Chi siamo
SI PUÒ VIVERE COSÌ
Partecipano: Marco Lucchini, Direttore Fondazione Banco Alimentare Onlus; Marcello Perego, Direttore Banco Farmaceutico; Stefano Sala, Presidente Banco Informatico. Introduce Mario Molteni, Docente di Economia Aziendale all’Università Cattolica Sacro Cuore di Milano.
MODERATORE:
Bene. Buongiorno a tutti. Scusate per il lieve ritardo dovuto all’incontro precedente. Molti di questi incontri Si può vivere così sono stati caratterizzati dalla presenza di nostri amici internazionali, oggi invece parliamo di esperienze maturate nel contesto del nostro Paese. Storie di protagonisti, di persone semplici come noi, che si sono trovate in circostanze che li hanno portati ad una insolita creatività. Non anticipo i fatti che loro ci descriveranno, ma vorrei sottolineare tre cose che mi hanno colpito guardando la loro esperienza. Innanzitutto sono e lo potremo constatare, tre opere che nascono dalla attenzione. Da una grande attenzione, un’attenzione ai bisogni fondamentali delle persone, perché si tratta dei bisogni di mangiare, di guarire, dei bisogni di comunicare che nel contesto come il nostro è sempre più un bisogno primario, determina la qualità della vita e dall’altra parte una attenzione alla presenza di cose, addirittura di rifiuti, di problemi che potevano diventare, che potevano essere valorizzati. Quindi questa attenzione.
Seconda cosa: è interessante che questa attenzione affettiva, perché è un’attenzione attenta, che vuol bene alle persone che ha davanti, fa diventare allora le cose, i rifiuti, risorse. E’ bellissimo perché sono tre casi in cui delle risorse che potrebbero andare disperse, che potrebbero appunto costituire un problema, per chi le ha, diventano fonte di risposte a certi bisogni. E quindi è interessante perché fa capire come la carità sia innanzitutto un fatto di intelligenza, un fatto di creatività. Un’intelligenza che poi porta all’azione, che porta alla realizzazione, ma scatta proprio come un guizzo di genialità. Quindi che la carità inizi come intelligenza è molto interessante e lo si vede in queste esperienze. E la terza cosa è che una carità così creativa, così bella è qualche cosa che contagia e allora sono e lo vedremo, esperienze che nascono in un punto ma coinvolgono sempre più persone. Sono esperienze tra l’altro che coinvolgono anche le imprese. Io come vedete dalla mia presentazione sono uno che si interessa di management, di imprese, ed è interessante che tutte queste iniziative, queste opere che andremo a vedere, sono iniziative che hanno mosso sia le persone, sia proprio le imprese come istituzioni. Perché? Perché le imprese sono fatte da uomini e questi uomini sono, come ciascuno di voi, fattori che sentono, che sono attratti dal bello, costituito dall’incontro con l’altro, dal dare una risposta all’altro. Quindi, una carità che contagia persone, imprese e che pian piano tende ad andare altrove, perché sono esperienze che nascono nel nostro contesto, ma che stanno già comunicandosi, essendosi replicate, adattate in altri contesti, in altri paesi, anche lì incontrando. Quindi un’attenzione, un’attenzione creativa, un’attenzione che contagia. Abbiamo pensato di fare così, semplicemente di dare la prevalenza ai fatti, ai racconti dell’esperienza e questo è il primo giro, un secondo giro velocissimo finale, invece, sarà anche un giro che ci consentirà di coinvolgerci ulteriormente, personalmente rispetto alle opere che verranno presentate.
Nel ringraziare i nostri relatori io cederei immediatamente la parola a Stefano Sala, Presidente del Banco Informatico.
STEFANO SALA:
Vi ringrazio di avermi invitato a raccontare la storia del Banco Informatico. Sono un po’, come dire, un po’ timido a raccontare questa storia che è forse la più recente dei Banchi che ascolteremo oggi e che di fatto, come diceva il prof. Molteni, nasce proprio dall’osservazione di alcuni fatti che la realtà mi ha posto davanti e dalla mia adesione personale rispetto a un desiderio di utilità che io nella vita ho sempre avuto.
Io ho sempre avuto il desiderio che la vita sia utile, compiuta ed è un desiderio che non si compie soltanto con la vita ordinaria del nostro fare normale. Mi è sempre rimasto dentro questo desiderio di utilità che nel tempo, nell’incontro appunto con la compagnia cristiana, si è proprio evoluto verso quello che mi è successo. Andiamo subito ai fatti. Siamo nel 2003, a quel tempo il mio lavoro era quello di essere Amministratore Delegato della Filiale italiana di una Società molto particolare, che si occupava di aiutare, assistere le aziende dopo problemi molto gravi, tipo allagamenti o incendi. Un settore molto di nicchia. In quel periodo la nostra azienda fu incaricata di salvare i dati dei computer dopo quel piccolo disastro aereo, che vi ricorderete, di quell’aereo da turismo che entrò nel Pirellone a Milano. In quel periodo noi fummo incaricati di salvare i dati dai computer danneggiati da questo crash e una volta salvati i dati il cliente ci disse: “Guarda, non ci interessa riavere indietro i computer. Dateci soltanto i dischetti con i dati, perché i computer li comperiamo nuovi”. E quindi io, in quel periodo, mi trovai ad avere nel magazzino dell’azienda che dirigevo un centinaio di computer. Anziché buttarli via, dissi: “Mah, teniamoli qui, non si sa mai cosa nella vita può succedere”. Caso volle che dopo pochi mesi, durante una vacanza, incontrai un sacerdote genovese che ci raccontò la sua storia personale: era andato a Lima a trovare un amico e quando era lì il suo amico morì. Allora il Vescovo locale gli disse: “Senti, stai qui un po’ per darmi una mano” e lì rimase lì tutta la vita e poi divenne anche Vescovo, tuttora lo è, di Lima.
Questo Vescovo mi raccontava che il problema in America Latina non era tanto quello di aiutare le persone con dei contributi in denaro, ma era quello di educarli, di educarli per esempio a una responsabilità economica e quindi decise di fondare una Facoltà di Economia e Commercio. E mi disse: “Ma guarda, l’unica sfortuna che abbiamo è che in tre anni abbiamo già qualche migliaio di studenti e soltanto una decina di computer”. Allora mi è balenata questa idea: “Ma guarda che, se vuoi, io ho 100 computer che ti posso donare”. Così, quasi inavvertitamente, è nato il primo servizio del Banco Informatico. Una sera a cena fra amici, raccontando questo episodio, un amico mi disse (quindi qui confesso pubblicamente che l’idea del Banco Informatico non è la mia): “Ma senti, perché non troviamo il modo sistematico di raccogliere dalle aziende i computer che cambiano, benché ancora funzionanti, non li rimettiamo a posto e non li doniamo a quelli che invece non hanno la possibilità di acquistarli?”. Così è nata l’idea del Banco Informatico. Molto semplicemente.
Allora, siamo nel 2003, abbiamo cominciato ad andare in un po’ di aziende a capire se questo poteva essere un’idea e ci siamo accorti di un altro fatto fondamentale, che era appena uscita una legge, in Italia, che sostanzialmente rendeva i computer obsoleti un problema per le aziende. Perché avrebbero dovuto, e tuttora è così, pagare per smaltirli. Un computer viene considerato un rifiuto speciale, per quanto non tossico e quindi, come tale, va smaltito a pagamento. Allora lì ci nacque l’idea, proviamo a proporre alle aziende: “Guarda, che se tu aspetti che il tuo computer finisca la sua vita e non funzioni più, devi pagare per smaltirlo, se invece quando lo stai per cambiare, quindi quando è ancora funzionante, decidi di donarlo alla nostra realtà, hai un risparmio economico”. Questa è stata la prima grande idea che ci è venuta facendo quest’opera. Quando si va a parlare nelle aziende, non bisogna accontentarsi delle briciole che cadono dalle loro tavole, ma si può dal mondo non profit parlare col mondo profit allo stesso livello, ponendo dei bisogni concreti e delle risposte concrete a dei bisogni che hanno le aziende. Poi nel tempo questo rapporto si è sviluppato, allora abbiamo cominciato a raccogliere i computer e, per esempio, ci siamo accorti di un fatto di cui non ci eravamo mai accorti, cioè che in un città come Milano, ci può essere a 100 mt. di distanza una grande Banca che decide di cambiare dei computer che hanno solo 2 anni di vita, perché i sistemi informativi nuovi chiedono delle potenze di memoria maggiori e magari, a pochi metri di distanza, c’è una cooperativa scolastica che non ha la possibilità di comprare i computer perché non ha i soldi per fare i corsi di formazione ai bambini delle elementari. Io, insieme ai miei amici, non abbiamo fatto altro che mettere insieme questi due fatti che abbiamo visto e così pian piano l’attività del Banco è partita proprio su questo punto. Voi sappiate che in Italia, non ci sono dati ufficiali, ma vengono buttati via ogni anno circa 10 milioni di computer. Di questo si stima che circa il 10% siano computer ancora funzionanti. Quindi io credo che oggi, che si parla tanto di environment sostenibility, come si dice, detto più banalmente, di problematiche ecologiche di sostegno, il primo contributo che si possa dare a questo tema sia quello di continuare ad usare le attrezzature fino a quando hanno la possibilità di essere utilizzate. Poi, durante il nostro lavoro, ci siamo domandati più volte con che criterio fare questo lavoro e una delle prime cose che ci siamo accorti nasce da un fatto dell’ esperienza mia personale, di vita ecc… Io quando andavo a scuola, nell’intervallo c’era qualcuno che vendeva le merende, le cioccolate ecc…, le caramelle, ecc…le merende. Allora quando si andava lì a comprarle, c’erano sempre le caramelle un po’ dure, un po’ attaccate, le cicche ecc…. Allora si diceva: “Ma scusa, ma perché le caramelle non sono buone?”. E ci veniva risposto: “Eh, cosa vuoi, son già qui gratis, cosa vuoi?”. No, un lavoro non profit ha la stessa dignità di un lavoro profit, ogni cosa che uno fa deve avere la dignità di un lavoro vero. Quindi ogni computer che esce dal Banco Informatico deve tentativamente essere perfetto, in modo tale che chiunque lo riceva possa riceverlo e dire: “Grazie, bello, funziona”. Quindi da questo è nato proprio un modo di fare questa attività, per cui abbiamo deciso, con un sacrificio anche importante, che ogni computer che ci veniva donato, per quanto ci fosse garantito che fosse funzionante, andasse testato. Allora ho chiesto a degli amici di aiutarci in questa attività di test. Oggi noi abbiamo una cinquantina di ragazzi, studenti di ingegneria, del liceo, delle scuole superiori, di fisica, di medicina che vengono a darci una mano, tutte le sere, dalle nove a mezzanotte, a mettere a posto i computer che ci donano. Questo ha anche fatto sì che nascesse un altro aspetto interessante. La più grande azienda di software nel mondo, vedendo questo nostro modo di lavorare ha detto: “Voi siete una realtà che può essere utile al mondo dell’informatica”. Per cui siamo diventati membri di un programma di carità internazionale per cui, per ogni computer che noi doniamo, ci viene donato un software originale da mettere nella macchina. Quindi, chiunque riceve un computer riceve già oltre alla macchina anche il software per farlo funzionare. Questo è stato un grande segno, per noi, perché ci ha aiutato a capire il valore di quello che stavamo facendo. Poi l’altro punto interessante è stato quello del rapporto tra il mio lavoro normale e questa opera di carità. Io adesso, come lavoro, sono un imprenditore, ho un’azienda che lavora nello stesso settore dell’azienda dove lavoravo prima e devo dire, come esperienza personale, che il fatto di avere contribuito a crescere, a far nascere quest’opera di carità, ha cambiato completamente il mio modo di fare la mia azienda profit. Mi sono accorto di un fatto decisivo: qualunque azienda, anche quella che faccio per vivere, quindi la mia azienda profit, deve avere come criterio fondamentale di fondo un gesto di gratuità. Se io voglio fare per davvero il mio lavoro profit, al fondo del lavoro ci deve essere uno sguardo di gratuità sulla realtà, per cui io rispondo ai bisogni dei miei clienti, dei miei fornitori, delle banche, ecc… partendo da uno sguardo attento e gratuito alla realtà, senza del quale non si riesce a fare neanche un’azienda profit. Quindi devo essere molto grato a questa esperienza del Banco che mi ha permesso di fare questa esperienza. Poi mi permette anche di fare il lavoro normale con una leggerezza e con una apertura dello sguardo totale ,che normalmente un lavoro profit non riesce a dare. Quando andiamo dalle aziende a parlare del nostro lavoro e a vendere i nostri prodotti, quasi sempre riusciamo ad avere una finestra in cui raccontiamo dell’esperienza del Banco ed è impressionante quante persone, quanti imprenditori, quanti manager, sentendo l’esperienza del Banco, hanno raccontato anche loro di questo desiderio di utilità che uno ha nella vita e magari non trova mai la modalità per esprimerlo. Per cui i più grandi benefattori del Banco oggi sono persone d’aziende che io ho conosciuto per lavoro. Come dice uno dei miei soci che con me ha fondato quest’opera: “Alla fine il profit e il non profit si fondono in questo desiderio di utilità e di gratuità di cui la nostra vita, il nostro cuore è fatto”. Poi vorrei raccontarvi di alcuni esiti di questo lavoro. Chiaramente, in questi pochi minuti, non posso raccontarvi tutto quello che noi facciamo poi, magari chi vuole, può anche venire a vedere al nostro stand cosa facciamo fino in fondo. Tra gli esiti che abbiamo raggiunto in questi primi anni di lavoro dovrei dir questo: prima di tutto, una cosa molto bella, è che quando molti dei miei colleghi hanno visto che, alla fine dell’orario di lavoro, noi ci fermavamo in alcuni a pensare come fare il Banco, come poterlo organizzare, alcuni di loro ci hanno cominciato a chiedere: “Ma, possiamo dare una mano anche noi?” Ed è stato bellissimo vedere che anche tra persone di qualunque tipo di esperienza, provenienza, ecc… di fronte al fatto di poter mettere in gioco questo desiderio di utilità, è nata un’amicizia oltre alla collaborazione professionale. Come dire, questo desiderio di utilità, che ci ha messo insieme, ha fatto come scorgere che, dietro questo desiderio di utilità, c’era come il desiderio di una compiutezza totale, che la vita fosse piena, completa, definitiva. Io credo che donare del tempo, avendo come scopo quello di approfondire questa domanda di utilità, sia il primo modo per scoprire qualcosa di più grande. Poi una delle ultime sfide è stata quella che alcuni degli amici che fanno con me il Banco ci hanno lanciato: “Ma noi già da un po’ di anni facciamo una attività simile anche per le apparecchiature degli ospedali, quindi aiutiamo degli ospedali in paesi in via di sviluppo cercando delle attrezzature che a loro servono, le tac, i radiografi, ecc…”. E allora mi hanno detto: “Ma perché non ci mettiamo insieme? Perché non facciamo insieme anche questa parte del lavoro?”. Io inizialmente dissi: “Guarda, proprio non ce la faccio. Già ho il mio lavoro di imprenditore, più questa attività del Banco che ancora mi prende, siamo appena agli inizi ecc…”, e dicevo: “No, non ci sta, è impossibile, non ci sta”. Poi però quando loro mi hanno raccontato come facevano questa attività, la cura con cui aiutavano questi ospedali, mi sono come commosso e ho detto: “Va bene, facciamola assieme”. Allora abbiamo cominciato a metterci insieme. Quindi addirittura il Banco informatico ha cambiato nome e oggi si chiama Banco Informatico Tecnologico e Biomedico. Aderire a un fatto che la realtà pone davanti, che mi commuove, che mi attrae, porta sempre dentro una promessa di bene, di compimento, stando alla quale, quella promessa si compie. Oggi le persone che fanno questa parte biomedicale sono diventate parte integrante del nostro lavoro e conducono con noi quest’opera in un modo grandissimo.
L’altro aspetto è proprio sulla conduzione. Io ho cominciato a far quest’opera come impeto mio, come vi ho raccontato oggi e poi pian piano, però, mi sono accorto che lo scopo grande di quest’opera non era soltanto quello di cercare di rispondere al bisogno di informatica che c’era nel mondo, ma attraverso questo poter dare testimonianza a tutti che, attraverso la risposta a questo bisogno, noi siamo vicini sul bisogno di totalità. Per cui il desiderio era comunicare questa grandezza di totalità da me incontrata e dai miei amici incontrata. Allora mi sono accorto che per una cosa del genere non potevo essere da solo. Allora ho coinvolto nella conduzione di quest’opera degli amici, non necessariamente degli esperti di informatica, ma degli amici con cui questa esperienza di totalità io avevo fatto. Da lì il Banco ha avuto una salto di qualità. Noi oggi ci raduniamo tutti i mesi, sempre come attività caritativa, per condurre questa attività e da lì si escono sempre, con un respiro più grande, idee, suggerimenti, possibilità di sviluppo che hanno smascherato che io potessi fare quest’opera da solo. Ultimo punto. Quello che è interessante, è che dopo quattro anni, l’attività è cresciuta, oggi doniamo circa 5000 computer l’anno. Abbiamo circa 150 volontari che ci aiutano a vario titolo. Abbiamo collaborazioni con degli Enti non profit importanti, quindi oggi, il Banco è, se voi lo veniste a vedere a Peschiera Borromeo, dove abbiamo il nostro laboratorio, quasi una piccola fabbrichetta non profit. Però anche oggi, dopo quattro anni di distanza, io credo che il termine di giudizio su come noi stiamo facendo quest’opera è sempre: “Che esperienza di carità stiamo facendo, facendo quest’opera? A che cosa stiamo portando le persone che lavorano con noi?”. E quindi, è stato impressionante vedere come tantissime persone hanno cominciato a darci una mano proprio a partire da questo desiderio di essere utili, che ciascuno di noi ha e partendo di quello ci hanno aiutato a crescere in quest’opera. Oggi l’opera esiste e funziona per il gran numero di volontari che fanno un’attività fantastica; ogni tanto alla sera, quando vado a casa dal lavoro, verso le otto e comincia il turno di testaggio dei computer dei ragazzi, rimango commosso dalla gaiezza e dalla leggerezza con cui loro vengono lì a fare quel lavoro e questo è un grande segno, per me, di responsabilità, di andare all’origine del perché abbiamo deciso di fare quest’opera, che è proprio quella di poter testimoniare a tutti la grandezza che abbiamo visto noi e attraverso la risposta a questo bisogno comunicare un po’ di più, la grandezza di risposta al bisogno di totalità che io ho incontrato. Per farvi vedere questo vorrei leggervi, per finire il mio intervento, due lettere tra le centinaia che riceviamo di persone che ci ringraziano dei computer che riceviamo. Una lettera è anche un po’ ironica, eravamo all’inizio, una lettera di tre anni fa, un prete missionario in Congo mi scrive così: “Carissimo Signor Stefano Sala, un caro saluto dal Congo con i migliori auguri per le Sante Feste Natalizie. La spero bene e con un cuore grande per aiutare le missioni. Purtroppo dei computer ricevuti dalla vostra associazione ne funziona solo uno e di cuore vi e ringrazio per il dono che ci avete fatto. I nostri giovani imparano in fretta”. Dal dolore che ho provato sentendo che solo uno dei computer funzionava, ma soprattutto dal ringraziamento, perché questo signore, questo sacerdote non si è lamentato dei tre PC che non funzionavano, mi ha ringraziato per quello che funzionava, da questo è cambiato il modo con cui noi ci siamo messi a testare i computer.
Poi l’ultima lettera, una delle ultime ricevute, che dice bene dello scopo per cui noi abbiamo fatto quest’opera. Dice così: “Gentile dott. Sala, abbiamo ricevuto i 20 PC che ella ha voluto donare tramite l’Associazione di cui è Presidente alla nostra Congregazione religiosa che, come già abbiamo avuto modo di spiegarle, verranno utilizzati in parte per avviare una nuova opera di carità nel campo della formazione di ragazzi con difficoltà motorie e in parte verranno utilizzati per sostituire quelli ormai decennali della nostra amministrazione. Non le nascondo la sorpresa quando i computer sono arrivati presso la nostra sede. La buona volontà con la quale i vostri volontari ci hanno aiutato a scaricarli, la cura dell’imballo, nonostante i computer fossero usati sembravano computer nuovi e poi la sorpresa, una volta attivati, di vederli subito funzionanti, senza dover fare intervenire ulteriormente altri tecnici. Noi spesso riceviamo regali da molti benefattori e ringraziamo tutti, tutto è dono del Signore, ma ogni tanto non siamo in grado di utilizzare quanto ci è donato perché troppo obsoleto. Ricevendo i vostri computer, invece, mi è tornato alla mente il vostro slogan: “Condividere i bisogni per condividere i bisogni della vita”, lo slogan del Banco alimentare. E’ proprio così attraverso il dono dei vostri computer, abbiamo sperimentato che il vostro scopo è quello di testimoniare a tutti che accogliere l’altro è possibile, perché Gesù ci ha accolto tutti e ci ha dato la gioia di comunicarlo. Vi incoraggiamo quindi sulla vostra strada e vi assicuriamo di pregare il Signore perché possiate farlo conoscere a tutti attraverso il vostro lavoro”. Grazie.
MODERATORE:
Grazie. Grazie Stefano. Cedo immediatamente la parola a Marcello Perego,
che è il direttore del Banco Farmaceutico.
MARCELLO PEREGO:
Buon giorno a tutti. Io mi chiamo Marcello Perego, faccio come lavoro il farmacista e nel tempo libero faccio il Direttore del Banco Farmaceutico. Anch’io come Stefano e come Marco voglio raccontare la storia di come è nato il Banco Farmaceutico, le origini, come si è sviluppato e soprattutto quali sono i fattori che in qualche modo, facendo questo tipo di esperienza, hanno arricchito la mia vita. Faccio un nota bene: spesso mi sentirete parlare al plurale, non è un errore, ma io non posso concepire la creazione, lo sviluppo e la presenza del Banco, se non ragionando e comunicando l’esperienza che faccio con i miei amici. E’ proprio realmente un’esperienza di comunione che in qualche modo ha caratterizzato l’origine, lo sviluppo e la presenza della nostra opera. Parto raccontando l’origine. Il Banco è nato circa nove anni fa, ed è nato assolutamente per caso, non per un progetto. Alcuni Enti su Milano che erano aiutati dal Banco Alimentare, hanno posto il problema di essere aiutati anche dal punto di vista farmaceutico, hanno portato questa richiesta alla Compagnia delle Opere di Milano e la Compagnia delle Opere di Milano ha girato questa richiesta a me e ai miei amici in quanto farmacisti. Devo dire che la nostra prima risposta è stata poco entusiasmante, perché abbiamo scritto una lettera di risposta in cui abbiamo fatto l’elenco delle ragioni per cui non era assolutamente possibile aiutare queste persone e perché la legislazione farmaceutica così troppo rigida impediva qualsiasi forma di aiuto. Questo è stato il primo approccio che abbiamo avuto. Fa ridere ragionando poi dopo su cosa è successo in questi anni e come tra virgolette è diventata grande la nostra esperienza. Però questo fatto, ovvero questa richiesta permaneva e in qualche modo, ogni tanto, riemergeva fuori e con i miei amici ci siamo posti il problema di riprenderla un attimino sul serio e di riprenderla in considerazione. In questo stesso periodo intanto era successo un nuovo fatto, eravamo diventati amici dei farmacisti di Milano e allora la prima cosa che ci è venuta in mente è stata: “Portiamo questo tipo di richiesta anche a loro, vediamo un po’ se è possibile collaborare insieme per una costruzione. E’ vero che c’è stata la prima risposta negativa ma essenzialmente noi abbiamo un desiderio di costruzione, cerchiamo di metterlo in comune”. Abbiamo fatto questo gesto e da questo gesto, poi stando a questa richiesta, immediatamente abbiamo trovato una comunanza di desiderio, persone che insieme a noi hanno preso sul serio questa risposta, perché capivano che, attraverso la possibilità di un lavoro, c’era la possibilità di una realizzazione, di rendere la vita più piena. Per cui prendendo innanzitutto questo desiderio che loro avevano, che era comune al nostro desiderio, abbiamo detto: “Ok. Su questa cosa cerchiamo di trovare una soluzione. Mettiamoci insieme per una soluzione”. Il passaggio successivo è stato quello di capire effettivamente questo bisogno. Abbiamo fatto un’indagine di mercato, abbiamo intervistato gli Enti su Milano e abbiamo capito che effettivamente questo bisogno c’era e allora muovendosi su questo bisogno è iniziata la fase di progettazione. Perché fino ad allora c’era da una parte il desiderio, però dall’altra parte mancava la parte di realizzazione, in che modo noi potevamo rispondere a queste persone. Anche qui voglio raccontare quello che è il fondamento su cui abbiamo costruito l’opera. Il fondamento su cui noi abbiamo costruito l’opera è stata una obiezione, una difficoltà. In quanto si tratta di un bene particolare, il farmaco è fortemente regolamentato. C’era il grosso problema che il farmaco è distribuito in Farmacia, primo vincolo e distribuito dal Farmacista, secondo vincolo. Quindi questo ci creava un grosso problema nel cercare di capire in che modo noi avremmo potuto ridistribuire il farmaco. Siamo stati bloccati per molte settimane su questo punto. Fin quando a un certo punto ci siamo detti: “Ok. Ma se il farmaco non può uscire dalla farmacia, utilizziamo le farmacie come nostro magazzino, utilizziamo quel canale che è così protetto e in qualche modo è una forma di garanzia”. Allora da qui è nata l’idea su cui abbiamo costruito l’opera, ovvero da una obiezione è nata, guardandola in un modo positivo, cercando il lato di costruzione, di vedere in che modo potevamo portare un punto che sembrava negativo a nostro favore. Tuttora quindi il Banco Farmaceutico ha una struttura logistica estremamente avanzata, perché abbiamo circa 3.000 magazzini in giro per l’Italia, quante sono le farmacie. Agevolando anche quello che è il punto di distribuzione, mettendo vicino e sul territorio il punto di distribuzione e il punto di raccolta. Questo volevo sottolinearlo perché da quello che sembrava una obiezione noi abbiamo costruito una positività. Il secondo punto che volevo raccontare e mi stupisce che in qualche modo l’abbia raccontato e accennato anche Stefano, e quindi mi colpisce una comunanza di storia e di come abbiamo risposto, è che in quel periodo c’era un sacco di scandali legati al farmaco, di associazioni che mandavano nei Paesi del Terzo Mondo farmaci che in qualche modo o non servivano, creando quindi dei costi sul territorio, o farmaci che non erano necessari, rotti, scatole aperte ecc… Immediatamente i miei amici, ragionando su qual era la modalità migliore per andare a raccogliere i medicinali, copiando il Banco Alimentare, ci è venuto immediatamente da pensare a una giornata di raccolta. Noi abbiamo detto: “Ma noi non possiamo fare così, noi siamo educati al fatto di avere attenzione al particolare, noi siamo educati all’attenzione alla singola persona, non possiamo assolutamente far così”, per cui s’è posto il problema: “che cosa ha voluto dire per noi rispondere al particolare, alla persona?”. Ha voluto dire portare un’attenzione rispetto a quello che era il bisogno dell’ente, andando all’interno dell’unica giornata di raccolta che noi facciamo, facendo circa mille raccolte diverse. Perché ogni ente ha una propria specificità, l’ente che aiuta i bambini evidentemente ha necessità dei farmaci per bambini, l’ente che ha rapporti con extra-comunitari avrà bisogno di determinate tipologia di farmaci, quindi il nostro lavoro è stato quello di rispondere al particolare, di andare continuamente, e questo lo facciamo tuttora, di andare a monitorare quello che è l’esigenza da parte dell’ente, in modo tale da fornire la lista della spesa alle farmacie per indirizzare la raccolta. Questo per noi ha voluto dire l’attenzione al particolare, l’attenzione alla persona, perché non potevamo concepirci in un modo, in un modo assolutamente diverso. Il banco poi nel tempo si è sviluppato, nel senso che siamo cresciuti avendo costituito il modello, replicabile sul territorio, siamo cresciuti, siamo cresciuti come presenza. Anche qui è interessante ragionare in che modo ci siamo sviluppati. Noi ci siamo sviluppati attraverso un metodo semplicissimo, un incontro tra persone che in qualche volevano condividere con noi questo desiderio di positività, questo desiderio di costruzione, in cui percepivano che fare un opera era la possibilità e un gesto concreto per entrar dentro nel reale, per poter capire fino in fondo di che cosa si è fatti, perché questo è l’intento educativo che noi abbiamo avuto. Per cui c’è stato proprio un dilatarsi di persone che potevano dare solamente due ore, di persone che hanno lasciato il lavoro per venire a lavorare con noi. Io devo ringraziare pubblicamente Margherita, senza la quale il banco non sarebbe quello che è adesso, perché lei ha lasciato il proprio lavoro all’interno di una multinazionale, seguendo il proprio desiderio su un punto che era ancora all’inizio, ha rischiato completamente. Questo rischio è stato un rischio condiviso, che ha fatto con me e altri amici, intravedendo una possibilità di realizzazione attraverso la costruzione insieme di un opera. Oppure persone che si sono assunte la responsabilità localmente, oppure che testimoniano che sono con noi, che condividono completamente quello che è la nostra proposta e quindi che non vanno in giro raccontando quanto sono bravi loro ma in qualche modo cercano di capire quella che è l’originalità della nostra esperienza e quindi ne parlano, diventano testimoni reali. Quello che mi colpisce ulteriormente è questo, che pian pianino noi ci siamo accorti e qua utilizzo un termine farmaceutico, qual era il principio attivo della nostra associazione. Il fatto che alla base della nostra associazione c’era realmente un’esperienza di gratuità, un’esperienza di gratuità e questo man mano che il tempo passava è come diventato una coscienza. Noi abbiamo impostato l’opera su questo aspetto, giocando completamente sulla libertà delle persone. Abbiamo una struttura limitata al massimo, proprio perché ci sembra più adeguato che ognuno possa fare un’esperienza diretta, accompagnata, che innanzitutto non venga sostituito da una struttura, perché quello che ho detto all’inizio, il metodo appunto dell’incontro, di incontrare delle persone che possano coinvolgersi, è un flusso lento ma che diventa assolutamente più ricco. Questo fattore della gratuità, noi l’abbiamo voluto esprimere anche in termini di “mission” dopo numerose discussioni e questo non è venuto subito. Ripeto è venuto dopo due, tre anni di esperienza, proprio perché è una storia, una maturazione, per cui a un certo punto abbiamo voluto metterlo con una evidenza. La nostra mission dice che lo scopo del Banco Farmaceutico è quello di aiutare le persone indigenti, rispondendo al loro bisogno farmaceutico, attraverso le realtà che sono presenti sul territorio, con un fine che è quello di educare l’uomo alla condivisione e alla gratuità. Dentro questa mission ci sono tre concetti che voglio brevemente esplicitare. Il primo è quello che si fa un gesto, il primo approccio è quello di imparare attraverso un gesto, lo facciamo valorizzando le reti che sono presenti sul territorio, con uno scopo che è quello della condivisione alla gratuità. Il gesto non è fine a stesso, il gesto è importante perché è l’occasione per approfondire le ragioni che stanno alla base e quindi per capire sempre di più, sempre di più quella che è l’esperienza che viene fatta attraverso un’azione. Quindi questo è stato un punto che è diventato un punto di maturazione, che pian pianino è venuto fuori, è venuto fuori nel tempo e questo diventa per noi anche il metodo con cui noi affrontiamo e ci mettiamo insieme alle persone, chiediamo alle persone di dare un po’ di quello che possono dare. Alle aziende che distribuiscono i farmaci chiediamo di darci degli spazi, alle aziende che attraverso i loro camioncini distribuiscono e fanno consegne alle farmacie, chiediamo di fare le consegne per noi, perché attraverso un gesto c’è la possibilità di imparare quando Dio vorrà. La cosa che mi colpisce è che all’inizio, quando abbiamo coinvolto i farmacisti, la loro preoccupazione era che in qualche modo potesse diventare realmente un fattore di educazione, di costruzione sul territorio, e dopo questi anni incominciamo ad avere i primi risultati di questi semi che abbiamo gettato. Ci sono farmacisti che mantengono un rapporto costante durante tutto l’anno con gli enti, partendo dalla giornata di raccolta, e abbiamo quindi enti che in qualche modo costantemente hanno rapporto con le farmacie sul territorio. Alcuni farmacisti, colpiti andando a conoscere l’ente, sono diventati volontari. Mi raccontavano quelli di “Cometa”, che la farmacista di Como che ha iniziato a fare il Banco Farmaceutico, conoscendo i volontari ha immediatamente capito che non bastava giocarsi solamente sulla giornata di raccolta, ma è andata ad aiutare direttamente l’opera. Oppure un altro fattore che mi colpiva, è in una lettera che ci scriveva un farmacista: “Io sono rimasto stupito – ci diceva il farmacista – della grandezza e della gratuità, della generosità, da parte della gente, è come se attraverso questo vostro gesto fosse venuto fuori il bello e la grandezza della gente, io vi ringrazio solamente per questo”. Queste sono delle brevissime testimonianze e comunque ci fanno capire che la ricostruzione sul territorio, la ricostruzione del tessuto sociale, è innanzitutto la ricostruzione di persone che in qualche modo sono cambiate. Concludo, sottolineando due altri aspetti che mi toccano personalmente, il primo è questo; che cos’e che mi ha arricchito attraverso questa esperienza? Innanzitutto il fatto, e sembrerà strano facendo un opera non profit anche se Stefano l’ha detto bene prima, che io ho imparato tantissimo da un punto di vista professionale, perché attraverso la possibilità di stare con altre persone, che ho conosciuto in questi anni, ho potuto imparare tantissimo, ho potuto realmente imparar tantissimo e quindi ringrazio l’esperienza che sto facendo, perché mi ha arricchito professionalmente, ha trasferito questa ricchezza anche rispetto al mio al mio lavoro, che è diventato più completo, ho potuto imparar tantissimo. Il secondo punto di cui ringrazio è l’amicizia. Perché l’amicizia? Perché iniziando a fare questo primo approccio, io sono diventato realmente amico con i farmacisti che ci hanno dato credito, con Paolo, poi, è un’amicizia che è diventata per la vita. Son diventato più amico con gli stessi miei amici che all’inizio hanno voluto condividere con me questa responsabilità, perché una cosa che auguro è quella di fare un’opera insieme ai propri amici, perché sporcandosi le mani, sporcandosi le mani, viene fuori il nostro lato positivo ma anche quello negativo. Per cui ha voluto dire in molte occasioni litigare, però c’è stato anche in molte occasioni lo sperimentare l’esperienza del perdono tra di noi, riguardarsi in faccia, rimettersi in discussione, capire che un particolare non poteva giudicare completamente quello che sei tu. Per cui in qualche modo, anche grazie a questo tipo di esperienza, l’amicizia con i miei amici si è completata, è diventata molto più profonda. Ultima cosa. Facendo il direttore, ho avuto l’occasione di sperimentare la grandezza di quella che è la carità, perché spesso noi siamo sempre abituati a mettere in evidenza il lato negativo dell’esperienza, io vi posso giurare che ho incontrato così tante persone che mi hanno commosso per questo tentativo piccolo e anche grande. Piccolo per strutture che sono piccolissime, ma c’è dentro lo stesso un desiderio di costruzione, di capire un significato, un desiderio reale di positività, fino a strutture che sono enormi e che in qualche modo hanno mantenuto una originalità anche dal punto di vista, dal punto di vista educativo, per cui mi viene da dire che questo spettacolo, che è accaduto e che accade, ha messo in evidenza che realmente c’è una sproporzione tra quello che io riesco a dare e quello che ricevo. Per cui mi vien proprio da ringraziare il Mistero, che attraverso questa disponibilità che abbiamo dato, ha centuplicato la grandezza e se io ci penso, non è legato solamente a una nostra capacità, per cui si capisce realmente che stare dietro a quello che accade nella realtà, poiché il protagonista vero è quello che fa accadere le cose, è sufficiente e poi tutto diventa più semplice e più grande. Grazie mille.
MODERATORE:
Grazie Marcello e a questo punto direi, il padre di tutti i banchi, nonno…(no mai) il Banco alimentare, il suo direttore Marco Lucchini.
MARCO LUCCHINI:
Si infatti ho questa posizione di sentirmi nonno, fino a qualche anno fa ero una novità, oggi, invece, i miei nipotini mi hanno superato e insegnano…scusate la voce ma ho preso proprio un brutto raffreddore…Permettetemi solo di non raccontarvi cosa fa il Banco, non è un atto di presunzione ma è anche perché i tempi ci chiedono di affrettarci e poi c’è lo stand che potete visitare. Invece fatemi dire che cosa ha voluto dire per me l’esperienza del Banco in questi venti anni, perché oramai il prossimo anno sono venti anni. Noi abbiamo cominciato nel 1989, cosi per scherzare, poi vi dico anche come, ma il primo impatto pubblico, diciamo, lo ricordo nel ’92, proprio qua al Meeting, quando venne il fondatore di tutti i banchi, o meglio della banca alimentare, perché lui la chiamò Food Bank negli Stati Uniti, parlo di John Van Hengel. Venne nel ’92 qua a parlare al Meeting. La prima cosa che vorrei dirvi è che questa esperienza nasce da un americano stranissimo, che faceva il playboy, che probabilmente aveva fatto qualcosa di esagerato ed è dovuto scappare dalla città dove viveva ed è finito a Phoenix in Arizona. Quindi ha poco a che fare diciamo con l’esperienza cristiana e ancor di più, se lo vogliamo dire, con l’esperienza del movimento di Comunione e Liberazione. A me ha sempre colpito questa cosa, perché riguardando la sua storia, e qua disse se qualcuno ha pazienza di andare a rileggere il suo intervento, lui partì proprio perché è stato accolto da questi frati francescani a Phoenix e ha cominciato a dare una mano, fino a che ebbe questo incontro, e questa fu la prima parola che mi colpì, con questa donna che aveva dieci figli ma non aveva da mangiare. E scoprii che andava nei supermercati, nei ristoranti e recuperava tutto quello che veniva buttato ancora buono. Stiamo parlando del ’67, non stiamo parlando di ieri, quindi, già l’America allora aveva tutto questo problema di buttare via il ben di Dio. Così, incontrando questa donna, gli venne l’idea di farlo anche per la sua mensa, e cominciò ad andare a cercare roba, arrivò fino al punto che, come dire, trovò tanta di quella roba che questa donna gli indicò la strada. Gli disse: “noi poveri avremmo bisogno di una banca del cibo” e così nacque la prima Food Bank negli Stati Uniti. E cominciò, si sviluppò rapidamente fino a che appunto arriva anche in Europa, prima in Francia, una Francia molto simile a quella di adesso, cioè dove a Parigi molte persone vanno ad aprire i sacchi dell’immondizia per recuperare da mangiare. Incontra un cristiano, sicuramente Bernard Dandrel, banchiere che si entusiasma al progetto del Banco, molla anche il lavoro che faceva e si dedica totalmente a questa cosa. Noi incontriamo questa esperienza nell’89, in un modo assolutamente apparentemente banale, che invece dice come quell’inizio di Van Hengel, è già nell’uomo, non è fuori, non è qualcosa che ti devi mettere dentro. Io avevo una passione per le questioni dell’alimentazione ed avevo doti organizzative. Lavoravo il quel periodo in una piccola catena di supermercati e mi ricordo che Giorgio Vittadini mi telefonò e mi disse, sintetico come è lui: “ci sarà da andare Barcellona, perché Dini ha detto che c’è una cosa che si chiama banco degli alimenti. Se vuoi andare”. Io a quel punto lì, non ero mai salito su un aereo, non ero mai andato a Barcellona, mi pagava tutto Vitta, non capivo per quale motivo sarei potuto non andare ed approfittare di questa situazione. Vengo da Bergamo, dove grosse occasioni nella vita non né avevi: sono andato. Quando sono rimasto lì, sono innanzitutto stato colpito rispetto al mio lavoro, perché io lavoravo nei supermercati, e il fatto di buttar via la roba mi capitava, ed era un fastidio sia umano ma anche di lavoro, perché dovevo preoccuparmi di smaltirla o di trovare qualche suora, qualche prete a cui darla, anche che poi dopo non sapevi mai bene come lo usava. Quindi, mi dicevo, porca miseria, và che roba, qui c’è un qualcosa che mi risolve un problema professionale. L’alimento è il dono di Dio perché l’uomo si realizzi, perché al di là, scusate senza offesa, dei computer, le medicine forse un po’ di più, ma la prima esigenza da quando nasciamo non è né il computer, né la medicina inizialmente, è attaccarsi al seno della madre. Quindi l’alimento rispetto a tutto il resto è la questione che rende evidente il fatto che è un dono, perché tu non te lo fai, ti viene dato fin dall’inizio. Quindi l’alimento ha uno scopo, che è l’ultimo e non può essere preso e buttato via, perché la legge di mercato cioè quella della domanda e dell’offerta interrompe questo scopo. Il motivo per cui noi recuperiamo questi alimenti è che la domanda e l’offerta, cioè, che poi stabiliscono il prezzo, stabiliscono che quel prodotto non ha più valore. Allora se questo è l’obiettivo commerciale, lo scopo è nutrire, per cui se l’obiettivo economico in quel caso lì è fallito, se l’obiettivo imprenditoriale nella forma più sua ristretta è fallito, il famoso fallimento del mercato, lo scopo rimane ugualmente. E lo scopo è nutrire, quindi occorre qualcuno che guardi allo scopo di una cosa, non solo all’obiettivo. Allora lì sono rimasto colpito da questo, e quando sono tornato da Barcellona anch’io ho coinvolto degli amici. Dei miei amici più cari, qui lo dico pubblicamente, loro lo sanno, non mi ha seguito nessuno. Io dopo venti anni ringrazio il cielo di questo, anche mia moglie non era felicissima, perché non si capiva che mestiere fosse, mia mamma non ha ancora capito cosa faccio. Era un bel rischio, mollare il lavoro con la famiglia e due figli e dire io mi dedico tutto a questo. A Fossati, che fu la persona che grazie all’incontro con don Giussani mi permise di prendere questa decisione, io dissi: io sono disposto a mollare tutto, ma non aumentate di una unità i poveri in Italia. Dovevamo affrontare il problema della povertà non aumentarla, quindi non lasciatemi da solo – gli dissi – e devo dire che in questi venti anni non mi ha mai lasciato solo nessuno. Questo ‘sì’ è stato, come dire, lo stesso sì del matrimonio, lo stesso sì di quando ho incontrato gli amici di GS. E’ lo stesso sì che ho visto oramai in milioni di persone quando gli dicono “vorrebbe fare la spesa per il banco alimentare?”. Sì, il sì è l’istante in cui la tua vita cambia. Te ne accorgi magari dopo, quello che vi sto dicendo non l’avevo come coscienza allora, oggi c’è l’ho, perché, come dire, ho guardato e guardo la realtà e non guardo solo la mia realtà, è il mio cambiamento che mi impressiona e che alle volte mi dà più fastidio vedere. Io ricordo che nel ’93, in un convegno in Cattolica, e raccontai per la prima volta l’esperienza del banco un professore alla fine mi disse: “complimenti, ma non sarà mai possibile realizzarlo”. Due anni fa, tre anni fa, l’ho rincontrato, non l’ho riconosciuto, è venuto lì e mi ha detto: “le devo chiedere scusa perché secondo i miei calcoli non era possibile”. Cioè io dico che la cosa che più mi ha colpito di tutta l’esperienza del banco alimentare è il cambiamento mio di fronte alla realtà e di milioni di persone. L’esperienza dei banchi di solidarietà nasce proprio come frutto della colletta, in quanto tanto gente ci chiamava e ci diceva: noi vorremmo continuare la bellezza di quel giorno, non ci può bastare un giorno. Allora io ho sempre detto: guarda innanzitutto questa bellezza ti è data anche domani mattina al lavoro, non è il banco alimentare o il banco di solidarietà che te la dà, il banco alimentare e il banco di solidarietà è stato solo uno strumento, come dire, per risuscitartela, cioè rifartela venir fuori, cosi come quella donna lo fu per Van Hengel. La convinzione più grande che ho è che il banco alimentare è l’incontro del 1989 con Giussani e Fossati, l’abbraccio fisico che Giussani diede a Fossati, di cui io sono testimone, quando gli disse: “lei ha un cuore grande come sua madre”. Quell’abbraccio è stato la mia possibilità di desiderare di essere abbracciato così tutti i giorni e di poter abbracciare tutti cosi tutti i giorni. L’ultima cosa che dico è questa. Io ho riflettuto quest’anno, ho iniziato venti anni fa, lo slogan del banco era “contro lo spreco” e devo ammettere che un bel contributo l’ho dato, sessantamila tonnellate non buttate via non è poco. Contro la povertà però ho fallito, perché i poveri come avete sentito sono aumentati, quindi il mio obiettivo è fallito, almeno per il cinquanta per cento, in più un economista che ho come riferimento e che si chiama Gesù Cristo, mi ha detto che i poveri saranno sempre tra noi. E’ dura lavorare quando sai che alla fine la soluzione che vuoi portare non c’è, allora bisogna proprio capire la differenza tra l’obiettivo, che è il contributo che tu puoi dare rispondendo ad un compito e lo scopo per cui ti muovi. Finisco raccontando questo episodio. Brasile, San Paolo, siamo alla seconda colletta, grande crescita, l’anno prima dodici supermercati, l’anno dopo dieci città, bellissimo una esperienza fantastica. Io sono stato giù in Brasile un mese e mezzo a dire che l’importante è l’incontro con la persona, non raccogliere la roba, bel discorso. Arriviamo verso mezzogiorno, le dodici e mezza al supermercato e c’erano gli scatoloni, c’era tutto, era un’organizzazione perfetta, e già in Brasile questo non è poco, ma non c’era un sacchetto donato, niente. Non l’ho mai visto, in 12 anni di colletta, non mi è mai capitato di entrare in un supermercato e vedere tutto a posto ma non vedere una spesa dentro una scatola. La mia reazione è stata immediata. Essendo che venivo da un supermercato invece all’opposto, dove c’erano tanti che donavano e pochi volontari, ho detto a Nando e alla Gisela: è inutile stare qua, perché facciamo perdere tempo a questa gente? Mandiamola dove c’è più bisogno. E allora ho preso, un po’ da capetto, sono andato da una persone e ho detto: guarda facciamo così, ancora mezz’oretta e poi chiudiamo, perché è inutile perdere tempo quando di là hanno bisogno. Mi ha guardato in faccia e mi ha detto: “Scusami, ma è un mese che ci dite che lo scopo della colletta è incontrare la gente. Io è la prima volta che incontro tanta gente così nel mio quartiere e tu mi dici di andar via?”. Bene, mi ha ammazzato, e le ho detto: guarda, se vuoi ti do una mano. Lì ho capito qual è la differenza tra lo scopo e l’obiettivo. Per cui l’obiettivo era sempre quello di raccogliere i generi alimentari, ma lo scopo, cioè quello che realizza me, e lì si stava realizzando, era quello, quello di poter dire al mondo che il bene che lei aveva ricevuto, che è sempre sovrabbondante, negli alimenti che noi raccogliamo, lo dovevamo condividere. Poi Dio provvederà anche a darci da mangiare. Perché, come dice appunto il Vangelo, Dio si occupa anche degli uccelli del cielo, dei fiori della terra, ci mancherebbe che non si occupasse di colui che ama di più. Però, appunto, l’esperienza di questi anni è stata un’esperienza di fede. La colletta è un atto di fede collettivo, perché che quel giorno vengano tutti, 100.000, senza aver firmato un contratto, è un atto di fede. Mi fa capire di più la fede il giorno della colletta che tanti altri discorsi. Almeno a me personalmente. E poi è un atto di carità, perché è una domanda continua del tu. Io ho capito la carità quando ho cominciato a capire che volevo esser voluto bene. La carità è innanzitutto sentirmi voluto bene e voler bene così anche agli altri. E poi la speranza, cioè ho capito che io i problemi del mondo non li risolvo, ma che dentro questa compagnia, che è la compagnia di Cristo che diventa manifesta nella nostra realtà, quello che io non riesco a fare lo farà qualcun altro, ma io voglio avere la soddisfazione oggi, mentre faccio quello che sto facendo. Non sto facendo il banco per risolvere il problema dei poveri fra 10 anni, sto facendo il Banco perché voglio essere contento oggi, mentre sono qua, seduto a questo tavolo. Quindi questa è un po’ brevemente la mia esperienza, che ha poi voluto dire guardare la famiglia, i figli … Ricorderò sempre che un giorno la mia Matilde mi difese davanti a 10 amici che mi prendevano in giro, urlando: non toccate mio papà, perché aiuta i poveri. Ecco: coinvolge tutto, contagia tutto. Grazie
MODERATORE:
Vorrei chiedere se è possibile, una rapidissimo secondo giro, nel senso che probabilmente molti di noi che sono qui sono interessati a rendersi co-protagonisti della vostra iniziativa, sia come singoli, come persone volontarie. Quindi un cenno se ritenete necessario aggiungere a quanto voi avete detto in precedenza.
Stefano.
STEFANO SALA:
Dunque, velocissimo, in un minuto. Sono tre le cose su cui chiediamo il vostro aiuto. Ognuno di voi, auspicabilmente, lavora in un’azienda, lavora in un’azienda, lavora in un ente eccetera. Ogni azienda ha dei computer. Quindi il primo aiuto che potete darci, concreto, è quello di verificare all’interno di dove lavorate, chi si occupa di informatica e quando cambiano i computer, e quando questo accade, mettervi in contatto con il Banco informatico. E’ la cosa più semplice che si può fare ma per noi è molto preziosa, perché non avendo una rete commerciale, l’unico modo con cui possiamo avere i computer è attraverso i rapporti personali nostri e dei nostri amici. La seconda cosa è che, come avete visto nel Meeting, ci sono in giro per la fiera, soprattutto in due entrate, quella sud e quella ovest, delle scatole dove raccogliamo i telefonini. Ogni anno si vendono in Italia 20 milioni di telefonini. Il periodo medio di utilizzo di un cellulare è 4 mesi. Consideriamo questo un grosso spreco e abbiamo la possibilità di recuperarli, sia come funzionamento sia, qualora non siano funzionanti, come materiali preziosi con cui poi poter sostenere la nostra attività. Quindi troverete delle scatole bianche in cui potete mettere i vostri telefonini usati, non funzionanti, oppure potete, andando sul sito internet del banco, a settembre, dire che avete dei telefonini usati da buttare. Vi verrà recapitata a casa gratuitamente una busta in cui potrete mettere i vostri cellulari usati e altrettanto gratuitamente rispedirli al Banco. Terza possibilità di aiuto: il Banco, come detto prima, si regge sul lavoro dei volontari. Non solo volontari esperti di informatica o esperti di apparecchiature biomedicali, ma volontari di qualunque tipo, dalla logistica ai trasporti. Chiunque desiderasse, anche non a Milano, in giro per l’Italia, darci una mano e ha del tempo disponibile, è più che ben accetto. Grazie.
MARCELLO PEREGO:
Anche la nostra richiesta è quella di un supporto soprattutto di volontari, sia sulla sede centrale di Milano, che coordina tutta la rete su tutto il territorio nazionale, sia localmente. Questo perché, come dicevo prima, il Banco cresce grazie a una serie di rapporti, ma chi ha più coscienza del significato delle cose di sicuro ci può più aiutare a tener desta questa tipologia di rapporti. Per cui siamo presenti in tutta Italia: sul nostro sito www.bancofarmaceutico.org c’è la nostra presenza, per cui se c’è qualcuno che ci vuol dare una mano a far conoscere e diffondere quella che è la nostra esperienza, ne siamo assolutamente grati.
MARCO LUCCHINI:
Tre cose. Uno, sostenerci, molto semplicemente, economicamente. Non è facile andare avanti, non abbiamo attività commerciale. E questo si può fare in tanti modi, non solo tirando fuori i soldi noi, ma comunicando, facendo girare tutte le iniziative che abbiamo in certi periodi, a Natale eccetera. E’ un modo che sia non solo tirar fuori un euro, ma coinvolgere tantissimi altri. Due, considerare la colletta realmente come un gesto di educazione alla carità del popolo, quindi missionario. Missionario per l’abbondanza che avete vissuto facendola, non perché è un obbligo o un comando di qualcuno. Terzo, abbiamo un progetto che è un po’ il nostro futuro, che è il prodotto da ritirare quotidianamente nei supermercati, il sistema del fresco, e che chiede uno sforzo grande. Soprattutto in questo periodo di mancanza, a volte, dei prodotti primari, questi prodotti diventano realmente necessari. Quindi è un progetto che si chiama Citycibo, sul quale vi chiediamo proprio di prendere contatto con noi. Possono farlo tutti, tranne i minorenni. Questo diventa una necessità e fra l’altro, dalle testimonianza che abbiamo, è una delle esperienze più belle, perché c’è la possibilità di ritirare oggi, in questo momento, e tra due ore consegnare il cibo a chi a bisogno, all’ente sempre, è chiaro. Quest’ anno abbiamo deciso di fare lo stand assieme anche come gesto di unità, non siamo tre mondi, quattro, venite lì e vedrete che vi daranno tantissime altre informazioni, poi se volete venire a mangiare anche al ristorante del banco, per carità.
MODERATORE:
Bene, chiudo in modo assolutamente rapido. E’ stato bello poter vedere come la carità sia intelligente, come la carità sia in grado realmente di far rivivere le cose, di dar significato anche alle cose materiali. La carità è intelligente. E la carità è conveniente. Perché abbiamo visto come innanzitutto chi si è implicato direttamente ne ha avuto una fonte di guadagno per la propria vita. Ed è evidente poi il bene che si realizza per i destinatari e anche per tutte le persone che si riescono a coinvolgere. Quindi un’esperienza intelligente e realmente conveniente.
Ringrazio ancora i nostri testimoni e vi auguro di partecipare alla loro esperienza.
(Trascrizione non rivista dai relatori)