SI PUÒ DIALOGARE SULLA GIUSTIZIA

Partecipano: Angelino Alfano, Ministro della Giustizia; Nicola Mancino, Vice Presidente CSM. Introduce Paolo Tosoni, Presidente della Libera Associazione Forense.

 

PAOLO TOSONI:
Buon giorno, un benvenuto a tutti da parte del Meeting e da parte della Libera Associazione Forense. Diamo soprattutto il benvenuto ai nostri autorevoli relatori che ringraziamo: il Ministro della Giustizia Angelino Alfano e il Vice Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura Nicola Mancino. Grazie per aver accettato il nostro invito a confrontarvi sui temi della giustizia. La giustizia è una cosa seria: è una domanda, un bisogno inscritto nel cuore di ogni uomo. Da sempre la civiltà delle nazioni e l’assetto organizzativo delle società vengono misurate dalla capacità di risposta alla domanda di giustizia del singolo e della collettività. Questo ci fa capire l’importanza della tematica che andiamo ad affrontare.
Nel nostro paese purtroppo, l’incapacità di rispondere alla domanda di giustizia è un fatto cronico da tanti anni, così come è da molto tempo che assistiamo a una riduzione del valore della giustizia e delle problematiche che riguardano la sua amministrazione. Spesso le riforme sono utilizzate come merci di scambio nella politica dei partiti, negli equilibri, spesso la giustizia è utilizzata da chi la amministra come lotta politica giudiziaria, come guerra ideologica, e invece c’è bisogno – è evidente – di riformare la giustizia attraverso un confronto sereno che guardi al bene comune del paese, per rispondere al bisogno che tutti i cittadini hanno. Il titolo di questo incontro ci fa capire che non solo pensiamo che ce ne sia bisogno, ma anche che sia possibile il dialogo: è possibile dialogare sulla giustizia. Per introdurci, prima di affrontare nel merito alcune possibili riforme della giustizia, vorrei chiedere ai nostri relatori di che cosa c’è bisogno nel nostro paese riguardo alla giustizia, visto che ci prepariamo ad affrontare una stagione, tra virgolette, calda e intensa dal punto di vista delle possibili riforme. Vorrei sapere di che cosa c’è bisogno adesso per un confronto sereno, per un’ipotesi di riforma complessiva che realmente guardi al bene comune e non a interessi particolari di categoria, politici o ideologici. Presidente Mancino.

NICOLA MANCINO:
Io rivolgo innanzitutto un saluto a tutti i presenti, agli organizzatori e anche al Ministro Alfano perché immagino che il colloquio sarà diretto e personale. Metteremo a confronto punti di vista che mi auguro saranno prevalentemente convergenti, ma anche quelli eventualmente divergenti hanno bisogno di essere esposti perché vengano compresi. Consentitemi anche di salutare due componenti autorevoli del Consiglio Superiore della Magistratura qui presenti e di rivolgere al sottosegretario Caliendo, nello spirito di una antica amicizia, quel sentimento di solidarietà che non è mai mancato, indipendentemente dalle posizioni che ciascuno assume. Io spesso rifiuto di partecipare a confronti dove la parte politica è prevalente, e questo non per sfuggire ma come metodo per tentare di portare il confronto sul terreno della valutazione delle posizioni di ciascuno all’interno delle istituzioni. Ritengo, come Tosoni ha detto, che oggi ci sia bisogno di grande disponibilità al dialogo, al confronto, nella sincerità delle posizioni che ciascuno ha il diritto e dovere di assumere e di spiegare.
Parto da questa considerazione: nel quinquennio 2001-2006, e nel biennio 2006-2008, il Parlamento ha affrontato un tema molto serio, quello dell’ordinamento giudiziario. Dico con franchezza che lo ha affrontato su posizioni che sembravano in partenza molto differenziate, che hanno trovato punti di convergenza nel dibattito parlamentare. Certo, se uno pensa alle condizioni della giustizia e ai tempi delle riforme, 7 anni sono tanti, ma l’ordinamento giudiziario ne è uscito rafforzato perché ha registrato un ringiovanimento dei quadri direttivi e ha consentito un lavoro di non poco conto: quello del ricambio degli uffici direttivi, sia a livello requirente sia a livello di giudice ordinario. E sono stati moltissimi i magistrati che dopo otto anni sono stati dichiarati decaduti. Così si è aperto un confronto, ed oggi possiamo dire che al Consiglio Superiore della Magistratura è stato affidato un compito che a mio avviso bisogna saper usare: quello cioè della discrezionalità nella valutazione delle attitudini. Non tutti quelli del Consiglio Superiore della Magistratura conoscono tutti i magistrati, però, avere affidato al Consiglio la responsabilità della scelta attitudinale del soggetto candidato a ricoprire uffici direttivi, ha significato un atto di buona fede che ha incrociato due diverse maggioranze politiche: quella del 2001-2006 e quella un po’ più stentata, anche dal punto di vista numerico, del 2006-2008. Allora io dico che se quello spirito di confronto, anche di durezza qualche volta, aleggia sulle riforme della legislatura in corso, credo che noi abbiamo reso un servizio alla comunità nazionale.
La giustizia è uno dei punti di maggiore crisi accanto ad altri, ma perché si possa rispondere a una modifica costituzionale, quella dell’articolo 111, della ragionevole durata del processo, c’è bisogno che questa ragionevole durata non diventi irragionevole attesa, con un aggravio di spese da parte dello Stato e del comune cittadino.
Anche in questa legislatura, possiamo dire, è stato affrontato il tema della riforma del processo civile che è entrato in vigore. Credo che l’esperienza ci dirà quante cose hanno trovato nell’intuizione del legislatore un punto di risposta positivo e quante altre cose c’è bisogno di affrontare sul piano parlamentare, perché il confronto all’interno del Parlamento è un confronto tra maggioranza e opposizione sulla disponibilità a tenere conto che il paese non tollera ulteriori ritardi e che la giustizia ha bisogno di correre così come avviene in alcuni paesi. Mi riferisco all’ordinamento francese, alla riforma che c’è stata, un passaggio apparentemente rivoluzionario ma anche inevitabile, cioè quello di mobilitare il giudice perché il processo vada avanti, indifferentemente da quello che le parti desiderano. Questo a mio avviso è il punto più importante che è stato discusso sul piano parlamentare, e i tentativi di conciliazione delle istituzioni relative non significano la sostituzione dello Stato nella sua funzione centrale, ma un aiuto allo Stato a risolvere i problemi con la disponibilità delle parti, degli avvocati e dei magistrati. Questo voglio indicare come metodo introduttivo di questo dialogo.
Io mi auguro, e sono certo che sarà così, che il Ministro Alfano voglia dare una svolta il prossimo autunno. Ci sono tanti problemi da affrontare: quello della giustizia non ha bisogno affatto di rumore, bensì di un confronto serrato e serio su temi scottanti, di attualità, come la certezza della pena e la certezza della sentenza civile, che sono due obiettivi di cui dobbiamo sempre tener conto. Questo è un compito che appartiene alle varie istituzioni. Il Consiglio Superiore della Magistratura può esprimere il suo parere sui disegni di legge in maniera più o meno forte, restando sempre disponibile al dialogo, ma è un parere che appartiene al campo dei rapporti fra il Consiglio Superiore della Magistratura e il Ministro. Nessuno intende interferire nell’attività parlamentare né intende condizionare l’attività parlamentare a cosiddette bocciature, perché non è compito del Consiglio Superiore della Magistratura bocciare, semmai è compito del Parlamento approvare o bocciare a seconda delle maggioranze che si formano di volta in volta. Grazie.

PAOLO TOSONI:
Il Presidente Mancino ha già introdotto alcune tematiche che andremo ad affrontare. Prima di entrare nello specifico chiederei però anche al Ministro di che cosa c’è bisogno perché si riesca finalmente a dialogare, e qual è la sua posizione.

ANGELINO ALFANO:
Innanzitutto ringrazio anch’io gli organizzatori del Meeting per avermi regalato il privilegio di poter partecipare anche a questa trentesima edizione, che è molto importante. Ieri è stata una grande emozione sentire Carrón, quindi vi ringrazio da uomo prima che da Ministro della Giustizia. In secondo luogo ringrazio il presidente Mancino perché ha detto ciò che io ritengo doveroso che si dica, infatti lo dirò anch’io per poter avviare un lavoro comune per il bene della giustizia, cioè per il bene dei cittadini. Soprattutto nelle sue ultime frasi, Mancino ha ribadito qual è il suo stile della presidenza del CSM: lui ha sempre inteso ribadire, anche rispetto ad alcune forzature giornalistiche, quali sono i compiti specifici del CSM. È il Parlamento che promuove o boccia i disegni di legge, non è il CSM. Questo mi dà lo spunto per dire alcune cose sul concetto di dialogo. Io voglio essere molto chiaro, anche perché non ho inclinazioni filosofiche, quindi prevale in me sempre l’esperienza più che la teoria. Noi abbiamo una grande disponibilità al confronto e al dialogo, e abbiamo anche un obbligo morale, etico, quello di fare quanto abbiamo detto agli italiani di voler fare quando ci siamo candidati. Cioè, noi vogliamo confrontarci, dialogare, ma anche decidere nella direzione di quello che abbiamo detto in campagna elettorale. Anche perché, scusatemi l’eccesso di concretezza, se noi fra quattro anni torniamo dagli elettori e diciamo che in realtà non abbiamo fatto nulla di quello che avevamo promesso, ma che però abbiamo dialogato alla grande, secondo me non ci fanno l’applauso. Questa è la nuova moralità della politica, quella di cui ha sempre parlato Silvio Berlusconi: essere onesti, non rubare, è una precondizione, però, se tu dici di voler fare delle cose e non le fai, sei un politico moralmente corretto? Sei un politico moralmente onesto? Ecco perché su internet c’è ancora il programma presentato agli elettori l’anno scorso in materia di giustizia. Andatelo a cercare e troverete una coerenza visibile, significativa, tra ciò che abbiamo detto e ciò che stiamo facendo. E dunque che cos’è il dialogo, il confronto per noi? Parto da ciò che non è: non è dialogo un infinito “bla bla”, quel parlare al termine del quale non si decide nulla. Le due “d” che noi perseguiamo sono dialogo e decisioni. Le decisioni le assume il Parlamento dopo avere dialogato con tutti, e qui ci si pone un problema di metodo. Quindi, chiarito che cos’è per noi il dialogo, e cioè un metodo, chiarito che cos’è il confronto, cioè un metodo, un metodo per un fine, chiediamoci quale sia il fine. Il fine è la decisione. Se si dialoga, se ci si confronta, ma non si decide, il metodo si sarà rivelato come sbagliato, perché comunque la decisione deve pure arrivare, il cittadino deve sapere che cos’hai deciso. Se poi la decisione è preceduta da un confronto serrato e serio, ancor di più e ancor meglio il cittadino potrà apprezzare. Quindi il metodo è quello del confronto. Qual è il necessario presupposto perché il confronto sia concreto? Che ci sia un interlocutore. Ora anche qui, senza voler liquidare con una battuta l’argomento, e anzi potendo pure approfondire, noi abbiamo avuto anche un problema con l’opposizione nel dialogo e nel confronto. Voi ricorderete che l’anno scorso, e cito eventi che ricordiamo tutti perché non sono di un secolo fa, nacque il Governo ombra. Dobbiamo prendere atto che noi dovevamo dialogare con un Governo ombra. Adesso il Governo ombra è già caduto e quello vero è ancora qua. Quindi noi abbiamo avuto anche una certa difficoltà a dialogare, perché hanno fatto il Governo ombra che però è diventato l’ombra di un Governo: c’è stata una certa rincorsa antiberlusconiana perché sembrava che opposizione significasse insultare il leader della maggioranza e del Governo. Quindi, in queste fasi di transizione, non ancora concluse perché ancora c’è dibattito o meglio c’è il congresso più che il dibattito, si insultava Berlusconi. Quindi non è che noi abbiamo avuto un quadro di dialogo agevolato dalla stabilità dell’interlocuzione. Poi occorre avere presenti tutte le sfumature, c’è sempre Di Pietro che insulta ancora di più Berlusconi, e quindi quelli del PD si sentono sempre debolucci, pensano di non averlo insultato abbastanza e di conseguenza pensano di non sembrare abbastanza opposizione: insomma, noi abbiamo sempre un problema di interlocuzione con l’opposizione.
Quindi voglio riaprire la stagione autunnale con una concreta disponibilità al confronto, con la premessa che le nostre tesi sono chiare e visibili, perché non sono verbali ma scritte in disegni e proposte di legge. Questi disegni e queste proposte di legge dovranno passare al vaglio del Parlamento. Io sono qui al Meeting per dire che la nostra disponibilità al confronto è concreta. Prima dell’avvio dell’attività parlamentare mi prendo un impegno da qui: per dare prova concreta della volontà di confronto, chiamerò i leader in materia di giustizia del Partito Democratico, per vedere se è possibile un confronto a tutto campo e non a spizzichi e bocconi sul ventaglio delle materie nel campo della giustizia. Spero che il PD avrà il coraggio e la forza di smarcarsi dal dipietrismo, e di affermare che al centro del sistema della giustizia non c’è né il Ministro della Giustizia, né il Governo, né il Parlamento, ma c’è l’uomo, il cittadino, perché alla fine tutto rimanda lì, al cittadino. Quando la giustizia arriva in ritardo, infatti, il conto non lo paga il Governo, lo paga il cittadino, perché c’è un possibile innocente che non è stato ancora tirato fuori dal girone infernale della giustizia, c’è un possibile colpevole che ancora non è stato sottratto alla libertà e che può commettere altri delitti, c’è una vittima o i familiari di una vittima che piangono per il reato commesso. Il cuore del problema è l’uomo, se noi non avremo la capacità di mettere al centro, esattamente al centro delle decisioni in materia di giustizia, l’uomo, qualsiasi decisione sarà sbagliata.

PAOLO TOSONI:
Ed ora entriamo a parlare nello specifico di alcune possibili riforme. È inevitabile dover parlare del Consiglio Superiore della Magistratura, vista l’autorevole presenza del suo massimo rappresentante operativo. Il CSM è un nodo cruciale nell’amministrazione della giustizia ed è anche una delle situazioni dove si crea un maggior conflitto proprio tra la politica e la Magistratura, o espressione politica della Magistratura. Se posso sintetizzare due critiche, che forse sono le più evidenti rispetto all’attuale assetto del CSM, direi che la prima è una cronica incapacità sostanziale di autogoverno, forse dipendente proprio dall’assetto, dal fatto che nel CSM gli eletti, la maggioranza, i togati, arrivano dal cosiddetto meccanismo delle correnti, e questo aspetto per cui è difficile per gli eletti esercitare il controllo rispetto ai propri elettori è un problema reale. La seconda critica è sui pareri espressi dal CSM, che certamente non sono vincolanti, ma che ultimamente sembrano essere una sorta di opposizione alla funzione legislativa, e anche questo è un aspetto che non convince o perlomeno che fa discutere. Ritenete necessaria una riforma del CSM? Se la ritenete necessaria, in quali termini? Presidente Mancino.

NICOLA MANCINO:
Io devo dire, per onestà intellettuale, che le questioni riguardanti l’attuale maggioranza e le attuali opposizioni mi sono interamente estranee. Io vengo da un’esperienza parlamentare: ero presidente della Commissione Affari Costituzionali, eletto alle elezioni del 2006, quando mi venne proposto da maggioranza e opposizione insieme la possibilità di un mio coinvolgimento nella gestione del Consiglio Superiore della Magistratura, quindi nel governo del CSM. Ora avendo abbandonato una linea di parte, e avendo assunto una posizione di equidistanza, ciò che avviene all’interno del Parlamento mi può interessare come cittadino, ma non mi interessa in qualità di Vice Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura. Quindi se ci sono carenze, se ci sono deficienze, se vi sono pregiudizi, questi sono problemi che appartengono al terreno della politica.
I costituenti furono molto saggi nel 1946, disegnando il Consiglio Superiore della Magistratura, a porre anche un termine: i componenti del CSM eletti dai magistrati e dal Parlamento restano in carica quattro anni. Furono molto accorti perché quattro anni possono sembrare brevi in politica ma sono molto lunghi per quanto riguarda un’istituzione complessa, anche articolata, come la parte togata e la parte laica del Consiglio Superiore della Magistratura. Fatta questa premessa io vengo al tema: la carta costituzionale ha la sua vigenza per quanto riguarda l’assetto, la natura, il ruolo e le funzioni del Consiglio Superiore della Magistratura? Io personalmente ritengo che se parliamo spesso di autogoverno, l’autogoverno deve avere un suo significato e l’impegno deve essere quello di rispettare un’organizzazione giudiziaria che è scritta nella carta costituzionale. Nessuno può parlare di eternità delle norme della carta costituzionale, però per potere arrivare alla riforma della normativa che riguarda la disciplina, il funzionamento e il ruolo del Consiglio Superiore della Magistratura, c’è bisogno anche di proposte. Io ne ho lette molte, a qualcuna mi sono anche affacciato in spirito collaborativo ma naturalmente ritengo che questo sia un tema tra i più delicati che le forze politiche e quindi il Parlamento hanno dinanzi. Io, dopo la riforma dell’azione disciplinare nei confronti dei magistrati, ho notato che, mentre da una parte si sancisce l’obbligatorietà dell’azione disciplinare, dall’altra parte non si è tenuto conto della complessa macchina interna al Consiglio Superiore della Magistratura. Cioè io personalmente, pur avendo dato un notevole contributo a spingere la sezione disciplinare a colpire casi patologici che meritavano di essere anche sanzionati, tuttavia ritengo che una sezione disciplinare è troppo poco rispetto alle incombenze dei tempi. E quando parlo della incombenza parlo anche della durata dei processi, delle disattenzioni, dei ritardi nei depositi. C’è bisogno di tenere conto che fino a quando non c’è una proposta di riforma della carta costituzionale sull’assetto del Consiglio Superiore della Magistratura, noi dobbiamo stare all’assetto così come esso è scritto nella carta costituzionale.
E allora io vengo ai pareri, perché sono quelli che mi danno minore preoccupazione. I pareri sono contenuti in una norma ordinaria, l’art. 10 dell’ordinamento giudiziario: il parere viene dato al Ministro Guardasigilli, il quale ne può fare l’uso che ritiene più opportuno, naturalmente nel rispetto della fonte da cui proviene il parere senza, diciamo, slabbrature che spesso si vedono non da parte del Ministro ma da chi ritiene che il CSM debba essere un organo di ratifica: non deve dire niente, neanche sulle cose che non sono condivisibili e possono non essere condivisibili. Sulle cose dove c’è condivisione, bisogna forse essere ancora più determinati nello specificare che un punto è molto interessante e merita di essere accolto. Naturalmente merita di essere accolto se c’è la volontà del Ministro di accogliere, mentre da parte del Parlamento ci deve essere una riflessione sull’opportunità di un parere che viene dato di norma in spirito di assoluta libertà di pensiero. Perciò io ripeto ancora una volta che il Consiglio Superiore non può bocciare. Questa sarebbe un’invasione di campo, un’interferenza in un’attività costituzionalmente prevista, quale è quella del Governo, che propone al Parlamento una determinata modifica dell’organizzazione giudiziaria, e il Parlamento, che nella sua sovranità può accogliere la proposta del Governo, la può modificare, la può confrontare con le altre forze politiche fino ad arrivare poi alla decisione finale. Del resto le commissioni parlamentari servono per approfondire, per sperimentare anche delle possibilità di convergenza tra maggioranza e opposizione. Io dico che la vita del paese non dipende solo dalle maggioranze che si esprimono, ma dipende, a volte, dalla disponibilità soprattutto delle opposizioni di concorrere al bene comune, che è quello che interessa maggiormente il corpo elettorale, la società civile, le altre istituzioni del paese. Quindi, avendo sempre ritenuto in Parlamento, anche quando ero Presidente del Senato, che il Consiglio Superiore della Magistratura può esprimere il suo parere su richiesta e anche senza richiesta, ho sostenuto questa tesi e ho tentato di equilibrarla rispetto al complesso rapporto tra Governo e Parlamento da una parte, dall’altra ho sempre sostenuto l’organizzazione giudiziaria che fa parte di una specifica disciplina della nostra carta costituzionale.
Per quanto riguarda la riforma sostanziale di cui si parla, ma ancora si parla soltanto, io ho trovato qualche disegno parlamentare, che comunque non ha l’autorevolezza della fonte, dove ci si chiede se il Consiglio Superiore della Magistratura è un organo che dà garanzia. È l’organo che deve dare garanzia alla società e alla comunità nazionale. Qualcuno dice che il numero dei togati è eccessivo. Lo vogliamo ridurre? Io personalmente sono dell’avviso che si può sempre arrivare a questo confronto, purché però si salvaguardi l’impianto costituzionale che assegna al Consiglio Superiore della Magistratura la vigilanza e la tutela dell’autonomia della Magistratura e del singolo magistrato. Se siamo d’accordo su questo piano, evidentemente possiamo andare anche oltre e peraltro credo che, spero che il Ministro mi dia ragione, il numero 24 rispetto all’obbligatorietà della sanzione disciplinare e rispetto anche ai tempi, è riduttivo, è un numero che non soddisfa un’esigenza più larga. Vogliamo dare alla sezione disciplinare una sua autonomia rispetto al Consiglio Superiore della Magistratura per quanto riguarda la tutela e la vigilanza dell’indipendenza e dell’autonomia di tutti i magistrati? Si può anche avere sezioni che non facciano parte del Consiglio Superiore della Magistratura, ma questo è un problema che si può discutere sul piano parlamentare. Io penso che due sezioni del Consiglio Superiore della Magistratura, che guardano al controverso rapporto disciplinare, siano meglio di una. Del resto fa parte del CSM il collega Saponara, che sa quanto lavoro deve affrontare in aggiunta al lavoro normale dell’attività del Consiglio Superiore della Magistratura. Fare sentenze non è facile, condannare un magistrato è sempre un problema e venire a capo, oggettivamente, delle responsabilità dei singoli magistrati, perché ce ne sono, è una questione che merita un’attenzione da parte di tutti. E se il parere viene richiesto, tanto meglio, il Consiglio Superiore della Magistratura non sfuggirà al suo dovere di porre l’interesse del Guardasigilli sui punti che meritano maggiore attenzione e riflessione. Quello che io non condivido è questo tentativo, di cui alcuni parlano, di un Consiglio Superiore della Magistratura per i giudici ordinari e di un Consiglio Superiore della Magistratura per i pubblici ministeri. Non lo condivido perché delle due l’una: o siamo tutti d’accordo che a presiedere il Consiglio Superiore della Magistratura sia il Capo dello Stato nel suo dovere di imparzialità e di terzietà – e parlo al presente perché sono stato eletto al Consiglio Superiore soltanto nel 2006, e quindi resterò in carica fino al 2010 -, che comprende anche il compito di dirimere controversie che si aprono tra il Consiglio Superiore della Magistratura e la politica, e allora io dico che se deve essere il Capo dello Stato a presiedere, non si vede la ragione per avere due Consigli Superiori della Magistratura, a meno che la titolarità della presidenza di uno dei due Consigli Superiori non si debba spostare su un altro piano istituzionale. Se fosse così, vi dico che verrebbe meno quella imparzialità che è stata sempre riconosciuto a tutti i Presidenti della Repubblica, per quanto riguarda la mia esperienza sia nei confronti del Presidente Ciampi, sia nei confronti del Presidente Napoletano. Questo è il punto: vogliamo un Consiglio Superiore della Magistratura, sia pure rivisto, che tuteli e vigili sull’autonomia e l’indipendenza? Il paese ha bisogno dell’autonomia e dell’indipendenza del magistrato, della oggettiva riflessione da parte del magistrato, che poi può anche sbagliare. Il nostro paese però ha tre gradi di giudizio: il primo, il secondo e il terzo grado. Un eventuale errore di primo grado può essere corretto dal secondo, così come l’eventuale errore del secondo può essere corretto dal primo grado. Ma c’è bisogno allora, a mio avviso, che si guardi alla funzione, al bisogno di articolazione interno e al rispetto della norma costituzionale, secondo la quale quell’organo di autogoverno, per essere tale, non deve avere una prevalenza di laici rispetto ai togati. Io provengo dai laici, come il collega Saponara, non Ferri che è stato eletto dai magistrati, però anche i magistrati esercitano un loro diritto elettorale che serve a scegliere questo o quel magistrato, perché ritenuto degno di rappresentare in Consiglio la Magistratura nel suo insieme.
Quindi io vengo dal mondo laico, non da un altro mondo, però mi sento di dire che a tutela di una funzione costituzionalmente prevista e sancita, il magistrato deve continuare ad essere indipendente da qualunque altro potere, deve potere emettere le proprie decisioni, rispondendo al suo foro interno, quando sbaglia. Ci sono organi disciplinari, e quando sbagliano ci sono gli organi di appello o di legittimità che devono pure potere dire se una sentenza è stata emessa rispettando le norme della giurisprudenza costituzionale e di quella europea. Quindi, concludendo, larga disponibilità, purché il principio dell’autonomia e dell’indipendenza non venga leso. Grazie.

PAOLO TOSONI:
Signor Ministro, se può intervenire su questo punto.

ANGELINO ALFANO:
Io ringrazio il Presidente Mancino che con le sue parole ha ribadito lo stile della sua presidenza, e mi dispiace anche di avere più libertà di lui che, nella sua funzione istituzionale, può dire meno di quanto posso dire io nella mia funzione politica, e quindi mi perdonerà se dico delle cose cui magari non potrà replicare immediatamente. Probabilmente ci sarebbe stata, da questo punto di vista, la necessità di un interlocutore del PD o dell’ANM, ma lo dico per una ragione di impianto generale. Quattro sono le questioni quando si parla del CSM e di tutte bisogna tenere conto: il tema delle correnti, la questione delle nomine dei vertici degli uffici giudiziari, cioè Procuratore della Repubblica, Presidente del Tribunale, procuratori generali, presidenti di Corte d’Appello. Anche qui, piuttosto che fare teoria, parto da un’esperienza personale: io con il Vice Presidente del CSM, con il sen. Mancino, ho avuto in questi 15 mesi un dialogo istituzionale serrato, sempre improntato alla correttezza, al rispetto delle funzioni reciproche e, in esordio del mio mandato, fui suo ospite al CSM per enunciare le linee programmatiche del mio ministero. E arrivo all’esperienza. Ho tratto un giudizio molto positivo sulla gran parte dei componenti del CSM che ho avuto modo di conoscere personalmente, ma sarei ipocrita se negassi una certa impressione che quella mia audizione al CSM mi produsse, poiché io ho sempre visto il CSM come un organo che è totalmente sganciato da una dinamica squisitamente politica e che esercita la funzione scritta nella nostra Costituzione. Per agevolare il compito del nuovo e giovane Ministro, il Vice Presidente Mancino mi propose di far parlare uno per gruppo. E io ringraziai il Presidente. L’esordio fu un po’ lunare perché prendeva la parola un componente e diceva: “Io parlo a nome dei colleghi Tizio, Caio e Sempronio di Md, e sono il loro capogruppo”. Poi prese la parola un loro collega: “Io prendo la parola a nome di Magistratura Indipendente, a nome dei colleghi Sempronio, Mevio e Filano”. Poi ancora un altro che ha detto: “Io prendo la parola a nome di Unicost, a nome di questi altri colleghi”, poi un altro… Mi sono sentito come in un Parlamento bonsai.
Partendo da questo presupposto, si tiene tutto. Mi spiego più chiaramente. Spesso si parla del principio di indipendenza e di autonomia della Magistratura, facendo riferimento all’indipendenza esterna, cioè il Magistrato deve essere indipendente rispetto ai condizionamenti esterni, dunque io Magistrato non posso essere chiamato da un politico, da un amico, da un chiunque all’esterno che mi possa condizionare, io devo essere autonomo ed indipendente. Sacrosanto. Se ne parla poco, ma chi avesse tempo e voglia potrebbe andare a consultare gli atti delle singole correnti della NM, per cui quello che sto dicendo se lo dicono tra di loro nei dibattiti interni. C’è il problema della cosiddetta indipendenza interna: come un politico dall’esterno non deve chiamare o condizionare un giudice, così dall’interno non deve essere succedere che, secondo un meccanismo che tiene insieme le promozioni, la disciplinare e tutto quanto, il leader di una corrente chiami un magistrato di periferia e gli dia un input che possa orientare un giudizio o segnare un solco giurisprudenziale. Ci sono dunque il problema della indipendenza esterna e della indigenza interna. Si tratta di due rischi egualmente gravi per l’autonomia e l’indipendenza della Magistratura, però si tende a parlare solo del primo e mai del secondo. Io parto dal presupposto sincero e concreto, non teorico, che i giudici sono nella loro massima parte persone che hanno studiato e che hanno avuto una vocazione per quel mestiere, che si sono laureati in giurisprudenza, che hanno vinto un difficile e molto selettivo concorso e che ogni mattina si svegliano, accompagnano il bambino a scuola se è piccolo, vanno a fare il loro dovere, tornano a casa e dormono in buona coscienza. Io penso questo dei giudici, poi per carità, come in tutte le organizzazioni complesse, ci sono le eccezioni.
A questi giudici occorre assicurare e garantire l’indipendenza esterna ma anche quella interna, perché occorre scongiurare il rischio di un sistema elettorale con le preferenze: io ti voto, tu vai al CSM, al CSM fai le nomine, se uno fa un errore tu che sei alla disciplinare puoi aiutarlo e così via. Si crea un meccanismo molto paragonabile a quello della politica e bisogna assolutamente evitarlo. Faccio un altro esempio che riguarda le nomine dei vertici. I meno giovani ricorderanno che una volta i primari degli ospedali erano tutti anziani, poi è arrivato il tempo in cui si è formato, nell’ambito del diritto alla salute, un principio assolutamente condivisibile, quello cioè che una persona può essere un grandissimo chirurgo, un grandissimo medico, e allo stesso tempo non essere un bravo organizzatore di uomini e mezzi, quindi non necessariamente uno che può avere sotto di sé dieci aiuto primari e venticinque infermieri. Questo perché magari, nell’organizzazione dei turni di lavoro e nella gestione delle sale operatorie, un grande medico non è così grande come in sala operatoria, e quindi è meglio se resta in sala operatoria, perché serve meglio la salute del cittadino. Si affermò cioè il principio che il primario deve garantire un’organizzazione di uomini e mezzi tendente all’efficienza negli ospedali: per cui il grande cardiochirurgo deve fare il cardiochirurgo, e un bravo medico, che è anche un bravo manager organizzatore, può fare il primario. È così che da la sanità è migliorata in Italia, e soprattutto in alcune grandi regioni. Bene, io penso la stessa cosa valga per un altro grande diritto dell’uomo, che non è quello alla salute fisica ma quello alla salute giuridica, giudiziaria magari: cioè, penso che i vertici degli uffici giudiziari, i Procuratori della Repubblica, Il Procuratore Generale, il Presidente del Tribunale, il Presidente della Corte d’Appello, debbano essere sempre nominati perché sono i più bravi e non perché hanno la spilla di una corrente. Noi abbiamo diritto, noi cittadini abbiamo diritto ad avere come Procuratore della Repubblica il più bravo organizzatore dell’efficienza della Procura, abbiamo diritto ad avere come Presidente del Tribunale il più bravo organizzatore del funzionamento del tribunale, quello che fa smaltire meglio le cause, quello che è in grado, col proprio carisma, di indurre gli altri giudici a lavorare meglio. Di questo noi abbiamo bisogno. Si rischia che la corrente da movimento ideale, che ti orienta cioè il senso di una cultura giuridica, che ti da l’idea di come l’autonomia e l’indipendenza vadano declinate in un determinato tempo e in un determinato luogo, diventi il “correntismo”, e cioè gestione pura in materia di nomine, disciplinare e tutto quanto c’è da evitare. Però voglio ribadire che quello che sto dicendo io, si trova uguale negli atti delle correnti, contro le quali noi non abbiamo nulla: noi ce l’abbiamo, e anche molto invece, con la degenerazione, con il “correntismo”. Non siamo contro l’origine ideale delle correnti. Dico questo perché anche in materia di pareri, noi non abbiamo mai contrastato il CSM, anzi. Devo dare atto ancora una volta al Presidente Mancino che anche sulla riforma del processo penale, quando i giornali hanno detto che il CSM bocciava il processo penale, è stato lui a dire che loro avevano solo dato un parere, che non avevano bocciato alcunché. Allora in un equilibrio dei poteri complessivi, ci sta anche che il CSM dia pareri, a volte richiesti a volte non richiesti, a volte graditi a volte non graditi, a volte seguiti a volte non seguiti da noi, però, possono arrivare. Ma se si tenta per forza da parte di qualcuno dell’opposizione, magari durante un dibattito parlamentare, di colorare politicamente quel parere, allora è chiaro che noi siamo lì a dire che il Parlamento libero e sovrano eletto dai cittadini in una libera democrazia come quella italiana, è chiamato dalla Costituzione a giudicare le leggi, approvando o bocciando le proposte del Governo.
Vado a concludere. Cito un esempio concreto in riferimento alla premessa, che non voleva essere generica, sulle difficoltà oggettive al confronto ed al dialogo. Noi abbiamo una visione in materia di giustizia secondo cui non c’è una leva, attivando la quale noi risolviamo un problema della lentezza della giustizia, della non certezza della pena, del mancato equilibrio tra accusa e difesa. Non esiste! Occorre intervenire con le norme antimafia, come abbiamo fatto, sul processo civile, sul processo penale ed anche, a compimento del quadro, in materia di riforme costituzionali. Dunque se noi immaginiamo in proiezione un’ipotesi, magari ne parleremo dopo, per arrivare alla parità tra accusa e difesa – immaginiamo una separazione degli ordini in avvocati dell’accusa e avvocati della difesa, e non entro nel merito di proposte perché ancora non le abbiamo scritte nero su bianco -, è chiaro che, se davvero intendiamo fare uno sforzo di riforma per arrivare alla perfetta parità fra accusa e difesa, e realizzare così il giusto processo, non è difficile immaginare che avrà una ricaduta sul CSM. Per riformare il CSM, dice correttamente il Presidente Mancino, occorre modificare la Costituzione, perché le regole di funzionamento del CSM sono scritte lì e lì occorre intervenire. Ma come si fa ad avviare un confronto su queste tematiche se dall’altra parte tutti dicono: “Nessuno tocchi la Costituzione?”. A parte che la Costituzione, in 60 anni, è stata molte volte toccata. Io mi sono permesso di ribadire più volte, pubblicamente, agli esponenti dell’opposizione che hanno sostenuto questa tesi, che 10 anni fa la bicamerale di D’Alema, allora leader dei DS, propose la modifica della Costituzione in materia di giustizia, per altro con alcuni concetti a noi cari, quindi nulla di lunare. E allora io dico, e l’ho detto pubblicamente al PD, che noi vorremmo riformare la Costituzione, e siamo pronti a un confronto in materia di giustizia a riformare la Costituzione, confrontandoci con il PD, ma se il PD ci dice “Nessuno tocchi la Costituzione”, l’unico modo per intervenire sul CSM è toccare la Costituzione. Il confronto è a maggior ragione più difficile se a dirci questa cosa sono quelli che, dieci anni fa, stavano tentando di modificare la Costituzione in materia di giustizia. Allora delle due l’una: o in questi 10 anni la giustizia, che era malata, è guarita, e non mi pare, oppure il problema non è toccare la Costituzione, ma chi la vuole toccare.
E poi un’altra questione, l’autonomia e l’indipendenza della Magistratura. Noi riteniamo seriamente sacri i principi di autonomia e di indipendenza della Magistratura, sia per virtù che per opportunità. Per virtù, perché riteniamo che un giudice autonomo ed indipendente eserciti meglio la giustizia rispetto a un giudice che non sia autonomo; per opportunità, perché siccome non faremo l’errore che fece la Democrazia Cristiana, di ritenersi eterna, mettiamo in conto che arriverà un giorno, speriamo che sia lontano, in cui a governare non saremo noi. E all’idea che i PM, per esempio, possano essere condizionati da un governo che mi immagino, noi non lo faremmo mai perché riteniamo che i principi di autonomia e di indipendenza siano sacri, e che potrebbe esprimere come Ministro della Giustizia delle persone che ognuno può immaginarsi, a questa idea è meglio non sentirsi eterni e scrivere regole che valgano sempre e comunque.
Ciò premesso, i principi di autonomia e di indipendenza vanno sempre in coppia con un altro principio scritto nella Costituzione. Noi purtroppo abbiamo due vizi in Italia: quello di definire incostituzionale tutte le leggi sgradite, per cui se una cosa non ti piace dici che è incostituzionale, e quello di vedere l’equilibrio in modo molto funzionale ed efficace in taluni ambiti, ma dimenticandosi un pezzo e creando così uno. C’è un’altra cosa che io tengo a sottolineare. Nella nostra Costituzione c’è scritto autonomia e indipendenza della Magistratura, ma c’è scritto anche che i giudici sono soggetti soltanto alla legge, che è un modo per ribadire l’autonomia e l’indipendenza ma è anche un modo per dire sì alla legge! E la legge la fa il parlamento, che è costituito dagli uomini eletti dal popolo che fanno quelle leggi che i Magistrati sono chiamati ad applicare. Allora ci intendiamo: autonomia ed indipendenza ma anche soggetti alle leggi che il Parlamento fa. Grazie.

PAOLO TOSONI:
Mi accorgo che il tempo passa e che gli argomenti sarebbero tantissimi, anche perché sono varie le riforme in cantiere o che per lo meno sono state annunciate. Ora il Presidente Mancino. Ovviamente io lascio anche un minimo spazio di replica, si intende, rispetto alle valutazioni che ha fatto il Ministro Alfano sul tema che abbiamo affrontato. Se fosse possibile, visto che è stato più volte accennato e mi sembra di assoluta attualità, magari entrare anche un po’ nel merito, per accenni ovviamente, al parere del CSM su questo disegno di legge, sulla riforma del processo penale, un’altra importante riforma in cantiere, sarebbe interessante. Sicuramente in un paese come il nostro, il processo penale non funziona dove non c’è la certezza della pena. Credo che questo sia stato dovuto nel tempo anche a tutta una serie di interventi sporadici, parziali, proprio sul processo penale, sull’onda dell’emotività, dell’emergenza, dell’interesse politico del momento. È stata messa in cantiere una riforma significativa, complessiva. C’è stato un parere, su alcuni punti, molto negativo da parte del CSM. Ecco Presidente, se potesse fare un accenno su questo sarebbe una cosa molto utile, perché penso che la maggior parte di noi abbia solo letto qualche piccola cosa del problema sui quotidiani.

NICOLA MANCINO:
Non ho difficoltà a parlare di questo parere sulla riforma del processo penale. Io so quanto lavoro ha svolto l’ufficio studi del CSM. Questo non è un ministero, è un ufficio composto da 6 validi magistrati, selezionati attraverso una valutazione curricolare molto attenta. Desidero dire al Ministro, come anche al Sotto Segretario, che siamo soltanto a una parte: quel parere era uno stralcio delle 60 cartelle che sono state scritte, così il parere approvato al CSM è ancora parziale. Si svolge su tre punti: il primo punto riguarda l’allargamento della competenza delle corti d’assisi, il secondo punto riguarda il rapporto tra polizia giudiziaria e pubblico ministero, più precisamente tra le forze dell’ordine e il pubblico ministero, e l’ultimo punto concerne la valutazione interna all’ufficio del pubblico ministero. Quindi sul processo penale c’è ancora da discutere, e poiché mi rendo conto che è una discussione urgente, io adopererò i miei uffici e i mie poteri perché si dia un parere complessivo sulle parti rimaste ancora non definite.
Credo che se noi riprendiamo lo spirito della riforma del processo civile, anche quella del processo penale può essere celere e adeguata. Io ero Presidente del maggiore gruppo parlamentare al senato e so con quanta sofferenza il Ministro di allora Vassalli, andando a Catanzaro e svolgendo il suo intervento all’interno di quell’ufficio giudiziario, dovette prendere atto che era meglio una riforma non del tutto condivisa piuttosto che una non riforma. E così noi abbiamo avuto un processo accusatorio all’americana ma senza essere dentro l’ordinamento giudiziario degli Stati Uniti, quindi insufficiente e inadeguato. Infatti è bello dire che c’è parità tra l’accusa e la difesa, ma è anche ipocrita sostenere che questa parità sia stata raggiunta attraverso la riforma del 1988. Non è per niente vero. Quindi io personalmente ritengo che il processo penale vada rivisitato e che ci si focalizzi su alcuni punti: non è necessaria solo la certezza della pena, ma guardando anche quegli istituti che sono stati introdotti nel tempo, alcuni possono anche essere rivisti, perché ci sono ordinamenti in cui la certezza della pena resta tale nonostante la condotta individuale del singolo detenuto.
Noi siamo in un paese in cui i valori spirituali, etici e morali ci vengono offerti da parecchie fonti, senza togliere il merito a tutte le altre istituzioni. Nel nostro paese la Chiesa cattolica è presente e parla di recupero del detenuto fino a farlo ridiventare persona normale, e quindi uomo capace di dare amore e solidarietà dopo avere scontato la giusta pena.
Io appartengo a quella scuola che vuole che il magistrato sia selezionato attraverso il pubblico concorso, quindi non mi faccio prendere dalla suggestione della elezione popolare del magistrato perché sono nettamente contrario. Però personalmente ritengo che qualunque sforzo si faccia, salvo che uno non voglia sancire l’indebita presenza delle correnti, le correnti esistono e inoltre, fatelo dire a uno che molte volte si divide rispetto all’orientamento delle correnti, a uno che sostiene che per quanti sforzi si possano fare anche le correnti possono registrare un punto inattivo, migliorano complessivamente la società civile. Cioè, non sono le correnti a rappresentare il male, il male è questa sorta di incertezza che ha preso l’uomo. Non penso di dire niente di nuovo se non ripetere quello che il 9 giugno ha detto il Capo dello Stato: che il correntismo esasperato è un male. Però ritenere, che noi, dopo aver denunciato il male abbiamo ottenuto una svolta nel rapporto tra la giustizia e il singolo magistrato, a mio avviso, fa parte di quelle astrattezze dalle quali si è voluto, giustamente, tenere lontano il Ministro della giustizia e, se me lo consentite, anch’io, estraneo, intendo tenermene decisamente lontano, anzi, lontanissimo.
Vado verso la conclusione, anche perché non vi vorrei stancare. Io vorrei ricordare a me stesso che il deprecato articolo 68 della costituzione, ha l’impronta di un grande giurista costituzionale: il compianto Leopoldo Elia che fu il primo firmatario, ed io, nella qualità di capo gruppo, sono stato il principale sostenitore della rimozione di quello che appariva alla società civile una impunità permanente. È vero, io dico al ministro che noi abbiamo modificato la costituzione. Io ero Presidente del Senato, potrei anche ipocritamente dire “che cosa c’entra il Presidente del Senato?”, è un terzo estraneo rispetto agli orientamenti delle forze politiche. In più il titolo quinto è stato approvato con una scarsa maggioranza, e il titolo quinto ha creato non pochi problemi dal punto di vista dell’ordinamento, i cui effetti ancora oggi scontiamo e sconteremo ancora di più nei prossimi mesi. Però, quando è stato fatta la riforma dell’articolo 111 della costituzione, modifica approvata all’unanimità, io ero Presidente del Senato, ed è stata fatta da gente di aree politiche diverse. Ora io credo che in questo dibattito molte cose interessanti sono state dette: io ho ascoltato con molto interesse il ministro ma a me serve sottolineare alla mia coscienza, quando tornerò a Roma e riprenderò la mia attività, che il problema della disponibilità è un problema politico serio.
Io credo che le riforme si devono fare, devono trovare l’ambiente idoneo per essere discusse in parlamento, però poi alla fine c’è una maggioranza che, se esiste, ha il diritto e dovere di approvare le riforme. L’importante è non farle con arroganza: io uso questa parola perché la derivo da una riflessione del Ministro Alfano che ha detto “poiché nessuno è eterno io non vorrei dare lo spunto alla futura maggioranza di fare le cose che io, come maggioranza, oggi non mi sentirei di fare”. Le riforme devono essere riforme valide a prescindere dal tempo, il fattore tempo gioca il suo ruolo ma non a tal punto da far diventare urgente una modifica che, se rinviata nel tempo, magari nessuno si sogna di proporre e neppure di approvare. Questo è quello che io traggo da questa discussione. Sono fortemente convinto che se noi mettiamo da parte l’ascia e non facciamo minacce, probabilmente costringiamo anche i più riottosi a dovere fare i conti con le proposte ragionevoli. Il tempo serve per misurare non solo la validità di una maggioranza, che si è formata grazie al giudizio del corpo elettorale, ma anche a modificare i comportamenti dei singoli uomini e delle singole forze politiche, perché le cose che contano sono giudicate dal corpo elettorale. Uno può avere una grande maggioranza a disposizione ma se il corpo elettorale non condivide alcune forzature che si fanno, sia rispetto all’impianto costituzionale sia rispetto alle riforme paga, quelli hanno la responsabilità di gestire il potere politico a livello di governo e a livello di maggioranza parlamentare.
Questo dovrebbe essere il confine: che cosa possiamo fare nell’interesse del Paese, che cosa vogliamo fare, perché possiamo anche rinviare una riforma a miglior tempo, piuttosto che provocare un irrigidimento delle posizioni solo perché si vuole fare qualche riforma fatta entro il 31 luglio 2010, solo perché non si vuole andare via. Le riforme che sono state fatte appartengono ad un’epoca diversa e noi le abbiamo sapute soltanto gestire. L’autorevolezza delle forze politiche sta proprio in questo, nel vagliare tra ciò che è possibile ed utile che vada affrontato e confrontato con le altre forze politiche, e ciò che invece interessa temporaneamente a questa o quella parte della maggioranza. E questi interessi vanno accantonati, anche per non creare grandi contraccolpi non soltanto all’ordinamento giuridico, ma anche alla convivenza civile, da parte degli schieramenti del paese. Come ha detto il capo dello stato, l’Italia è una e se è una bisogna guardare agli interessi molteplici di questo paese, indirizzando la volontà politica e l’azione di governo verso quel riequilibrio di cui il paese ha tanto bisogno. Grazie.

PAOLO TOSONI:
Un’ultima riflessione da parte sua, signor ministro. È stata attuata la riforma del processo civile, è in cantiere un riforma importante come quella del processo penale. Le chiedo: è possibile che queste riforme che vogliono tendere all’efficacia, vogliono tendere ad una maggiore giustizia attuata, possano prescindere da una riforma della avvocatura? Lei è avvocato, io sono avvocato e sappiamo che gli avvocati sono la parte determinante nei processi, e già questo da l’idea che in questo paese ci sono troppi avvocati. Ma al di là della battuta è un problema serio. Parlando con amici, ma anche con i magistrati, l’avvocatura oggi è sicuramente esagerata come numeri -forse ha un primato in Europa da questo punto di vista -, fuori controllo per quanto riguarda la selezione e la deontologia della formazione, e rischia inevitabilmente di diventare un problema serio per il buon funzionamento della giustizia. Quindi l’auspicio è: se riformiamo i processi, di cui c’è bisogno, teniamo ben presente questo problema che è sicuramente reale. Se si interviene, vedremo in futuro gli effetti dell’intervento ma se non si interviene, la situazione rischia di degenerare fino a raggiungere un punto di non ritorno. E questo lo dico da avvocato che esercita tutti i giorni nel palazzo di giustizia.
Un ultimo punto che è stato toccato e che ci sta particolarmente a cuore, quello che ha accennato il presidente Mancino riguardo al recupero del detenuto: c’è una situazione carceraria molto faticosa, so che anche in questo campo c’è l’idea di una riforma, quindi se può accennarcela, l’ascolteremo volentieri.

ANGELINO ALFANO:
Grazie. Se ho capito bene, le domande sono su processo penale, avvocatura e carceri. Allora: sul processo penale ho qui davanti a me un bravissimo magistrato, che è altrettanto bravo come sottosegretario alla giustizia, e cioè il senatore Calliendo, che ha seguito direttamente la stesura del processo penale. Mi viene innanzitutto una battuta: lo dico al sottosegretario Calliendo che divenne membro del CSM a 34 anni, uno dei più giovani eletti. Lui è sempre indulgente nei confronti del CSM, quindi quando esprimo un appunto, lui mi risponde sempre: “Ma sai…”. Per questo lo dico alla sua presenza: siccome il presidente Mancino ha detto che quello del CSM è un parere ancora parziale, spero di non dovermi preoccupare, nel senso che adesso mi aspetto il resto. Spero cioè che sia parziale nel senso che tutto il negativo è già venuto fuori, e adesso manca tutta la parte positiva. Al di là di questo, io credo – e non lo dico al CSM, lo dico in prognosi rispetto al dibattito parlamentare che ci aspetta – che il processo civile faccia meno clamore: non evoca le suggestioni del processo penale, perché il processo penale tiene in gioco la libertà degli uomini, c’entra con i diritti costituzionalmente garantiti, con la libertà, e quindi evoca passioni e suggestioni inimmaginabili nell’ambito della riforma del processo civile. Proprio per questo, quando si parla di processo penale, scendono in campo i valori di fondo che distinguono le sensibilità in materia di giustizia. Per il nostro governo e per chi fa parte della nostra area politica, il primato è sempre e comunque del giudice terzo ed imparziale, per altri, anche se magari non lo dicono esplicitamente, il primato deve essere del PM, della procura. Noi invece siamo per il primato del giudice perché, gira che ti rigira, sia che si parli di riforma costituzionale, sia che si parli della riforma del CSM, noi puntiamo alla parità tra accusa e difesa. Io ringrazio molto per la testimonianza storica del presidente Mancino. Cioè, un grandissimo giurista come Giuliano Vassalli, vivente e ancora lucidissimo, varò un codice di procedura penale, moderno per l’epoca, che tendeva a quello americano, con un bilanciamento tra accusa e difesa. A vent’anni esatti dal suo ingresso in vigore credo che sia giudizio unanime dire che la parità tra accusa e difesa è saltata. Non entro nel merito del perché è saltata, voglio solo dire: la dobbiamo raggiungere questa meta, la parità tra accusa e difesa? Perché? Perché io immagino sempre l’ideale di giustizia funzionante rappresentato dall’immagine della bilancia.
La bilancia ha due piatti e, per come la vediamo noi, un piatto è rappresentato dall’avvocato dell’accusa, cioè il PM, l’altro piatto è rappresentato dall’avvocato della difesa. Che cosa tiene esattamente i due piatti in equilibrio? In tutte le immagini della giustizia, sia nella iconografia cristiana più recente sia in quella volgare, i due piatti sono sempre in parallelo, non c’è mai un’idea della giustizia così, c’è sempre l’idea della giustizia con i due piatti in parallelo. Che cos’è che li tiene esattamente in parallelo? Il PM e l’avvocato li tiene in parallelo solo la presenza equidistante in alto e al centro di un perno, che si chiama giudice. Se il giudice non è esattamente equidistante dall’avvocato dell’accusa, cioè dal PM, e dall’avvocato della difesa, il piatto si sbilancia e il conto come al solito lo paga il cittadino. Giriamola come vogliamo, ma l’obiettivo del processo penale, così come quello della riforma costituzionale, è garantito da un processo giusto, che è tale se è rapido e se accusa e difesa sono uguali.
Quindi l’obiettivo è quello di un processo rapido e giusto. Giusto, grazie alla parità tra accusa e difesa. Però, se il processo è giusto, ma è lunghissimo, ti porta comunque ad una sentenza sbagliata, perché qualunque sentenza che arrivi dopo 15 anni è sbagliata nei confronti degli interessati al processo. Rapido dunque, ma anche un processo rapido può essere ingiusto: se accusa e difesa non sono a un livello di parità, anche se è rapido ti porta ad una sentenza ingiusta. Ecco perché noi tentiamo, e non è un compito semplice, rapidità e giustezza del processo.
Un’ulteriore vicenda sul processo penale e poi cambio argomento. Sarò più rapido. Da noi il pubblico ministero deve avere vinto un concorso per esercitare l’accusa in giudizio, e ci sono centinaia di migliaia di poliziotti, carabinieri e finanzieri in Italia che hanno vinto un concorso per andare a cercare le prove e i criminali per strada, per andare ad individuare esattamente coloro che commettono i reati e che hanno una raffinata formazione professionale. Noi abbiamo anche l’idea che c’è una squadra, una squadra dove insieme gioca il governo, il parlamento, i magistrati, gli avvocati, i finanzieri, i carabinieri, i poliziotti, e i magistrati: questa squadra si chiama “stato”. Ecco perché noi non accettiamo l’idea, e su questo voglio essere anche duro, che alcuni magistrati sostengono, cioè che dare il potere alla polizia, ai finanzieri, ai carabinieri, come peraltro è stato dal ’48 al ’89, sia un qualche cosa che turbi chissà quale coscienza. Noi esprimiamo solidarietà, vicinanza e stima alle centinaia di migliaia di poliziotti, carabinieri e finanzieri presenti e operanti nel nostro paese: sono forze di contrasto quotidiano al crimine organizzato, che ricercano le notizie e le trasmettano al PM, consegnano un semilavorato che poi il PM raffina giuridicamente, controlla se ci sono le condizioni perché un processo venga messo in piedi e se ritiene che l’accusa sia sostenibile in giudizio, la porta di fronte al giudice con il vaglio, il contrasto, il confronto dell’avvocato del cittadino. Questo è lo schema considerato eversivo, un riparto di competenze, che noi riteniamo più efficace in termini di sicurezza, tra le forze dell’ordine e la magistratura. Questo non ha nulla di incostituzionale, perché noi ci muoviamo nell’alveo di una costituzione che in questa direzione ha funzionato dal ’48 al ’89, cioè prima dell’ingresso del nuovo codice di procedura penale.
Avvocatura, anche qui voglio raccontare un aneddoto. C’era un incontro a palazzo Chigi dove una delegazione europea, non mi ricordo di quale commissione europea, doveva fare le pulci alla giustizia italiana. La delegazione mi dice che tra le cause dell’inflazione, dell’arretrato giudiziario in materia civile, vi è l’eccesso del numero degli avvocati, perché più avvocati cercano lavoro e più producono anche artificiosamente un contenzioso per avere lavoro. Io ho contrastato questa tesi. Essendo io avvocato, ho fatto la difesa corporativa: ho detto che il nostro è un paese anche un po’ levantino, e che quindi il contenzioso non viene mai scansato come prima ipotesi, però evidentemente nelle analisi economiche del funzionamento dei paesi c’è il fatto che l’eccesso di avvocatura possa produrre un’inflazione nel contenzioso. Il 28 agosto del 2008 io ero da pochi mesi ministro e ho convocato in via Arenula avvocati, notai e commercialisti, perché ritengo che o c’è una riforma del comparto giuridico economico anche nell’ambito delle professioni vigilate dal Ministero della Giustizia, o non si può fare una riforma della giustizia, come diceva il nostro avvocato Tosoni, senza avere modernizzato anche le professioni che sono rappresentate dai protagonisti del sistema giustizia. Ho chiesto agli avvocati di farmi avere una ipotesi di riforma che fosse condivisa dall’avvocatura. Bisogna anche cogliere l’eccesso di soggettività, di ego dell’avvocato. Siccome io, nonostante la giovane età, mi ritengo discretamente professionista in ambito politico, piuttosto di fare una riforma e farmela bocciare da 170 o 180 mila che la pensano diversamente, ho chiesto loro di mettersi d’accordo prima e di farmi avere una proposta. Così hanno fatto, hanno impiegato 8 o 10 mesi e mi hanno consegnato una buona bozza che è già al senato. Il movente ispiratore di fondo è questo: quello che io ho chiesto che venisse approvato con il disegno di legge di riforma della avvocatura è che l’avvocatura non può più essere la professione del laureato in giurisprudenza che non ha trovato altre professioni, la via del laureato che non ha trovato altre vie, non può più essere lo sbocco di chi non ha trovato altri sbocchi. Ognuno deve fare l’avvocato se sente in sé la vocazione alla difesa, e per fare questo occorre una selezione, scusate il gioco di parole, selettiva, che metta in campo una formazione moderna e che sia in grado, col trascorrere del tempo, di raccogliere i frutti che merita. La globalizzazione dei mercati implica una globalizzazione delle professioni, ma non bisogna abbandonare la specificità della avvocatura italiana, che è fondata su quella targa fuori dallo studio che crea un rapporto di fiducia con il cliente. Quando qualcuno va dall’avvocato, potendo scegliere tra tanti, bussa a una porta e non a un’altra e quando esce è convinto di essere uscito dall’ufficio di una persona della quale può fidarsi. Questo è il bello della avvocatura italiana, non dobbiamo mai trascurarlo. È questo che intendiamo salvaguardare, non volendo assolutamente buttare via il bambino con l’acqua sporca. Carceri. Anche su questo argomento voglio essere molto concreto. Noi abbiamo visto dormire nelle nostre celle questa notte oltre 63 mila detenuti: la capienza regolamentare del nostro sistema carcerario è costituita da 43 mila detenuti, gli stranieri sono oltre 20 mila, il che vuol dire, senza essere grandi matematici, che il sistema carcerario italiano è modulato sul sistema detentivo del popolo italiano. Se ai detenuti del popolo italiano aggiungiamo altri 20 mila e oltre detenuti stranieri, non ce la facciamo.
Per ragioni della storia e di concretezza, mi sono chiesto come si è risolto il problema del sovraffollamento in sessant’anni di storia repubblicana. Ho chiamato il mio ufficio studi, e ho chiesto: “Scusate, in sessant’anni, dal ’48 al 2007, mi dite come è stato risolto il problema?”. La risposta è semplice. In sessant’anni ci sono stati 30 provvedimenti di amnistia o di indulto, per cui anche qui, senza stare tanto a filosofeggiare, delle due l’una: o facciamo il trentunesimo, per cui rientriamo nella media di una amnistia ogni due anni, ne facciamo uscire 20 mila e nel 2011 ne facciamo un’altra – decidiamo quindi di prendere la strada di fare uscire circa 20-25 mila detenuti ogni 2 anni; oppure c’ un’altra strada, che noi abbiamo scelto e che tiene insieme il bisogno di sicurezza dei cittadini con le esigenze di dignità del rispetto dell’uomo. Non dimentichiamo mai che la giustizia di un paese civile non è una giustizia con la bava alla bocca, che si vendica, ma una giustizia che rispetta la vittima, erogando la giusta punizione al colpevole, col pensiero però che quel colpevole dietro le sbarre possa tornare a nuova vita: questa è la giustizia di un paese civile e la giustizia si misura dal funzionamento delle carceri.
Io da questo pulpito, da questo podio, vorrei ringraziare ufficialmente il capo del dipartimento della amministrazione penitenziaria, il dottor Rionta, e tutti i 40 mila e oltre della polizia penitenziaria alle sue dipendenze, che stanno in carcere non per reati commessi ma perché hanno vinto un concorso, e non sono pagati brillantemente. Io li ringrazio di cuore per questo servizio svolto in un agosto così caldo, così come ringrazio i radicali e tutti i 150 parlamentari europei italiani e consiglieri regionali che hanno girato le carceri condividendo con me un giudizio che io, avendo girato per le carceri, avevo non solo nella mia testa ma anche nel cuore: per risolvere il problema del sovraffollamento occorre un approccio nuovo fondato su due elementi e su una premessa. I due elementi sono: la costruzione di nuove carceri, che consentano la vita civile dentro le celle, e una educazione al lavoro dei detenuti dentro le celle. Per via della crisi finanziaria, e di tutto ciò che voi già sapete, noi abbiamo fatto dei tagli in tutti gli ambiti e in tutti i comparti del Ministero della Giustizia e del dipartimento della amministrazione penitenziaria, d’intesa con il capo di dipartimento, con il suo staff e con il vice capo dipartimento della amministrazione penitenziaria. In un solo ambito io ho preteso che non vi fossero tagli, ma che anzi fossero sostenuti i progetti meritevoli, cioè il lavoro nelle carceri. E voi avete una mostra che prova che ci sono esperienze di successo. Perché? Perché se c’è una cosa che abbatte la recidiva, e dunque favorisce la sicurezza, è proprio il lavoro nelle carceri. Del resto, ciascun uomo in carcere si trova ad un bivio esistenziale e concreto: quando esco, torno a fare l’unico mestiere che sapevo fare prima, cioè quello di delinquere, o in questo periodo trascorso in carcere ne imparo un altro che rappresenta l’altra strada della vita? Torno a fare quello che facevo prima o faccio un’altra cosa? Occorre che lo stato, se si vuole privilegiare la funzione rieducativa della pena, appoggi questo lavoro.
Qui poteri toccare altri argomenti ma finiremmo tardi. Li accenno solo: 1) quelli in custodia cautelare stanno in carcere dai10 ai 20 giorni. E che cosa vuoi rieducare, che lavoro gli vuoi insegnare in quel tempo? 2) Gli stranieri non hanno tutti una tendenza naturale a imparare la lingua, ad imparare un mestiere in Italia. Quindi noi ci confrontiamo con un grave problema. Certo una strada che stiamo seguendo è quella della costruzione di nuove carceri e l’altra strada è quella della funzione rieducativa attraverso il lavoro. Adesso vi parlo della premessa. Io sono rimasto un po’ inquietato da una condanna di 1000 euro che l’Europa, e specificatamente la Corte di Giustizia Europea, ci ha inferto per il ricorso di un bosniaco che stava stretto in cella. Ora, a parte il fatto che a quel bosniaco noi stiamo pagando vitto e alloggio, e questo costa parecchio, lui ha commesso un reato e c’è una vittima che piange per lui; e a parte il fatto che abbiamo garantito un giusto processo, e anche questo è un costo per il paese, che l’Europa ci venga anche a condannare e che contemporaneamente non si faccia carico del fatto che noi abbiamo oltre 20 mila detenuti stranieri, che senza questi 20 mila detenuti stranieri noi non avremmo il problema del sovraffollamento carcerario, è grave. Non è colpa dell’Italia se Lampedusa è il livello di passaggio tra la povertà e il benessere, tra l’Africa e l’occidente, tra il nord e sud del mondo. Non è mica colpa della Sicilia, di Agrigento, di Lampedusa. Allora, bisogna capire che questo è un tema nuovo: vent’anni fa noi avevamo problemi differenti, ora invece senza i detenuti stranieri noi rientreremmo nella capienza prevista dalle nostre carceri. Allora, o l’Europa diventa interlocutore, stipulando nuovi trattati e facendosi garante dei trattati inadempiuti da parte dello stato italiano e di altri stati rivieraschi del nostro continente europeo, oppure noi siamo lieti anche di questa terza soluzione: l’Unione Europea ci dà i soldi per costruire nuove carceri, perché noi abbiamo problemi che altri paesi europei non hanno. L’Europa non può comminare sanzioni senza aver contribuito a produrre la regola: quando ci sarà la regola andrà bene anche la sanzione. Questo è il punto. E a chi mi dice, come la rispettabilissima e stimabilissima senatrice Bonino, che non è compito dell’Europa, io dico, da europeista non devoto ma convinto, che se anche fosse davvero così e non fosse veramente compito dell’Europa, per il bene dei singoli uomini, che siano eritrei, albanesi o rumeni, che hanno diritto a vivere, per il loro bene l’Europa deve caricarsi di un compito in più.

PAOLO TOSONI:
Ringrazio i nostri due interlocutori per due ragioni semplicissime e velocissime: già solo il fatto che siete qui con noi è un segnale che ci conforta per quello che speriamo sia un autunno di riforme condivise al fine di servire il bene comune, di cui la giustizia è la parte fondamentale. In più, vi ringrazio perché il titolo di questo meeting, “La conoscenza è sempre un avvenimento”, indica un metodo da cui partire, e le istituzioni, soprattutto la politica, devono sapere guardare la realtà e farsi interrogare dalla realtà, e da questo punto di vista ci conforta che su tematiche così complesse, non ultima quella delle carceri, ci si adegui alla realtà, per servirla. Questa è un’ipotesi di conoscenza vera, un’ipotesi di uno sguardo diverso che non parte dal pregiudizio, dall’ideologia o dalla fazione politica. E l’avvenimento sarà inevitabilmente il gusto per un compito di cui tutti abbiamo la responsabilità, ma soprattutto ce l’hanno coloro che sono chiamati a fare le riforme che, speriamo, si possano attuare nel migliore dei modi. Grazie a tutti per la partecipazione e buona giornata.

(Trascrizione non rivista dai relatori)

Data

26 Agosto 2009

Ora

11:15

Edizione

2009

Luogo

Sala Neri
Categoria
Incontri