maggiore forza al 67% e al 68% fra i cittadini del nord-ovest e i cittadini del nord-est. Quali possono essere le conseguenze del federalismo fiscale? Il 56% degli italiani dice che può portare alla promozione dello sviluppo anche in aree più depresse, mentre il 33% pensa che il federalismo fiscale possa aumentare il divario tra zone ricche e zone depresse. Avviamoci verso la conclusione. Nell’intero rapporto è emerso dalle interviste come la sussidiarietà possa rappresentare la bussola per le riforme istituzionali e per l’azione di governance della pubblica amministrazione. Alla domanda sulle conseguenze di un rafforzamento della sussidiarietà nella Costituzione, poiché viene ancora ritenuta dagli esperti un’espressione molto blanda, il 17% ritiene che questa possa portare ad un maggiore protagonismo degli italiani stessi. Con la sussidiarietà va assolutamente coniugato il principio della valutazione, di cui oggi si parla molto in molte occasioni. Si intende la valutazione nella pubblica amministrazione delle performances di dirigenti, di funzionari, di tutti, ma anche valutazione delle performances dell’impresa. L’idea di procedere alla valutazione non spaventa i cittadini italiani, il 60% di fatto è favorevole. Invero la valutazione può dare forza al principio di sussidiarietà nel momento in cui se ne può dimostrare la qualità. Concludo dicendo che due dati emergono con forza da questa indagine: il desiderio di protagonismo dei cittadini e l’associazione tra sussidiarietà e riforme istituzionali. Ciò che abbiamo condotto rappresenta quella che oggi va sotto il nome di “civic politing”, che si va sempre più diffondendo come strumento per la partecipazione dei cittadini alla vita delle moderne democrazie. Grazie per l’attenzione.

MODERATORE:
Grazie professor Lauro. Dunque, questi dati ci dicono una cosa semplice: i cittadini in qualche modo credono e guardano con crescente interesse alla sussidiarietà come una via possibile di riforma alla pubblica amministrazione. Andrea Ranieri, lei ha vissuto gran parte del suo impegno con ruoli di responsabilità in una grande organizzazione sindacale come la Cgil, e oggi ha un ruolo di amministratore locale in un importante comune italiano. Lei ci crede alla sussidiarietà, che esperienza ne fa?

ANDREA RANIERI:
Mi sembra che i dati del professor Carlo Lauro siano troppo ottimisti, però, siccome io mi identifico con quella maggioranza degli italiani che crede davvero che la solidarietà sia il fulcro dei processi di riforma, io ci credo, ne sono convinto. Permettetemi però di non ragionare sui numeri, io faccio il filosofo, ma di ragionare sulle parole, di capire perché, nonostante ci sia questo grande accordo, le cose non camminano, e perché una condizione fondamentale della sussidiarietà, come la riforma della pubblica amministrazione, non procede. La sussidiarietà, così come è espressa anche dall’articolo della Costituzione che il professore citava, assume come fulcro della vita pubblica e dello stesso ordinamento giuridico la persona umana, intesa come individuo e come legame relazionale. Fulcro significa una cosa importante, su cui forse non abbiamo meditato abbastanza. Il bene pubblico non è più prerogativa dello stato, della pubblica amministrazione, che dello stato è la macchina, che tutela e promuove il bene pubblico, ma è lo stesso cittadino, la persona a promuovere, ad attuare il bene pubblico. Cioè, non si hanno due cose contrapposte, ma è il cittadino che diventa il promotore del bene pubblico. Attenzione però: la pubblica amministrazione non è nata per questo, non è nata esattamente per questo. La pubblica amministrazione, come noi la conosciamo, ha origine nel codice napoleonico. Non è un caso che gli stati italiani della restaurazione fecero proprie le indicazioni centralistiche di Napoleone, perché c’erano dietro alcune convinzioni filosofiche e poi di potere. Primo: che l’uomo è irrazionale, persegue i propri interessi, la propria particolarità, e per affermare l’interesse generale c’era bisogno di accentrare il potere. Qualche storico del risorgimento oggi dice che questa cosa non è possibile, perché l’aristocrazia che predominava negli stati italiani vedeva nella pubblica amministrazione una garanzia contro gli eccessi di democrazia. Credo che sia così. Allora, se è così, il rapporto pubblica amministrazione/cittadino, così come è stato storicamente delineato, è un rapporto duale: l’interesse generale dalla parte dello stato, della pubblica amministrazione, gli interessi particolari dalla parte del cittadino. Una concezione di questo tipo ha come corollario inevitabile la sfiducia. Una pubblica amministrazione secondo cui l’interesse generale è importante mentre l’interesse particolare è cupo, si muove in un orizzonte di sfiducia nei confronti dei cittadini. Perché i cittadini sono condannati a perseguire il proprio particolare, l’unico generale è da un’altra parte. Allora, di fronte a questa situazione, è possibile che l’idea di sussidiarietà venga fuori in negativo, cioè se la pubblica amministrazione è questo proviamo a conquistare degli spazi al di fuori della pubblica amministrazione, lo stato si ritragga. La sussidiarietà è così la compensazione di uno stato accentratore, che resta comunque quello che è. La libertà e la sussidiarietà si esercitano dove lo stato non c’è. Lo stato è chiamato soprattutto in questa concezione negativa della sussidiarietà a ritrarsi. Questa cosa la capisco, è persino utile, ma non funziona alla lunga: una pubblica amministrazione non in grado di promuovere, è però in grado di ostacolare e poi si rischia di confondere la sussidiarietà orizzontale, che è l’esercizio dei cittadini in prima persona del bene pubblico quasi come l’ ultimo anello della sussidiarietà verticale. Prima lo stato, poi le province, poi i comuni, dall’alto verso il basso, e alla fine i cittadini che fanno quello che non fanno questi ultimi. Questa visione però non risolve il nostro problema. Io credo che il problema si risolve solo se rompiamo – e non è stato ancora fatto, se non teoricamente – il duale, cioè l’idea che c’è una separazione di compiti fra stato e società civile, fra stato e persone. E allora forse è ora di affermare l’esigenza di una nuova libertà, oltre a quelle politiche, civili e sociali, quella che alcuni hanno cominciato a chiamare la libertà amministrativa, cioè la libertà di interagire con una pubblica amministrazione ricettiva, intraprendente, orientata al servizio, che abbia essa stessa come scopo quello di coordinare, promuovere, stimolare il protagonismo economico e sociale del cittadino, delle imprese, della società, innestando circoli virtuosi fra pubblico e privato. La sussidiarietà non è un pezzo a parte, esiste solo se è circolare, cioè solo se influenza anche il modo di funzionare della pubblica amministrazione. È questa l’idea che dobbiamo davvero mettere alla base della riforma della pubblica amministrazione, non semplicemente quella di lubrificare una macchina concepita ancora come esecutrice di ordini che provengono da un centro. E questo è necessario, perché io sono convinto che anche il pubblico dipendente è un cittadino-persona che può agire in modo sussidiario, degno di fiducia anche lui, portatore di competenze e responsabile di quello che fa. Da qui la centralità della cultura della valutazione su cui poi, se mi è permesso, ritornerò un minuto. La riforma della pubblica amministrazione, rispetto al rapporto stato/cittadino che siamo abituati a pensare, è una cosa rivoluzionaria. È una riforma chiamata a fare una rivoluzione nella cultura comune e nel modo di pensare questi due termini. Se non siamo capaci di far questo continueremo ad essere d’accordo su delle parole che non diventeranno mai fatti. Allora la pubblica amministrazione deve essere più efficiente, più trasparente, semplificare le proprie pratiche, deve essere autonoma, responsabile e valutata. Però questo non succede perché non ci si pone la domanda, a mio parere, di fondo: tutte queste cose servono semplicemente a riqualificare la macchina, la catena di comando che parte dal centro e arriva ai cittadini? Oppure queste cose vanno messe in relazione con il superamento della concezione della pubblica amministrazione come una macchina, come l’affermazione della non separazione, come la promozione di un nuovo protagonismo dei cittadini? Solo così, allora, la pubblica amministrazione può trovare nei cittadini gli alleati necessari a vincere le stesse resistenze della politica, cioè i pubblici amministratori competenti possono davvero fondare una nuova idea di autonomia sul nuovo patto con i cittadini.
E’ una riforma, vi dicevo, rivoluzionaria, ma che può essere fatta solo se è largamente condivisa. Questo dato ce lo dicono anche le ricerche: la pubblica amministrazione è un terreno dove gli scontri ideologici e gli apriorismi impediscono qualunque riforma. Si continua a evocare il problema, ma si resta nella partitocrazia che si contrappone per vivacchiare sulla sua mancata soluzione.
E non può essere però nemmeno banalmente bipartisan, cioè non è che ci deve essere l’accordo. Lo diceva il presidente Wilson alla fine dell’Ottocento, parlando di come fare la pubblica amministrazione, di come riformare la scienza della pubblica amministrazione degli Stati Uniti, deve essere unipartisan, cioè al di sopra delle parti non come frutto di un compromesso tra due schieramenti. E per essere unipartisan la condizione fondamentale è proprio l’alleanza con l’idea del cittadino protagonista.
Io sono convinto, e mi avvio a finire, che la sussidiarietà orizzontale, cioè la possibilità dei cittadini, della società civile, delle imprese di esercitare in prima persona il bene pubblico, deve essere anche la cartina di tornasole che ci fa verificare gli stessi istituti della sussidiarietà verticale. Sussidiarietà verticale è quella che disciplina le competenze dello Stato, delle Regioni, dei Comuni e delle Province. Attenzione, se questa cosa la facciamo senza aver di mira la sussidiarietà orizzontale, rischiamo di appesantire i centri che gravano sulla libera iniziativa dei cittadini. Io mi sono occupato per tanto tempo di scuola: mi fa paura una discussione sulla scuola che si limiti a definire le competenze dello Stato, delle Regioni, delle Province, dei Comuni, senza partire dai bisogni reali della scuola dell’autonomia. Senza questa bussola che ri-orienta tutta la discussione, continueremo a dividere competenze che pesano sui posti dove le persone cercano di esercitare concretamente la sussidiarietà. Dico scuola dell’autonomia perché io, in questa sede, negli anni, ho fatto con voi un accordo: che la stessa questione della scuola paritaria si risolva, bene o male, con la questione della scuola pubblica che diventa autonoma.
La sussidiarietà ha bisogno dell’integrazione tra le diverse competenze, perché per il cittadino normale il governo è uno, il bisogno è uno, la voglia di fare è una e non è divisa. Chi sta sopra ha il dovere di integrarsi per rendere il più possibile fluida l’autonomia. Se non lo fa, il cittadino è più schiacciato, e ogni volta che si dividono i poteri, pensa di averne sempre meno. Mi permettano i miei amici siciliani una citazione di don Luigi Sturzo, il quale diceva, parlando della Sicilia: “Guardate che dare poteri alle regioni ha senso se ne diamo insieme più ai Comuni, alle Province e alle persone e se li teniamo insieme, perché libertà e autonomia vanno insieme, vincolismo e centralismo vanno insieme, per cui se Palermo significa accentramento, preferisco Roma”. Dare potere alle regioni ha senso se fortifica le possibilità di sussidiarietà dei cittadini.
Permettetemi alla fine una battuta ideologica. Io sono da sempre di sinistra, e mi viene rabbia quando sento evocare la parola sussidiarietà, negli ultimi tempi, soprattutto da voi, però io ho lavorato molto con la Fondazione per la sussidiarietà, abbiamo fatto le cose insieme e ancora altre ne farò. Perché? Perché c’è anche una tradizione che la sinistra deve rivendicare con forza come molla della sussidiarietà, certo che c’è la dottrina sociale della Chiesa. Vorrei citare, concludendo, un vecchio socialista, Proudhon, il quale, parlando della rivoluzione sociale possibile, diceva: “Ci sono due idee possibili, la rivoluzione di potenza o la riforma di potenza (…) per cui devi impadronirti delle leve dello Stato, del potere, quello che conta è quello che succede nella stanza dei bottoni e di lì, come dire, irradi le idee nuove e costruisci il nuovo mondo”. Proudhon diceva “Io ne proporrei un’altra, la rivoluzione delle capacità, cioè il socialismo è rendere le persone in grado di autogovernarsi, aumentare le capacità e le competenze per farlo e la società cambia così”.
A quei tempi il proudhonismo fu sconfitto soprattutto perché questo era un ideale di piccoli proprietari e piccoli artigiani, mentre nella grande fabbrica fordista, nel grande Stato non si poteva più pensare in termini di rivoluzione delle capacità. La discussione da parte di tutte forze politiche, in Italia e in Europa, ha riguardato invece la grande fabbrica e il grande Stato. Mi chiedo se, oggi che entriamo nell’economia della società della conoscenza, questa cosa della rivoluzione delle capacità – così mi piace tradurre la parola sussidiarietà e ve la propongo come un’altra delle definizioni possibili – non sia invece più realistica, e più in grado di ogni altra cosa di affrontare le complessità e le contraddizioni che saremo chiamati a governare. Grazie.

MODERATORE
A parte il ringraziamento per la citazione sturziana, credo di interpretare i sentimenti di Mons. Pennisi, arcivescovo di Piazza Armerina, presente in sala, uno dei massimi studiosi di don Sturzo, sottolineando: il bisogno del cittadino è uno e in questo riconoscimento mi pare che ogni steccato ideologico, come abbiamo ascoltato, possa essere davvero vinto.
Francesco, nel tuo precedente incarico, che hai lasciato da poco meno di un mese, hai avuto un osservatorio assolutamente privilegiato, come direttore generale del Ministero della funzione pubblica, su tutta l’amministrazione centrale italiana e hai collaborato con un ruolo di primo piano anche alla primissima parte delle iniziative del ministro Brunetta, che oggi tanta attenzione suscita fra i pubblici dipendenti e fra i cittadini.
Rispetto a quello che abbiamo ascoltato, c’è un modo nuovo di vivere la responsabilità di cui chi lavora quotidianamente nella pubblica amministrazione, spesso nell’anonimato, in una fatica non compresa, si fa carico?

FRANCESCO VERBARO:
La risposta è sì. Ovviamente cerchiamo di arrivare a questa risposta con un ragionamento lineare. Innanzitutto possiamo dire, cercando di riprendere un po’ i temi del nostro incontro, che le istituzioni e le amministrazioni, che sono il motore e il volto delle istituzioni, hanno un ruolo importante perché svolgono una funzione pubblica fondamentale, intervenendo nell’economia e nella società con il pluralismo dato dal decentramento. Noi abbiamo oggi 11.000 pubbliche amministrazioni che intervengono nella società e nell’economia, con la scelta della sussidiarietà verticale e del decentramento ad aumentare il ruolo e il numero dei soggetti e delle istituzioni. Quindi è importante avere un’attenzione al ruolo e alla responsabilità della pubblica amministrazione. Aumenta il numero dei soggetti, in una società sempre più complessa, articolata, con una varietà di popoli, culture, attenzioni, con esigenze di personalizzare il servizio, quindi con una società che ha bisogno di servizi più complessi, più articolati, rispetto a quelli offerti dalle amministrazioni nell’epoca napoleonica, che abbiamo abbandonato già da tempo. L’amministrazione ha chiaramente bisogno di efficienza, di efficacia e di economicità, che sono le tre “e” che abbiamo ormai citato più volte in tutte le riforme. Io, anche se giovane, ho assistito a molteplici riforme dell’amministrazione.
Probabilmente queste riforme hanno bisogno non soltanto di leggi e di norme, di proposte di lanci e di proclami, ma probabilmente, per riprendere il titolo di oggi, di protagonisti, anzi, di protagonismi a vari livelli. A vari livelli perché chiaramente un’istituzione e un’amministrazione collegata prevede più protagonisti e più protagonismi: il protagonismo dei politici, degli amministratori, dei dirigenti, della classe dirigente, dei dipendenti pubblici e poi anche dei cittadini. Se infatti ragioniamo su un’amministrazione diversa che deve gestire servizi più complessi, più articolati, nell’ottica della sussidiarietà orizzontale, il protagonismo dei cittadini è importante, perché se cambia l’amministrazione pubblica, se essa svolge un servizio diverso, cioè crea dei servizi, collega pezzi della società, non esclude ma crea delle reti, delle opportunità, anche rispetto alle politiche del malfare; se abbiamo una missione diversa quindi, non imperativa, dobbiamo avere anche una cittadinanza diversa, cambia anche il ruolo del cittadino. Ecco, nella società orizzontale cambia il ruolo del cittadino. Quindi un protagonismo ci deve essere anche da parte del cittadino, rispetto alle istituzioni, rispetto all’amministrazione. Questo anche rispetto alle norme o alle leggi che io ho scritto. Ne ho fatte tantissime dal 1993 a oggi, comprese quelle del disegno di legge delega che Brunetta ha consegnato in questo momento. Rispetto alle norme che abbiamo adottato e rispetto anche alle ultime norme e alle ultime leggi, quello che si ignora, quello che sempre più si è ignorato – e lo dico anche con una sorta di autocritica, avendo avuto un ruolo non secondario – è il ruolo della persona. Il protagonismo che forse non si è stimolato, il protagonismo che forse non è stato valorizzato e individuato è quello del politico, del dirigente e del dipendente.
Che cosa significa attualmente il protagonismo, anche nell’ottica della gestione dei servizi pubblici? Dev’essere innanzitutto responsabilità ma responsabilità non è protagonismo, è già qualcosa di passivo, di statico. Responsabilità in senso non tradizionale, non amministrativa, contabile, civile, bensì una responsabilità sociale, e quindi attiva, che implichi una partecipazione attiva. Protagonismo significa una dinamicità nel soggetto che svolge un ruolo, una funzione che non sta nell’attendere la legge, la norma che dobbiamo attendere e fare ogni volta, ma sta nel riuscire ad utilizzare gli strumenti presenti, che sono tantissimi a diposizione degli operatori, dei dirigenti, per svolgere la funzione. Il passaggio dalle norme e dalle soluzioni alle funzioni e al risultato, nel senso di servizio, richiede appunto un approccio da protagonisti, con una responsabilità sociale ampia per chi opera, per il politico, il dirigente, il dipendente pubblico e anche il cittadino che, chiaramente, non deve ignorare quello che accade nel palazzo. E se il palazzo deve essere più trasparente, il cittadino non deve ignorare quello che accade e partecipare di più.
Quindi protagonismo non vuole dire che il dipendente deve diventare dirigente.
Mi piace molto una frase che disse una volta don Giussani: “La realtà colpisce i nostri occhi se l’uomo è vivo”. Cioè, bisogna essere innanzitutto vivi in quest’ottica di don Giussani. Questo richiede una vivacità anche da parte del manager, che chiaramente non aspetta la norma pubblicata nella Gazzetta Ufficiale, ma deve sapere interagire e reagire ai cambiamenti, ai mutamenti emergenti dalla collettività e dalla società. Non deve aspettare l’indirizzo del politico per intervenire in un settore, su una questione grave, non deve aspettare l’ennesimo alto commissario o l’ennesima norma. Se noi guardiamo le norme degli ultimi tempi, degli ultimi mesi, che ho scritto o che dovrei scrivere io, probabilmente non siamo molto distanti dall’editto di Napoli. Noi abbiamo fatto una serie di norme che fanno parte, direbbero i sociologi del diritto, del diritto primitivo, cioè quel diritto che interviene sugli animal spirits, cioè sugli spiriti animali. Ricordo un po’ a tutti quanti voi e a me stesso che i soldi non vanno dati a tutti, ma solo a chi li merita. Questa è una delle norme che abbiamo scritto. Che banalità! L’assenza non è considerata presenza ai fini della valutazione, è scritta così la norma e non è l’editto, ma il decreto legge 112. Le comunità montane non si possono fare in riva al mare. Le consulenze devono essere utili alle pubbliche amministrazioni. Se accorpi i ministeri devi ridurre i gabinetti delle strutture. Se perdi una funzione, perdi la struttura e trasferisci il personale. Se dai dei soldi a qualcuno, rendilo pubblico. Se scegli le persone, usa i concorsi. Chi rappresenta la pubblica amministrazione non può rappresentare un’altra persona. L’ultima norma che abbiamo scritto è sulla sostanza sindacale: il dirigente che fa il contratto non può essere sindacalista. Una serie di norme di questo tipo, banali, mirano a cambiare i comportamenti che già dovrebbero preesistere in un comportamento umano responsabile. Poi, ovviamente, ci sono anche norme che mirano sempre più ad accrescere l’attenzione ai cambiamenti, a far inviare una cosa per e-mail, se possibile, e non per carta. Ho scritto anche questo, cioè tutta una serie di ovvietà che potrebbero essere risparmiate, diciamo così, se ci fosse una certa responsabilità dei soggetti e se ci fosse un certo protagonismo.
Quindi è vero che le norme possono aiutare, ma i comportamenti non si cambiano con le norme, c’è poco da fare. Soprattutto i comportamenti di un certo livello, quelli elementari, ma anche quelli virtuosi, richiedono un coinvolgimento del soggetto, quindi un modo diverso di vivere le istituzioni da parte dei politici, dei dirigenti, dei cittadini e, quindi, anche dell’amministrazione.
Quindi ci vuole un rilancio della riforma delle istituzioni pubbliche, dei servizi pubblici, perché anche l’approccio della pubblica amministrazione rischia di essere un approccio molto preferenziale, essendo l’approccio della pubblica amministrazione, dei dipendenti, dei dirigenti o del sistema elettorale. E’ un approccio che rischia di essere molto autoreferenziale, non riesce ad essere percepito dalla gente. Anche sull’accorpamento dei comuni è stata fatta una grande questione: abbiamo 8.100 comuni e 104 province e ne creiamo pure delle altre. Se non si percepisce il motivo dell’accorpamento dei comuni è perché, probabilmente, non si comprende quale può essere l’impatto sul servizio, perché si mette l’accento sull’ente, non sul servizio. Quindi bisogna portare il ragionamento sul servizio, piuttosto che sull’ente, richiamando la responsabilità dei soggetti che operano nelle pubbliche amministrazioni. Non si può lavorare nelle pubbliche amministrazioni, nelle istituzioni, se non si è protagonisti al loro interno, e i cittadini devono aiutare in questo. Le norme adottate richiamano un modo di fare amministrazione un po’ vecchio, io cerco di superare alcune criticità tradizionali e storiche perché noi abbiamo bisogno non di norme ma di comportamenti nuovi, che non possono essere tutti indotti dalle norme che finiscono per richiamare comportamenti banali e sentimenti banali da buon padre di famiglia.
Quindi, proprio per rispetto a questo, i servizi importanti, quelli sul malfare, quelli alla persona, alla formazione, riguardo ai temi dell’occupazione, della formazione universitaria, della ricerca, dell’immigrazione, possono essere affrontati collettivamente, attraverso funzioni senz’altro diverse ma unite in una società che ha istituzioni, amministrazioni, manager e collettività che guardano alle funzioni. Ci vuole anche un’amministrazione trasparente e un modo di programmare trasparente, ottenuto non soltanto attraverso la pubblicazione della consulenza o del giorno di assenza del dipendente pubblico, ma anche rispetto ai processi, pubblicando quanto viene speso in servizi sociali, in formazione, in servizi e quanto costa quel servizio. Questo può aiutare realizzare la sussidiarietà orizzontale e a realizzare anche una nuova cittadinanza. Allora, rispetto a questo, il protagonismo e i protagonisti che dobbiamo provare a rilanciare, dovrà veramente fare in modo che non si parli appena di una nuova riforma della pubblica amministrazione, ma di un modo nuovo di vivere le istituzioni e i servizi pubblici attenti agli altri. Anche qui, non si può continuare a vivere così se non si cambia e non ci si rivolge innanzitutto alle persone, al ruolo delle persone e alle sue funzioni.
Non parliamo più di nuova riforma della pubblica amministrazione, cerchiamo di parlare di un nuovo modo di vivere le istituzioni e i servizi.

MODERATORE:
Grazie Francesco. Tu hai detto che “protagonismo significa innanzitutto essere colpiti da ciò che accade, dalla realtà che attorno a noi e consapevoli che ciò chiede una responsabilità, cioè una risposta”, vado alla radice della parola responsabilità. E’ questo il primo senso del protagonismo di chi opera nella pubblica amministrazione.
Roberto, la regione Lombardia, in questi anni, si è resa protagonista di una grande avventura di trasformazione del ruolo della pubblica amministrazione proprio a partire dalla sussidiarietà. Due giorni fa il ministro Sacconi, arrivando qui al meeting, si è espresso sul settore della Direzione istruzione formazione e lavoro, nel quale tu operi da dirigente generale. Questo era il settore della formazione professionale, e il ministro ha affermato la necessità di un grande cambiamento, che superi l’approccio autoreferenziale che mette insieme, in questo settore, apparati pubblici e para-pubblici e determini una formazione utile esclusivamente a chi se ne occupa, piuttosto che ai soggetti formati.
Prendendo anche spunto da questo aspetto, si è determinata una possibilità nuova? È già in atto una possibilità nuova in ciò che voi state realizzando all’interno dell’amministrazione regionale? È un esempio concreto a cui si può guardare, oppure è solo un auspicio da realizzare?

ROBERTO ALBONETTI:
Ci sono due tipologie di amministratori pubblici. I primi riescono a contenere la spesa, rispettano i tempi e le procedure, mettono in piedi apparati efficienti e ben organizzati. Insomma, direbbe Eliot, costruiscono “sistemi talmente perfetti che non ci sia più bisogno di essere buoni”. I secondi li conosciamo bene. Spendono più soldi di quelli che hanno, si preoccupano più dei propri interessi che di quelli dei cittadini, offrono servizi di qualità scadente. Il frutto sono i dati che sappiamo: una spesa pubblica elevata (50% del PIL), utilizzata quasi esclusivamente per costi di personale e incapace di generare crescita complessiva. Ma c’è anche una terza via, in cui non tutto dipende dal fatto che tu sia bravo o incapace. È la strada della sussidiarietà. Non è una via per tutti, perché presuppone alcune condizioni: credere nelle persone, nella loro spinta positiva, nella capacità della società di auto-organizzarsi. Non vuol dire essere i migliori, ma partire con la certezza che la crescita e lo sviluppo non lo creiamo noi amministratori, ma nasce, questo sì, dalla nostra capacità di valorizzare quello che esiste nella società. Presuppone un modo diverso di guardare tutta la realtà sociale e istituzionale, valorizzando il diritto di ciascuno di esistere e di agire, di mettersi insieme ad altri, di proporre, di costruire risposte concrete a problemi reali. Non è solo un problema di mettere dei limiti e dei freni al potere: “non faccia lo stato ciò che la società fa da sé”. Parlare di sussidiarietà oggi vuole innanzitutto dire mettere in discussione la concezione moderna di Stato basata sulla presunta necessità di ovviare alla lotta tra individui (Donati P.P., 2006). Il premio Nobel per l’economia K.J. Arrow, nel suo volume fondamentale L’economia del benessere, alla domanda: “sono possibili scelte politiche collettive che non contrastino l’utilità individuale?”, risponde che sono possibili solo nella dittatura o nel monopolio in economia, a meno che vi sia un consenso di consumatori o cittadini intorno a quelli che lui chiama ‘desideri socializzanti’: “L’ordinamento rilevante per il raggiungimento di un massimo sociale è quello basato sui valori che rispecchiano tutti i desideri degli individui, compresi gli importanti desideri socializzanti”. In altre parole potremmo dire che le utilità individuali, per definizione non misurabili e non sommabili, non contrastano con il bene comune solo se ci sono corpi intermedi che in qualche modo incarnano valori e ideali delle persone. Si tratta, in fondo, di credere che nella società esistono le risposte ai bisogni delle persone, e che è nella società che possono essere costruite le soluzioni. Mentre lo stato, e gli altri livelli di governo, hanno il compito di favorire la società, di riconnettere ciò che si è disconnesso, di mostrare quello che è poco visibile ma chiaramente buono, di consentire la sperimentazione di nuove risposte sociali. E alla fine, di fare "quello che manca", in base a un criterio di realtà e non in base a quello che lo statista pensa sia giusto e moderno. Una simile concezione supera l’idea dello Stato come principale amministratore di beni e servizi (attività nella quale si è mostrato straordinariamente incapace) e supera anche la concezione elemosiniera dello stato paternalista che finanzia i poveri attraverso la leva della redistribuzione fiscale. Ciò che un’amministrazione sussidiariamente forte fa veramente è sostenere relazioni socialmente rilevanti.
In Lombardia siamo partiti da questo assunto: ci sono là fuori dei problemi che possono essere risolti là fuori, se mettiamo risorse e servizi a disposizione di quelli che si mettono assieme per risolverli. Su questa base negli ultimi tre anni abbiamo ripensato tutto il nostro modo di intendere l’azione pubblica, trasformando radicalmente sia il nostro rapporto con gli stakeholder e con i cittadini, sia la struttura della nostra amministrazione. Lo strumento con cui abbiamo concretizzato questa nuova logica è la dote. Con l’introduzione della dote abbiamo smesso di finanziare l’offerta (gli enti di formazione professionale, i centri per l’impiego, ecc.) e abbiamo cominciato a sostenere la domanda, cioè a mettere le risorse in capo al loro vero titolare, la persona. Si è trattato di un terremoto. Prendiamo il caso della formazione: venendo meno il finanziamento automatico, i centri si sono dovuti riattivare, sono stati “costretti” a rivedere la propria offerta, perché l’arrivo dei soldi ha cominciato a dipendere dall’effettivo arrivo dei ragazzi. Chi era in grado di rispondere ai bisogni formativi reali è cresciuto, chi viveva di rendite storiche è entrato un po’ in crisi. Ma l’offerta complessiva è aumentata e nuovi enti, che in passato erano rimasti esclusi, sono riusciti ad accedere ai finanziamenti. Oltre alla dote formazione, ci sono altre due linee di dote: la dote scuola e la dote lavoro. La dote scuola ricomprende il buono scuola e tutti gli interventi per il diritto allo studio in un unico strumento, modulato sulle caratteristiche e suoi bisogni delle persone, che viene richiesto on-line ed erogato prima dell’inizio della scuola (non a rimborso, come avveniva in passato). Per il prossimo anno scolastico sono state richieste 157mila doti scuola: la semplificazione introdotta ha permesso di intercettare una domanda rimasta nascosta (sono raddoppiate le richieste di sostegno al diritto allo studio e quelle sulla valorizzazione del merito ed è stata attivata una componente di 3000 euro per gli studenti disabili). Le stesse logiche di intervento sottostanno alla dote lavoro.
In sintesi, il progetto-dote si fonda su tre pilastri: primo, la libertà e l’autonomia degli operatori, che non sono più costretti da numerosi lacci burocratici, ma a cui è richiesto solo di accreditarsi, cioè di garantire la sussistenza di alcuni elementi essenziali di qualità. Secondo, la piena libertà di scelta da parte di chi usufruisce del servizio, garantita dal sistema della dote. Terzo, il ruolo di regolazione e controllo da parte della pubblica amministrazione, che non pretende di dettare i passi che la società deve compiere, ma sostiene il sistema attraverso un’azione di monitoraggio e valutazione dei risultati. Si tratta di un’impostazione che ridefinisce a fondo non solo i sistemi di welfare, ma anche le dinamiche interne alla pubblica amministrazione. Perché partire dalla persona richiede una flessibilità e una dinamicità molto più elevate rispetto a quando si risponde solo a richieste formali, calate dall’alto, cioè quando, in ultima analisi, si risponde solo a se stessi. Per esempio, se io finanzio i centri che fanno servizi per l’impiego posso anche ritardare i pagamenti: il centro continuerà la sua attività e aspetterà di essere rimborsato. Ma se il titolare della dote-lavoro è la persona disoccupata, non posso costringerla ad aspettare i tempi burocratici dell’amministrazione. Devo adeguare le mie procedure alle sue esigenze. Dietro a ogni dote ci sono storie e facce, vite che improvvisamente rompono lo schermo opaco che le nascondeva agli occhi degli amministratori e fanno irruzione tra le loro carte. Io dico sempre che la dote è uno strumento dirompente, perché definisce da sola le proprie procedure: non siamo più noi che imponiamo un modello di gestione, ma sono i cittadini che ci dicono di cosa hanno bisogno, cosa dobbiamo cambiare. I funzionari si ritrovano faccia a faccia con le esigenze delle persone, che non sono mai standardizzabili, perché il bisogno non è unico e muta continuamente. E così la PA si riforma, non nel segno di astratte esigenze di incremento dell’efficienza, ma ripartendo dal concreto dell’utente, che ha un nome e un cognome, non è un numero di protocollo.
Se tradizionalmente l’azione pubblica si concentrava sulle procedure e sui processi, che spesso nascondono un’opacità dei risultati e una impossibilità di individuare responsabilità precise, in un’amministrazione sussidiaria nuovi fattori dell’agire pubblico diventano prioritari: La capacità di ascolto e di lettura dalla realtà, che ci ha permesso di capire che le precedenti modalità di gestione dei servizi erano insoddisfacenti (anche per uno strumento positivo come il buono scuola). La velocità e la puntualità del processo: con la dote scuola, alla chiusura delle domande i dati arrivano praticamente in tempo reale, così si dà la possibilità agli utenti di correggere le domande errate e all’amministrazione di erogare il contributo in anticipo. L’assunzione di responsabilità nei confronti dei risultati: abbiamo modificato il sistema e verificato che la decisione assunta è stata corretta, come dimostra il fatto che siamo riusciti a rispondere a una domanda crescente con risorse quasi invariate.
Volendo schematizzare, sono 5 le attività fondamentali di un’amministrazione sussidiaria:
Conoscere: non basta elaborare una teoria e applicarla in modo standard alla realtà; bisogna conoscere approfonditamente il territorio e le esigenze, che non sono mai davvero rappresentate dalle statistiche; bisogna coltivare il rapporto con chi opera (enti, operatori, ecc.). incontrare le persone, farsi raccontare anche i singoli casi, “impastarsi” con i loro progetti e i loro problemi, per capire cosa guida i comportamenti. Sperimentare: quando conosco ciò che ho davanti (o meglio, quando conosco la dimensione e i caratteri con cui un problema si manifesta in questo preciso momento), posso davvero seguirne il cambiamento e supportarlo; allora posso mettere in campo delle ipotesi innovative, per esempio proponendo nuove modalità di finanziamento o di aggregazione delle risorse per favorire chi sta costruendo qualcosa di interessante per tutti. Coinvolgere: la sussidiarietà non si può calare dall’alto. È necessario coinvolgere nei processi amministrativi gli attori sociali, che così diventano co-produttori delle novità che ideiamo. Per esempio, il sistema della dote scuola sarebbe stato impossibile da attivare senza la collaborazione dei Comuni. Connettere: le risposte si trovano già nella società, ma l’amministrazione può fare una cosa che i soggetti che operano sul territorio non possono fare da soli, cioè farli incontrare; avendo uno sguardo d’insieme l’amministrazione è chiamata a diventare un amplificatore di relazioni sociali, favorendo l’incontro tra un bisogno e la sua risposta. Facilitare: l’esito di queste azioni è che l’amministrazione non è più un ostacolo alla vita delle persone (come storicamente la burocrazia) ma un facilitatore, perché ha risorse e obiettivi (dati dalla politica) da mettere al servizio della società.
L’ideale di una burocrazia perfettamente oliata, asettica e spersonalizzata è lontano anni luce da questa visione. Sporcarsi le mani è l’unico modo per imparare. Forse la parola che più caratterizza questo nuovo modo di lavorare nella pubblica amministrazione è la parola rischio. Non rischi quando sei preoccupato di creare il decreto perfetto. Rischi quando ti sposti dagli obiettivi ai risultati, scommetti sulle persone, lasci che siano loro a decidere dove andare. E può capitare anche che vadano in direzioni totalmente diverse da quelle che avevi previsto. Allora sei costretto a riconoscere che i risultati non sono garantiti, perché non dipendono solo dall’azione amministrativa, ma dalla libertà delle persone che, sia dentro che fuori dall’amministrazione, si confrontano con una realtà complessa e mutevole.
Ma il fatto che i risultati non siano certi non impedisce di sperimentare. Gli errori, infatti, si correggono, se c’è l’apertura e la disponibilità dell’organizzazione interna a lasciarsi cambiare da ciò che accade. Io ho visto persone che lavoravano qui da vent’anni trovare un gusto nuovo, perché sfidate a partire dai bisogni che incontrano e a proporre soluzioni in un dialogo vivo, che permette loro di esprimersi, senza dover ripetere meccanicamente quello che si è sempre fatto. In questo modo anche all’interno dell’amministrazione si può riscoprire il senso del lavoro. I dirigenti, i quadri, i funzionari, tutti possono essere coinvolti in una logica di responsabilità.
Un nostro collaboratore ha riassunto l’idea così: “sono un dipendente pubblico, ma in verità faccio il libero professionista”. Nell’affrontare questa sfida (perché cambia totalmente il modo in cui si è sempre concepita la propria persona e il proprio lavoro) c’è un livello che dipende totalmente dalla responsabilità personale. Di fronte alla stessa proposta c’è qualcuno che si mette in discussione e qualcuno che scappa o si difende. Ciascuno è sfidato a “metterci la faccia”, cioè a costruire la decisione comune attraverso un’assunzione personale di responsabilità (non ci si può nascondere dietro l’opacità delle procedure). Questo nessuno lo può fare al posto di un altro, però è possibile sostenersi ed educarsi in un lavoro comune, così che la compromissione personale diventi patrimonio di tutti.
Mi avvicino alla conclusione. Oggi si parla molto di riforma della pubblica amministrazione, di new public management, di efficienza e di economicità dell’azione amministrativa e di amministrazione di risultato. Cosa può facilitare questo processo in atto? In conclusione, mi permetto di suggerire alcune linee guida per una riforma della pubblica amministrazione che vada in una direzione di vera sussidiarietà. Con una premessa: se si realizzassero queste condizioni il percorso sarebbe certamente facilitato, ma non c’è niente che impedisca di cominciare da subito a lavorare, a sperimentare un modo diverso di gestire la pubblica amministrazione. A prescindere da ciò che si realizzerà o meno a livello statale. In primo luogo bisogna ripensare la struttura della pubblica amministrazione secondo un criterio di prossimità al cittadino. Cito solo tre elementi cruciali: Il federalismo fiscale. Attualmente i fondi a disposizione delle regioni derivano per la maggior parte da trasferimenti centrali. Si tratta di fondi vincolati, perciò non è possibile spostare risorse da una voce all’altra. Si perde così ogni flessibilità ed è evidente l’handicap che ne deriva in termini di efficienza. L’Italia è il Paese regionale in cui lo Stato centrale attua la più grande azione redistributiva tra regioni di tutta Europa. Ma i trasferimenti, basati sul criterio della spesa storica, premiano le regioni con i peggiori indici di efficienza, penalizzano i centri in cui la crescita è effettivamente prodotta e generano un circuito vizioso di deresponsabilizzazione. Il punto di partenza del processo di attuazione del federalismo è il superamento delle modalità di trasferimento di risorse dallo Stato agli enti locali con l’approdo ad un sistema di "tributi degli enti locali e compartecipazione alle entrate dello Stato". Non si farà più riferimento alla "spesa storica", ossia al trasferimento di quanto speso negli anni precedenti, ma al sistema dei "costi standard", con l’individuazione dell’ottimale di costo per le diverse funzioni. Prendiamo il caso dell’istruzione. A tutt’oggi è finanziata centralmente dallo Stato attraverso il pagamento del costo del personale e delle spese di funzionamento degli istituti scolastici. Ciò nonostante la disparità sul territorio nazionale è rilevante: il rapporto allievi/classi è diverso da regione a regione: su una media nazionale di 20,56 allievi/classe, la Lombardia è a 21,06 e l’Emilia Romagna a 21,46, mentre la Calabria è a 18,49 e la Sardegna è a 18,85. Così come il rapporto tra scuole e alunni è in media nazionale 594 alunni per scuola, in Lombardia 736, in Emilia Romagna 750 (le due regioni più virtuose), mentre in Campania si scende a 619 e in Calabria addirittura a 464. Il passaggio al federalismo fiscale con finanziamento a costo standard consentirebbe di superare tali disparità con l’individuazione di un unico costo standard per studente ai fini del calcolo della perequazione della capacità fiscale delle diverse regioni. Una reale autonomia impositiva andrebbe infine a stimolare una maggiore efficienza della PA: se i governi locali si finanziassero “direttamente”, sarebbero incentivati a controllare e migliorare la propria spesa. Un processo di decentramento simile a quello attivato dalla Spagna permetterebbe all’Italia di risparmiare 14 miliardi di euro, mentre un federalismo alla tedesca porterebbe il risparmio a 27 miliardi, pari all’1.8% del Pil.
Le modalità di reclutamento e gestione del personale. Servono profili eccellenti indipendentemente dall’età, propensi al rischio, disposti a lavorare per periodi di tempo limitati. In una amministrazione sussidiaria ci vuole gente col piede veloce, che possa continuamente rimettere in discussione quanto già fatto, perché la realtà cambia velocemente. Il passaggio ad un nuovo modello di management comporta un radicale cambiamento di visuale e di atteggiamenti: non sarà più tanto il ricorso a dover essere temuto, quanto la perdita di legittimazione all’interno dell’organizzazione o della capacità di guidare e motivare i propri collaboratori. Introdurre maggiori elementi di flessibilizzazione del rapporto di lavoro, e in senso lato “di mercato”, anche all’interno del settore pubblico costituisce un contributo in tale direzione. Vanno in questo senso tutte quelle iniziative riconducibili alla mobilità e i percorsi di carriera “inter-ente”, tali da garantire sbocchi professionali, ruoli di maggiore responsabilità e possibili adeguamenti retributivi al personale più qualificato e generare positivi effetti di competizione tra diverse amministrazioni. Occorre lasciare la dirigenza libera di reclutare chi vuole (assumendosi, si intende, le relative responsabilità) E’ urgente passare da un modello burocratico e meccanico a un’organizzazione flessibile e organica. In questa prospettiva diviene fondamentale il ruolo che il dirigente pubblico deve assumere: non più orientato alla procedura, all’autorizzazione degli atti, alla formalizzazione delle decisioni con modi e con procedure rigide, ma sempre più diretto alla promozione di azioni di cambiamento, all’ampliamento delle proprie responsabilità, della propria autonomia gestionale e decisionale, alla continua ricerca di modalità alternative per ottenere risultati qualitativamente significativi con le risorse disponibili.
La valutazione. Sono anni che si dice che bisogna misurarsi sugli obiettivi e sulla qualità. Ma non è un segreto per nessuno che gli obiettivi si sono ridotti a qualcosa che la dirigenza determina in maniera da potere raggiungere e che la qualità è stata trasformata in una procedura. C’è bisogno, invece, di gente affamata di risultati. I risultati non sono solo l’output prodotto, ma gli effetti di una politica come impatto sul territorio. Bisogna riconnettere la gestione della cosa pubblica ai cittadini. Valutare le performance spinge il governo a reinventarsi.
Accanto a riforme strutturali è necessario però favorire il formarsi di una nuova cultura nella pubblica amministrazione. Chi ha scelto di lavorare all’interno della pubblica amministrazione è stato mosso da un desiderio positivo di contribuire al bene comune. Occorre sostenere questo spirito, favorire il sentimento di appartenenza all’’ente, accrescere il “gusto” per la qualità del servizio alle persone (cliente esterno o interno), stimolare la creatività nel saper risolvere i problemi, nel ricercare costantemente nuovi approcci più efficienti ed efficaci, nell’imparare dall’esperienza. Serve una cultura organizzativa alimentata da un continuo apprendimento, che affermi valori quali la fiducia, la collaborazione costruttiva, il dialogo, la convergenza di interessi, la trasparenza dell’informazione, la responsabilizzazione reciproca nei rispettivi ruoli. L’implementazione di questo nuovo approccio culturale richiede l’adozione di una progettazione organizzativa mirata più alla condivisione di informazioni che alla ripartizione delle “aree di influenza”, alla valorizzazione delle relazioni orizzontali e laterali più che a quelle fondate sulla gerarchia, alle esigenze di coordinamento ed integrazione più che a quelle di specializzazione. Un governo regionale sussidiario si deve costituire come un sistema dinamico caratterizzato da continui processi di cambiamento a diversi livelli e di differente entità, che in ogni caso investono e coinvolgono le risorse umane in tutti gli aspetti: contenuto professionale, carico di responsabilità, cultura generale e manageriale, ruoli organizzativi e sociali. Per questo bisogna investire molto sulla formazione continua di chi lavora nella pubblica amministrazione. È la strada per generare e accompagnare il cambiamento. Un vero investimento sulla formazione, infatti, crea le condizioni per cui l’amministrazione è capace di “cambiare pelle” per rimanere in contatto con quanto accade nel mondo esterno, fuori dagli uffici pubblici.

MODERATORE:
Ti ringrazio Roberto anche per lo sforzo di sintesi che hai fatto. Tutto è riassumibile in queste quattro parole: conoscere, sperimentare, connettere e rischiare. Sarebbe bello poter continuare ma i tempi non ce lo consentono. Vorrei però dire una cosa in conclusione: questo è un lavoro che inizia, non che si conclude. Ci siamo dati uno strumento per veicolare il confronto di questo lavoro che è il quotidiano on line della fondazione sussidiarietà, il sussidiario.net, di cui comunico anche l’e-mail, info@ilsussidiario.net. Questo può essere il primo strumento per veicolare il confronto e le iniziative su cui vogliamo ritrovarci, per cui chi vuole, all’uscita, potrà anche lasciarci i suoi riferimenti e-mail per poter essere informato delle prossime iniziative. Consentitemi di finire con una citazione poetica a me molto cara, che mi ritrovo spesso a fare sui luoghi di lavoro, perché credo che sia la sintesi più efficace di quello che ci siamo detti a più voci. Un grande poeta inglese, T. S. Eliot, in una delle sue opere, “I Cori della Rocca”, dice ad un certo punto parlando di persone, di uomini che tentano di superare una condizione di disagio personale e sociale, che essi pensano sempre di evadere dal buio esterno ed interiore sognando sistemi tanto perfetti che nessuno abbia più bisogno di essere buono. Ecco, ci accada di rimanere sempre immuni da questa tentazione. Grazie.

Data

28 Agosto 2008

Ora

11:15

Edizione

2008

Luogo

Sala B7
Categoria
Incontri