SENSO DELLA COMUNITÀ E SMART CITIES

Senso della comunità e smart cities

In collaborazione con Unioncamere. Partecipano: Cristiano Radaelli, Vice Presidente di Confindustria Digitale e Presidente di Anitec (Associazione Italiana dell’Industria dell’Informatica, Telecomunicazioni e Elettronica di Consumo); Carlo Ratti, Director MIT Senseable City Lab and Co-founder carlorattiassociati; Nicola Villa, Managing Director, Global Public Sector, Cisco. Introduce Bernhard Scholz, Presidente della Compagnia delle Opere.

 

SENSO DELLA COMUNITÀ E SMART CITIES
Ore: 19.00 Sala Neri
In collaborazione con Unioncamere. Partecipano: Cristiano Radaelli, Vice Presidente di Confindustria Digitale e Presidente di Anitec (Associazione Italiana dell’Industria dell’Informatica, Telecomunicazioni e Elettronica di Consumo); Carlo Ratti, Director MIT Senseable City Lab and Co-founder carlorattiassociati; Nicola Villa, Managing Director, Global Public Sector, Cisco. Introduce Bernhard Scholz, Presidente della Compagnia delle Opere.

BERNARD SCHOLZ:
Buonasera a tutti e benvenuti a questo incontro sulle smart cities, che è un tema importante, urgente, se pensiamo che da dieci anni più della metà della popolazione mondiale vive in città e chi vive in città cerca aria pura, cerca un cielo almeno un po’ azzurro, cerca parcheggi in continuazione, cerca scuole vicino a casa non troppo costose, cerca un servizio sanitario pagabile e non troppo lontano e anche efficace. Se sappiamo quali sono tutti i problemi legati alla conquista di un appartamento sostenibile economicamente e non troppo in periferia, se sappiamo cosa vuol dire creare un’economia in città che funzioni senza pesare troppo sull’ambiente, e se sappiamo anche quanto è difficile vivere in città senza cadere nell’anonimato, cioè avere anche la possibilità di vivere delle relazioni e fare una vita sociale che non diventi alienante, abbiamo solo tracciato alcuni problemi principali. Teniamo poi anche conto che questi problemi, e tanti altri che non accenno neanche, li viviamo già nelle città di Roma, Milano, Napoli, Bari, Torino, che rispetto ad altre città del mondo sono dei semplici quartieri, quindi la sfida è enorme e quindi i problemi sono, come detto prima, urgenti. La domanda da un certo punto di vista è molto semplice: è possibile creare delle città vivibili, visto che l’urbanizzazione è inarrestabile? È possibile renderle più vivibili, quando, in certe città del mondo, ci sono oggettivamente esperienze anche al limite della tragicità? Quindi smart cities sono un tentativo di dare una risposta; è un concetto che è nato negli anni ’90 e racchiude tutta una serie di obiettivi: prima di tutto l’obiettivo della sostenibilità ambientale, poi è caratterizzato dall’utilizzo dell’information communication technology, che riguarda i servizi sanitari educativi, riguarda molto la questione del traffico privato, pubblico e come detto prima anche la vivibilità dal punto di vista sociale. Noi vogliamo parlare di questo tema oggi, con tre ospiti: Cristiano Radaelli, che è Vicepresidente di Confindustria Digitale e Presidente di Anitec, ha lavorato in prestigiose aziende multinazionali del mondo ICT e quindi è molto ricco di esperienze in questo settore, anche per quanto riguarda il tema delle smart cities. Nonostante un incidente estivo, ha avuto il coraggio di venire qua, è la prima giornata fuori dal letto, quindi un ringraziamento particolare. Carlo Ratti, non ha avuto nessun tipo di incidente ma è arrivato da Singapore, quindi se si addormentasse abbiate comprensione, non è perché il tema non interessa, ma perché il jet lag fa il suo effetto. E’ architetto, ingegnere e Direttore del Senseable City Lab del MIT ma non è posizionato in questo momento in America ma a Singapore come già detto. Il Wired Magazine l’ha definito una delle 50 persone che cambieranno il mondo, quindi avete solo 48 altri che potranno avere il suo influsso, benvenuto! Infine Nicola Villa, Direttore del settore Global Public in Cisco, che è una delle più grandi multinazionali nel campo dell’ICT, una delle prime società che si è occupata del tema delle smart cities, è anche membro del consiglio del World Economic Forum’s. Benvenuto! Allora cominciamo con la domanda a Cristiano Radaelli, al quale ho chiesto di dirci qual è, in cosa consiste il concetto delle smart cities, qual è il senso di questo termine, quali sono le prospettive alle quali mira. Visto che parliamo molto di ICT, anche questo incontro sarà molto digitale e quindi tutti e tre presenteranno i loro interventi con delle slides, sperando che il sistema poi funzioni come Dio comanda. A te la parola.

CRISTIANO RADAELLI:
Dunque, innanzitutto, parliamo un attimo delle città: un secolo fa, soltanto una persona su sette a livello globale viveva in città. Il 23 maggio 2007, almeno così dice l’ONU, è stato raggiunto il fatto che a livello globale ci sono più abitanti in città di quanti ce ne siano nelle campagne. Ovviamente questa, come possiamo vedere, è una tendenza in crescita, quindi le città rappresentano oggi il luogo di maggiore sviluppo e di maggiore attenzione, sia rispetto all’evoluzione delle comunità e delle persone che ci vivono, sia come attrazione degli investimenti per quanto riguarda lo sviluppo delle stesse città. Questo è un po’ l’elemento importante, perché è un cambiamento fondamentale nello stare insieme delle persone, dell’uomo su questa terra, per cui è stato raggiunto in questi anni il fatto che vivono più persone in città che in campagna. Domandiamoci innanzitutto cos’è una città. Ho provato a utilizzare una descrizione fatta da Giovanni Botero attorno al 1600: “Città s’addimanda una radunanza d’uomini ridotti insieme per vivere felicemente, e grandezza di città si chiama non lo spazio del sito o il giro delle mura, ma la moltitudine degli abitanti e la possanza loro”.
Qui c’è un elemento importante, il fatto che la città, già nella descrizione di Botero, non vuol dire quante sono le case, quante sono le strade o quante sono le mura, la città è costituita dagli uomini, quindi dalle comunità che decidono di mettersi insieme, di vivere insieme con uno scopo, che è quello di vivere felicemente. Questo è un aspetto importante, tra l’altro se posso fare un collegamento con la mostra della natura che ho visto prima, è importante vedere come nella mostra che c’è nel padiglione, credo D, si faccia vedere come tutta l’evoluzione della natura, dell’agricoltura, porta sempre anche dei cambiamenti sociologici. Ci sono degli sviluppi tecnici, tecnologici o nel campo dell’agricoltura che hanno poi un impatto sociologico sul modo di stare insieme delle persone e quello che discutiamo oggi è come siamo nel mezzo di un cambiamento e come questo cambiamento si avrà, si impatterà, avrà un’evoluzione anche nel senso di comunità, nello stare insieme delle persone. Una città, dobbiamo porci questo aspetto importante, esiste se ci sono attività, se ci sono imprese, se c’è lavoro. Questa è una cosa particolarmente sentita in questi tempi, spesso viene sottovalutata, la città non è solo tecnologia, non è solo mura, la città esiste se esiste una comunità insieme, ma la comunità può vivere e fiorire solo se c’è lavoro e attività condivisi. Quindi perché la città cresca nel futuro, e ovviamente se diventerà una città intelligente, meglio, ma in ogni caso perché esista in futuro, è necessario pianificare le attività che vi vengono sviluppate, in quale ambiente architettonico, e come dotarle di quelle infrastrutture che permetteranno alle persone e alle attività di evolversi in quel sito. Questo è un aspetto importante che riprendiamo anche dopo; non basta fare qualcosa, bisogna avere in mente qual è l’obiettivo che vogliamo raggiungere. Quindi la città intelligente non è solo una sfida tecnologica, ma è un nuovo ecosistema urbano di sviluppo sociale, all’interno del quale abbiamo i vari attori che devono lavorare su obiettivi comuni. Un altro aspetto importante, che è particolarmente sentito con l’evoluzione tecnologica, è il connubio tra paesaggio fisico e realtà tecnologica. Le città si sono evolute in un modo tale per cui si sono avuti ambienti segregati. Pensando al futuro, è necessario riportare e rifar vivere un connubio tra quello che è la parte virtuale, quindi le infrastrutture tecnologiche, e la parte fisica, quindi ad esempio come riportare il verde nelle città e fare che il verde diventi un ambito in cui sviluppare la vita e l’attività della comunità. Quindi smart, questa descrizione l’ho presa dall’architetto Kipar, è “quel quid che divulga il paesaggio, mette in rete le informazioni della città e per la città, qualifica lo spazio pubblico (green compreso) rigenerandolo”. Come dicevamo, le città in passato si sono sviluppate, in particolare negli ultimi decenni, in aree segregate: la parte industriale, la parte residenziale, la parte di verde, la parte di intrattenimento. Ora, l’attuale rivoluzione tecnologica, il cambiamento tecnologico in atto, che è già in corso, che è partito in particolare con internet, ma un po’ in tutti i settori e le applicazioni, ha completamente travolto questo approccio, perché mentre prima era necessario avere questa segregazione di attività, oggi noi possiamo fare qualsiasi cosa in qualsiasi posto. Quindi noi possiamo divertirci, commerciare, lavorare, studiare in qualsiasi posto, purché ci sia un’infrastruttura che sia sufficientemente pervasiva da permettercelo. Questo è un impatto che coglie molti aspetti. Senza approfondire altri temi, c’è sicuramente un aspetto sulla pianificazione delle città, su questo poi i colleghi andranno ad approfondire con esempi concreti, perché è evidente che non ha più senso pensare oggi a una città mediante un piano regolatore su aree segregate, quando noi possiamo e vogliamo fare tutto da ogni parte. L’altro aspetto, e tocco molto velocemente la questione, che dovrebbe essere molto sensibile in Italia, anche se se ne parla poco, è che uno di questi enormi cambiamenti che c’è stato, è quello, ad esempio, delle stampanti 3D, di cui in Italia si parla poco. Cito solo un esempio: la NASA ha approvato, tre settimane fa, il fatto di aver iniettori per motori razzo fatti da stampanti 3D. Quindi se qualcuno ha in mente che le stampanti 3D venivano usate per fare dei giocattoli, significa che forse non è più così. In Cina hanno cominciato a fare degli organi di tessuti umani fatti con stampanti 3D. Inoltre sono dei macchinari molto semplici, che non dico che uno se li metta nel soggiorno di casa, ma comunque in ambienti cittadini, che non inquinano e quindi si possono mettere da qualunque parte. E questo conferma il concetto di prima: non c’è più la necessità di un’area industriale. Lo studio del prototipo può essere fatto in un centro di ricerca che, appunto, usando delle tecnologie, non ha bisogno di spazi particolare, ma può essere diffuso e tutta la catena che ne segue è una gestione di file che poi vengono trasportati a una stampante, come se fosse un foglio da stampare. Questo cambia innanzitutto, avrà degli impatti enormi sull’Italia, dove il manufacturing è uno degli elementi fondamentali e per me stiamo un po’ dormendo su questo aspetto. Ma ha un impatto, tornando al tema specifico di stasera, sul discorso delle città intelligenti. È una conferma in più che non si può più progettare città pensando ambienti segregati. Il futuro è già oggi, possiamo fare tutto da qualsiasi parte. Ovviamente se abbiamo infrastrutture tecnologiche che permettano di farlo. L’accesso integrato alle informazioni sono una risorsa per la nuova socialità urbana. Anche su questo andrò molto velocemente, perché poi ci torneranno alcuni dei colleghi successivamente. Però è chiaro che il fatto di avere una rete diffusa e con dati disponibili ha due aspetti: da un lato, il fatto che ci son tanti dati disponibili che possono essere resi per migliorare la qualità della vita e il livello dei servizi forniti ai cittadini. L’altro aspetto che tutti noi, credo, vediamo quando utilizziamo gli smartphone, consciamente o inconsciamente, è che in realtà qualsiasi utente ha oggi già cambiato la sua funzione, perché ognuno di noi che usa uno smartphone e penso anche un telefonino normale, da un lato, utilizza dei dati, utilizza dei servizi, ma nello stesso tempo è anche un creatore di dati e servizi. Faccio un esempio banale ed è quello ad esempio che voi usate molti sistemi che fanno vedere il traffico. Il traffico nasce, una delle possibilità, da una misura dei telefonini che ci sono accesi in quel tratto. Quindi è evidente che ognuno di noi in una città, già oggi, è allo stesso tempo fruitore di servizio ma anche generatore di dati. Questo quindi cambia il nostro approccio, magari culturalmente non l’abbiamo ancora elaborato, ma è un cambiamento che sta avvenendo. La trasformazione che ci porterà questo cambiamento tecnologico, ha un impatto evidente anche sulle modalità di stare insieme, è una trasformazione globale, come un po’ appunto, dicevo, si vedeva nella mostra. Nella storia è sempre stato così: il cambiamento tecnologico produce dei cambiamenti nel modo di interagire ma anche nel modo di stare insieme delle persone, di fare comunità. Quindi è un cambio che coinvolge tutti i vari aspetti: culturale, economico, sociale, ambientale, amministrativo, sicurezza, trasporti, viabilità e così via. Le metropoli più virtuose hanno già iniziato un cammino che prevede una trasformazione. Ora qui poi i colleghi entreranno più nel dettaglio. Quando si parla di smart city se ne vedono un po’ di tutte. L’anno scorso, in un convegno, ho visto un sindaco che ha fatto una via di 200 metri con i lampioni che si accendevano e si spegnevano automaticamente col chiarore della luce: detto fatto, la smart city. Qualche dubbio ce l’avrei, però uno può presentarsi come crede. Però in realtà ritorniamo al discorso di prima, cioè perché un cambiamento sia di successo, sia serio, bisogna decidere dove si vuole andare. Vi ho riportato un detto di Seneca, che nessun vento è favorevole per chi non sa dove andare. Quando c’è un cambiamento e si vuole costruirlo, perché abbia successo bisogna prima decidere verso quale comunità, verso quale ruolo, che cosa vogliamo fare nella nostra comunità in futuro. Perché questo è il punto che dobbiamo domandarci alla base, e poi svilupperemo il tema, ottimizzando le tecnologie più avanzate, i concetti urbanistici più avanzati. Ma il fare delle mosse in avanti senza aver pensato che comunità vogliamo essere nelle nostre città, sono delle mosse che poi alla fine non portano da nessuna parte. E quindi prima dobbiamo valutare in che direzione crescere, e attorno a quello aggregare poi il sapere, le attività imprenditoriali e così via. Un altro punto importante di questo cambiamento – è un po’ trasversale a ciò che dicevamo – è che negli ultimi cinquanta anni si è passati da un’economia che era fondata sulla produzione di beni materiali a un’economia basata su innovazione e conoscenza. Questo passaggio, che è importantissimo e in cui vediamo aree del mondo che sono più avanti e altre che sono più indietro, riporta – e qui ci avviciniamo a uno dei temi del Meeting di quest’anno – all’importanza dell’uomo, perché quanto più diventa importante l’innovazione e la conoscenza, quanto più è importante l’uomo e la comunità che vive questo passaggio, perché non si tratta soltanto di produrre questo o quel bene, si tratta di come condividere e come far crescere il sapere e la competenza. E quello che sta avvenendo è che comunque le economie che sono più avanti in questo percorso, hanno un effetto di catalizzatore sempre più forte. Quelle che stanno rimanendo indietro, stanno perdendo sempre più terreno. Questo è visibile all’interno degli Stati Uniti, credo tra le aree dove ci sono più competenze, più sapere, più innovazione, che stanno sempre più crescendo e attirando persone da tutte le parti del mondo, e aree dove questo processo non è così di successo, che invece stanno perdendo e decadendo. Questo effetto è ancora esistente e ancora più amplificato a livello mondiale, dove abbiamo delle aree che effettivamente hanno una funzione di traino e dove le persone che più si sentono invogliate e che più vedono la possibilità di portare innovazione e di costruire qualcosa vanno a spostarsi indipendentemente in qualsiasi parte del mondo, da altre che invece stanno decadendo. Quindi è importante che anche noi in Italia ci riflettiamo, pensiamo un attimo a questo aspetto. Perché se non riusciamo ad invertire la tendenza e andare a diventare una delle aree catalizzatrici dell’innovazione, rischiamo sempre più di perdere terreno. Qual è il driver a livello della singola comunità? A mio parere il driver è la politica e la pubblica amministrazione, perché abbiamo tanti attori, ma può essere solo una politica che pensa al futuro che riesce a fare da aggregante e da regista di questo cambiamento. Se la politica non fa ciò, credo che sia impensabile che i singoli attori possano automaticamente svilupparsi. E questo discorso – l’abbiamo visto anche di sfuggita nei casi precedenti – ha degli effetti molto importanti relativamente proprio al come stare insieme, a come si condividono le cose, a quali sono gli obbiettivi e le opzioni fatte. Nel preparare la presentazione di oggi, ho letto alcuni argomenti che prima non avevo visto. Magari dirò una cosa ovvia, però ho visto che tra le città conosciute di più negli Stati Uniti sul discorso smart city, c’era Raleigh. Io onestamente non la conoscevo, ho cercato, sono andato a cercare il sito della città di Raleigh. Quando uno entra lì, vede immediatamente quali sono le opportunità, quali sono i servizi pubblici, com’è allocato il budget comunale, per quali tipi di spesa e quanto a fronte del budget è stato speso. Cioè c’è un rapporto comunità-cittadino trasparente e di propositiva costruzione, dalla quale siamo lontani anni luce e però è un punto sul quale bisogna assolutamente cambiare, se si vuole far andare avanti l’Italia. Quindi, come conclusione e poi cedo la parola ai colleghi, quello che io vedo come comunità in movimento e come smart city, è che la città è di fatto una comunità in movimento e continuerà a esistere se ci saranno attività e lavoro e se i valori e il senso dello stare insieme sapranno attrarre nuove persone. Ma il senso della comunità sarà quello che le persone che la compongono, che la vogliono, sono in grado di realizzare e costruire in questa direzione. Grazie.

BERNARD SCHOLZ:
Prima di porre la domanda a Villa, volevo dirvi che in Italia, se il decreto legge di questo Governo verrà realizzato, avremo dal primo gennaio dieci aree metropolitane che richiederanno un assorbimento di mille comuni e avremo la popolazione di diciotto milioni dentro le città, e quindi il tema del quale stiamo parlando è assolutamente importante. Perché possiamo parlare di assorbimento ma le aree metropolitane sono un riconoscimento del fatto che tutti questi comuni sono già così correlati fra di loro che devono anche esse gestiti con criteri comuni e con strategie comuni, perché la smart city presuppone una strategia comune per delle aree che di fatto sono già insieme. Alcune città sono già delle città senza essere chiamate tali. Per farvi un esempio, Napoli ha un tale entourage di piccoli comuni che triplicherà la popolazione. Quindi questo Decreto prenderà atto del fatto che siamo a questi livelli. Milano raddoppierà e Roma raddoppierà anche essa. Solo per dirvi che il problema è riconoscere che ormai abbiamo le aree così dense di popolazione che non trattarle insieme, per tutti i criteri che appena abbiamo sentito, vuol dire non riconoscere un’urgenza che di fatto si pone. A questo punto chiederò a Villa, per la sua esperienza, essendo, possiamo dire, sempre in giro per il mondo, in tema di smart cities e di intelligenza organizzativa di queste città, se esistono delle best practices o esempi dove possiamo già vedere come questo progetto viene realizzato in modo proficuo per la popolazione.

NICOLA VILLA:
Grazie e buongiorno a tutti. La domanda che mi hai fatto è una domanda che mi han fatto molto spesso, qual è la smart city per antonomasia e chi è smart e chi non è smart. Innanzitutto io, molto spesso, in maniera non solamente provocatoria, propongo di abolire il termine smart cities, come se nel futuro ci fossero città che sono smart e città che sono stupid. Le città saranno più o meno smart con gradazioni diverse. L’altra cosa che dico spesso è che, per guardare al futuro in questo momento, bisogna guardare un po’ al passato e cercare di capire quattromila anni fa come le nostre città, la città come la intendiamo noi, sono nate; e le città sul delta di alcuni fiumi, tra cui il Nilo che vedete qua e anche il Tigri e l’Eufrate, sono nate per un bisogno sia di aggregarsi e di comunicare dal punto di vista sociale che per un bisogno economico. Quelle che noi oggi chiamiamo delle rivoluzioni industriali, delle piccole rivoluzioni nel campo agricolo, hanno portato alla sovrapproduzione di prodotti agricoli e quindi al fabbisogno, dal punto di vista delle persone, di potersi scambiare questi prodotti, trasportarli su reti fluviali e anche di comunicare. Quindi la rete fluviale è stata, diciamo, il primo elemento fondamentale che ha permesso la nascita delle città come le intendiamo noi. Negli ultimi quattromila anni poi, sulla rete fluviale se ne sono sovrapposte altre: la rete viaria, la rete fognaria, poi con i romani quella acquaria, la rete elettrica e così via. Queste reti si sono un po’ intersecate in maniera abbastanza scoordinata e quindi circa cento anni fa, a Barcellona, un architetto urban planner, Ildefonso Cerdà, ha cominciato a pensare, innanzitutto ha coniato il termine urbanismo e poi ha cominciato a pensare a come queste città potessero essere pianificate in maniera più ordinata. Se oggi andate a Barcellona, i risultati della pianificazione urbana di Cerdà sono ancora evidenti su quella che è la struttura, appunto, cittadina. Il problema è che, negli ultimi cent’ anni, la cosa ci è un po’ scappata di mano, quindi i pianificatori urbani hanno cominciato a pensare per noi dove si doveva dormire, dove si doveva lavorare, dove ci si dovesse intrattenere e così via, creando una serie di problemi come quello che vedete. Questa è la città di Los Angeles, che è appunto una di quelle città in America più invivibili di tutte; a un certo punto si lavora a un’ora e mezza di macchina da dove si vive, ci si intrattiene praticamente dall’altra parte. Joan Clos che è il Direttore generale di You and Habitat, recentemente, anche lui in maniera provocatoria, in una conferenza alla quale eravamo, ha proposto di abolire la professione di pianificatore urbano, dicendo che tutto quello che è la gestione delle zone, non lo vorremmo più vedere, citando un esempio molto importante che è quello di Vancouver. Vancouver si è trasformata negli ultimi vent’anni, creando appunto questo misto residenziale intrattenimento retale per quello che riguarda il commercio e le aziende a livello di singolo edificio, piuttosto che a livello, diciamo, di città. La cosa interessante, oltre a quella appunto di queste discussioni un po’ a livello internazionale e di questi esperimenti molto interessanti per quello che riguarda la pianificazione urbanistica, è negli ultimi anni l’ascesa di una nuova rete, oltre a quelle esistenti, che è la rete Internet. Penso ci siano qua architetti e pianificatori urbani: fino a cinque anni fa, si pianificava una città piuttosto che un quartiere senza pensare all’ICT e alla rete internet e poi si cominciava a retrofiltrare le infrastrutture e il disegno cittadino, pensando “ma c’è questa cosa che si chiama internet che mi permette di ripensare per esempio a dove le persone possano lavorare”. Oggi la pianificazione è molto più integrata, la rete quindi non soltanto deve essere disegnata in maniera molto più intelligente delle reti che sono state sviluppate prima di questa, ma è anche una rete che permette alle altre reti di essere più intelligenti. A Barcellona ogni volta che si scava, diciamo, sotto terra, per usare un esempio di riferimento, non soltanto si stende l’acqua e l’elettricità, ma si stende anche la fibra legata, diciamo, a questo tipo di investimento, quindi non devo riscavare tre o quattro volte, ma metto tutte le mie utilities in una parte unica. A Barcellona, poi, non si discute più da anni se c’è bisogno di mandare largo oppure no, cosa che facciamo ancora in Italia, ma si discute di quanto sia larga la banda. Quindi la banda ultra larga diventa di fatto standard a Barcellona per quelli che sono gli investimenti della pubblica amministrazione. Quindi le reti diventano reti più intelligenti, gli edifici iniziano a consumare meno energia se sono connessi e quindi diventano sostenibili e i sistemi di trasporti in molte città, pensate a Singapore, sono molto più efficienti perché sono collegati in rete. Questa rete poi comincia a produrre una serie di dati impressionanti, quindi non soltanto le persone e i computer si collegano in rete, ma virtualmente tutti gli elementi fisici del tessuto urbano si collegano e vengono messi in rete. Noi definiamo in Cisco questo fenomeno, internet of everything, che è un po’ la terza fase di internet. Se ci pensate, negli anni Novanta internet è nato e si è sviluppato come fenomeno più o meno legato alle grandi aziende, quindi c’erano gli e-commerce, vi ricordate, gli e-trade e così via. Negli ultimi dieci anni, internet è diventato un fenomeno sociale con la parte del social network, Facebook, Twitter e così via. In questo momento siamo di fronte alla nascita della terza fase di internet, che diciamo è la fase di industrializzazione di internet, quindi con quantità enormi di dati, di infrastrutture che diventano sempre più pervasive. Il problema diventa che cosa ne facciamo di tutti questi dati. E si comincia a pensare non solo a quanti sono questi dati, vedete qui appunto alcune informazioni che abbiamo ricavato, ma si comincia anche a pensare come utilizzare questi dati. Pensate che oggi le informazioni, che sono gigantesche sulla rete, vengono utilizzate solo per il cinque per cento, quindi i dati che vengono prodotti stanno sui server e non si sa bene cosa farne. Dall’altro canto abbiamo dei problemi legati all’urbanizzazione, al cambiamento climatico, alla disoccupazione, che necessitano di questi dati, ma non si riesce a conciliare queste due cose. Quindi c’è una disponibilità di informazioni, che ci permetterebbero di ripensare come i veicoli si muovono in città e quindi di diminuire il traffico, ma non sappiamo, diciamo, come utilizzarli e quindi come metterli a fattor comune. I dati poi non soltanto sono disponibili ma devono essere resi aperti, quindi devono essere dati, dati in fruizione dal pubblico al privato, dalle piccole medie imprese ai cittadini e viceversa. Questo è il fenomeno degli open data. Qui c’è una ricerca che abbiamo fatto recentemente, mettendo insieme i dati del Governo inglese su Londra, del Governo americano a livello nazionale, di Saragozza ma anche a livello italiano, i dati appunto gov.it e questi sono i tipi di dati, di informazioni che il settore pubblico mette a disposizione di chi li vuole utilizzare. L’Italia è un centro di eccellenza, secondo noi, non soltanto per l’ISTAT che ha rilasciato la maggior parte di dati che poi ha lanciato su internet, ma anche per il comune di Firenze. Il comune di Firenze è la seconda fonte più rilevante in Italia di dati, sta lavorando in questo momento per cercare di creare, appunto, l’innovazione, affinché le piccole e medie imprese che lavorano su questa filiera comincino a collaborare a livello internazionale. Quindi i dati non soltanto devono venire creati ma anche resi disponibili. Un esempio già del 2000 e sul quale abbiamo lavorato spesso, anch’io personalmente che sono passato da Amsterdam, è quello dell’Ecomac; quindi sia con Amsterdam che con San Francisco si cominciò nel 2006, periodo di focalizzazione sul cambiamento climatico – vi ricordate Clinton e Gore, che questa cosa l’hanno un po’ diciamo cavalcata e sviluppata? -. Ebbene, abbiamo pensato con i sindaci a come utilizzare i dati che venivano resi disponibili ai tempi dal settore trasporti pubblici, dalla rete energetica, quindi dalle utilities, dalle aziende municipalizzate che si occupano di riciclare rifiuti, per cercare di capire quanti di questi dati potessero essere combinati tra di loro, forniti ai cittadini, cercando di spostare l’ago, questa è una definizione che diede il sindaco di San Francisco, di spostare l’ago da collective intelligence a collective action. Il sindaco disse: “Io vorrei fare vedere ai miei cittadini quale performance hanno a livello di quartieri per quello che riguarda il loro livello di consumo energetico, per renderli responsabili, coinvolgerli e permettere loro di creare loro stessi, nelle loro comunità, soluzioni a questi problemi”. Quindi mettemmo in rete queste informazioni su una piattaforma che esiste ancora oggi e i cittadini incominciarono a utilizzarli un po’ per conto loro. Innanzitutto una serie di cittadini e una serie di associazioni cominciarono a portarci una serie di dati che non pensavamo esistessero. La San Francisco Association ci diede dati che erano relativi al trasporto, dicendo: “Noi sappiamo che su queste strade ogni anno ci sono incidenti legati alle biciclette e alle automobili e quindi sappiamo quali sono le strade più sicure in bicicletta piuttosto che altre”. E cominciò ad arrivare una quantità impressionante di dati che noi continuavamo a mettere in rete. Altra cosa interessante, che piccole medie imprese cominciarono a creare del business su questa cosa. Ad Amsterdam c’è una legge comunale che incentiva, come adesso anche a San Francisco, l’installazione di pannelli solari sui tetti. Il comune ci diede delle foto aeree dove si vedeva la metratura dei tetti e un’azienda si prese in carico questi dati, cominciò a mettersi d’accordo con le aziende che producevano pannelli solari e fece un po’ da consulente con dei siti internet. Ti arrivavano a casa e ti dicevano: “Guarda che tu hai diciotto mq di tetto non utilizzato, se vuoi metterci dei pannelli li installiamo noi, ti facciamo la consulenza, ti facciamo capire come risparmiare sulle tasse, e così via”. Quindi questo è un esempio di modelli di business che senza che noi neanche ci provassimo, partirono su questo tipo di infrastruttura. La cosa più interessante è che oggi ad Amsterdam ci sono n mappe, n ecomappe. Questo primo investimento pubblico ha dato adito ad un investimento privato molto più ampio, con molte iniziative che vanno a sviluppare questo tipo di attività. I coreani, come fanno al solito, hanno un po’ industrializzato questo tipo di processo. Vedendo quello che succedeva nelle città del mondo, a Busan, che è la seconda città in Corea più grande, con cinque milioni di abitanti, il Comune, insieme ad alcune aziende e molto associazionismo locale, ha creato l’incubatore per soluzioni di smart cities. Quindi oggi il Comune ha una piattaforma tecnologica con gli uffici che vengono dati in gestione sia a persone singole sia a piccole medie imprese che vogliono sviluppare implicazioni legate alla smart cities. Anche qui la cosa interessante è che queste aziende agiscono innanzitutto su un contratto a commissione pubblica, quindi hanno un introito garantito per un paio di anni, perché vinto con una gara del Comune, perché l’applicazione è legata alla amovibilità all’energia piuttosto che alla parte di aggregazione sociale. Ma una volta che queste aziende hanno questo contratto per un paio di anni, iniziano a sviluppare applicazioni che fanno tutt’altro. Una ragazza che ho visto recentemente, che ho incontrato, aveva vinto le gare per lo smart world assistant, che permetteva di vedere dove sono i posti di lavoro disponibili in città, e ha creato un’applicazione in Corea legata al consumo delle calorie su un’ape e quindi questa cosa l’ha fatta partire per la Silicon Valley. Qui l’idea di innovazione, inizialmente finanziata dal pubblico, su progetti pubblici, ha sviluppato un respiro molto più ampio. Un’altra cosa molto interessante è avvenuta a Chicago. Anche qui il pubblico, una volta fatti investimenti iniziali, si è un po’ tirato indietro e ha lasciato che le piccole e medie imprese continuassero loro a fare questo tipo di investimenti. Questo è soltanto un estratto di una serie di applicazioni che il mese scorso ho visto presentate a noi, dove appunto vengono create, dalle informazioni iniziali di infomobilità, una serie di altre funzionalità da parte di queste piccole medie imprese. In questo momento il comune non si deve più preoccupare se la loro applicazione, quella comunale, sia utilizzata o no, perché ci sono N che si occupano di attività molto simili. Interessante, poi, è come da Chicago partano iniziative legate soprattutto all’Africa, al Kenya, dove comunità e non città, ma singole comunità o imprenditori, a Chicago o in Kenya, hanno iniziato a collaborare sullo sviluppo di piattaforme tecnologiche molto semplici. E’ stato interessante quando mi hanno presentato questo progetto, dove a Chicago pensavano di creare l’applicazione per insegnare in Kenya come utilizzarla. Ma impariamo molto più noi dal Kenya di quello che vogliamo insegnare, perché c’è un’innovazione molto, molto più accelerata e forte nei Paesi in via di sviluppo, dove noi possiamo imparare molto. Questi sono un po’ di esempi, portati molto brevemente, di attività interessanti, quindi quando mi si chiede qual è la città smart o cos’è una città smart, dico che la città smart è innanzitutto una città collaborativa, è una città inclusiva, che stimola la partecipazione delle comunità e delle persone al disegno della città. Non è più un approccio top-down della pubblica amministrazione o delle grandi aziende, ma richiede il coinvolgimento attivo della città e logicamente di una città connessa, quindi non c’è più discussione su banda o non banda, perché la banda comunque ci deve essere. Chiuderei questo breve intervento con la frase di una persona che a noi, che lavoriamo in questo settore, ha ispirato molto. Parlo di Jane Jacobs, un’ attivista di New York, morta qualche anno fa, che ha un po’ reinventato il discorso di innovazione urbana. E’ una frase molto famosa: “Le città hanno la capacità di significare qualcosa per chiunque solo perché e solo quando sono create da tutti”. Grazie.

BERNARD SCHOLZ:
Penso che sia emerso da questo intervento anche la capacità di incentivazione dello sviluppo delle piccole e medie imprese che nasce dalle smart cities, che però al contempo deve avere un coordinamento, una strategia complessiva centrale, perché anche tutte le piccole applicazioni, se non sono dentro un coordinamento, diventano poi non relazionabili tra di loro, quindi poi la connettività rimane non connessa.

NICOLA VILLA:
Il termine che si utilizza, Berna, in questo momento per la pubblica amministrazione è quello di orchestratori.

BERNARD SCHOLZ:
Allora, a proposito, volevo dirvi che, visto che siamo in Emilia Romagna, do a chi è di questa regione una buona notizia. Perché c’è un elenco, una classificazione delle smart cities in Italia, che vede Bologna al primo posto, seguita da Milano, Roma, Reggio-Emilia, Torino, Firenze, Brescia, Piacenza e Parma e mi fermo. Gli ultimi li potete vedere su www.between.it. Potrete così scoprire a quale posto è la vostra città, se la vostra città è poco smart non piangete ma mettetevi a lavorare, perché vuol dire che c’è una grande opportunità. A questo punto la domanda a Carlo Ratti sull’innovazione: l’innovazione è un must, come abbiamo sentito, però l’innovazione non si crea su comando, non è qualcosa dove schiacci un bottone ed esce. Ha bisogno di forze creative, che sono legate alla persona. A questo punto per la sua esperienza, quali sono le innovazioni che producete con i vostri laboratori e che funzionalità, che utilità portano?

CARLO RATTI:
Grazie, grazie Bernhard. Possiamo far vedere le slides. Perfetto. Bene, innanzitutto grazie, è un piacere essere qui con voi al Meeting, quest’anno. Ho pensato, per rispondere a questa domanda, di mettere insieme un po’ di progetti che facciamo sia al Senseable City Lab – siamo appunto a Boston, a Singapore, io sono adesso più a Singapore ma faccio un po’ la spola fra i due – sia che facciamo come progetti di architettura nell’ufficio che abbiamo. Volevo partire da un concetto che era molto importante negli anni Novanta. Negli anni Novanta si pensava che le nostre città sarebbero diventate sempre più virtuali. C’era questa idea che internet, la rete, avrebbe distrutto lo spazio fisico. C’è un libro famoso degli anni ’90 si chiama Death of distance, la morte della distanza, la fine della distanza e quindi si pensava che le nostre vite sarebbero state così sempre più virtuali, a tal punto che qualcuno come Gilder, scrittore americano, scrisse nel ’95, “we are headed for the death of cities”, siamo diretti verso la morte delle città. Le città non sono che un bagaglio inutile, un retaggio del passato. Beh, questo vi dà un’idea di quanto sia difficile predire il futuro, perché nessuna previsione avrebbe potuto essere più sballata. Noi sappiamo oggi che le città, come abbiamo sentito, come diceva prima Cristiano, hanno avuto un grandissimo boom. Metà della popolazione urbana oggi vive nelle città. Questa è un’immagine della Cina, che da sola in questo secolo sta pianificando di costruire più città di quanto l’umanità abbia mai costruito in tutta la sua storia. E questi numeri sono tra l’altro in grande crescita: secondo le Nazioni Unite, entro il 2030, cinque miliardi di popolazione mondiale vivranno nelle città. Quindi, cosa è successo? È successo che tutte queste tecnologie, che negli anni Novanta costituivano la rete di cui ci diceva Nick poco fa, non hanno distrutto il mondo fisico, ma in realtà è successo qualcosa di diverso, che il mondo fisico e il mondo digitale si sono ricombinati. E questo sta creando nuove potenzialità nel modo di capire la città, nel modo di analizzarla, di progettarla, in ultima analisi di viverla. È questo un po’ quello che oggi s’intende con una parola usata spesso anche a sproposito: smart is the new green, si potrebbe dire. Fino a ieri, infatti, si usava l’etichetta green su tutto, oggi si usa smart, dall’elettrodomestico alla città. Vorrei ora concentrarmi su due capitoli: uno è come queste tecnologie stanno cambiando lo spazio, il mondo del design, lo spazio nel senso fisico e come questo crei uno spazio su di noi, come persone che viviamo in quello spazio, l’altro riguarda come queste tecnologie hanno un impatto sulle persone, su di noi, cambiano la nostra vita. Pensateci, il modo in cui abbiamo fatto tutte le cose che abbiamo fatto oggi, da chiamare gli amici a incontrarci, da esser qui al Meeting a trovare la strada, è radicalmente diverso da come era 10, 15 anni fa, in una società, in un sistema, in cui c’erano a malapena cellulari, connettività ad internet, ecc. Quindi, come questa tecnologia cambia la nostra vita e come questo abbia poi bisogno di un design diverso, di ripensare lo spazio fisico delle nostre città. Allora, velocemente, sul primo aspetto, come questa tecnologia ci permette oggi di capire meglio lo spazio, la città: volevo farvi vedere un paio di progetti. In questo progetto ci siamo occupati di questo computer. Se voi prendete questo computer, sapete tutto oggi, tuttavia, fra qualche anno, quando lo butterete via, smetterete di usare questa macchina, non saprete quasi più niente. A volte, quello che succede ad un computer di questo tipo, è che finisce in Asia o in Africa, dove non dovrebbe finire e non trattato come dovrebbe essere trattato. Allora la nostra idea è stata: perché non sviluppare dei piccoli cip e dei piccoli tag, delle etichette intelligenti da metter sui rifiuti e vedere dove vanno a finire? Abbiamo dovuto progettarle, sono dei piccoli telefoni cellulari in miniatura, dopo di che le abbiamo applicate. Questo è il primo esperimento che abbiamo fatto nella città di Seattle, degli Stati Uniti: 500 volontari, 3000 rifiuti diversi che abbiamo etichettato, e poi dopo averli etichettati, abbiamo iniziato a seguirli. Qua vedete i miei oggetti, il giorno in cui sono stati rilasciati a Seattle. Dopo qualche giorno, vedete i due scarichi principali di Seattle, subito, una grandissima sorpresa: la lunghezza di alcune di queste tracce che nessuno si aspettava. Alcune tracce sono assolutamente insulse: guardate quella che va fino a Chicago, per poi tornare giù in California, in bassa California, sotto, nel Messico e con tracce che continuano a muoversi dopo un mese, dopo due mesi. Abbiamo usato la Sinfonia degli addii per sottofondo. Vedete, questo è un esempio di come queste informazioni vi permettono di descrivere la città in un modo che era impossibile qualche anno fa. Di queste informazioni, cosa potete fare? Prima cosa, se siete ingegneri, potete prendere tutti questi dati, come diceva Nick prima e cercare di ottimizzare la città. Usare questa grande quantità di dati, per esempio, per risparmiare energia, per evitare alcune di quelle tracce insulse che andavano in giro per tutti gli Stati Uniti per spostare dei rifiuti. Seconda cosa, che è importante, è come queste informazioni possano, se condivise con tutti noi, con la collettività, iniziare delle dinamiche di cambio di comportamento. Possono convincerci a cambiare il nostro comportamento. Una delle cose più belle è stata, alla fine di questo progetto, una persona che ci ha detto: io bevevo acqua in bottiglie di plastica tutti i giorni, buttavo le bottiglie, le buttavo nel cassonetto fuori dalla porta e me le dimenticavo. Dopo il progetto, adesso so che vanno a finire a tre chilometri da casa, a cinque chilometri da casa, in discarica e staranno lì per sempre, perciò non bevo più acqua in bottiglie di plastica per questo motivo. Una terza cosa che abbiamo scoperto, è stata più fortuita ed è capitata più di recente, qualche mese fa, quando un ladro è venuto nel nostro laboratorio al MIT ed ha rubato un sacco di cose, tra cui alcune etichette che ti dicono dove vanno a finire: e questo è quello che è successo. Molto velocemente, questo è un esempio fra tantissimi di come queste tecnologie ci permettano di raccogliere informazioni dalle nostre città, dal nostro mondo: si possono applicare in molti campi, in questo caso capita coi rifiuti, ma il campo è l’energia, il campo è l’acqua, il campo è gli spostamenti, in particolare il campo del traffico. Nel traffico vedremo alcuni dei cambiamenti più interessanti nei prossimi anni, da due punti di vista: innanzitutto, perché sappiamo tutto di quello che succede in una città, avendo informazioni in tempo reale che vengono dal GPS, da reti, ecc. Ad esempio, stiamo lavorando con New York, per guardare i taxi. Qua, vedete, i taxi che vanno all’aeroporto a New York: stiamo cercando di capire come potremmo risparmiare sia sul costo dei taxi sia in generale con l’attività sul numero di taxi. E scoprite, con un po’ analisi di matematica, qualcosa di molto interessante: potremmo tagliare quasi del 50% il numero di taxi di New York, portando le persone a destinazione esattamente nello stesso tempo, più o meno un paio di minuti. E solo usando meglio le capacità che abbiamo sul sistema. Seconda cosa interessante, è che la macchina stessa, riempita di sensori, diventa qualcosa con un sacco di informazioni lei stessa, come sistema che si muove. In questo progetto, ad esempio, un progetto fra tanti, la macchina che ha informazioni sul guidatore e vede il livello di stress del guidatore. Allora voi mettete insieme questa intelligenza del sistema della città con l’intelligenza della macchina e dalla intersezione di queste due cose viene, verrà, uno dei grandi cambiamenti del traffico dei prossimi anni, che sono le macchine che si guidano da sole. Qui si vede una macchina che si guida da sola, che raccoglie informazioni dalla città. Quando poi avete macchine che si guidano da sole, e ce ne sono già, in quel sistema tutto cambia. Immaginate una città in cui la differenza tra trasporto pubblico e privato scompare, perché la macchina può dare un passaggio a voi, a me, per andare in ufficio e poi dà un passaggio a lui e poi dà un passaggio a lui. Diventa l’equivalente di un pullman, la differenza scompare. Oppure scompaiono i semafori, scompaiono perché non dovrete più fermarvi agli incroci. Questo per darvi una idea di alcuni di questi cambiamenti che la tecnologia sta portando nelle nostre città. Però c’è un aspetto che forse è più importante, ed è come sta cambiando il modo in cui ci relazioniamo con gli altri, con le cose, con la città. Tutto ciò ha bisogno poi di un design, di un nuovo tipo di design della città attorno a noi, e qui volevo partire da questa immagine. Questa è un’immagine di Le Corbusier, uno dei grandi architetti del secolo passato, che nella Carta de Atenas, disse che nella città dobbiamo separare tutto, bisogna vivere e migliorare lo svolgersi armonioso delle quattro funzioni umane. Separare nettamente, secondo lui, abitare, lavorare, divertirsi e spostarsi. Immaginate una città di questo genere. E’ una città assurda, in cui voi create tre città, dove ciascuna città lavora per alcune ore e crea dei flussi di traffico enormi tra una zona e l’altra. Tanto che, fino agli anni ’60, Jane Jacobs e molti altri con lei, hanno sviluppato questa architettura di Mixed-use development, dove si cerca di mischiare la parte dove si lavora, dove si vive, ecc. Oggi, però, qualcosa di nuovo stia accadendo, qualcosa che va molto al di là di quanto era stato immaginato. Lasciatemi fare un esempio. L’esempio è legato, in generale, a come pensare lo spazio pubblico e privato in modo diverso e metterli insieme nei nostri edifici. L’esempio è legato al campus del MIT. Qua vedete Boston dall’alto. Di solito è una città abbastanza verde, qua sembra che ci sia stata una esplosione nucleare, ma solo perché è un’immagine invernale. Qua vedete Boston, il centro, vedete il MIT, che è quasi sul lato di Cambridge, di là dal fiume, quasi una piccola città all’interno della città. Il campus del MIT è stato uno dei primi campus in assoluto ad essere coperto da wifi. All’inizio degli anni duemila è stato completamente coperto da wifi. Questo ha prodotto, in questi anni, un grandissimo cambiamento nel modo di vivere e lavorare. Prima si lavorava in questo modo, e oggi si lavora in quest’altro. Ora, queste due immagini sono un po’ tendenziose, ho preso la sala computer peggiore che si potesse trovare, senza luce naturale, solo luce artificiale, ecc., e qui vedete una bella giornata di sole primaverile, insomma di inverno, quando fa meno venti, non è così ridente. Però il cambiamento è notevole. Allora noi ci siamo detti: perché non usare la rete, cioè questa stessa rete, che ha cambiato, che sta cambiando il nostro modo di lavorare? Perché non usare questa rete per capire questi cambiamenti, per analizzarli, per vedere cosa sta succedendo? Allora siamo andati a mappare la rete e analizzare tutto l’utilizzo della rete, come cambia nel giorno. Qua vedete le persone che si svegliano al mattino, che si spostano dai dormitori, vanno in centro, vanno nei laboratori, vanno a lezione, ecc.. Ad esempio, queste sono le curve che potete tenere. Se guardate tutta la curva complessiva dell’utilizzo della rete al MIT, vedete qualcosa del genere. Qui sono le giornate. Lunedì, martedì, mercoledì, ecc.. Vedete, queste sono le persone che lavorano dalle 9 alle 17, una frazione molto piccola che lavora solo dalle 9 alle 17, molti continuano a lavorare fino a tardi, fino alle 22 alle 23. Anche a metà della notte, c’è ancora una notevole attività. Questo si ripete il lunedì, il martedì, il mercoledì, il giovedì, non il venerdì dove, come presumibile, l’attività nel pomeriggio scivola via molto rapidamente. Si ripete anche il sabato, come fosse quasi un giorno normale, senza questo picco dalle 9 alle 17. Anche la domenica, con questo picco della domenica sera, alle 9.30: è quando uno si ricorda che l’indomani è lunedì e quindi tutte le cose che non ha fatto ancora le deve fare. C’è sempre questo picco che vedete qua. Bene, questo lo fate per qualsiasi stanza del MIT e vedete se riuscite a vedere le loro curve, i loro profili di utilizzo, e da questo li classificate, e vedete quello che avete visto prima, questa grande sovrapposizione di usi, che diventa molto fine, in cui non c’è più la separazione chiara e netta tra l’interno della stanza, il bar e anche il posto dove lavorate, dove fate una riunione, dove incontrate gli amici. Questo fenomeno è molto bello ed è un fenomeno che credo che come architetti, come progettisti, dobbiamo incominciare ad analizzare e sulla base di questo possiamo iniziare a progettare nuovi oggetti. L’idea che sta cambiando la nostra vita riguarda quali sono i nuovi oggetti che possiamo avere intorno a noi. Molto rapidamente, ho aggiunto qualche slide mentre sentivo Cristiano prima, relativa a come possiamo produrre queste cose in modo nuovo, con questa terza rivoluzione industriale delle stampanti tridimensionali o dei laser. Abbiamo fatto questo progetto in cui ogni elemento è tagliato a laser, diverso dagli altri e quindi permette di creare configurazioni diverse. Vedete un primo prototipo, un secondo prototipo. Sono cose che permette di creare questo laser. Sono oggetti vivi, che possono prendere molte configurazioni. Ad esempio i nostri cortili possono diventare spazi lavoro. Questo è un progetto che stiamo facendo in Messico, dove si vede come lo spazio della natura può diventare uno spazio lavorativo. Non potevamo farlo cinque anni fa, perché eravamo incatenati ad un computer, incatenati ad una postazione fissa, con cavo interno, oggi invece abbiamo più flessibilità, possiamo lavorare all’aperto, chiaramente dobbiamo avere una protezione dalla luce, dalla luce del sole troppo forte, oppure dall’acustica, però possiamo tornare a utilizzare gli spazi all’aperto come estensioni dei nostri uffici. Questo è il progetto con cui volevo chiudere. Lo abbiamo fatto a Milano, in Piazza della Scala, dove in una piazza che era piena di macchine, abbiamo detto: per ogni macchina mettiamo un metro quadro di verde. Vedete lì sopra questo giardino sospeso, l’idea era di creare non solo un caffè e una estensione del ristorante, buono per andare a mangiare o a prendere un drink, ma uno spazio per andare a lavorare, a incontrare gli altri, quasi una estensione degli uffici circostanti, dove si possono incontrare gli amici e passare del tempo insieme. Oggi abbiamo parlato di smart cities, smart cities è un concetto che anche nel nome, a molti e anche a me, non piace, perché è molto tecnologico, richiama quasi una città che funziona come un computer. Credo infatti che le cose più importanti non siano la tecnologia di per sé, ma come in realtà la tecnologia ci permette, in un certo senso, quando dappertutto scompare, di tornare a fare le cose che davvero sono importanti, che poi sono quelle che sono sempre state importanti: lo stare insieme, come stiamo qua insieme oggi.

BERNARD SCHOLZ:
Allora dopo questa interessante introduzione da tre punti di vista diversi nelle città del futuro, vorrei porre a tutti voi tre una domanda conclusiva. Io ho avuto l’impressione stasera che, da una parte, l’idea di città che proponete rende molto libero l’individuo di muoversi, di utilizzare il suo tempo a seconda delle proprie esigenze, di muoversi non più del necessario ma secondo quello che piace ed è utile per la vita sociale e dall’altra parte, necessita di un grande coordinamento, di una grande orchestrazione, come è stato detto. La città del futuro sarà una città che darà all’uomo anche la possibilità di fare una vita sociale, di vivere una relazionalità utile o sarà un agglomerato di individualisti, che comunicheranno solo tecnologicamente fra loro? Cominciamo con la stessa sequenza.

CRISTIANO RADAELLI:
Io credo che, da quello che ci siamo detti stasera, ci siano molti presupposti perché la tecnologia, utilizzata opportunamente, permetta di mettere molto più in contatto le persone, cambiando e dando più tempo alle persone per parlare, per stare insieme. Però credo che niente venga automaticamente: è necessario che le singole comunità decidano in che direzione vogliono andare e che poi si agisca in quella direzione, condividendo tra i vari cittadini la direzione da prendere e poi incrementandola, perché la tecnologia permette questo – come abbiamo visto nell’esempio di Nicola e di Carlo -, però non viene da sola: è necessario che questa scelta sia fatta e sia guidata. In questo senso, a mio parere, nelle nostre città, la politica ha il compito prima di tutto di sentire con i cittadini della singola comunità qual è l’obiettivo che la comunità vuole avere per svilupparsi, perché nell’Italia dei mille comuni diversi, sarebbe assurdo che lo stesso obiettivo fosse uguale. Le città, storicamente, sono focalizzate su argomenti e su punti di sviluppo diversi. Se questo è condiviso dai cittadini, possiamo costruire i prossimi passi della città basandoci sulle tecnologie, ma con grande fermezza e trasparenza, perché nell’era di internet, la mancanza di trasparenza non paga, blocca tutto e diventa un boom terrificante, perché non ci sono più dati riservati. Questo può essere un bene o un male, ma è un dato di fatto, quindi è necessario che la politica ne prenda assolutamente atto e lo gestisca come un fatto positivo, quindi con discussione, condivisione degli obiettivi e soprattutto con trasparenza e fermezza.

BERNARD SCHOLZ:
Grazie. Nicola.

NICOLA VILLA:
Grazie. Il presupposto per potere realizzare quelle che io definisco le smart cities, – vorrei dunque mantenere il concetto di smart city – è quello infrastrutturale: una città deve essere infrastrutturata dal punto di vista tecnologico, quindi basta banda larga, ci vuole metodo, non ci interessa capire quali saranno le necessità future dal punto di vista del traffico di dati, facciamo un’infrastruttura che sia future, punto, e che sia la più ampia e la più capiente possibile. Poi deve essere una città aperta da tre punti di vista: il primo, aperta per quanto riguarda i dati. In Italia abbiamo una storia di chiusura. Pensate a come i wifi sono stati gestiti. Io, come turista, venendo dall’estero in Italia, ho dovuto fornire il mio codice fiscale per potermi collegare a internet, mi è stato chiesto un fiscal code. Un americano che viene e che vuole utilizzare internet, al quale viene chiesto un fiscal code, probabilmente ci pensa due volte a tornare in Italia oppure a utilizzare la rete. Quindi i dati devono essere infrastrutture aperte, un messaggio positivo, come diceva Cristiano, e non un messaggio di paura all’apertura per quanto riguarda la tecnologia. Le città, poi, devono adottare il concetto di open innovation. L’innovazione non arriva più dal settore pubblico, ma arriva sicuramente dal settore privato delle grandi aziende, arriva da un approccio aperto, dove le idee vengono co-create, e questo è il terzo punto, arriva dalle aziende, dal pubblico, e soprattutto dai cittadini e dal tessuto locale. Secondo me, queste sono i tre elementi fondamentali: infrastruttura e apertura dal punto di vista dei dati, ma anche apertura per quanto riguarda l’innovazione. Ultima cosa interessante, è appunto parlare delle città e definirle smart. Noi, da qualche anno, abbiamo un programma di formazione rivolto a una quindicina di sindaci cinesi, che ogni anno vengono mandati negli Stati Uniti per imparare cosa sono le smart cities. Una domanda che ci viene fatta è quanto grande deve essere, perché noi stiamo pianificando un centinaio di città di un milione di abitanti; dopo un po’ di discussioni con colleghi ed amici, provate a pensare: non è quanto sia grande una città, ma quanto sia sostenibile come unità. E quindi, anche qua, smart citizens invece che smart cities e smart communities. La comunità, quindi, il coinvolgimento attivo delle persone, con un elemento di orchestrazione dal punto di vista delle grandi imprese e del pubblico, diventano i presupposti dell’attrazione di queste smart cities.

BERNARD SCHOLZ:
Grazie. Carlo Ratti.

CARLO RATTI:
Io volevo tornare – penso che non ci sia niente di nuovo in quello che stiamo facendo oggi – all’inizio: se voi ci pensate, le città una volta non c’erano, non esistevano. Sette, ottomila anni fa, in questa zona noi tutti saremo stati cacciatori e raccoglitori. C’è una bella mostra sull’agricoltura, che abbiamo visto oggi, che proprio ripercorre quegli anni. Le città nascono per un unico motivo: il motivo di stare insieme, il motivo che insieme “il totale diventa più della somma di ciascuno di noi singolarmente”, e questo succede oggi. Cosa sta cambiando? L’unica cosa che sta cambiando è che alcune di queste tecnologie, che sono tecnologie della rete, ci permettono di stare insieme in modo nuovo, ci permettono una maggiore flessibilità rispetto a quella città del Novecento immaginata da Corbusier, che era molto più rigida, molto poco flessibile. Oggi alcune di queste barriere stanno cambiando. Quale sarà la conseguenza di questi cambiamenti? Io credo che sarà semplicemente tornare alle cose che abbiamo sempre fatto. Una delle conseguenze di questa terza rivoluzione industriale è, oltre agli esempi che sono stati fatti – oggi General Electric sta iniziando a stampare le turbine dei jet con stampante tridimensionale, quindi qualcosa di davvero molto concreto -, che le città possono tornare luoghi di produzione, così come le fabbriche possono tornare nelle nostre città, non le fabbriche vecchie bensì le fabbriche nuove, pulite, digitali, legate alla creatività, in cui il nostro Paese potrebbe giocare un ruolo molto importante, se sale su questo treno che sta partendo adesso. Oppure il riverbero della città è un nuovo coinvolgimento civico, quello che vediamo in città che usano la rete, non per dinamiche come quelle della Primavera Araba, ma per dinamiche legate alla gestione ordinaria della città, quasi una Primavera Urbana insomma, come si sta verificando in città in giro per il mondo. Quindi io penso che siano le stesse dinamiche che abbiamo visto in azione per migliaia e migliaia di anni, che semplicemente prendono una forma nuova grazie a queste tecnologie. Io credo che dobbiamo quasi dimenticarci le tecnologie e vedere in realtà quello che sta dietro, perché quello che sta dietro, la parte umana, è quella più importante. Un’ultima cosa: noi abbiamo una grande fortuna, siamo in un momento di grande cambiamento; forse tutti noi insieme, e in generale in Italia, dobbiamo passare dal timore del cambiamento al pensare che sia una grande fortuna essere in un momento di grande cambiamento, perché possiamo fare e implementare quei cambiamenti per migliorare la nostra qualità della vita e cercare di vivere meglio insieme.

BERNARD SCHOLZ:
Grazie. Quando abbiamo scelto il titolo del Meeting, “Emergenza uomo”, non l’abbiamo scelto perché esistono tante emergenze particolari – queste ci sono sempre state – ma perché il rischio è che, di fronte alle sfide che dobbiamo affrontare, noi non facciamo quello che hai detto tu, non le affrontiamo con il coraggio, con il desiderio umano che ci caratterizza, ma ci lasciamo trascinare, ci rassegniamo, ci mettiamo in stand-by. E’ questa la vera emergenza: l’emergenza che l’uomo non si esprima, non esprima se stesso di fronte alle diverse sfide che ha davanti. Le sfide sono enormi dal punto di vista sociale e politico, oggi abbiamo parlato di una, quella della convivenza nelle città; io sono particolarmente grato, perché quello che abbiamo sentito, ci ha aperto opportunità impressionanti di utilizzare quello che ci è stato dato dalla scienza, dall’economia, da tutti quelli che lavorano in modo innovativo, per rendere le nostre città più dimora e meno dormitorio e meno laboratorio. Vi ringrazio per la vostra partecipazione, ringrazio i tre relatori e buon proseguimento al Meeting.
Trascrizione non rivista dai relatori

Data

18 Agosto 2013

Ora

19:00

Edizione

2013

Luogo

Sala Neri
Categoria
Incontri