SOSTENERE L’IMPRENDITORIALITÀ

Sostenere l'imprenditrorialità

In collaborazione con Unioncamere. Partecipano: Ferruccio Dardanello, Presidente Unioncamere; Carlo Fratta Pasini, Presidente del Consiglio di Sorveglianza del Banco Popolare; Giorgio Guerrini, Presidente Nazionale di Confartigianato; Giuseppe Mussari, Presidente ABI e Presidente Banca Monte dei Paschi di Siena; Raffaello Vignali, Vice Presidente Commissione Attività Produttiva, Commercio e Turismo della Camera dei Deputati. Introduce Bernhard Scholz, Presidente Compagnia delle Opere.

 

BERNHARD SCHOLZ:
Buona sera e benvenuti a questo incontro sul sostegno all’imprenditorialità. Un saluto particolare e un grazie per la loro presenza a Ferruccio Dardanello, Presidente Unioncamere, Carlo Fratta Pasini, Presidente del Consiglio di Sorveglianza del Banco Popolare, Giorgio Guerrini, Presidente Nazionale Confartigianato, Giuseppe Mussari, Presidente della Banca Monte dei Paschi di Siena e Presidente dell’Associazione delle Banche Italiane e Raffaello Vignali, Vice Presidente della Commissione delle Attività Produttive della Camera.
Un imprenditore è proprio una persona che si assume un rischio giorno per giorno, che mette in gioco la sua persona, i suoi talenti, le sue capacità. Perché ha bisogno di essere sostenuto? Semplicemente, perché le sue attività si svolgono in uno Stato che ha un’organizzazione, una legislazione, un sistema fiscale, perché vive in un contesto sociale, un sistema di Welfare che chiede i suoi contributi, perché vive in un contesto amministrativo che chiede adempimenti e rispetto delle regole, perché vive in un sistema giudiziario che può avere processi civili che durano un mese oppure che durano anche sei anni, perché vive in un territorio che può avere infrastrutture o può avere una mancanza di infrastrutture. Tutto questo è l’insieme dei fattori – ce ne sono anche altri – che incidono sull’attività di un imprenditore. Come lo fanno anche le banche, perché le banche possono dare dei crediti in un modo piuttosto che in un altro.
Allora, noi vogliamo riflettere questa sera sulle condizioni, sulle attività che permettono che la libera iniziativa di un imprenditore possa esprimersi al meglio. Siamo convinti che nessuno possa essere sostituito nella sua responsabilità: però può essere ostacolato, impedito oppure sostenuto. Cominciamo con il mondo delle imprese. La prima domanda a Giorgio Guerrini, Presidente di Confartigianato. La domanda non riguarda solo Confartigianato, perché, a maggio, è stato costituito Rete Impresa Italia, a cui hanno aderito le grandi confederazioni CNA, Casa Artigiani, Confcommercio, Confesercenti ed evidentemente anche Confartigianato. Insieme rappresentano il 95% delle imprese del Paese, una realtà che dà lavoro a 14,5 milioni di persone. Nello Statuto di Rete Impresa Italia c’è scritto che le PMI sono la chiave di volta della competitività di questo Paese e lo scopo della rete è una rappresentanza efficace, incisiva a livello nazionale, perché, così dice sempre lo Statuto, l’Italia ha bisogno di una rotta, di un obiettivo, di un punto da cui ripartire. Giorgio Guerrini, da dove dobbiamo ripartire e qual è l’obiettivo che vogliamo raggiungere insieme?

GIORGIO GUERRINI:
Innanzitutto grazie per l’invito, un invito molto importante che segna anche la ripresa delle attività, con qualche giorno di vacanza alle spalle. E’ per me un piacere e un onore essere anche quest’anno al Meeting. Vorrei cominciare il mio intervento spiegando in maniera molto semplice e veloce cosa stia dietro il progetto di Rete Impresa Italia. E’ un progetto che è partito alcuni anni fa, per l’esattezza quasi tre anni fa, sull’emergenza di una Legge Finanziaria del Governo Prodi che penalizzava enormemente il sistema della piccola e media impresa, del commercio e dell’artigianato. Ci trovammo un giorno al Teatro Capranica, queste cinque sigle che rappresentano insieme oltre due milioni e mezzo di imprese, per contestare quella Legge Finanziaria. Da allora, però, abbiamo trovato, come credo sia facile da dimostrare, moltissimi punti di incontro, anche se ciascuno di noi veniva da esperienze associative molto diverse, con una connotazione anche di appartenenza ideologica molto forte, che facevano sì che fra Confcommercio e Confesercenti non ci fosse un grande rapporto, lo stesso valeva tra Confartigianato e CNA. Per fortuna, da quando queste associazioni si sono costituite – alla fine degli anni ’40, inizio anni ’50 – ad oggi, molte cose sono cambiate. Molte cose per fortuna sono cambiate e hanno fatto sì che, dopo oltre 50 anni, queste cinque associazioni di rappresentanza di interessi, spesso anche conflittuali, spesso anche pilotate dalla politica, abbiano fatto un passo importante, decisivo, per meglio rappresentare gli interessi delle imprese in questo Paese.
Lo ha detto all’inizio dell’introduzione l’amico Scholz, noi rappresentiamo l’impresa diffusa, l’impresa di territorio, l’impresa piccola che va da 0 fino a 20 dipendenti, e che vale, nel tessuto produttivo italiano, nell’artigianato, nel commercio, nei servizi, quasi il 98% di tutte le imprese che il nostro Paese ha. E abbiamo, lo voglio ricordare, una caratteristica unica al mondo, una presenza di impresa diffusa, una percentuale di imprese presenti nei nostri territori che non ha eguali in nessuna parte del mondo e che la dice molto lunga sulla capacità di fare impresa degli italiani, sulla loro propensione al rischio, sulla voglia di costruire un progetto di vita attraverso l’impresa.
Abbiamo fatto questa iniziativa perché la crisi che è cominciata quasi due anni fa ha accelerato questo percorso, perché ha dimostrato in maniera inequivocabile che un Paese non può pensare di vivere e prosperare senza l’economia reale, quella concreta, l’economia delle imprese fatte di persone, l’economia delle imprese fatte di capannoni, l’economia delle imprese fatte di macchinari. Ci si è illusi per molto tempo che si potesse campare, e bene, anche senza lavorare. Che si potesse campare bene, rigirando quattro numeri in un foglio e che, anzi, questo determinasse un progressivo allontanamento dei giovani dalle attività che invece avevano fatto la fortuna e la ricchezza di questo Paese. Tant’è che in questi ultimi anni, in conseguenza della crisi, si sono riscoperti certi lavori. Ma per tanti anni, avere un figlio che intraprendeva l’attività artigiana o di qualsiasi tipo, per qualche famiglia era considerato un disonore. Un errore fondamentale perché, se questa crisi una cosa l’ha dimostrata, è che i Paesi che hanno saputo reggere meglio sono quelli che ancora avevano le imprese, quelle fisiche.
Poi veniamo ai molti problemi che ha invece il nostro Paese, che ha il primato delle imprese come numero, seppure di piccole dimensioni, ma che ha da sempre una cultura che non è vicina allo sviluppo di queste imprese. E quindi lo sforzo, la fatica, il lavoro che si deve fare, sia per chi fa rappresentanza d’impresa che per chi fa la buona politica, è innanzitutto rimuovere una cultura sbagliata che ritiene l’impresa, l’imprenditore, l’aver successo dalla propria impresa, come un fatto negativo. E’ un lavoro molto duro, sia di tipo culturale che legislativo, perché questa nuova filosofia contrasta con una filosofia antica, con una filosofia del secolo passato, che si attrezzava invece per creare problemi, difficoltà a chi intraprendeva. Dobbiamo sostituirla con una filosofia, con una cultura diversa, ma anche creare un sistema di norme, di leggi che permettano lo sviluppo di questa nuova cultura.
E allora, le cose da fare sono moltissime, in un Paese come questo, perché questi oltre 4 milioni di piccoli imprenditori che rappresentiamo, ogni giorno vivono la difficoltà, la fatica di fare impresa in Italia. Ogni anno escono le classifiche internazionali su dove sia più facile svolgere l’attività di impresa. Ahimè, il nostro Paese viaggia sempre tra l’80° e il 75° posto, perché? Perché si è stratificata, nel corso di questi anni, una giungla normativa che ha sempre aggiunto senza mai togliere e che ha reso la vita molto complicata a chi svolge questa attività. Allora, le cose da fare sono note da tempo. Noi le diciamo da anni. Al 1° posto, tra i 4 milioni di piccoli imprenditori italiani, sta la lotta alla burocrazia, lo sfoltimento burocratico, che ha un costo enorme e non solo di perdita di tempo, ma ha anche un costo economico enorme, noi l’abbiamo quantificato in un punto di PIL. Ogni anno, i piccoli imprenditori italiani, che sono quelli più tartassati, perché non hanno strutture aziendali adeguate, pagano il costo della burocrazia oltre 16 miliardi di euro che, diviso per questi 4 milioni, fa decine di migliaia di euro per ogni impresa, spesso di burocrazia inutile, di controlli che servono ad alimentare il controllore.
In questi due anni, molti passi si sono fatti in avanti, ma devono essere portati a concretezza. Una cosa positiva va considerata nell’ultima Finanziaria: è la segnalazione di inizio attività, per chi ha il coraggio di intraprendere. Perché, nonostante la crisi, dobbiamo ricordarci sempre che ogni giorno in questo Paese si iscrivono alle Camere di Commercio, quindi attivano una nuova impresa, 2.000 persone: ogni giorno, nonostante le difficoltà, nonostante la crisi, queste 2.000 persone ogni giorno decidono di vivere la propria vita attraverso il rischio di impresa. Molto spesso, a queste persone si creano problemi invece di opportunità. Questo è quello che viviamo. Allora, noi diciamo che innanzitutto bisogna cambiare mentalità, e i controlli si fanno ex post e non ante, perché qualcuno deve aspettare per l’inefficienza della Pubblica Amministrazione, che spesso non è Pubblica Amministrazione ma è pessima amministrazione, anche mesi. E quindi, la possibilità attraverso le autocertificazioni di poter aprire un’impresa: e poi, chi deve fare i controlli farà tutti i controlli necessari, rigorosi.
La burocrazia che è collegata alla pressione fiscale. Noi da sempre diciamo che dobbiamo contrastare l’evasione fiscale. Mi sembra che il Governo in questi ultimi tempi abbia ottenuto degli importanti risultati con un inasprimento dei controlli e con un innalzamento di somme recuperate, soprattutto sul fronte della malavita. Queste somme recuperate vanno detratte dalla pressione fiscale che i cittadini onesti pagano. E quindi, bisogna cominciare, perché noi abbiamo la pressione fiscale più alta di Europa, è arrivata al 43,2 %, quella teorica, quella percepita, invece, visto che nel nostro Paese ci sono quasi 100 miliardi di evasione, quella percepita reale dalle imprese che si confrontano col mercato e hanno i dipendenti in regola, è superiore del 50%. Quindi, un imprenditore lavora fino al 30 di giugno per lo Stato e poi, dal 1° luglio, comincia a lavorare per se stesso. Non va bene, non va bene! Ci sono tante cose che possono essere migliorate e che purtroppo fanno fatica ad arrivare a conclusione. Io ne elenco solo tre: se riuscissimo a completarne l’iter, sarebbe una spinta e uno sviluppo fondamentale per questo Paese.
Inizio con la conclusione dell’iter per la tutela del Made in Italy. Da molti mesi è stata approvata in Parlamento una Legge quasi all’unanimità, opposizione e maggioranza: si attendono al 1° ottobre i Decreti Attuativi, non dobbiamo avere paura di farci bloccare dalle pastoie burocratiche europee, perché il Paese, in un momento economico come questo, ha bisogno di questa Legge che tutela soprattutto i piccoli. Questa Legge porta anche il nome di un grande stilista italiano, Versace. Se a Versace una legge così va bene, figurati quanto va bene a tutto il sistema delle piccole imprese che ci stanno sotto e ai conto terzisti. Allora, noi spesso viviamo una situazione dove, nonostante gli accorati appelli da più parti, soprattutto in questi ultimi anni, anche dalla Chiesa, sul ritrovare il bene comune, si fanno leggi che non tutelano il bene comune, che non vanno nella direzione del bene comune ma che, anzi, rendono la vita difficile a quel 98% di imprese e consentono di fare dei guadagni colossali ad uno 0,2 %, che realizza tutte le produzioni fuori dal nostro Paese, le reimporta, ci mette le etichette, le vende a prezzi e con l’etichetta del Made in Italy. Non va bene! Non va bene! Glielo abbiamo consentito per troppi anni. La legge che è stata approvata, e Raffaello lo sa bene, perché ne è stato uno dei protagonisti, è anche il frutto di un compromesso tra il sistema della grandi e delle piccole imprese: è stato un lavoro importante, siamo arrivati a definizione, il Parlamento l’ha approvata. Bisogna andare concretamente ai Decreti Attuativi, altrimenti quella è una lettera morta ed è un segnale politico molto pericoloso nei confronti di quei tanti imprenditori che da quella legge si sentirebbero maggiormente tutelati.
Un’altra cosa importante, una battaglia che noi facciamo da tempo è liberare molti servizi che sono a regime di tariffa. Le oltre mille società pubbliche locali, le piccole IRI detenute dai Comuni, dalle Province, dalle Regioni, che molto spesso scaricano le loro inefficienze sulla bolletta – e quindi le pagano tutti i cittadini -, deve finire, deve finire! Si devono aprire degli spazi alla concorrenza. E non lo dico solo perché faccio l’interesse, da imprenditore privato contro l’imprenditore pubblico, ma quando la mia azienda, come le molte altre che operano in un mercato, si confronta col mercato e con la concorrenza, perché ci devono essere aziende che non si confrontano con nessuno? Apriamo questi mercati, perché non credo sia impossibile in un Comune avere il servizio dell’illuminazione pubblica che non è fatto da una società del Comune ma da una società privata. Credo che i cittadini avrebbero moltissimi vantaggi e si aprirebbero grandi opportunità.
Per concludere, vorrei ritornare sul discorso della pressione fiscale. La pressione fiscale è arrivata a livelli di soffocamento, perché poi si aggiunge anche ad altre distorsioni, nel nostro Paese, che alcune aziende vivono: un rapporto di servizio o di fornitura con la Pubblica Amministrazione, tempi di pagamento che sono lunghissimi e che, nonostante anni di riflessioni e di pressioni, non siamo ancora riusciti ad accorciare. Nel nostro Paese, un Comune, una Provincia, una Regione, una ASL pagano le imprese in tempi che sono impraticabili o, perlomeno, sono praticabili da certe aziende un po’ strane, che si possono permettere di essere pagate dopo un anno, un anno e mezzo. Anche questo è un problema molto sentito soprattutto in momenti di difficoltà, di recepimento di liquidità come le imprese hanno: ecco, una norma che consente, seppure in un periodo un po’ allungato, di portare i tempi di pagamento della Pubblica Amministrazione al livello di quelli europei, sarebbe una cosa molto importante da fare.
Concludo con una battuta: a questo tavolo abbiamo anche due importantissimi banchieri, in rappresentanza di importanti banche e di tutto il sistema bancario italiano. Negli anni passati abbiamo avuto un rapporto tra le banche e il sistema delle piccole e medie imprese difficile, se non ostile, e all’inizio di questa crisi abbiamo avuto il periodo peggiore. Poi, come a volte succede, dopo i periodi peggiori si riescono a trovare accordi, occasioni, incontri che risolvono i problemi. Vorrei portare come esempio positivo di questo rapporto tra banche ed imprese l’accordo che è stato fatto lo scorso anno sulla moratoria dei mutui, che ha aperto una nuova stagione di rapporti migliori con il sistema bancario, anche se poi sappiamo bene che le nostre piccole imprese hanno rapporti più semplici, più diretti con il sistema delle imprese del territorio. Ma questa è un’altra cosa. Allora, proseguiamo il dialogo perché, per far crescer l’economia, per far crescere il benessere, per far crescere l’occupazione, le nostre imprese hanno bisogno di risorse: un sistema delle banche con il quale si fa fatica a dialogare è un ulteriore problema che si aggiunge agli altri. Grazie.

BERNHARD SCHOLZ:
Grazie, Giorgio Guerrini. Passiamo al sistema delle Camere. Dal 10 febbraio, le Camere di Commercio hanno una legge: lo scopo di questa legge è dare maggiore autorità alle Camere rispetto alle istituzioni, più autonomia nel senso della sussidiarietà, e consentire loro di essere ancora più efficaci nei servizi che vanno dal Registro fino agli aiuti all’internazionalizzazione. Domando quindi al Presidente di Unioncamere: in che modo migliorerà da parte delle Camere il sostegno alle imprese?

FERRUCCIO DARDANELLO:
Innanzitutto, grazie per l’invito, è un piacere, un onore essere qui, in un contesto così straordinario come il Meeting, a parlare di problemi che riguardano la nostra quotidianità di ogni giorno, con la passione di sempre. Questa sera siamo qui a parlare dei meccanismi che servono a sostenere l’imprenditorialità, a tenere su questo straordinario tessuto di imprese che abbiamo nel nostro Paese. Un tempo si diceva che questo è un Paese di santi, di navigatori e di poeti. Io dico che il nostro Paese invece è di imprenditori. Non esiste al mondo un tessuto come quello italiano, dove ogni 10 abitanti, forse qualche dato percentuale è addirittura inferiore, esiste un’impresa. Quindi, questo nostro magico Paese è un Paese dove l’imprenditoria ha sicuramente raggiunto il massimo della sua capacità di essere propositiva all’interno di una società, per dare le risposte di cui la società aveva bisogno e anche tutti quei numeri, quelle opportunità che ci sono serviti, in questi 50 anni della nostra storia, a diventare quello che siamo diventati. Per poterlo fare, ha avuto bisogno di due elementi sostanziali, poi arrivo forse alla riforma. Innanzitutto, un tessuto associativo straordinario: non esiste all’interno di un altro Paese europeo e del mondo, credo, una società come la nostra, con un tessuto di associazioni che sono state lo strumento al quale ogni giorno si è legato lo sviluppo e la crescita di questa piccola impresa che bene Giorgio Guerrini citava poc’anzi. Senza le associazioni, probabilmente, sarebbe venuta meno la capacità dei nostri imprenditori di essere protagonisti, di avere servizi, di avere la capacità di innovazione per rimanere quelli che si era.
Altro grande valore che mi piace sempre ricordare, è che l’impresa all’interno del nostro Paese nasce nella famiglia, perché non c’è famiglia italiana senza un imprenditore, dove padre con figlio, fratello e sorella, figlia e madre, o l’intera famiglia non operi all’interno di questa nostra società. Un valore forte che abbiamo saputo mantenere negli anni e che ancora oggi ci contraddistingue dagli altri Paesi europei, dagli altri Paesi del mondo, dando a questo nostro Paese una speciale connotazione.
Per potere però dare valore a questi immensi strumenti, c’è bisogno di avere istituzioni che servono in qualche modo ad approfondire, a sostenere, a valorizzare, a dare aiuto, a trasferire conoscenze, competenze e strategie, a questa nostra straordinaria capacità di intraprendere che caratterizza il Paese. Pensate, sono 6 milioni le imprese iscritte al Registro delle Imprese, lo raccontavo prima, quasi un’impresa ogni 10 abitanti. E pensate che, di queste imprese, il 95% hanno meno di 10 dipendenti, sono radicalizzate negli 8.000 Comuni di questo Paese. Una capacità che costituisce un valore anche simbolico molto forte. Queste imprese sono fatte da uomini, da giovani, da anziani, e questo è uno dei problemi del nostro Paese: fortunatamente, la vita si prolunga nel tempo e quindi rimangono anche più imprenditori di lungo corso.
Mio padre, ricordo, aveva oltre 90 anni e tornava ancora ogni giorno in azienda. Un giorno gli chiesi il perché di questa assiduità quotidiana. Mi disse: “Ferruccio, sappi che per me venire a lavorare è un divertimento, il mio più grande piacere”. Sono alcuni anni che non c’è più, ma avrebbe potuto dire, pensando a quella canzone di Renato Zero, che “i migliori anni” della propria vita li aveva vissuti all’interno della propria famiglia, della propria azienda. E’ un ricordo che non posso non portarmi dietro, come non posso non portarmi dietro il pensiero straordinario di questa nostra piccola azienda familiare, della quale io ero uno dei co-protagonisti, dove c’era anche questa figura magica, probabilmente sottovalutata negli anni, che era la donna italiana all’interno dell’impresa. Mia madre era il motore dell’impresa, mia madre era il motore della famiglia, mia madre era il motore di ogni scelta che ogni giorno si faceva. Ed è anche stata probabilmente il motore dei successi di questa nostra piccola impresa di vendita di calzature all’ingrosso, nell’ambito del mio territorio. Credo che, come mia madre, ci siano milioni di donne che nel nostro Paese stanno contribuendo ogni giorno a una positività di crescita, di sviluppo, di fantasia, di inventiva, di volontà, alla crescita del nostro Paese.
E vengo, Scholz, alle domande che mi facevi. Probabilmente ho debordato, ma credo che qualche valutazione su questi temi, ogni tanto, sia opportuno, interessante e anche indispensabile fare. Ma la riforma dà innanzitutto a questa grande istituzione del sistema delle Camere di Commercio un nuovo ruolo, un nuovo peso, una nuova funzione strategica all’interno del nostro futuro. Innanzitutto, il riconoscimento di un’autonomia funzionale così determinante, così simbolica, così significativa. Oggi le Camere di Commercio dovranno svolgere alcuni dei compiti che sono stati loro affidati. Dovranno impegnarsi a dare risposte quotidiane, concrete, a quelle che sono le esigenze di questi milioni di imprese. E questo sistema avrà anche un grande riconoscimento, non più soltanto un sistema di istituzioni che vivono il proprio territorio, ma un insieme di istituzioni che fanno grande, complessivamente, il territori regionale, e pare anche il sistema nazionale, e quella forza, quella competitività che complessivamente può avere.
Aggiungendo a questi le 75 ambasciate, mi piace chiamarle così, che abbiamo in ogni angolo del mondo e che rappresentano un po’ quello che è stato il sogno dell’emigrazione della nostra imprenditoria, che è migrata nel mondo in attesa di valorizzarsi, che è riuscita in quei Paesi ad affrancarsi, a diventare protagonista, a portare il bene, il sale, l’intelligenza del Made in Italy. Ecco, il nuovo sistema delle Camere di Commercio sarà tutto questo anche per il futuro, per favorire sempre di più uno di quei passaggi fondamentali, dai quali non possiamo in questo momento prescindere, che è l’internazionalizzazione delle nostre produzioni. Il mercato interno è quello che è, il mercato non tira, è un mercato che soffre, è un mercato che soffrirà ancora probabilmente anche nei prossimi mesi, nelle prossime stagioni. Ma c’è un mercato internazionale che può veramente dare valore a questa straordinaria intelligenza italiana, a questa capacità di inventare, a questa capacità di produrre, a questa capacità di fare qualità, sulla quale noi riteniamo si giocheranno le sfide dei prossimi anni.
In questi anni stiamo facendo insieme a Mediobanca uno studio su queste oltre 5.000 imprese italiane medio piccole, medio grandi, che si stanno valorizzando nel mondo; stiamo tirando fuori degli esempi magici che ci danno conforto e devono stimolarci a guardare anche in prospettiva. Nell’ambito agro-alimentare, un imprenditore della mia terra, di Cuneo, sta portando sui mercati del mondo le magie dell’agro-alimentare italiano, a prezzi competitivi, a New York, a Tokyo, sta conquistando il mondo. Un imprenditore innovativo romagnolo sta illuminando la Mecca, sta illuminando città come Buenos Aires e Barcellona. Un altro imprenditore abruzzese sta trovando nel mondo della ricerca, dell’innovazione, per quanto riguarda i nuovi propulsori delle automobili, la capacità di offrire al mondo delle grandi imprese automobilistiche le opportunità di innovarsi.
Io credo che storie infinite possiamo raccontare, all’interno di questa nostra magica comunità italiana. Ma questa magica comunità italiana ha bisogno, per rimanere quella che è, per rimanere competitiva, non diciamo di essere sostenuta ma di essere fortemente favorita, valorizzata, promossa. Innanzitutto, partendo da un riconoscimento costituzionale, che ancora oggi viene a mancare all’interno della nostra Costituzione. E mi auguro che in una prossima revisione della Costituzione, l’impresa possa diventare un punto di riferimento. Nella nostra Costituzione si parlava del lavoro ma non si parlava dell’impresa: l’impresa è lo strumento dal quale poi nasce il lavoro, dal quale poi nasce tutta questa voglia di fare, questa voglia di mettersi in gioco, questa voglia di credere in se stessi. E poi, bisogna favorire l’impresa. Io apprezzo molto il lavoro che sta facendo Raffaello Vignali, per approvare quello statuto dell’impresa e logicamente poter applicare, attuare quello che la stessa Comunità Economica Europea in questo momento sta suggerendo: di dare ai Parlamenti, ai Governi, metodologie per potere legiferare, tenendo in grande, grandissima considerazione quello che la piccola e media impresa sa esprimere. E credo che non si possa che trovare nel nostro Paese, nel cuore della piccola impresa, lo strumento magico per poterlo metterlo in atto.
E poi, bisogna promuoverla e aiutarla, prenderla per mano, perché altrimenti, da soli, tolti 4 o 5.000 imprenditori che hanno una strutturazione già affrancata, gli altri 200.000 che oggi già si confrontano con i mercati internazionali non riuscirebbero a farcela, hanno bisogno di essere accompagnati. E credo che il sistema camerale abbia dimostrato in questi anni una capacità enorme. Lo ha fatto probabilmente in silenzio, senza sbandierare grandissimi risultati: ma credo che buona parte dei 200.000 imprenditori che oggi si confrontano con i mercati del mondo, non dico la quasi totalità, abbia avuto l’opportunità, grazie alle Camere di Commercio, di affrancarsi e di poter affrontare i mercati del mondo in senso positivo. Oggi però non bastano più 200.000 imprenditori che abbiano questa capacità, devono essere molti di più, perché il mercato internazionale richiede a noi operatori economici, non soltanto che i prezzi siano stra-concorrenziali, perché non è più il prezzo quello che oggi fa la differenza, ma la qualità, e soltanto l’innovazione sa trasferire le nostre produzioni. E in fatto di qualità, di innovazione, probabilmente siamo secondi a pochi, in questo momento. Pensate che, nel 2009, oltre il 73% delle aziende, anche con i fatturati in diminuzione, in difficoltà, hanno continuato ad investire in qualità, in innovazione. E hanno saputo mantenere, anzi, crescere, migliorare potenzialmente, quelli che sono gli strumenti della loro competitività.
Se noi continueremo in questa direzione, avremo la capacità, magari insieme al Governo, di riformare una politica verso l’internazionalizzazione, una politica che probabilmente va rivista, va rimessa in qualche modo in ordine. Oggi troppi vogliono occuparsi di internazionalizzazione, non c’è comunità che non abbia nel proprio ambito una delega specifica in questa direzione; addirittura le Pro Loco vogliono fare internazionalizzazione perché credono che il centro del mondo sia l’angolo del cortile della propria piccola comunità. E c’è bisogno di mettere a valore queste potenzialità, di metterci in condizione di poterlo fare, tutti per uno, uno per tutti, come diceva Alexandre Dumas in quel magico romanzo de I tre moschettieri, che poi erano quattro. C’è bisogno di fare una politica unica e mettere a valore le cose che si fanno, ottimizzarne i risultati senza polverizzarne in qualche modo le potenzialità. E le duecentomila piccole e medie imprese potranno diventare quattrocentomila, seicentomila, perché tutto quello che facciamo probabilmente ha pochi riscontri sui mercati del mondo, ma quello che facciamo lo facciamo talmente bene che diventa, come diceva bene Giorgio prima, uno strumento da copiare, da taroccare. Solitamente si taroccano i prodotti di non qualità, i prodotti che non hanno successo sul mercato, mentre le nostre produzioni oggi hanno queste caratteristiche e noi dovremmo in tutti i modi trovare gli strumenti, i mezzi per poterlo fare.
Probabilmente, le Camere avranno un compito in questa direzione. Noi chiedevamo una tutela, una difesa del Made in Italy, perché ce lo chiedeva la nostra economia, ce lo richiedeva l’impresa. Noi chiedevamo che il controllo avvenisse nel modo più veloce possibile: probabilmente le Camere avranno anche questo gradito o sgradito compito, a seconda di quelle che possono essere le motivazioni per fare un controllo sulle certificazioni. Noi pensavamo che forse, in una prima fase, le certificazioni volontarie fossero quelle più indicate per iniziare un processo in questa direzione, per poi arrivare a processi non soltanto più volontari.
Posso solo ancora parlare di uno dei grandi problemi che in questo momento affliggono la nostra imprenditoria: è il problema che diceva bene prima Giorgio, della semplificazione delle procedure. Credo che la semplificazione sia uno degli strumenti che ci ha impedito in questi anni di diventare quello che siamo diventati. Ma non è bastata tutta la difficoltà burocratica nell’accedere al mondo dell’impresa, che non ha permesso a noi di diventare quello che siamo diventati. Pensate, già negli anni Cinquanta quel grande uomo che era un mio conterraneo, si chiamava Luigi Einaudi, è stato un grande economista della nostra storia, quando parlava delle piccole e medie imprese diceva: “Migliaia e milioni di uomini lavorano, producono e risparmiano, nonostante tutto quello che noi facciamo per incepparli, scoraggiarli, rendergli la vita difficile. È la loro voglia, la loro capacità di fare impresa che in qualche modo va ad essere vincente, perché l’orgoglio di vedere la propria impresa prosperare, acquistare credito, acquisire clientele sempre più vaste, sono molle di progresso molto più forti che il guadagno”. Quindi, già allora l’imprenditore aveva questo straordinario stimolo dentro di sé per potere procedere verso mercati, verso potenzialità, verso successi imprenditoriali.
È una molla, un sogno quello che l’imprenditore ha e che mi auguro possano avere tanti nuovi imprenditori anche per il nostro futuro. Stiamo vedendo in questo momento che vi sono meno imprenditori giovani che si avvicinano al mondo dell’impresa, stanno diminuendo gli imprenditori sotto i trent’anni, stanno aumentando gli imprenditori oltre i settant’anni di vita, probabilmente la vita che si allunga ci mette in condizione di avere la voglia, la capacità, anche la forza per rimanere in impresa. Credo che tutto questo procedere, questo percorso possa continuare a dare a questo nostro Paese le potenzialità e la prospettiva che riteniamo di possedere. Cosa sa fare l’imprenditore italiano, come sa metterlo in funzione, come sa metterlo sul mercato? Siccome sa proporlo, credo non potrà che trovare la nostra istituzione, le nostre istituzioni, come strumenti sui quali giocare le sfide del proprio futuro. Grazie.

BERNHARD SCHOLZ:
Grazie, Ferruccio Dardanello. andiamo nel mondo delle banche. Si parla delle banche ma le banche sono diverse fra loro. Per esempio, il Banco Popolare si caratterizza per la vicinanza al territorio e anche per i meccanismi cooperativi che lo governano. Carlo Fratta Pasini ha fatto un’affermazione, recentemente, nella quale diceva che la crisi ci obbliga a pensare anche in ottica critica e autocritica il nostro sistema di relazioni. Cosa intendeva?

CARLO FRATTA PASINI:
Innanzitutto, vi ringrazio dell’invito e di questa ulteriore opportunità di intervenire al Meeting, di poter vivere una giornata al vostro Meeting. E’ veramente un privilegio, un momento di confronto e di stimolo da cui si esce sempre particolarmente arricchiti. Per quel che riguarda il tema di questo convegno e la domanda che mi è stata fatta, credo che la risposta sia sostanzialmente la stessa: occorre fare leva sulla imprenditorialità, che mi sembra un concetto chiaro. Voi utilizzate sempre titoli che sono pensati, non solo, anche originali. Credo che Sostenere l’imprenditorialità sia un titolo importante, perché non vuol dire sostenere le imprese. Sostenere l’imprenditorialità è qualcosa di diverso, bisogna fare riferimento ad una qualità, ad un atteggiamento, a un modo di porsi nei confronti della realtà, a un qualcosa che è dell’imprenditore ma che non è soltanto dell’imprenditore, può essere di tutti coloro che a vario titolo collaborano e operano nell’impresa. Può essere patrimonio nella professione, nel modo di fare attività di servizio nei confronti di altri. Quindi, sostenere l’imprenditorialità penso sia uno dei modi per ripensare anche le relazioni tra le banche e le imprese. Se il tasso di imprenditorialità è elevato, certamente la relazione è facile, se l’imprenditorialità è calante e cedente, sia dal lato della banca, sia dal lato delle imprese, il rapporto diventa sicuramente più complesso, più difficile. Ci può essere un tentativo da entrambe le parti di scaricare in qualche misura responsabilità e rischi sull’interlocutore, piuttosto che lavorare e collaborare insieme verso obiettivi di comune soddisfazione. Questa, credo sia la risposta, perché in realtà, come è stato detto, forse il nostro Paese ha bisogno che si sostenga l’imprenditorialità. Gli ultimi dati di Dardanello ce lo confermano.
La numerosità delle imprese è elevata, ma il fatto stesso che aumenti l’anzianità nelle imprese e soprattutto che le nuove imprese siano appannaggio non più dei giovani, è qualcosa di importante, di significativo. Il livello di imprenditorialità nel nostro Paese ha evidentemente bisogno di essere sostenuto. Perché è calato? Perché, in un Paese di imprenditorialità diffusa, non c’è un’imprenditorialità intensa? Io credo che le ragioni siano più d’una: probabilmente manca, nei confronti dell’imprenditorialità e di questa struttura imprenditoriale italiana, fatta di piccole e medie imprese, un giudizio positivo, un giudizio di valore condiviso a livello politico. Non c’è ancora. Ogni tanto, per ragioni elettorali, vengono fatte da più parti considerazioni di questo tipo, ma a livello di classe dirigente è chiara ancora, a mio avviso, la propensione per il modello della grande impresa, per gli uomini della grande impresa, per i valori della grande impresa, a scapito di quella che è la realtà del nostro sistema produttivo. Un secondo aspetto riguarda anche la declinazione eccessivamente finanziaria, dal punto di vista culturale, che c’è stata dell’imprenditorialità. Se valutiamo le imprese solo per quello che guadagnano, è evidente che questo non favorisce una percezione positiva dell’imprenditorialità: Se non valutiamo tutte le imprese per quello che fanno, per quanto crescono, per quello che significano, per i loro clienti, per i loro fornitori, per i loro collaboratori, ma le valutiamo solamente per quello che hanno guadagnato a fine anno, è evidente che anche questo tipo di cultura e di giudizio alla fine deprime una sensazione e una diffusione positiva dell’imprenditorialità.
E infine, indubbiamente, siamo una società che in qualche misura è vittima anche un pochino del proprio successo, della propria generazione di imprenditori, manca un po’ la fame di diventare imprenditori. Nel nostro Veneto, quando ero un ragazzo negli anni Cinquanta, Sessanta, la massima aspirazione popolare era di diventare paroni, era questo ciò che si voleva diventare. Se oggi andiamo a prendere i nostri studenti che escono dalle facoltà economiche, anche con i migliori curricula, hanno timore non solo di sposarsi e di avere figli, ma ancora più di diventar paroni, imprenditori, responsabili di se stessi e addirittura delle vite di altri. Quindi è molto più ricercato l’impiego fisso.
Allora, abbiamo bisogno di rilanciare la cultura imprenditoriale, perché questa dà senso, dà forza, dà futuro, dà fiducia, dà speranza – per usare le espressioni di questo Meeting – a qualsiasi tipo di progetto. Ed è vero che la nostra classe imprenditoriale oggi presenta un certo numero di imprese che questo tasso di imprenditorialità dimostrano di avere, in modo eccelso, a livello mondiale, che hanno vinto la sfida della crisi, dell’internazionalizzazione, della ricapitalizzazione, della responsabilità, ma è una minoranza. Non dobbiamo dimenticare che sono numerose le imprese che questa sfida non la stanno vincendo, che stanno portando i libri in tribunale o stanno portando in banca le insolvenze a livello definito, in un numero inusitato. Da qui, il rischio di avere un sistema imprenditoriale a due velocità, un sistema di imprenditoria diffusa dove però la velocità delle imprese si differenzia. Alla fine rischia di disgregarsi, quindi, ci vuole un giudizio di positività nei confronti dell’imprenditorialità.
Che cosa possiamo fare noi banche? Noi che lavoriamo in banca abbiamo sempre un certo difetto, andiamo dagli imprenditori a spiegargli come si fa il loro mestiere. Ultimamente, anche gli imprenditori ci spiegano come dovremmo fare il nostro, e allora val la pena talvolta ascoltarli. E ascoltando gli imprenditori, c’è un aspetto che mi ha fatto particolarmente riflettere. Recentemente siamo entrati nell’area dell’impresa e dell’imprenditorialità, anche dal punto di vista giuridico. Con la riforma bancaria, le banche – sostanzialmente delle istituzioni che esercitavano una funzione di interesse pubblico – sono state considerate imprese tout court. Uno dovrebbe pensare che essere diventate imprese voglia dire avere aumentato il livello di imprenditorialità. Cosa lamentano, invece, gli imprenditori nostri dirimpettai? Lamentano che i direttori delle filiali, negli anni Ottanta, Settanta o Sessanta, erano persone che davano risposte, che erano in grado di dialogare sulle tematiche delle imprese. Oggi invece sono burocrati che, nella migliore delle ipotesi, aggiungono un commento quando inviano alle macchine, o alle stanze superiori, le istanze creditizie di rinnovo o di erogazione di nuovi liquidi.
Paradossalmente, proprio quando le banche diventano imprese, i bancari diventano meno imprenditori di prima. Questo è un dato che viene spesso richiamato alle banche. Rispondere alla crisi, a mio avviso, vuole dire anche questo: che il valore dell’imprenditorialità deve tornare ad essere diffuso, non deve essere soltanto appannaggio di tre o quattro super banchieri, superstar che vengono ogni tanto a Rimini, magari a raccontare cose molto interessanti. L’importante è fare diventare un pochino imprenditori e portatori di valori imprenditoriali i nostri uomini di filiale. Avere mille filiali che sono bravissime a vendere prodotti finanziari, ma che non sono capaci di dialogare con gli imprenditori, significa avere un’enorme capacità sul territorio ma non utilizzarla, perché in definitiva si assumono soltanto istanze che poi si passano a livello superiore.
Ripensare il modello, tornare a premiare l’imprenditorialità: non è semplice, perché il nostro Direttore di filiale viene spesso valutato su determinati risultati. E il credito non dato non è qualcosa che compaia nei sistemi di incentivazione o nei sistemi di premio, è un’opportunità persa. Ma un credito mal dato è un credito che si manifesta nei conti e nel giudizio che poi viene dato sull’uomo che ha assunto la responsabilità della decisione. Però, da lì dobbiamo passare, dobbiamo tornare a portare spirito di imprenditorialità diffusa nell’ambito delle nostre banche, delle nostre strutture che dialogano con gli imprenditori.
Al tempo stesso, dobbiamo pretendere imprenditorialità dai nostri interlocutori, che vuol dire capacità di credere nelle proprie imprese perché, in un momento difficile come questo, se non ci credono gli imprenditori, è difficile che ci credano le banche. Dobbiamo ricordare che le imprese si fanno con il capitale dell’imprenditore, non con il capitale bancario che va restituito: sono gli elementi basilari sui quali la nostra piccola impresa è nata. Ricordo sempre quello che mi raccontano, quando il Banco Popolare apriva le filiali negli anni Sessanta dove nascevano le piccole imprese. I nostri distretti sono nati in parallelo con la crescita delle nostre banche. Dobbiamo riscoprire quella voglia positiva di fare, quella capacità di dirsi tutto, di sapere quali sono i ruoli dell’uno e dell’altro. Dobbiamo, evidentemente, avere progetti condivisi e speranze, oltre che valori e riferimenti, comuni.

BERNHARD SCHOLZ:
Abbiamo detto che le banche sono diverse. Ringrazio molto Carlo Fratta Pasini per come ha esposto le specificità del suo sistema bancario e penso che la vicinanza delle banche ai bisogni degli imprenditori sia un valore importante per il futuro dello sviluppo economico. Andiamo invece sul sistema delle banche perché, pur nella diversità, ci sono fattori comuni che vengono rappresentati attraverso l’Associazione delle Banche Italiane, di cui abbiamo qua il Presidente. L’ABI è conosciuta dalla maggior parte delle persone attraverso i famosi Patti Chiari, dalle piccole e medie imprese attraverso la moratoria che adesso è stata prorogata e di cui parlava prima Giorgio Guerrini. Però adesso c’è un problema da affrontare: abbiamo parlato per tanti anni di Basilea 2, e zacchete!, ci troviamo davanti Basilea 3. Sarà un ostacolo, un’opportunità, un sostegno, un favore oppure una difficoltà ulteriore? Grazie.

GIUSEPPE MUSSARI:
Buona sera e grazie per l’invito. Condivido quello che ha detto il presidente Fratta Pasini, credo sia la giusta chiave di interpretazione del rapporto fra banche e imprese. E mi fa piacere che il presidente Guerrini dica che dopo la fase dei rapporti difficili, i rapporti sono migliorati, che abbia richiamato l’Avviso Comune. Insieme alle imprese, abbiamo fatto un grande lavoro nei primi due anni della crisi: grazie a questo lavoro comune, siamo riusciti ad attutirne l’impatto. La crisi si è manifestata in maniera violenta non tanto per l’entità quanto per la velocità. La velocità rispetto al tempo è stato un episodio nuovo, nuovo anche in maniera sconvolgente: ci siamo trovati ad affrontare una discesa particolarmente ripida. Quando sei in una discesa particolarmente ripida, l’unico modo per non schiantarti alla fine è cercare di ridurre la velocità. Avviso comune è stato un grande paracadute attaccato dietro ad una macchina che rischiava di schiantarsi: ne ha rallentato la velocità, facendole compiere questa discesa molto ripida e molto complicata, in condizioni di maggiore sicurezza.
Oggi, il problema che abbiamo è inverso, perché dopo la discesa c’è la salita. La salita è la ripresa. Abbiamo un problema di salita che, paradossalmente, è inverso a quello che avevamo nella discesa. Mentre nella discesa dovevamo rallentare il tempo, la velocità, nella salita abbiamo il problema di accelerare il tempo, di aumentare la velocità perché, in relazione a quanto ci metteremo a completare il gap che si è aperto, avremo o perderemo opportunità. Questo vale per il Paese, oltre che per le imprese e per le banche. Credo che con le imprese, da settembre, dovremo ragionare, non solo di Avviso Comune, che va bene, ma di come acceleriamo la salita, cioè di cosa abbiamo bisogno. Cosa ereditiamo dalla crisi? Ereditiamo conti più brutti, bilanci più complicati, governance che sono saltate, reading peggiorati.
Quindi, credito più difficile e più costoso. Dobbiamo cercare di trovare la soluzione giusta per rendere il credito equilibratamente facile e meno costoso possibile. Dobbiamo ragionare del sistema delle garanzie che c’è e del sistema delle garanzie che ci può essere perché, in termini di patrimonializzazione delle imprese, abbiamo messo in campo un fondo, insieme al Governo, insieme a Confindustria, per la ricapitalizzazione delle imprese. E’ un’arma, abbiamo probabilmente bisogno anche di un’arma diversa, di nuovo credito per finanziare la ripresa: sto parlando di cose nuove, non di garanzie sulle cose vecchie che abbiamo fatto. Probabilmente dobbiamo ragionare in termini di strumenti esistenti e di strumenti nuovi. Io non voglio svicolare la tua domanda, ma se non la inquadriamo in un contesto reale, ci perdiamo dietro astrazioni che lasciano poco in mano. Se è vera la discesa ed è vera la salita, è fuori tempo un provvedimento, per quanto mirabile, per quanto lungimirante, per quanto indispensabile, che rende più complicata quella salita e i rapporti tra banche e imprese.
La crisi ci lascia un vantaggio, sostanzialmente lo lascia a noi e al Canada, i due sistemi bancari che di fatto sono usciti indenni da questa situazione. Non che tutto si debba misurare a nostra immagine e somiglianza, sarebbe eccessivamente pretenzioso, però non è accettabile che sia il sistema che ha meglio resistito ad essere più penalizzato: c’è qualcosa che non mi torna, dal punto di vista logico. E allora, quello che abbiamo chiesto dopo le ultime modifiche, che pure abbiamo apprezzato, rispetto a questo nuovo quadro di Basilea 3, è stato di valorizzare la specificità degli attivi delle banche italiane, dei patrimoni che hanno retto meglio alla crisi. Abbiamo un problema di imposte differite, caratteristiche del nostro sistema, che non possono non essere considerate, come accade oggi.
C’è però un tema collegato a questo. Tu hai ragionato di Basilea 2 di sfuggita: credo che quell’ostilità di rapporti fra le banche e le imprese abbia una radice in Basilea 2 e nella incapacità delle banche e delle imprese di comprendere in quella fase che il loro rapporto si stava disintermediando, o meglio, che l’intermediazione del loro rapporto sarebbe stata sempre più condizionata e regolata da norme che non dipendevano dalla volontà delle banche e delle imprese. L’errore strategico che le banche e le imprese hanno commesso in quella fase è stato di non occuparsi direttamente della cosa. Ma non dopo: dopo abbiamo fatto tutti seminari, riunioni. Prima, nel momento della formazione. Mi spiego: io non ci sto a che tu regoli il mio matrimonio dall’esterno, voglio essere parte. Quando non mi va bene, non devo essere io che subisco.
Il tema vero è che, dentro questo ragionamento, gli interessi tra banche e imprese sono perfettamente allineati. Allora dobbiamo cominciare a pensare che quello che oggi qualcuno scrive, in ordine al patrimonio delle banche o al funzionamento dei loro bilanci, avrà un immediato riflesso sul rapporto banche-imprese, banche-famiglie. Ed è bene che banche, imprese bancarie ed altre imprese se ne occupino: abbiamo una posizione comune. Questo è lo sforzo che ABI vorrebbe fare: mettersi al servizio di tutto ciò e cambiare, non solo la qualità dei rapporti nell’intermediazione ordinaria. La ricetta è quella di Fratta Pasini: noi abbiamo migliaia di imprenditori sul territorio, dobbiamo ridare loro la voglia, l’orgoglio, la dignità di esserlo. E non abbiamo altro rimedio rispetto a questo. Vorremmo anche, in termini più generali, stare insieme ad imprese e famiglie per cambiare le cose. Tu hai ricordato Patti Chiari, che sicuramente è un’ammirabile iniziativa dell’ABI. Io chiedo ad ognuno di voi, come ho chiesto a te prima della preparazione dell’incontro, se qualcuno legge le carte che mandiamo ogni mese. Se trovo un volontario me lo porto a casa così me le faccio spiegare. La trasparenza è semplice oppure è un simulacro, una finzione in cui tutti pensiamo di avere fatto un compito più o meno bene, in cui tutte le cose sono formalmente rispettate, e in cui però la conoscenza di ognuno è rimasta quella di prima, cioè zero. Allora, il rapporto va cambiato, va capovolto: le regole, le informazioni servono a far capire quello che il cliente deve capire, non devono servire a nient’altro.
Credo che su questo possiamo fare un lavoro comune con consumatori e imprese, costruendo un modello di comunicazione e andando a proporlo a chi deve mettere tutti i timbri necessari. Se non cambiamo il modo di comunicare, e quindi il modo di percepirci reciprocamente, sarà sempre più complicato avere rapporti lineari, sia con famiglie che con le imprese. In fondo, quello di cui abbiamo bisogno per uscire da questa crisi, oltre alla velocità, è la responsabilità, la linearità. Responsabilità, perché ognuno deve offrire il meglio di sé in una fase in cui non ci si nasconde, una fase in cui la polvere sotto il tappeto gonfia immediatamente. Ci sono fasi in cui è possibile nascondersi, rinviare i problemi. Oggi, no. Oggi, rinviare un problema vuole dire farlo incancrenire, oggi è il momento di affrontarli, i problemi, di affrontarli responsabilmente e in maniera trasparente, in maniera lineare, ognuno dalla sua parte, ma ognuno convinto che l’altro stia lì per risolverlo, il problema, non per aggravarlo – le banche -, o per nasconderlo – l’imprenditore.
Dobbiamo recuperare un linguaggio, un modo di comunicare tra noi e un modo di comunicare con gli altri. Intanto parlando in italiano, che è una cosa positiva. Forzo un po’, però dentro questa crisi c’è anche un problema di linguaggi, e un problema di potere dietro i linguaggi; c’è un utilizzo di acronimi che segnano la relativa capacità culturale di chi ci ha portato a questo. Vi faccio un esempio: pigs. Come è possibile che un’espressione che in inglese significa maiale possa essere utilizzata per individuare quattro, cinque Paesi della Comunità Europea, e nessuno si sia mai ribellato a ciò dal punto di vista culturale? Non ho niente contro i maiali, ovviamente, ma nell’immaginario collettivo rappresentano qualche cosa che non è straordinariamente positivo. Non è che me la prenda con i pigs per ragionare della crisi. Ma credo che sia un segno di come chi vuole dare lezioni abbia probabilmente bisogno di tante buone letture, per migliorare la qualità del suo lessico e per scoprire che non è umano dare del maiale a nessuno.

BERNHARD SCHOLZ:
Grazie anche per questo ultimo esempio, perché è proprio vero che l’utilizzo del linguaggio è sempre espressione di una posizione culturale e di un certo potere. C’è anche un modo di parlarsi talmente incomprensibile che serve a nascondere quello cui tu hai accennato. Raffaello Vignali è l’autore principale, il primo firmatario, di una Proposta di Legge intitolata Norme per la tutela della libertà di impresa, che viene anche chiamata Statuto delle imprese, in analogia con lo Statuto del lavoro che, dopo 40 anni, verrà chiamato Statuto dei lavori. Questa proposta è stata firmata da 130 Parlamentari di diversi partiti, quindi è molto condivisa in Parlamento. Quali sono gli elementi principali di questo Statuto, che vuole favorire e valorizzare le imprese?

RAFFAELLO VIGNALI:
Grazie, intanto vorrei partire dal dato principale che emergeva lo scorso anno nel Rapporto della Fondazione per la Sussidiarietà su Sussidiarietà e piccole imprese, proprio parlando di sostenere l’imprenditorialità. Perché dagli imprenditori veniva questa risposta: quello che ci interessa non sono i sussidi pubblici, quello che ci interessa è poter fare il nostro mestiere. Chi mi ha preceduto ha detto giustamente che siamo il Paese con il più alto tasso imprenditoriale del mondo. Questo è un primato invidiabile, abbiamo un numero di imprenditori tre volte più alto rispetto alla media europea. Però è vero anche che siamo uno dei Paesi in cui è più difficile fare impresa, e credo dipenda innanzitutto da una ragione culturale, quella selva di norme, di vincoli, di lacci e laccioli che nascono da una visione negativa dell’impresa, ma soprattutto degli imprenditori. Come dice giustamente il mio commercialista: “Ho sempre detto, in quarant’anni di onorata carriera, che non ho mai incontrato una persona giuridica, solo persone fisiche, perché le imprese sono fatte di persone”. Certo che se uno pensa che gli imprenditori siano tutti per definizione ladri, evasori, sfruttatori, tende a fare le norme per evitare le truffe, col risultato che chi vuole truffare, truffa lo stesso, e chi vuole fare le cose secondo le regole poi si trova imbrigliato.
Io parto invece dall’idea che fare impresa abbia molto a che fare con il titolo di questo Meeting: chi fa impresa lo fa innanzitutto per una tensione ideale di costruzione e di ricerca del bene, per sé, per la sua famiglia, per il territorio. Qualcosa che ha a che fare con la realizzazione di sé e che, come conseguenza, costruisce il bene per sé e per tutti. La prova è che il PIL e l’occupazione, che sono i dati con cui noi misuriamo l’andamento di un Paese, li fanno le imprese e non i Governi. Per questo, per sostenere la ripresa, bisogna sostenere l’imprenditorialità. Mi verrebbe anche da fare una nota, un passaggio veloce, poi passo subito allo Statuto: uno degli errori di Basilea 2 è che riduce l’impresa, perché pensare che l’impresa equivalga al suo bilancio, è come dire che uno sposa una bella donna perché ha un bello scheletro. Invece, può essere una bellissima donna perché è fatta di carne, di sangue, di muscoli, di un cuore che pulsa, non soltanto di uno scheletro. Questo è il problema vero, non ridurre la portata che le cose hanno, soprattutto quando le cose non sono cose ma persone.
Lo Statuto si pone l’obiettivo di fare due rivoluzioni, che sono i due problemi cui accennava prima il presidente Fratta Pasini. Primo, passare dal sospetto verso chi fa impresa alla fiducia. Non più una legislazione basata sul sospetto verso chi fa impresa, ma che dice: mi fido di te, ti aiuto, anzi, faccio il tifo per te. Secondo, e uso un’espressione che ha usato il Ministro Sacconi due anni fa, all’Assemblea di Confartigianato. Ha detto: “Abbiamo sempre detto che quello che va bene alla Fiat – cioè alla grande impresa -, va bene all’Italia. E’ venuto il momento di dire che quello che va bene ai piccoli, va bene all’Italia”. Cioè, prendere atto finalmente che il 99% delle nostre imprese sono micro piccole e medie, non grandi, mentre invece abbiamo norme pensate per le grandi e fatte applicare nello stesso modo ai piccoli.
Quindi, lo Statuto delle imprese si pone esattamente l’idea di creare un corpus di diritti per chi ha avuto finora soprattutto doveri, anzi, quasi solo doveri. Faccio qualche esempio, così ci capiamo. 1) diritti verso lo Stato e la Pubblica Amministrazione: ad esempio, che le norme che regolano l’impresa siano pubblicate e chiare. Un esempio che cito sempre è quella che chiamo l’odissea del rubinetto: nel bagno dei dipendenti, uno mette un rubinetto normale. Arriva l’ASL e dice: “No! Ci vuole quello con la cellula”. Poi arrivano i Vigili del Fuoco e dicono: “No, ci vuole quello a pedale”. Poi arriva quello dell’ARP e dice: ”No, ci vuole quello che si chiude col gomito”. Allora uno deve decidere, o da chi prende la multa o a chi paga la mazzetta. Si può scrivere prima, per favore, come deve essere il rubinetto nel bagno dei dipendenti? Uno lo sa e mette quello! Basta che non scrivano che deve essere d’oro. Ma per il resto, ditecelo prima!
Altro esempio, la certificazione privata sostitutiva del controllo pubblico. Se uno ha la certificazione, perché bisogna fare il controllo? La certificazione esiste proprio per evitare di fare i controlli censitari. Semmai, lo Stato controlli il controllore, cioè chi certifica: tra l’altro, questo fa anche risparmiare allo Stato e fa crescere nelle imprese una cultura della certificazione, che invece aiuta. Oppure: quando c’è una risposta negativa dalla Pubblica Amministrazione deve essere motivata, ma la motivazione scritta non deve essere imputata ad un’inadempienza della stessa Amministrazione: non abbiamo fatto ancora il tale piano. Non vale, perché quando io devo pagare le tasse, non posso dire: “aspetta che raccolgo le fatture, mi manca il tal documento”. No, lo fai prima. E’ un principio di reciprocità tra Stato e imprese. Poi, i diritti verso il Fisco. Su questo ci sarà un po’ da litigare con Giulio Tremonti: dopo vi dico a che punto siamo con la lite. Però, anche rispetto alle cose che sentivamo prima dagli amici delle banche, non possiamo continuare a trattare allo stesso modo gli utili che vengono reinvestiti e gli utili che vengono portati fuori dall’azienda. Ci vuole una differenziazione per gli utili reinvestiti in capitale economico, finanziario, capitale umano, tecnologico, internazionale, anche perché sono gli imprenditori che sanno dove devono reinvestirli, non deve essere la politica a dirlo.
C’è quello che deve rinforzare il capitale e quello che deve prendersi il laureato qualificato, e quello che deve investire su una persona che lo aiuti ad esplorare i mercati fuori casa. Che ci siano forme semplificate di detassazione per le piccole imprese, che ci sia un tetto massimo all’imposizione fiscale. Perché Guerini diceva che, fino al 30 giugno, uno lavora per lo Stato e poi comincia a lavorare per sé. Magari fosse così, Giorgio! Perché la media delle tasse fa 42, ma è un po’ come il pollo di Trilussa: uno che ne ha due e uno che non ne ha nessuno. Perché, se, come hanno pubblicato alcuni giornali, la tassazione delle grandi imprese, dei grandi gruppi industriali, delle imprese quotate in borsa è del 26, quello che manca tra il 23 e il 42, qualcuno dovrà metterlo. Vuole dire che c’è qualcuno che paga il 70, di media.
Poi, minori oneri per le micro, le piccole e medie imprese: questo è un altro principio dello Small Business Act. Facevo prima un esempio: non è possibile che il negozio di telefonini abbia le stesse norme della privacy di Telecom, di Tim, di Vodafone o di Tre; che, dal punto di vista dei rifiuti tossici, la parrucchiera sia equiparata a un ospedale, perché le lamette sono un rifiuto sanitario, e a un impianto chimico, perché le tinture sono un prodotto chimico. Ci sarà una proporzione nelle cose. Bisogna usare un criterio di proporzionalità, di sostenibilità e di appropriatezza. Un imbianchino è considerato un trasportatore di sostanze tossico-nocive. Calma, bisogna che ci sia un rapporto.
Poi, per le nuove imprese, lo dico velocemente con un’immagine: se Bill Gates nasceva in Italia, Microsoft non sarebbe mai esistita: provate ad aprire un’impresa in un garage, e vedete cosa vi succede. C’è la fila di quelli che vengono a chiuderla. Probabilmente abbiamo ucciso una serie di Bill Gates! Poi abbiamo inserito una norma sui pagamenti: non riguarda lo Stato, ma sostanzialmente diamo all’antitrust gli stessi poteri, anche nel rispetto dei tempi di pagamento – questa è un po’ cattiva ma va fatta, visto che non c’è norma meno applicata di quella del rispetto dei tempi di pagamento -, non solo tra lo Stato e l’impresa, ma tra impresa e impresa. È ora di mettere qualcuno che possa finalmente picchiare su questo!
C’è l’ipotesi della creazione di un’Agenzia per le piccole e medie imprese e di una Commissione Bicamerale Permanente che, su ogni provvedimento che riguarda le imprese, faccia la cosiddetta “prova PMI”, cioè valuti l’impatto delle norme sulle piccole e medie imprese, prevedendo oneri minori e tempi di adeguamento più lunghi, proprio per attuare questi principi. La stiamo affrontando in Commissione, ma i firmatari sono diventati 150 perché stanno aumentando le firme di tutti i partiti. Abbiamo fatto audizioni vere, sono venuti gli amici di Rete Italia ma anche gli amici di Confindustria, di Piccola Industria, di Unioncamere. Al ritorno, a settembre, voteremo gli emendamenti, avremo il parere della Commissione e poi si andrà in Aula. Se tutto va bene, come speriamo, se non succedono cataclismi prima, l’avremo approvata entro l’anno. Credo che potrebbe essere un bel regalo di Natale. Potremmo approvarla all’unanimità, anche perché non credo che dobbiamo avere paura di essere uniti, quando facciamo cose che sono nell’interesse reale del Paese, in questo caso delle nostre imprese.
Perché le divisioni, quando sono sul nulla, non aiutano molto: e i segnali da questo punto di vista sono positivi perché c’è il sostegno di tutti. Lo Statuto è uno strumento, sono state fatte anche diverse altre cose, in questi mesi. Questo è uno strumento che nasce dall’osservazione della realtà, dall’esperienza di frequentazione con tanti imprenditori, con tanti di voi che hanno sollevato diversi problemi. Sono convinto che le energie per la ripresa non stiano nei bilanci nello Stato – per carità, se ci possono essere un po’ di soldi pubblici, che aiutano, non fa male – o in più regole: meglio poche regole buone che tante e troppe regole cattive. Però, le energie per la ripresa non stanno in questo: stanno nella tensione dei nostri 6 milioni di imprenditori che ogni giorno mettono se stessi in quello che fanno e nelle persone che lavorano con loro, per fare cose belle che piacciono al mondo. Per questo credo che, a quarant’anni dallo Statuto dei Lavoratori, promulgare lo Statuto delle Imprese sia innanzitutto un atto dovuto, non nel senso del dovere ma nel senso della gratitudine verso questi 6 milioni di persone che ogni giorno contribuiscono a creare il PIL e l’occupazione nel nostro Paese, cioè il benessere vero per tutti.

BERNHARD SCHOLZ:
Grazie, Raffaello. Visto il tempo, pongo una domanda finale a tutti e chiedo di rispondere in due parole. Che cosa avete imparato dalla crisi? Facciamo di nuovo il giro. Giorgio Guerini.

GIORGIO GUERINI:
Io vorrei che avessimo imparato a ritrovare lo spirito dei nostri padri, che hanno fatto davvero cose grandi. Il nostro Paese, dal dopoguerra, vinto e tra le macerie, a vocazione soprattutto agricola, ha saputo diventare in pochi decenni la sesta potenza industriale del pianeta. Bisogna ritrovare lo spirito di voler fare cose grandi, perché io non mi rassegno a vivere in un Paese che cresce mediamente la metà del resto d’Europa. Non mi rassegno. Alla conclusione di questa crisi, altri Paesi europei, che forse avevano un paracadute un po’ più piccolo del nostro, hanno cominciato la salita, spingendo. La Germania, la Francia, l’Inghilterra. Riprendo volentieri la suggestione della discesa col paracadute che ha fatto Mussari, perché rende in maniera fisica quello che sta succedendo adesso. Noi abbiamo aperto il paracadute per fare la discesa, siamo arrivati in fondo e abbiamo cominciato a fare la salita col paracadute aperto.
Allora, se qualcuno non lo taglia, questo paracadute, è una tragedia. Perché stiamo perdendo, nei primi mesi di quest’anno, le posizioni del gruppo. Io qualche volto ho avuto la possibilità di andare in bicicletta. Se perdi il gruppo, non lo riprendi più. Fai una fatica bestiale a riprenderlo. Dobbiamo stare attenti, perché in questo preciso momento stiamo perdendo il gruppo, perché la Germania cresce tre volte più di noi, la Francia più di noi: le stime di questi giorni sono una crescita dello 0,6 %. Non è un PIL, prodotto interno lordo, è un PIL, prodotto interno lento. Ma è lento perché c’è questo paracadute che ci frena. Allora, bisogna tagliarlo, il paracadute: sono convinto che la voglia, la spinta, la determinazione delle imprese italiane sia tale da recuperare il terreno perduto. Ma se uno gareggia una gara ciclistica con il paracadute dietro, quando arriva la salita è difficilissimo. La cosa che ha detto prima Raffaello è importantissima: creare la cultura di impresa, a 40 anni dallo Statuto dei Lavoratori, è un segnale importantissimo. Poi, bisogna rivedere anche lo Statuto dei Lavoratori, perché l’Italia degli anni ’70 non è l’Italia di oggi.
Vedo che questo desiderio di fare cose grandi purtroppo viene meno, perché ogni volta che andiamo a toccare qualche diritto acquisito, qualche privilegio acquisito, si mettono tutti contro, e il futuro non lo agganciamo con una fiscalità che penalizza il lavoro e fa vincere la rendita speculativa. Il futuro non lo agganciamo con uno Statuto dei Lavoratori che è di 40 anni fa. Il futuro lo agganciamo con il coraggio del buttare il cuore oltre l’ostacolo. Cerchiamo di fare cose serie, soprattutto per il bene comune, ritroviamo lo spirito che ha animato questo Paese dagli anni del dopoguerra fino a una decina di anni fa.

BERNHARD SCHOLZ:
Grazie. Ferruccio Dardanello, due parole.

FERRUCCIO DARDANELLO:
Vorrei portare qualche numero che serva a dare un po’ di fiducia e di ottimismo. Sono i dati delle nuove imprese del primo semestre, che stanno rimettendo in moto il meccanismo dell’imprenditoria. Abbiamo vissuto semestri e trimestri dove il saldo era assolutamente negativo. Questo 2010 inizia con un saldo positivo nei primi 6 mesi, con questo trimestre ci sono circa 50.000 imprese in più. Ci sono circa 50.000 che hanno buttato in qualche maniera il cuore oltre l’ostacolo e stanno credendo nell’imprenditoria, che stanno trovando nelle imprese una soluzione per portare risposte anche alla propria vita, al proprio futuro, alle proprie possibilità. Credo che togliendo questo paracadute, semplificando un po’ la vita delle nostre imprese, rendendo più disponibile il credito per scommettere sulle proprie idee, dando valore all’uomo, alla persona, alla famiglia, per noi ci saranno ancora stagioni vincenti sulle quali disegnare il futuro.

BERNHARD SCHOLZ:
Grazie. Carlo Fratta Pasini.

CARLO FRATTA PASINI:
Credo sia difficile dire cosa abbiamo imparato. Abbiamo imparato che siamo, nostro malgrado, diversi dagli altri, e che quando scimmiottiamo modelli di sviluppo che vengono da altri Paesi, con una struttura produttiva e una bilancia pubblica molto diversa, non otteniamo grandi risultati. Quindi, dobbiamo prendere atto della nostra diversità, della nostra specificità, e in qualche misura cercare di fare leva su questo. Il che significa, credo, per il futuro, che questa nostra diversità ha consentito di attutire, forse meglio di quanto è successo ad altri, gli effetti della crisi. Significa che quelli che erano percepiti come dei limiti – il fatto che le imprese si confondessero con le famiglie, le famiglie meno indebitate d’Europa – hanno consentito alle nostre piccole imprese di resistere, ma anche che senza riforme strutturali non potremo agganciare in modo significativo la ripresa.
Non abbiamo purtroppo una finanza pubblica che ci consenta di mettere in campo il sostegno che in altri Paesi – dalla Germania alla Francia, alla Spagna – si sta profondendo sulla economia, l’unica leva che possiamo utilizzare è quella fiscale. È ora di pensare che la leva fiscale non si può più utilizzare con provvedimenti così opportunistici, la fiscalità va ripensata in funzione dell’imprenditorialità. Non possiamo più accettare che, nell’ambito della stessa categoria di contribuenti, le aliquote effettive siano così dispari tra coloro che pagano e coloro che non pagano. Non possiamo accettare che la rendita più stupida – dal terreno edificabile al terreno che diventa scavabile – sia passata dallo 0 al 4% nel nostro Paese, e che invece il lavoro e la rendita di impresa sia tassata a più del 50%. Credo che non ci possiamo più permettere questo tipo di cose, anche se a qualcuno possono fare comodo. Il sospetto che viene è che siano tassate poco in modo da andare in qualche misura divise, ma questo è peggio ancora.
La situazione fiscale attuale fa sì che si paghino le imposte sui redditi che non si fanno, creando la base imponibile virtuale: capisco che per un anno o due sia necessario fare pagare le imposte anche sui redditi che non ci sono, ma le banche sono un po’ più avanti, abbiamo detto che sono cattive, quindi facciamo pagare le banche anche sugli utili che non fanno più. Va a finire che coloro che pagano le imposte, non solo le pagano su tutto quello che guadagnano, ma pagano anche su quello che non guadagnano. Se è una situazione di emergenza, che come tale va tollerata, non possa però diventare strutturale. Non è con questa struttura fiscale che si aggancia la ripresa, questa è una struttura fiscale che deprime la voglia di intraprendere, la voglia di rischiare, la possibilità di fare impresa in questo Paese.
L’altro grande campo: apriamo le porte all’impresa sociale in tutte le sue espressioni, facciamo meno spesa pubblica e più impresa sociale. Le Regioni che lo hanno fatto ne hanno avuto un beneficio concreto, importantissimo. Non possiamo ignorare che ci sono esperienze positive, dove determinati pezzi di spesa pubblica sono diventati impresa sociale, con benefici importantissimi per la spesa pubblica complessiva. E non possiamo più permetterci un approccio normativo, come è stato detto, che aggiunge. Se la legge è sempre un aggiungere, e mai un togliere, non ne usciamo: basterebbe mettere il vincolo che, perlomeno, quando si tratti di materia di impresa, ogni nuova norma ne tolga tre. Non sarebbe difficile ottenere un risultato, ma dobbiamo riformare, non possiamo più aggiungere: la normativa che continua ad aggiungere norme è un ciarpame, un paracadute aperto, chiamatelo come volete, che non abbiamo più la possibilità di portarci dietro.

GIUSEPPE MUSSARI:
Io ho imparato che bisogna rispettare il tempo: se offendi il tempo, il tempo si vendica in maniera diabolica.

RAFFAELLO VIGNALI:
Spero almeno che impariamo realmente che la famosa anomalia italiana, di cui abbiamo sentito parlare con disprezzo negli anni scorsi, non è un handicap ma una virtù. Il nostro sistema di piccole, micro, medie imprese è un punto di forza e non è un punto di debolezza: se c’è un errore, non è nel nostro sistema ma nel fatto che non ci crediamo e non lo difendiamo. Permettetemi anche un accenno polemico verso una parte del Governo. Prima Guerini accennava alla vicenda del Made in Italy. Ha ragione, non si può dire, come ha detto chi ha la responsabilità dei rapporti con la Comunità Europea e sul commercio estero: “Fatalità, l’Europa è contro!”. Lo sapevamo, ma non vuol dire che non dobbiamo combattere, se crediamo nel nostro sistema. E non si può rinunciare a fare le battaglie anche per cambiare le regole a Bruxelles, anche perché le regole di Bruxelles non sono scolpite nel cielo, si possono rivedere. Però bisogna essere decisi: io avrei voluto che questi due colleghi, e anche amici, dedicassero più tempo, a Bruxelles, a difendere il Made in Italy, che non a fare qua quel teatrino che, francamente, stanca molto anche me, che pure da due anni faccio questo mestiere.

BERNHARD SCHOLZ:
Dico quello che ho imparato io, stasera: in questa società civile ci sono persone capaci di parlare con linguaggio chiaro, di avere le idee chiare, di assumersi la responsabilità di essere trasparenti. Così andiamo avanti. Buonasera.

(Trascrizione non rivista dai relatori)

Data

23 Agosto 2010

Ora

19:00

Edizione

2010

Luogo

Sala A2
Categoria
Focus