…SOTTO LE STELLE, IL LIBRO DEL MISTERO: LA POESIA DI GIOVANNI PASCOLI

...Sotto le stelle, il libro del mistero: la poesia di Giovanni pascoli

Partecipa Davide Rondoni, Poeta e Scrittore. Introduce Emilia Guarnieri, Presidente della Fondazione Meeting per l’amicizia fra i popoli.

 

…SOTTO LE STELLE, IL LIBRO DEL MISTERO: LA POESIA DI GIOVANNI PASCOLI
Ore: 11.15 eni Caffè Letterario D5

EMILIA GUARNIERI:
Buongiorno, adesso ci sintonizziamo. Dunque, io sono qui a leggere e a parlare di Pascoli, per un unico motivo, oltre all’amicizia con Davide, per cui mi fa piacere presentarlo, anche se, in verità, Davide non ha bisogno di presentazioni. Non ne ha bisogno in generale perché Davide è l’anima della poesia per noi, al Meeting, dove per noi significa proprio a vantaggio nostro, per il bene nostro, perché leggere poesia e incontrare poesia – e Davide è uno degli artefici di questa possibilità – è un bene, un’utilità. Oltre a questa ragione di introdurre Davide, l’unica ragione per cui sono molto felice di essere qui a introdurre questo incontro che il Meeting dedica alla poesia di Pascoli nel centenario della morte, è che voglio leggere una poesia di Pascoli. Questo è lo scopo. Una di quelle poesie un tempo popolari, poi rimossa a un certo punto dalla gran parte dei testi scolastici, ultimamente forse riemersa o riaffiorata, una di quelle poesie che ci si è anche vergognati per tanto tempo di citare ma che l’autore, in più occasioni, aveva viceversa dichiarato di amare in maniera particolare, fino a definirla “l’unica bella mia poesia”. E quindi possiamo fidarci di lui e anche noi leggerla. Un testo che appartiene ai primi poemetti, una raccolta di componimenti che Pascoli indirizza a quelli che lui chiama le “anime candide”, come dice nell’introduzione, e a queste “anime candide” dichiara di voler trasfondere qualche sentimento e pensiero non cattivo. E immedesimandosi anch’egli con queste anime candide, aggiunge: “Vorrei che pensaste con me che il mistero nella vita è grande”. E così, con questa battuta Pascoliana, questa apparente angustia dei buoni sentimenti si squarcia e apre in fondo l’orizzonte del mistero, l’orizzonte dell’infinito. In uno di questi primi poemetti, Pascoli, di fronte all’albero incatenato alla terra che protende i rami al cielo, quasi paragonando la natura dell’uomo a quella degli alberi, a un certo punto esclama: “sembra che v’accori un desiderio senza fine, anelo”. La poesia di Pascoli è testimonianza di questo desiderio senza fine, di questo desiderio che anela alla felicità, alla conoscenza – come recita anche il titolo di questo stesso incontro -, che sfoglia avanti e indietro, indietro e avanti, sotto le stelle il libro del mistero. In Pascoli, così ci avviciniamo alla poesia che voglio leggere, spesso sono le cose semplici, non sempre e non soltanto ma spesso, il quotidiano, le memorie dell’infanzia che slanciano il cuore oltre il tempo e oltre l’apparenza. Ne L’aquilone, che è la poesia che adesso voglio leggere, che Pascoli scrive poco più che quarantenne, lontano dai luoghi della giovinezza, lontano dai luoghi dell’infanzia, Pascoli ci mette di fronte ad una strana situazione, un ondeggiamento continuo come appunto quello degli aquiloni, che si innalzano vertiginosamente, pericolosamente verso il cielo, per ricadere, prima o poi, inevitabilmente a terra. Tutto in questo testo ondeggia, non solo gli aquiloni, tutto è precario, ha questa stessa fragilità degli aquiloni. Il poeta, inizialmente – parlo di un testo noto a tantissimi, forse tutti -, è colpito da una precoce primavera carica di novità. Ma quell’aria nuova dell’attacco, quel famoso “c’è qualcosa di nuovo oggi nel sole”, proprio quell’aria nuova produce il primo ondeggiamento, quello del ricordo della sua infanzia. Il poeta ondeggia verso la sua infanzia, quando frequentava le scuole elementari degli Scolopi di Urbino, e una mattina in cui non c’era scuola era uscito con i compagni a lanciare appunto gli aquiloni. Vento, colli di Urbino, il luogo più adatto per lanciare gli aquiloni.

C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole,
anzi d’antico: io vivo altrove, e sento
che sono intorno nate le viole.

Son nate nella selva del convento
dei cappuccini, tra le morte foglie
che al ceppo delle querce agita il vento.

Si respira una dolce aria che scioglie
le dure zolle, e visita le chiese
di campagna, ch’erbose hanno le soglie:

un’aria d’altro luogo e d’altro mese
e d’altra vita: un’aria celestina
che regga molte bianche ali sospese…

sì, gli aquiloni! È questa una mattina
che non c’è scuola. Siamo usciti a schiera
tra le siepi di rovo e d’albaspina.

Le siepi erano brulle, irte; ma c’era
d’autunno ancora qualche mazzo rosso
di bacche, e qualche fior di primavera

bianco; e sui rami nudi il pettirosso
saltava, e la lucertola il capino
mostrava tra le foglie aspre del fosso.

Or siamo fermi: abbiamo in faccia Urbino
ventoso: ognuno manda da una balza
la sua cometa per il ciel turchino.

Ed ecco ondeggia, pencola, urta, sbalza,
risale, prende il vento; ecco pian piano
tra un lungo dei fanciulli urlo s’inalza.

S’inalza; e ruba il filo dalla mano,
come un fiore che fugga su lo stelo
esile, e vada a rifiorir lontano.

S’inalza; e i piedi trepidi e l’anelo
petto del bimbo e l’avida pupilla
e il viso e il cuore, porta tutto in cielo.

Più su, più su: già come un punto brilla
lassù lassù… Ma ecco una ventata
di sbieco, ecco uno strillo alto… – Chi strilla?

Tutto era proteso verso l’alto, tutto andava più su, più su, ma all’improvviso un grido accompagna la perdita dell’aquilone e un nuovo ondeggiamento. Dal desiderio trepidante di quei bimbi, quasi portati in cielo dai loro aquiloni, Pascoli sta ripiombando su uno dei suoi temi più cari, il tema della morte. Tra le tante voci dei compagni, tra i tanti loro visi, uno sembra staccarsi dal coro e venirci incontro. E’ il viso di un compagno, quello su cui Pascoli aveva pianto e pregato: “Chi strilla?”.

Sono le voci della camerata
mia: le conosco tutte all’improvviso,
una dolce, una acuta, una velata…

A uno a uno tutti vi ravviso,
o miei compagni! e te, sì, che abbandoni
su l’omero il pallor muto del viso.

Sì: dissi sopra te l’orazïoni,
e piansi: eppur, felice te che al vento
non vedesti cader che gli aquiloni!

Tu eri tutto bianco, io mi rammento.
solo avevi del rosso nei ginocchi,
per quel nostro pregar sul pavimento.

Oh! te felice che chiudesti gli occhi
persuaso, stringendoti sul cuore
il più caro dei tuoi cari balocchi!

Oh! dolcemente, so ben io, si muore
la sua stringendo fanciullezza al petto,
come i candidi suoi pètali un fiore

ancora in boccia! O morto giovinetto,
anch’io presto verrò sotto le zolle
là dove dormi placido e soletto…

Meglio venirci ansante, roseo, molle
di sudor, come dopo una gioconda
corsa di gara per salire un colle!

Meglio venirci con la testa bionda,
che poi che fredda giacque sul guanciale,
ti pettinò co’ bei capelli a onda

tua madre… adagio, per non farti male.

Ecco, il grande ondeggiamento dell’animo di Pascoli, tra il sentimento caldo, vibrante di queste cose cariche di affetti che adombrano altro, che mandano in su questi aquiloni, è la delusione cocente di chi nella vita ha visto cadere ben altro che gli aquiloni. Tutta la poesia ondeggia, non rinuncia mai al volo, così come non rinuncia a piangere – perché piange, è un grande pianto, quello della fine – sulla enigmaticità della realtà. Se avete notato, ciò che commuove nel compagno morto, che “pettinò co’ bei capelli a onda tua madre… adagio, per non farti male”, quel che commuove non è tanto la sua morte, ma è quel gesto della madre dentro cui c’è tutto lo struggimento di chi domanda il senso di quella morte, il senso, anche, di quella vita, e può solo affidare al calore di quel gesto, a quella mano che pettina il figlio morto, al calore di un gesto umano, di un affetto intenso, quella domanda di significato che nessun gesto invece è in grado di colmare. Ed ecco perché Pascoli si appella alle anime candide, ai sentimenti, ai pensieri non cattivi, perché di fronte al mistero enigmatico della vita, in quella vita in cui cadono ben più che gli aquiloni, di fronte al dolore, l’unico rimedio che intravede è l’essere più buoni. Questo è anche il motivo, e così vado a concludere, per cui ho voluto leggere questa poesia, che mi è, per tante ragioni, particolarmente cara, per una, fondamentalmente: perché i buoni sentimenti per Pascoli, come spesso per tanti uomini, sono il segno di una pena umana, di un dolore, questo bisogno di essere buoni, appunto, questo bisogno di stringersi assieme in una bontà di sentimenti tra anime candide. Tutto questo è il segno di una pena, di un dolore, di una domanda che, chissà per quale mistero della libertà e per quale mistero delle circostanze, non riescono a intraprendere altre strade né ad approdare a porti più sicuri. E adesso lascio la parola a Davide Rondoni.

DAVIDE RONDONI:
Buongiorno. Grazie a Emilia per l’introduzione e per quello che ha detto, così acutamente, sulla poesia emblema di Pascoli, quella che lui stesso appunto definiva la sua più bella. Che è una poesia tutt’altro che desueta, tutt’altro che passata, tant’è vero che recentemente il premio Nobel per la letteratura irlandese, Séamus Heaney, ha pubblicato nel suo ultimo libro una poesia che è esattamente una ripresa, una riscrittura di questa poesia di Pascoli. Perché qualche anno fa venne a Urbino e rimase colpito dalla poesia di Pascoli, che è quasi completamente sconosciuta nel mondo anglosassone, la trovò incantevole perché, come diceva giustamente Emilia, va in scena il dramma di sempre, il dramma della nostra vita, a cui Pascoli dà voce. Perché noi, come abbiamo detto qualche volta in questi giorni, abbiamo nel cuore uno scontro, non uno scontrino, come qualcuno vorrebbe. Abbiamo dentro, cioè, qualche cosa che è esattamente questo dramma tra ciò che aspira all’infinito e ciò che sembra in noi stessi negarlo. Perché la grande battaglia per affermare che la natura dell’Io è rapporto con l’infinito, inizia dentro di noi, è una battaglia di cui la persona è il teatro, di cui la persona è lo spettacolo, o meglio, il vero spettacolo. E Pascoli è uno che dà parole a questo spettacolo. Se permettete, vorrei iniziare proprio da questo, dal fatto che non è così scontato che esista uno come Pascoli. Ormai siamo abituati dalla scuola a pensare a “il” Pascoli – sapete che quando agli autori mettono l’articolo, vuol dire che sono morti – “il” Pascoli, “il” Manzoni, questa specie di tomba un po’ scolastica, un po’ accademica, per cui gli autori è scontato che ci siano. Ma non è scontato che ci fosse Giovanni Pascoli, un ragazzetto di buona famiglia: se andate qui vicino, a Villa Torlonia, vedete dove lavorava il padre, che era il fattore di Villa Torlonia e probabilmente lo hanno accoppato per motivi legati agli interessi che questa famiglia importante, romana, muoveva. Poteva essere un ragazzo della buona borghesia, dedicato agli studi e basta. E invece no. Abbiamo queste sue parole. Per questo, l’esistenza dell’arte, della poesia, ma dell’arte in generale, dovrebbe provocare innanzitutto una sorta di sorpresa, una sorta di gratitudine, in un certo senso: perché non è scontato. Accade l’arte, accade la poesia. In un mondo che potrebbe non prevederla ma senza la quale non sarebbe il mondo, non sarebbe la realtà, non sarebbe la vita. Per questo, Pascoli è un grande artista. Ed è, come tutti i grandi artisti, diceva giustamente Emilia, continuamente da scoprire: il Meeting lo fa spesso, pensate a Dostoevskij, quest’anno. C’è come il gusto di riscoprire la presenza, perché un artista con la sua opera è presente. Ed è una specie di paradosso, di miracolo presente, perché appunto i poeti, gli artisti, non servono a niente se non a dare rilievo a te, innanzitutto, a dare rilievo a quello che è il vero spettacolo della vita, il vero dramma della vita, a cui altre cose riescono a dare meno rilievo, se non in certi momenti più acuti, in certi momenti della scienza, in certi momenti anche del dibattito sociale. Ma questo è il mestiere dell’arte, un mestiere inutile, da un certo punto di vista, ma che serve a ricordarci che siamo vivi.
Pascoli fa questo e lo fa da artista straordinario. Nel tempo, Pascoli sta crescendo sempre di più – la testimonianza del premio Nobel che dicevo prima dice che Pascoli si è sempre più attestato come un grande artista di statura europea e mondiale -, con questo carattere strano di magnetismo. Pascoli è magnetico, è vertiginoso e magnetico. È un poeta che al tempo stesso si dedica con una precisione quasi da entomologo, da ornitologo, alle cose piccole, minime – da qui il poeta e le piccole cose, le Myricae – agli abissi straordinari dell’universo. Ha questo doppio sguardo continuo, come diceva il suo maestro Leopardi, questo doppio sguardo continuo: la vita, l’infanzia, la morte, il minimo e il supremo, continuamente così. Per questo è sempre un po’ difficile scrivere poesie, perché devi avere sempre questo sguardo doppio, questo sguardo che va dal novantanovesimo piano a sottoterra, devi essere sempre come a due altezze contemporaneamente, in fondo agli inferi e in cima al paradiso, contemporaneamente: e non è una vita comoda, tenere uno sguardo così. E Pascoli visse così e così guardò. Noi sappiamo che la poesia nasce sempre nella vita di un uomo da un fatto, da un trauma, dove trauma non ha necessariamente un’accezione negativa: ma ci deve essere qualche cosa di traumatico, qualche cosa che segna la vita in un certo modo. Per questo uno comincia a scrivere poesie: un trauma può essere anche una chiacchierata con un amico, non è detto che debba per forza essere un grande trauma, ma un trauma nel senso di “significativo”, qualcosa che entra in un modo talmente significativo nella tua vita che ha un effetto traumatico sulla vita. Per Pascoli, sappiamo cos’è, ci arriveremo tra poco. E’ il motivo per cui Pascoli, in un pezzo che vi leggo, uno dei pezzi più magnetici, la prefazione ai Canti di Castelvecchio, identifica da dove nasce la sua vocazione poetica. È la prefazione alla seconda raccolta importante, del 1903. Pascoli dice così, ve la leggo un po’ velocemente perché poi ha un ritmo incalzante:

E su la tomba di mia madre rimangano questi altri canti!… Canti d’uccelli, anche questi: di pettirossi, di capinere, di cardellini, d’allodole, di rosignoli, di cuculi, d’assiuoli, di fringuelli, di passeri, di forasiepe, di tortori, di cincie, di verlette, di saltimpali, di rondini e rondini e rondini che tornano e che vanno e che restano.

Innanzitutto, questo elenco, quasi delirante, è talmente vertiginoso che quasi si incanta:
“rondini e rondini e rondini che tornano e che vanno e che restano”. Poi, da solo dice:

Troppi? Facciano il nido, covino, cantino, volino, amino almen qui, intorno a un sepolcro, poiché la crudele stupidità degli uomini li ha ormai aboliti dalle campagne non più così belle e dal sempre bel cielo d’Italia! E sono anche qui campane e campani e campanelle e campanelli che suonano a gioia, a gloria, a messa, a morto; specialmente a morto. Troppo? Troppa questa morte? Ma la vita, senza il pensier della morte, senza, cioè, religione, senza quello che ci distingue dalle bestie, è un delirio, o intermittente o continuo, o stolido o tragico. D’altra parte queste poesie sono nate quasi tutte in campagna; e non c’è visione che più campeggi o sul bianco della gran neve o sul verde delle selve o sul biondo del grano, che quella dei trasporti…

I trasporti in romagnolo sono i funerali. E paradossalmente sono anche gli innamoramenti. Quando un giovane romagnolo si innamorava, diceva: “Signorina, sento del trasporto per lei”. Potete usarlo, funziona ancora. Cioè, vuole dire che l’innamoramento è come un trasporto, cioè una cosa che non sai come fare e vai, anche se non vuoi andare, vai. Ma anche un funerale, se non vuoi andare, vai, è un po’ la stessa cosa. Quindi, il trasporto è la stessa parola: la genialità romagnola del linguaggio.

…o delle comunioni che passano: e non c’è suono che più si distingua sul fragor dei fiumi e ruscelli, su lo stormir delle piante, sul canto delle cicale e degli uccelli, che quello delle Avemarie.
Crescano e fioriscano intorno all’antica tomba della mia giovane madre…

Sentite: “antica tomba della mia giovane madre”

…queste myricae (diciamo, cesti o stipe) autunnali. Nei luoghi incolti fanno le stipe che fioriscono di primavera, e fanno i cesti, ancor più umili, che fioriscono d’autunno; e la lor fioritura assomiglia. Mettano queste poesie i loro rosei calicetti (che l’inverno poi inaridisce senza farli cadere) intorno alla memoria di mia madre, di mia madre che fu così umile, e pur così forte, sebbene al dolore non sapesse resistere se non poco più d’un anno.

E sentite qui il pezzo che mi interessava. Con tutto questo prima, arriva qui il pezzo che mi interessava.

Io sento che a lei devo la mia abitudine contemplativa, cioè, qual ch’ella sia, la mia attitudine poetica.

Cioè, devo a lei la mia attitudine poetica. E poi dice perché.

Non posso dimenticare certe sue silenziose meditazioni in qualche serata, dopo un giorno lungo di faccende, avanti i prati della Torre. Ella stava seduta sul greppo: io appoggiava la testa su le sue ginocchia. E così stavamo a sentir cantare i grilli e a veder soffiare i lampi di caldo all’orizzonte. Io non so più a che cosa pensassi allora: essa piangeva. Pianse poco più di un anno, e poi morì.
Seguì mio padre. E qui, devo chiedere perdono, anche questa volta

La mia attitudine nasce dallo sguardo vedovo di mia madre. Che cos’è uno sguardo vedovo? È strano, uno sguardo che guarda all’orizzonte ed è pieno allo stesso tempo di un vuoto. Lo sguardo vedovo è allo stesso tempo pieno e vuoto: è pieno di un’assenza. È vuoto di un pieno, è una strana contraddizione. L’attitudine poetica viene esattamente da questo, in Pascoli e non solo, uno sguardo che è al tempo stesso pieno e vuoto. È uno sguardo appunto vedovo, nel senso che gli manca qualche cosa di cui sente la presenza, guarda qualcosa che non c’è. Pensate, lo sguardo di sua madre era così.

E qui, devo chiedere perdono, anche questa volta, di ricordare il delitto…

E qui segue la parte in cui ricorda l’omicidio del padre e finisce dicendo:

Altri uomini, rimasti impuniti e ignoti, vollero che un uomo non solo innocente ma virtuoso, sublime di lealtà e bontà, e la sua famiglia, morisse. E io non voglio. Non voglio che sian morti.

Pensate, scrivere così nella prefazione di un libro di poesie: “Io non voglio. Non voglio che siano morti”. Altro che letteratura!

Se poi qualcuna di queste poesie che contengono cose non solo vere ma esatte (e il lettore comprenderà anche qui: certe cose non s’inventano, anche a volere), ispirasse un più acuto ribrezzo del male, io, oh! non me ne terrei io, ma ne benedirei la memoria de’ miei cari martiri, per i quali nessuno (nemmeno i loro assassini) soffrì, e che dalla loro fossa rendono anche oggi, per male, bene.

Anche qui, appunto, un appello al fatto che dal male possa nascere il bene. Questo è il motivo per cui Pascoli scrive dei bellissimi saggi su Dante, che lui invidia – dice – perché da un viaggio nella morte ha tirato fuori la vita. Dante fa questa cosa, dalla morte tira fuori la vita. E’ l’invidia che Pascoli sente, da grande studioso, per Dante. Ma allora, se da qui nasce l’attitudine poetica, questo sguardo vedovo, su cosa si concentra la poesia di Pascoli? Normalmente, a scuola, dicono: “è un poeta decadente”. E’ il nostro decadentismo: Pascoli, D’Annunzio… E io mi sono sempre chiesto: d’accordo, decadentismo, ma de che? Cioè, cos’è che decade? Se c’è il decadentismo vuol dire che c’è qualcosa che decade: che cosa è decaduto nel decadentismo? In genere, si dice che è un problema quasi di gusto, come se ci fosse un gusto che ama le cose un po’ kitsch, un po’ decadenti, appunto, un po’ blasé. Tutto quello che Baudelaire, il più grande genio dell’Ottocento, aveva già detto: “Troviamo charme anche nelle cose ripugnanti”. Che è quella cosa un po’ decadente che nella nostra epoca si vede tantissimo. Non so, c’è a chi piace la televisione al pomeriggio, ecco quelle cose un po’ kitsch, un po’ decadenti, in cui trovi gusto, senti le chiacchiere dei reality show, come se fosse la decadenza del gusto. La gente che amava le cose un po’ blasé, pensate a Corazzini, queste cose che anche nella nostra letteratura ci sono molto.
Ma forse il problema è un po’ di più, che un problema di gusto, o meglio, il gusto dipende sempre dalla posizione dell’io. Per questo, non fidatevi mai di qualcuno che dice: “Beh, è questione di gusti”. No. Non è mai questione di gusti. Uno dice: “Sai, mi piacciono i cori russi, o non mi piacciono, è questione di gusti”. No, non è mai questione di gusti. La valutazione estetica non è mai questione di gusti, è sempre questione di una posizione dell’Io, in cui la differenza di gusti entra ad arricchire il panorama, ma non a definire cosa è bello e cosa è brutto. Tant’è vero che posso gustare qualcosa anche se non è nelle mie corde. E riconosco come bello una cosa che non mi piace. Perché la mia posizione si fida della posizione di uno che mi dice: “Guarda che è bello”. Se no, guardate, non si viene educati, se no si rimane imprigionati nei propri gusti, che è la cosa peggiore del mondo, perché i propri gusti sono una prigione piccola. Allora, il decadentismo viene in genere riferito a una questione di gusti. Invece, quello che decade, appunto, è l’Io, quello che questi poeti, non solo poeti ma è una grande questione, sentono decadere, come se non trovasse appoggio, non trovasse energia. Se lo sentono decadere, vuol dire che ne sentivano la presenza, in qualche modo, sentivano la presenza di questa ombra che è diventata il loro Io: sentono decadere l’Io. Prendiamo i due poeti di cui si parla sempre, appunto, Pascoli e D’Annunzio. In Pascoli, questa decadenza dell’Io si testimonia, si documenta nella sua poesia, come vertigine che passa indifferentemente, potremmo dire, dalla vertigine nel piccolo, nell’infinitamente piccolo, le myricae, le piccole cose di casa, i gusti, il nido, tutte parole che chi studia Pascoli sa cosa vogliono dire alle grandissime cose, questa continua vertigine a tutte le due dimensioni dell’esistenza.
D’Annunzio è un poeta enorme, di cui il prossimo anno festeggeremo anche qui al Meeting: non so se si possa, butto lì l’idea che si potrebbe fare qualcosa su D’Annunzio al Meeting, perché sono i 150 anni di qualcosa di D’Annunzio, c’è sempre una qualche ricorrenza che si può utilizzare, si possono celebrare molte cose. Comunque, D’Annunzio era un altro poeta enorme, di cui vi consiglio la lettura, smaliziata a tutti i pregiudizi, perché D’Annunzio è un grande tragico, appunto un altro che aveva sentito decadere l’Io. E come tutti quelli che sentono tragicamente decadere l’Io, a che cosa si attacca? Al prezioso, tutti i veri tragici sono preziosi, sono amanti del prezioso, come se nel baluginìo di luce della preziosità riverberasse un ultimo segno della luce dell’Io che non c’è più. E’ vero che D’Annunzio fa il museo a se stesso: la casa, la poesia stessa sono al centro di questo museo, ma lui stesso sa per primo che c’è un vuoto. Grande tragico, in questo senso. Se voi prendete il Libro segreto di D’Annunzio, che è un libro tra i più belli scritti nel ’900, vedete che a un certo punto lui parla addirittura della sua mano che scrive come di una fosforescenza: cioè, tu non ci sei più, sei una fosforescenza, e allora fai il museo intorno a una cosa fosforescente, intorno a una cosa che non esiste. E allora è un tragico che diventa prezioso, come per tutti i grandi tragici. Allora, quello che decade nel decadentismo, in Pascoli è l’Io. Molto sommariamente – scusate se dico cose un po’ tagliate con l’accetta -, la letteratura aveva già registrato da tempo il fatto che la posizione dell’Io nell’universo sembrava cambiare. Ben prima di Galileo, anche gli autori del ’500 avevano già registrato una specie di posizionamento dell’Io diverso: pensate alle grandi narrazioni anche epiche, c’era il fatto che anche il mondo si stava sistemando in un altro modo, per cui l’Io sembrava non essere più al centro. Prima ancora di Galileo, i poemi cavallereschi già mostrano questo fatto. La poesia mostra quasi sempre prima della scienza le scoperte di fondo. Poi c’è stata una specie di risposta, potremmo dire così, emozionale, a questo problema dello spostamento dell’Io e del suo scentramento nella presunta rimessa al centro dell’Io nel romanticismo, con quella che è stata la grande enfiagione dell’Io, che si rimette al centro presumendo di contenere lui tutte le cose ma sapendo che è un’illusione. Per cui, l’Io romantico è un Io che, non a caso, dà quasi sempre esiti di tipo tragico o depressivo, addirittura, perché si illude, sapendo che si sta illudendo, di essere l’orizzonte totale in cui tutto il mondo sta, come se fosse l’Io il punto di sussistenza della realtà e non il suo punto di coscienza, come diciamo noi.
Come nel romanticismo, quello che avviene è spettacolare e anche commovente, perché i romantici a volte sono un po’ coglioni ma sono commoventi, perché si gonfiano come le rane – avete presente la rana bue? -, si gonfiano come dire: “Io, io sono il mondo, tutto esiste in me”, fino a vertici assoluti di arte, di filosofia. Sto banalizzando ma sto parlando di una cosa enorme, una cosa commovente e tragica, in un certo senso. Nel decadentismo è come se questo Io-rana bue si fosse un po’ stancato di fare la rana bue, sentisse che è finita l’illusione, di non esserci più. Naturalmente, tutto questo nei poeti, in tutti i grandi poeti, Dante, Baudelaire, Rimbaud, Ungaretti, non è vissuto come problema filosofico ma è patito come esistenza. Per questo Pascoli mette al centro il problema dell’orfanità, della sua orfanità biografica: non parla dell’orfanità dell’Io, parla della sua orfanità. I poeti affrontano i problemi dell’epoca perché li vivono, non perché li tematizzano. Questa è la differenza tra i poeti e i filosofi, quasi sempre: un poeta patisce la sua epoca, non la tematizza. E patendo la sua epoca, molte volte, ne illustra le contraddizioni in se stesso. Pensate appunto a Leopardi, rispetto a quello che dicevamo prima, come sia uno che appartiene a una cultura preromantica e come ironicamente dialettizzi con questa stessa dinamica. Pensate a Baudelaire, altro grande genio ottocentesco. Pascoli sente questo, lo sente nell’orfanità. Voglio leggervi, tra le tante cose che si possono leggere, una delle poesie che recentemente mi ha più colpito: anche questa è una poesia quasi sempre letta come se fosse una cosa patetica. E’ vero, come diceva il mio maestro Mario Luzi, che Pascoli, proprio per rifuggire anche questo, andava sul patetico: perché sentirsi decadere non è il massimo, non si sta bene, e quindi molto spesso il patetico diventa il rifugio per chi sente decadersi. Appunto come il filosofo, quello scrittore che è intervenuto l’altro giorno sul Corriere della Sera, dialettizzando col tema del Meeting, dice: non parliamo delle grandi cose, parliamo delle cose piccole, cioè, rifugiamoci un po’ nel patetico delle piccole cose visto che non possiamo sostenere il grande dibattito sulle cose importanti. Il patetico a volte diventa un rifugio, un salvataggio in corner. Anche Pascoli corre questo rischio, o meglio lo corrono i suoi lettori che leggono Pascoli così; mentre invece, secondo me, in Pascoli non c’è, tanto è vero che questa poesia che vi leggo ora, che in genere viene letta come patetica, La Cavallina Storna, è una poesia che andrebbe letta come ve la leggo ora. Vi accorgerete che è un testo che sembra il quadro di un espressionista tedesco, tanto è forte, tanto è crudo. Dice così:

Nella Torre il silenzio era già alto.
Sussurravano i pioppi del Rio Salto.
I cavalli normanni alle lor poste
frangean la biada con rumor di croste.
Là in fondo la cavalla era, selvaggia,
nata tra i pini su la salsa spiaggia;
che nelle froge avea del mar gli spruzzi
ancora, e gli urli negli orecchi aguzzi.
Con su la greppia un gomito, da essa
era mia madre; e le dicea sommessa:
«O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna;
tu capivi il suo cenno ed il suo detto!
Egli ha lasciato un figlio giovinetto;
il primo d’otto tra miei figli e figlie;
e la sua mano non toccò mai briglie.
Tu che ti senti ai fianchi l’uragano,
tu dai retta alla sua piccola mano.
Tu c’hai nel cuore la marina brulla,
tu dai retta alla sua voce fanciulla».
La cavalla volgea la scarna testa
verso mia madre, che dicea più mesta:
«O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna;
lo so, lo so, che tu l’amavi forte!
Con lui c’eri tu sola e la sua morte.
O nata in selve tra l’ondate e il vento,
tu tenesti nel cuore il tuo spavento;
sentendo lasso nella bocca il morso,
nel cuor veloce tu premesti il corso:
adagio seguitasti la tua via,
perché facesse in pace l’agonia . . . »
La scarna lunga testa era daccanto
al dolce viso di mia madre in pianto.
«O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna;
oh! due parole egli dove’ pur dire!
E tu capisci, ma non sai ridire.
Tu con le briglie sciolte tra le zampe,
con dentro gli occhi il fuoco delle vampe,
con negli orecchi l’eco degli scoppi,
seguitasti la via tra gli alti pioppi:
lo riportavi tra il morir del sole,
perché udissimo noi le sue parole».
Stava attenta la lunga testa fiera.
Mia madre l’abbraccio’ su la criniera.
«O cavallina, cavallina storna,
portavi a casa sua chi non ritorna!
a me, chi non ritornerà più mai!
Tu fosti buona . . . Ma parlar non sai!
Tu non sai, poverina; altri non osa.
Oh! ma tu devi dirmi una una cosa!
Tu l’hai veduto l’uomo che l’uccise:
esso t’è qui nelle pupille fise.
Chi fu? Chi è? Ti voglio dire un nome.
E tu fa cenno. Dio t’insegni, come».
Ora, i cavalli non frangean la biada:
dormian sognando il bianco della strada.
La paglia non battean con l’unghie vuote:
dormian sognando il rullo delle ruote.
Mia madre alzò nel gran silenzio un dito:
disse un nome . . . Sonò alto un nitrito.

Ditemi se è patetica? Questa è una cosa tremenda. Lasciate stare la mia lettura un po’ sperimentale, però vi dà l’idea di come Pascoli, in quello che sembra patetico, metta dentro, pensate, la lunga, scarna testa della cavalla. Bisogna vederle queste cose, mentre si leggono le poesie. Se non le vedi, non leggi una poesia! Questa rima martellante sembra rassicurante, all’inizio, poi dici: ma perché continui a martellarmi addosso? Perché continui a picchiarmi? L’orfanità personale: Pascoli ebbe l’avventura drammatica, tragica, di vedere e di farci vedere perché l’Io decade. Perché il suo Io non poté più dire, come ha detto prima giustamente Emilia, per un mistero che c’è ancora. Quando si leggono queste cose verrebbe da conversare con Pascoli e dire: “Guarda, ma parliamone!”. Con i poeti non bisogna andare d’accordo, devi essere vero tu. Quando sei con gli autori, il problema non è che ci diano ragione ma che tu dia ragione di quello che sei nel dialogo con le loro parole. Per questo noi, a differenza di altri, non abbiamo mai avuto il problema di battezzare un autore o di andare a cercare delle tracce di cristianesimo da qualche parte. Pasolini su questo era feroce. Giustamente diceva: “Quei critici cattolici che cercano sempre la citazione giusta”. Noi non facciamo così! Noi vogliamo che Pascoli sia Pascoli, perché noi siamo noi. Infatti, come dico sempre ai ragazzi, nell’incontro con un testo, qual è la cosa più difficile? Non sapere a memoria le date! Non sapere le figure! La cosa più difficile è essere te stesso, e queste cose la scuola non te le insegna molte volte, ti insegna altre cose. Mentre invece, di fronte a un testo, se tu non sei te stesso, non succede l’incontro, non succede l’esperienza della poesia, c’è solo l’autore. Ma non esiste l’occhio neutro del lettore, esisti tu. Per questo Pascoli ci fa vedere questo aspetto dell’orfanità, che fa tremare i polsi. Perché non poté che essere così per lui, nel suo mistero di vita, che appartiene a lui e al buon Dio. Per questo non conta niente studiare le vite degli autori per leggere i testi. Nessun autore vuole che studiate la sua vita per comprendere i testi. Come diceva Leopardi, chiaramente, la scuola si continua a fare sbagliando. Ma non dovete studiare le vite degli autori, dovete leggere i testi! Poi, da lì, magari dopo un po’, ci si incuriosisce sulla vita dell’autore, ma non ha senso studiare la vita dell’autore per comprendere un testo. Nella mia piccola esperienza, se leggete una poesia, non voglio che sappiate i fatti miei. Non voglio, se no ve li direi! Un poeta non vuole dirvi i fatti suoi, vuole dirvi la vita! Come dice un pezzo del Miguel Manara di ieri, che abbiamo letto nell’angusto teatro che ci ospitava. A una certo punto, l’abate dice a Miguel Manara: “Smetti di parlare di te! Sapessi l’uomo come diventa capace di parlare della vita! Fa parlare la sabbia, fa parlare il mare, fa parlare l’onda, fa parlare il vento”. E dice, una conclusione stupenda, “fa parlare Dio a Dio stesso!”, un vertice quasi mistico.
Ma Pascoli, nell’orfanità, a cui dedica tante pagine, vede, vive, non solo l’esperienza del motivo della decadenza dell’Io. Non c’è un Tu-Padre, non c’è più. Non c’è qualcuno a cui dire: “Tu che mi fai!”. Non c’è nemmeno il punto di genialità a cui arrivò un poeta prima di lui, Arthur Rimbaud, che vi consiglio di leggere, che a un certo punto, da “mistico allo stato selvaggio”, come viene chiamato, dice, capendo che l’Io non può consistere da solo: “Je est un autre”, Io è un altro. Arriva a comprendere questo e dice “Io è un altro”, cioè, senza un’alterità, l’Io non sta su. Al fondo di me ci deve essere qualcosa di altro. Pascoli, la sua epoca, la poesia, fa l’esperienza della perdita di questa cosa. Per cui è un Io pieno di affetti, di sensazioni ma di nessun legame fondante. E’ un Io che diventa centro di un teatro splendido, meraviglioso, di percezioni, di sfumature, di sensazioni. Ma è un Io che non ha nessun legame fondante. E’ un Io che decade, appunto, dove, come dice una delle poesie più belle, che anche don Giussani amava citare spesso, I due orfani, il dialogo tra i due uomini arriva come vertice commovente. Commovente fino alle lacrime, fino a poter essere una sorta di invito a cercare di essere più buoni. Guardate, questa è una posizione difficile perché, come vediamo sempre intorno a noi, un Io che non si sente più legato a noi, cioè un Io decadente, un Io fosforescente come quello che la maggior parte della gente pensa di avere, tende a buttarsi via, non ad esser più buono. La tentazione del lasciarsi andare, per cui se l’Io non c’è, non è fondato da niente, tanto vale che rimanga in balia delle onde, che vada a ramengo, che vada in una sorta di, come diceva Giussani, “vagabondaggio inutile”. La tentazione è forte, è molto più forte quella tentazione lì che invece la tentazione del sussurro dell’orfano all’orfano, che dice: “cerchiamo almeno di essere più buoni”.

«Fratello, l’hai sentito ora un lamento
lungo, nel buio?» «Sarà forse un cane…»
«C’è gente all’uscio…» «Sarà forse il vento…»

«Odo due voci piane piane piane…»
«Forse è la pioggia che vien giù bel bello».
«Senti quei tocchi?» «Sono le campane».

«Suonano a morto? suonano a martello?»
«Forse…» «Ho paura…» «Anch’io». «Credo che tuoni:
come faremo?» «Non lo so, fratello:

stammi vicino: stiamo in pace: buoni».

«Io parlo ancora, se tu sei contento.
Ricordi, quando per la serratura
veniva lume?» «Ed ora il lume è spento».

«Anche a que’ tempi noi s’avea paura:
sì, ma non tanta». «Or nulla ci conforta,
e siamo soli nella notte oscura».

«Essa era là, di là di quella porta;
e se n’udiva un mormorìo fugace,
di quando in quando». «Ed or la mamma è morta».

«Ricordi? Allora non si stava in pace
tanto, tra noi…» «Noi siamo ora più buoni…»
«ora che non c’è più chi si compiace

di noi…» «che non c’è più chi ci perdoni».

Una poesia semplice e profondissima, questa, che però dà il senso di questa cosa. Volevo finire, per non tirarla tanto lunga. Dicevamo prima con Emilia, quando ho visto il suo libro, quello di Mondadori, il più famoso, che nella prefazione alle poesie di Pascoli, un illustre critico che tutti venerano, secondo me un po’ acriticamente – si chiama Gianfranco Contini, ottimo filologo -, a un certo punto, un po’ spazientito, dice: “Ma Pascoli, tutte queste storie del Mistero…”. Ma come? Come si fa a leggere Pascoli così? Con questa insofferenza per il tema del Mistero? Signor Contini, sarà un intelligente filologo ma di poesia non capisce niente! E infatti, se leggete i saggi su Dante di Contini qualche di dubbio vi viene. Perché ha una buona intuizione sulla lingua, ma quando deve dire cosa Dante vede, cosa Dante fa, si perde. Molto meglio Borges che, pur essendo cieco, pur non essendo filologo, ha visto di più che cosa diceva Dante. Ma dicevo, pensate che può esserci ancora oggi chi, in modo autorevole, perché Contini è autorevole, dice: “Ma Pascoli, ‘sto fatto del Mistero, togliamolo via!”. Come se l’arte, la poesia, potesse essere, come dicono oggi i critici, un dispositivo: tenete in mente questa parola che è la parola chiave della nostra cultura. L’arte come dispositivo, come frigorifero, come lavapiatti. Poi, siccome non sono totalmente ottusi, dicono: “No! Quasi un dispositivo…”. Dispositivo vuol dire un qualcosa che, disponendone gli elementi, funziona. Sei un bravo dispositore di parole e nasce la poesia. No! Perché ci vuole qualcos’altro, appunto, ci vuole un Io che percepisca il dramma della propria esistenza. Senza questo, non basta essere bravi a disporre le parole: capite che un frigorifero che sente il dramma dell’esistenza non è più un frigorifero. C’è qualcosa d’altro. Quindi, l’arte non è più un dispositivo appena, entra in gioco qualcosa d’altro. Per quanto questi signori provino a farlo fuori, rientra sempre dalla finestra. Per quanto le scuole insegnino a fare l’analisi del testo, come se facendo l’analisi del testo tu capissi la poesia, non è vero, non succede. Perché se un poeta grande come Pascoli ti scrive nella prefazione ai Canti di Castelvecchio: “Io scrivo questa cosa perché non voglio che siano morti”, tu, quando leggi Pascoli, devi fare i conti con questo problema, non con la filologia o la metrica. Se no, stai prendendo in giro Pascoli! Stai prendendo in giro il motivo per cui lui ha scritto, e gli insegnanti la devono smettere di pararsi dietro queste cose! Invece volevo leggervi, e finisco leggendovi un pezzo di questo, tornando all’immagine da cui è partita Emilia, Il Ciocco. Il Ciocco è uno dei testi finali di Castelvecchio: Pascoli vede le formiche che bruciano nel ciocco, appunto, un pezzo di legno nel camino, e da qui ha una visione cosmogonica. Voi sapete che Pascoli studiava astronomia, come molti poeti. Studiava, leggeva astronomia, come capita a molti di noi che leggono cose di scienza, e dal Flammarion, grande astronomo del tempo, lui copiava le immagini. Lui addirittura lo dice, immagini che troviamo in Pascoli tipo “sciami di stelle”, lui le prendeva dai libri di astronomia. E sentite, vi leggo solo qualche pezzo di un poema a cui vi rimando, Il Ciocco. Nel leggo solo qualche brano perché è molto lungo, ma sentite che forza.

Ma verrà tempo che sia pace, e i mondi,
fatti più densi dal cader dei mondi,
stringan le vene e succhino d’intorno
e in sé serrino ogni atomo di vita:
quando sarà tra mondo e mondo il Vuoto
gelido oscuro tacito perenne;
e il Tutto si confonderà nel Nulla,
come il bronzo nel cavo della forma;
e più la morte non sarà.

Sentite che bello, quando il tutto si confonderà nel nulla, la morte non sarà. Pur di far fuori la morte, è meglio che il tutto si confonda col nulla.
Ma il vento
freddo che sibilando odo staccare
le foglie secche, non sarà più forse,
quando si spiccherà l’ultima foglia?
E nel silenzio tutto avrà riposo
dalle sue morti; e ciò sarà la morte.
Io riguardava il placido universo
e il breve incendio che v’ardea da un canto.
tempo, che persuasa da due dita
leggiere, mi si chiuda la pupilla:
né però sia la vision finita.
Oh! il cieco io sia che, nella sua tranquilla
anima, vede, fin che sa che intorno
a lui c’è qualche aperto occhio che brilla!
Così, quand’io, nel nostro breve giorno,
guardo, e poi, quasi in ciò che guardo un velo
fosse, un’ombra, col lento occhio ritorno
a un guizzo d’ala, a un tremolìo di stelo:
quando a mirar torniamo anche una volta
ciò ch’arde in cuore, ciò che brilla in cielo;
noi s’è la buona umanità che ascolta
l’esile strido, il subito richiamo,
il dubbio della umanità sepolta:
Sentite che bello! Dice: noi siamo quelli che ascoltano l’esile strido, il subito richiamo, il dubbio dell’umanità sepolta. Aveva ragione Pascoli, noi, e qui intendo sia i poeti sia coloro che vivono poeticamente – perché non c’è bisogno di scrivere poesie per accedere all’esperienza della poesia, si può anche non scriverla, solo leggerla e vivere in un certo modo -, noi siamo quelli che ascoltano il dubbio dell’umanità sepolta.

Tempo sarà che tu, Terra, percossa
dall’urto d’una vagabonda mole,
divampi come una meteora rossa;
e in te scompaia, in te mutata in Sole,
morte con vita, come arde e scompare
la carta scritta con le sue parole.
Ma forse allora ondeggerà nel Mare
del nettare l’azzurra acqua, e la vita
verzicherà su l’Appennin lunare.
La vecchia tomba rivivrà, fiorita
di ninfèe grandi, e più di noi sereno
vedrà la luce il primo Selenita.
Poi, la placida notte, quando il Seno
dell’iridi ed il Lago alto e selvaggio
dei sogni trema sotto il Sol terreno;
errerà forse, in quell’eremitaggio
del Cosmo, alcuno in cerca del mistero;

O sarà tempo, che di là, da quella
profondità dell’infinito abisso,
dove niuno mai vide orma di stella;
un atomo d’un altro atomo scisso
in mille nulla, a mezzo il dì, da un canto
guardi la Terra come un occhio fisso;
e venga, e sembri come un elianto,
la notte, e il giorno, come luna piena;
e la Terra alzi il cupo ultimo pianto;
e sotto il nuovo Sole che balena
nella notte non più notte, risplenda
la Terra, come una deserta arena;
e Sole avanzi contro Sole, e prenda
già mezzo il cielo, e come un cielo immenso
su noi discenda, e tutto in lui discenda…

Adesso non lo sto a leggere tutto, ci sono dei punti in cui arriva ad un’immagine bellissima, “il ri-morir perenne dei mondi”. Cos’è un ri-morir perenne? Questa strana contraddizione, un ri-morir che però è perenne, è una vita che ri-muore ma ri-morendo vive! Pensate a che immaginazione arriva questo poeta per poter dire quello che sentiva, come diceva Emilia all’inizio, sentiva come un dramma tra la morte e il nascente, tra la morte e il vivente. Perché Pascoli non è mai nichilista, perché il nichilista è chi nega l’esistente. Il nichilista non è che afferma il nulla perché un senso del nulla ce l’ha, l’uomo pensante, sempre. Il nichilista è chi nega l’esistente, cioè chi pensa che ciò che esiste non abbia voce in capitolo. Pascoli non è nichilista perché, anche nel pensare alla fine del mondo, parla di un ri-morire perenne. Parla di vento e di foglie, perché la realtà c’è! E’ un’evidenza della ragione, per questo, quando anche hai una visione di fine dei mondi, la voce del reale continua ad esserci, è impressionante, questo. Il nichilista è chi nega il reale, non chi afferma il nulla, perché l’uomo realista afferma la sensazione del nulla, la sensazione dello sperdimento, della morte, del finire delle cose. Infatti, per questo, e finisco, ad un certo punto Pascoli, che amava molto la scienza, dice “la scienza ci sta facendo sentire queste cose, questo nulla, questo decadere dell’Io perché l’uomo non è più al centro del cosmo”. “Tuttavia sulle nostre anime questa spaventevole sproporzione non è ancora entrata nella nostra coscienza”. Questa sproporzione tra l’Io e il Tutto non è entrata nella nostra coscienza. E’ un uomo positivista che sta parlando di queste cose, non è un uomo religioso, è religioso come lo sono tutti gli uomini ma, pensate, nella poesia di Pascoli questo fa venire i brividi. Nella poesia di Pascoli non c’è mai una domanda, Pascoli è un uomo che ha un senso del mistero fortissimo, come abbiamo sentito anche nelle poesie. Non rivolge mai una domanda, quasi mai, se non come ansia, come tensione. C’è una bellissima poesia, che non abbiamo tempo di leggere, dove c’è un uomo che sfoglia il libro del Mistero, va indietro e avanti in questa ricerca. Ricerca che sembra quasi mai riuscire a sfociare in domanda. Non c’è mai: “dimmi tu luna in ciel, dimmi che fai?”, non riesce ad erompere in questo, Pascoli, se la tiene dentro, e fa quasi tenerezza. Se la tiene dentro, in questa ansia di ricerca. Però dice che questa sproporzione non è ancora entrata nella nostra coscienza: se fosse entrata, se avesse pervaso il nostro essere cosciente, saremmo più buoni. Perché la bontà è appunto quella cosa che, come diceva prima Emilia, ci commuove più della morte. Perché nella poesia Aquiloni, notava molto acutamente lei, la commozione, cioè il momento in cui il nostro essere vibra, scatta per la carezza della madre, prima ancora che per la morte del fanciullo. Perché è in quella carezza, che sposta i capelli dal viso, che noi avvertiamo urgere qualcosa che ci riguarda. Qualche cosa che fa parte della nostra vita, tanto è vero che quell’immagine finale della poesia di Pascoli – per chi ha un minimo di anche pochissima frequentazione con quello che ieri Prades giustamente chiamava “il racconto del cristianesimo”, come il Meeting è un racconto, perché il cristianesimo è un racconto -, ricorderà che c’è un carezza che risveglia il fanciullo. E Pascoli non può mettere in scena la carezza che Gesù dà alla vedova di Nain. Può solamente mettere in scena, con tutta la verità che un uomo può avere, la carezza della madre al bimbo che non si può risvegliare. Mettendo in scena definitivamente questa cose della nostra vita, uno legge un dramma che non finisce e che nella poesia trova nutrimento. A volte, qualcuno pensa che la vita sia noiosa, ma semplicemente perché è noioso lui, perché non si nutre di cose non noiose. E la poesia non è noiosa. Questo dramma che si vive, e che si nutre, e che a differenza di quello che dice Pascoli – capite la grande differenza? – non finisce in una carezza disperata ma finisce in una carezza che è di nuovo un inizio.

EMILIA GUARNIERI:
Grazie, Davide. Una sola battuta finale. Viva la poesia! Quella di Pascoli in particolare e non solo quella di Pascoli, perché anche questa mattina abbiamo visto che i poeti sono i grandi alleati della vita. Perché i poeti sanno vedere dentro la realtà quello che molte volte l’occhio distratto non vede. In questo senso, sono i grandi alleati di chi vuole vivere una vita oltre l’apparenza, accorgendosi di ciò che c’è oltre l’apparenza della realtà. Grazie e buona continuazione di giornata.

Data

22 Agosto 2012

Ora

11:15

Edizione

2012

Luogo

eni Caffè Letterario D5
Categoria
Incontri