SCIENZA E CARITÀ, LA STORIA DI GIANCARLO RASTELLI: UN CARDIOCHIRURGO APPASSIONATO ALL’UOMO

SCIENZA E CARITÀ, LA STORIA DI GIANCARLO RASTELLI: UN CARDIOCHIRURGO APPASSIONATO ALL’UOMO

Partecipano: Giorgio Bordin, Responsabile Medico di Reumatologia all’Hospital Piccole Figlie di Parma; Paolo Ciliberti, Cardiologo Pediatra all’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù; Fiore Salvatore Iorio, Direttore del Dipartimento Medico Chirurgico di Cardiologia Pediatrica dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù. Introduce Giovanni Lucertini, Studente di Medicina all’Università degli Studi di Bologna.

 

Trascrizione non rivista dai relatori

SCIENZA E CARITÀ, LA STORIA DI GIANCARLO RASTELLI: UN CARDIOCHIRURGO APPASSIONATO ALL’UOMO – parte I

Lunedì 20 agosto 2018
ore 12.30

Partecipano:
Giorgio Bordin, Responsabile medico di Reumatologia all’Hospital Piccole Figlie di Parma; Paolo Ciliberti, Cardiologo Pediatra all’Ospedale Bambino Gesù; Fiore Salvatore Iorio, Direttore del Di-partimento Medico Chirurgico di Cardiologia Pediatrica dell’Ospedale Bambino Gesù.

Introduce
Giovanni Lucertini, Studente di Medicina all’Università degli Studi di Bologna.

GIORGIO BORDIN
Buongiorno a tutti, vedo che c’è tantissima gente e quindi entriamo subito nel merito di quest’incontro che e poi è l’incontro di presentazione della mostra che è qui alle nostre spalle. Dico subito che qui oggi ci sarebbe dovuta essere con noi anche Antonella Rastelli, la figlia di Giancarlo, che per una serie di motivi non è riuscita ad essere presente in questa data e ci sarà sabato alle 14,00 sempre qui a fare un incontro per chi ci potesse essere e la volesse conoscere. A me tocca quello di introdurre il tema e quello di dare poi la parola ai nostri relatori. E io vorrei proprio partire dal titola della mostra che è un titolo coraggioso e ambivalente e secondo per nulla scontato che è “La prima carità al malato è la scienza”. Perché questo titolo ha nel suo ambivalenza una forza di provocazione, però ha anche la capacità di descrivere sinteticamente la personalità di Rastelli e mette a tema una questione che per me che fra l’altro sono un medico, oggi sembra fondamentale. Provo a riassumerla così. Ci si prende cura di un malato ci si prende cura di una persona malata per la morsa della carità, solo da questo punto di vista. E questo è vero all’origina di tutti i gesti di cura sia all’origine storica, non abbiamo il tempo di dettagliarlo ma è così, ma anche è vero individualmente ogni giorno e con ogni malato che incontriamo nel nostro percorso umano e professionale. Però è propria la mossa della carità che andando incontro al bisogno concreto di un malato, al bisogno concreto, di salute, spinge perché l’azione si altrettanto concreta sia efficace, quindi si attrezzi, si strutturi, per poter incidere sulla storia naturale di malattia sperando tutto, ottenendo tutto, fino alla guarigione e però non scappando anche dove l’esito della guarigione biologica non è possibile. In questo però mettendo tutto quello che abbiamo. Chi è che non vorrebbe il tutto per sua moglie, per suo figlio, suo fratello, per la persone a cui si vuole più bene. In questo si inserisce ovviamente la capacità della medicina. La medicina come la intendiamo oggi, nasce nella società occidentale, nasce in Grecia, e nasce dal desiderio dell’uomo di conoscere, nasce infatti come scienza. Infatti nel mondo greco c’era la medicina ma non c’erano gli ospedali. La medicina non mai diventata tale da incidere socialmente positivamente per generare strutture di cura delle persone, come è invece oggi. Invece l’assistenza agli infermi nasce sempre storicamente, dagli albori del cristianesimo e nasce come mossa della carità. E’ diventato un movimento che ha saputo tradurre questa nuova ospitalità nei confronti dei malati, in periodo medioevale strutturandola nella formula degli ospedali, degli ”hospitalia”, cioè dei luoghi dove si ospitava una persona malata prendendosi cura di loro. E presto la carità si è anche resa conto della necessità di attrezzarsi della medicina per poter rendere efficiente, ma soprattutto efficace, questa mossa. Allora se la scienza non ha implicato naturalmente la carità, la carità ha dimostrato storicamente di aver reclamato la necessità della scienza. Poi la parabola che dal razionalismo, dal positivismo è avvenuta, è stata quella di eliminare la carità rendendola superflua e portare avanti soltanto la scienza che nel positivismo e nello scientismo, è diventata ciò che sembrava l’unica condizione necessaria e sufficiente per curare una persona. Direi che oggi è sotto gli occhi di tutti il fallimento di questo mito; il mito è quello appunto per cui la scienza e la società generano un processo intrinsecamente positivo. Questo è crollato insieme a tante altre certezze lasciando questa società nichilista e fluida di cui tanto parliamo, piena di macerie del passato e incapace di progetti di ricostruzione. E anche la medicina è cambiata. Si avverte il tentativo di rispondere a questo smarrimento, ma è un tentativo ancora frammentato, in parte schizzofrenico fra chi continua in questa fiducia scientista e chi invece sembra buttar via il bambino con l’acqua sporca eliminando la scienza e affidandosi a medicine alternative o anche a forme magiche che vediamo attorno a noi. In questa schizzofrenia la ca-rità e la scienza continuano ad essere o percepite come dimensioni antitetiche o forse peggio giustapposte come se il massimo che noi ci aspettiamo da un medico è che sia non solo gravo ma poi anche buono. Questo ce lo ha ricordato anche Bernabei citando e chiosando il libro della cittadella di Cronin nell’incontro di ieri. Il risultato invece su cui mi vorrei fermare è che riducendo e perdendo la carità la prima a risentirne è anche la scienza, perché oggi le nuove sfide della medicina, accendono si dei dibattici etici infuocati, in cui si scontrato posizioni culturali, ma nei quali sembra non esserci la spinta per il progresso scientifico. Siamo talmente disillusi e svuotati di energia, di voglia di cambiare il mondo, per cui quello che non abbiamo il coraggio di affrontare, non lo reggiamo. La spinta eutanasica nasce soprattutto da qui, non è mossa da una cattiveria ma da una debolezza e da una inconsistenza. Pensateci chi oggi impegna risorse, fatica, voglia, esercizio per studiare gli stati vegetativi persistenti, le sindromi genetiche (ci sarà stasera un incontro con il professor Strippoli a proposito di questo), da dove nasce la spinta per la scienza le malattie degenerative del sistema nervoso centrale, con lo stesso vigore che noi ci mettiamo, con le stesse energie, vigore e soldi che noi mettiamo per altre patologie e nelle quali molto spesso il driver non è il bene del malato ma il business delle aziende che ci stanno dietro. Allora chiudo per dire: che cos’è capace di dirci questa mostra, che domanda pone, cosa ci dice Rastelli con la sua vita? Rastelli è stato uno scienziato di primo piano, uno scienziato senza se e senza ma, per le cose che ha scoperto le sentiremo in parte qui, le vedrete nella mostra, le conoscete già. Ma la domanda è questa: Rastelli o Gian come è per tutti i suoi amici, era uno scienziato illustre che aveva un di più di anima, oppure il suo essere cristiano e caritatevole, può avere in qualche modo determinato anche gli esiti della sua carriera scientifica? Questo è il tema che mi sembra più interessante, insieme ad un altro. Questa mostra è come una matrioska di significati, che dentro ce ne ha degli altri, che si riconducono l’uno all’altro. Infatti oltre al contenuto stretto della mostra, è interessante la dinamica che questa mostra ha generato, meglio che l’amicizia con Rastelli anche se non c’è più, a partire da alcuni ragazzi da alcuni giovani, che lo hanno sentito perché l’hanno sentito da un insegnante che glielo ha detto, perché uno gliene ha parlato, insomma si è formata una scia di amicizia contagiosa che ci porta qua oggi. E’ inaspettato. Non a caso il primo pannello della mostra nasce citando una canzone che dice “Come è potuto succedere”. E’ stato proprio un avvenimento. E allora proprio da qui anche voglio partire lasciando la parola a Giovanni, che a nome di questo nucleo di studenti dell’Università di Bologna, ci dice anche come è successo e come è successo, oltre che a parlarci un po’ di Giovanni Rastelli, e della voglia che Rastelli, che pure non c’è più, ha rimesso a loro e spero anche a noi, di rivoltare il mondo per scoprire come fare a renderlo più vivibile.


GIOVANNI LUCERTINI
Intanto grazie mille di essere venuti e ringrazio anche Giorgio per questa introduzione il Dott. Iorio e Paolo per essere venuti a raccontare questa mostra. Io vi racconto un pochettino come è nata. Come diceva Giorgio io non sono qui da solo ma sono con un gruppo di amici, studenti dell’Università di Bologna e alcuni sono qua nella foto, c’è Andrea, gerardo Veronica… e ci siamo di fatti imbattuti nella figura di Rastelli, ormai un anno e mezzo fa che praticamente ha investito come un treno la nostra vita, la mia in primis cioè ho proprio fatto un incontro grande che davvero mi ha cambiato e che forse segnerà anche qualche passaggio per il mio futuro perché mi sto interessando tanto alla cardiochirurgia cosa che non mi era interessata prima di sentir parlare di Rastelli. E qui (proiezione di una slide) è una fotografia in cui siamo alla prima presentazione della mostra, a Bologna, il 9 maggio ormai di un anno e mezzo fa, e siamo con un il professore Bombicini, lo vedete con il camice, con Umberto Sguarcia, un caro amico di Gian era con lui quando è morto e poi con Antonella che è la figlia di Rastelli. E questa mostra è nata per il desiderio di raccontare la vita di quest’uomo ai nostri compagni di corsi e ai nostri professori. Per cui l’abbiamo allestita nel centro della città di Bologna e da lì la cosa ci è un po’ sfuggita di mano nel senso che una vita così affascinante come quella di rastelli, ha iniziato a muovere molto di più di quello che avremmo mai potuto pensare. Per farvi capire da dove nasce tutto questo fascino vi devo raccontare due cose su Gian, di cui poi vi parlerà meglio anche Paolo. Gian nasce il 25 giugno 1933, nasce a Pescara ma di fatto è di Parma. Vive vi tutta la sua vita prima della partenza per gli Stati Uniti nel 1961. Lui a Parma si laurea in medicina nel 1957 si laurea con la lode, e con una tesi che già lo lancia verso l’ambito della cardiologia; infatti ha fatto una tesi su come funzionava un enzima nel miocardo, quindi nel cuore, e in particolari condizioni. Il 7 settembre 1961, evento fondamentale della sua vita, lui parte per gli Stati Uniti, si reca a Rochester nel Minnesota presso la Mayo Clinic, e lui sceglie questo posto perché la Mayo Clinic era praticamente uno degli unici posti al mondo in cui veniva fatti interventi di cardiochirurgia perché con la macchina cuore polmone si poteva operare a cuore aperto. Gian arriva li come ultimi degli ultimi, ma nel giro di pochi anni diventerà responsabile del settore della ricerca in cardiochirurgia sperimentale. Però nel 1964, e questa è un’altra delle tappe fondamentali della sua vita, poche settimane dopo il suo matrimonio, riceve una diagnosi di linfoma di hodgikin e di li appunto questo lo porterà a morire nel 1970 il 02 febbraio. E questo mi ha colpito tantissimo quando studiavo la sua vita perché le grandi scoperte che ha fatto, di cui parlerà dopo il dott. Iorio, sono state compiute negli ultimi anni della sua vita, negli anni in cui in modo febbrile lavorava e studiava per portare a compimento le intuizioni che aveva avuto nell’ambito dello studio di alcune cardiopatie congenite. Ciò che mi ha più affascinato della figura di Gian, quando ne ho sentito parlare la prima volta, era di un nuovo che si gustava la vita, amava tantissimo pescare, andare a Polesine Parmense a pescare ma nello stesso tempo amava andare in montagna, faceva lo slalom, il salto con gli sci, era uno che proprio mordeva la vita, se la gustava in tutti i suoi aspetti. E allo stesso tempo era un innamorato della medicina, come lo definiva uno dei suoi compagni di corso. Un innamorato della medicina che aveva scoperto arrivando in America, che un bravo cardiochirurgo non è solo quello che sa mettere le pezze ai cuori, ma è quello che conosce tutta la complessità che c’è dietro e la complessità che c’è dietro è l’anatomia, la fisiologia, l’embriologia, addirittura dice l’aritmetica e la geometria. E lui capisce il valore dello studio delle discipline di base nella medicina. Quando io ho letto per la prima volta questa frase, stavo studiando queste discipline di base, e quindi ho visto subito che il mio studio, apparentemente così sterile, così noioso, poteva avere invece un valore, aveva dietro il volto di quelle persone che a Dio piacendo un giorno potrò aiutare a curare. Quindi in primis mi ha colpito proprio la passione per la scienza, l’amore per la medicina. Gian diceva, e da questo abbiamo tratto il titolo della mostra “Ho sempre pensato che la prima carità che l’ammalato deve ricevere dal medico, è la carità della scienza, cioè la carità di essere curato come va. Ed ero un periodo della mia vita in cui mi de-dicavo a tante cose, a tante passioni ma facevo un po’ fatica sullo studio; lo studio ogni tanto toglieva un po’ il tempo alle altre cose che volevo fare, alle amicizie a varie passioni. Invece così mi son reso conto che lo studio era il primo luogo a cui ero chiamato perché la forma della carità che un medico può dare al suo paziente è la scienza. Allo stesso tempo Gian era uno che diceva che sapere senza sapere amare era nulla, era meno di nulla.
Quindi ci sono questi due grandi poli, di cui si è già parlato prima, la scienza e la carità, che in lui erano mirabilmente tenuti insieme, infatti amava tantissimo l’inno alla carità di San Paolo, che ripeteva a memoria ai suoi compagni di corso che, poveretti, lo hanno imparato appunto a forza di risentirlo mentre studiavano e quando vien detto ”anche se possedessi tutti i tesori”, cioè tutta la scienza e tutti i misteri, ma non avessi la carità non sarei nulla. E Gian aveva ben coscienza di questo, cioè che la scienza se non è donata a qualcuno, muore. Vedete una vita del genere, almeno per me, per noi, è qualcosa proprio che esplode, che genera continuamente qualcosa di nuovo. Infatti volevo raccontarvi rapidamente di quello che ci è accaduto: noi abbiamo presentato la mostra a Bologna, poi l’abbiam messa via in un magazzino. Due giorni dopo mi chiama Paolo dal Bambin Gesù dicendo “sarebbe bello portarla qui” e da lì è iniziata proprio la possibilità di portarla in tanti luoghi, in ospedali o in università dove c’era il desiderio di raccontare questa vita e qui eravamo – [diapositiva] appunto vedete il Dottor Iorio e vedete anche Paolo e Giorgio, eravamo al Bambin Gesù a Roma e poi appunto siamo stati anche in altri luoghi. Ma ciò che più mi ha colpito è che davvero continuamente è una sorpresa quello che ci accade, per cui questo risale a fine Maggio, quindi poco tempo fa, ho ricevuto una chiamata da un medico della Mayo Clinic, che vedete qui nella foto insieme a me e Veronica, si chiama Andrea Mariani, fa il Chirurgo Ginecologo Oncologo alla Mayo Clinic e lui mi aveva sentito parlare a un Convegno in cui raccontavo di Rastelli come esempio di medico che viveva la sua professione come una vocazione e con Andrea, a partire da questo convegno è iniziato un cammino, un’amicizia insieme, per cui ci siamo sentiti varie volte e c’era l’idea di portare la mostra alla Mayo Clinic e lui mi chiama a fine maggio e mi dice “ma scusa, perché non vieni tra tre-quattro settimane qui in America, a Rochester, a visitare questa clinica? Mi ha colto un po’ alla sprovvista perché non avevo il passaporto, avevo la sessione che stava cominciando, insomma, era imprevedibile questo invito e da lì invece è nata una grandissima possibilità di recarci alla Mayo Clinic. L’idea iniziale era quella di andar lì e fare un po’ di lavoro di archivio, trovare un po’ si documenti, conoscere chi ha conosciuto Rastelli e questo è accaduto, ma ciò che è stato più bello è stato chiedere un paragone, un confronto, con la vita di Gian ai medici che oggi appunto lavorano lì alla Mayo Clinic, per cui a partire da episodi della sua vita facevamo delle domande che entravano proprio in ambiti anche molto personali di queste persone, per cui una domanda era proprio sul significato della sofferenza, per cui Gian è uno che è stato di fronte alla malattia dei bambini e poi alla sua malattia in un modo affascinante. Ma te come stai di fronte alla sofferenza? Oppure sull’unità della vita, perché ciò che affascina di Gian è che è un uomo che è stato uno studente, un amico negli anni dell’università a Parma, un padre di famiglia, è stato un marito, è stato anche un paziente, oltre ad essere medico, eppure era sempre lui, c’era una grande unità nella sua vita e chiedevamo a questi medici “cosa vuol dire per te l’unità nella vita, come la percepisci? E da lì è nata questa possibilità di incontro da cui sono nati dei rapporti che ancora portiamo avanti; per cui dall’incontro con Alberto Pochettino, un chirurgo cardiovascolare che lavora alla Mayo Clinic, fino all’incontro con tanti altri e avevo piacere di mostrarvi un breve video (è in inglese però è sottotitolato in italiano, spero si riesca a vedere in tutta la sala) in cui abbiamo raccolto due delle testimonianze che più mi hanno colpito, per cui ve le vorrei far vedere
(Video dal minuto 18.57 al minuto 21.26)
Questi eran proprio due pezzi, però volevo farvi capire perché per noi è stato l’incontro con il luogo e anche con delle umanità che ci han fatto capire un po’ cosa ha visto Gian quando si è recato alla Mayo Clinic, perché questa modalità di guardare al paziente è nell’identità di questa clinica. Io volevo concludere ricordando cosa c’entra questa mostra in un Meeting che ha questo titolo, quindi “le forze che muovono la storia sono le stesse che rendono l’uomo felice” ed è stato impressionante perché la dinamica che è accaduta a noi, cioè sentire…perché di fatto la mostra è nata quando abbiamo sentito parlare di Rastelli da un nostro professore, un professore di Genetica, che ce lo ha indicato come figura di grande ricercatore. Lo stupore che è nato in noi da quelle parole che ci ha detto questo prof sta davvero costruendo qualcosa di grande, qualcosa che va avanti da solo, cioè tante opportunità legate alla mostra vengono fuori in maniera inaspettata, per cui ad esempio per me è commovente, se avete modo di visitar la mostra, vedere che c’è una teca dove ci sono dei modellini di cuore con le cardiopatie congenite di cui si occupava Gian, che sono stati fatti con una stampante in 3D dal Bambin Gesù, che ce le ha donate proprio per questa occasione. Per cui secondo me è bellissimo vedere come la vita di Gian sta generando ancora una vita sorprendente per noi, per cui vi ringrazio e lascio la parola a Paolo.

GIORGIO BORDIN
Sono stato colpito da quelle due testimonianze, in particolare anche da chi, come il primo ha detto “dentro il dolore, dentro la sofferenza, può nascere, non necessariamente nasce, ma può nascere qualche cosa di positivo” e questa è una cosa che dobbiamo tenere a mente anche noi nella medicina, perché oggi questa rinnovata, giusta e giustissima attenzione di trattare il dolore e la sofferenza sta diventando anche in alcuni estremi una algofobia quasi pericolosa, perché non si è più capaci di stare di fronte alla sofferenza o comunque di credere che nonostante tutti i nostri sforzi siano quelli di sconfiggerla, lì dentro possa esserci la risorsa per qualche cosa di buono e invece lo stupore più grande é che noi, se abbiamo gli occhi aperti, lo incontriamo. Lascio la parola adesso a Paolo Ciliberti, cardiologo, siamo amici da anni, lui lavora però da qualche anno al Bambin Gesù e quindi lavora come cardiologo pediatra e per tanti motivi è collegato anche professionalmente a questa storia. Vi devo dire una cosa, io vivo a Parma da quattordici anni, lì faccio il medico, però non sono parmigiano, quindi siccome non sono cardiologo, non sono cardiochirurgo, non sono parmigiano, io Rastelli sinceramente non l’avevo mai conosciuto. Qualche anno fa degli amici comuni, legati ad alcuni medici cattolici, mi chiedono di dare una mano per fare una mostra, niente di paragonabile alla bellezza di questa, un abbozzo di percorso espositivo che poi è stato realizzato, su questo medico di Parma, che mi dicevano, c’è in corso una causa di beatificazione. Beh, a me mi è già andato giù di squadra, perché l’idea di mettermi a lavorare per un medico che mi sembrava già un santino per gli altari…insomma mi faceva piacere ma non fino in fondo. Quando ho cominciato a prendere in mano la documentazione che mi han dato sono rimasto stupefatto, come è successo per tutti gli altri che l’hanno fatto, perché quello che emergeva era veramente un uomo grande, uno scienziato grande e come abbiamo già avuto modo di dire, non per questo slegato invece dal suo essere cristiano, in questo senso sì, un santo. Io non so se questa causa di beatificazione andrà avanti o non andrà avanti, non è nelle nostre mani e ci interessa fino a lì. Sicuramente la santità dell’integrità della sua vita è vera e allora quello che chiediamo adesso a Paolo Ciliberti, di raccontarci un pochettino che cosa può essere stato anche per lui l’incontro con questa persona nei fatti, nel lavoro, nello studio, la percezione che ne ha, anche proprio dal suo tipo di lavoro, che comunque non è indifferente anche rispetto a ciò che lui ha scoperto.

PAOLO CILIBERTI
Grazie Giorgio. Intanto vorrei ringraziare Giovanni, Jerry, Veronica e Andrea per avermi chiesto di essere qua e volevo innanzitutto raccontarvi un po’ di come mi sono imbattuto in Rastelli, perché secondo me dice un po’ della dinamica di cui parlava Giorgio e di cui parlava Giovanni, di una cosa un po’ che ci è accaduta, che non abbiam perseguito e che è un po’ successa. Io faccio il cardiologo, una decina di anni fa, nel 2007, ero un giovane specializzando di cardiologia e il mio babbo, che fa il cardiologo anche lui e tra le tanti doti che ha c’è quella di leggere qualsiasi cosa, anche l’elenco del telefono. Mia mamma direbbe che è per questo che è un po’ orso e non parla mai, però secondo me è una dote. Mi disse “ho letto da qualche parte, non mi ricordo neanche più dove, che hanno aperto la causa di beatificazione di Rastelli”. Voi dovete sapere che la cardiologia pediatria e la cardiologia normale dell’adulto son veramente due mondi separati: patologie diverse, tutto diverso, quindi io non sapevo chi fosse Rastelli e gli detto “ah, bello, ma chi è?”, lui mi fa “mah, è un cardiochirurgo italiano, che ha lavorato in America, che ha scoperto un intervento che ancora si fa nelle cardiopatie congenite”, però la cosa è finita lì. Dopodiché io dopo tre anni per caso comincio a lavorare e a occuparmi di – anche se come dice Gian, c’è scritto nella mostra, “non c’è nulla di più preordinato del cosiddetto caso”, dice lui – e comincio ad occuparmi di cardiopatia congenita e a lavorare in cardiologia pediatrica, quindi questo nome Rastelli torna in continuazione, cioè facevo l’ingresso a una bambina e si diceva questa entra per fare la Rastelli domani, veniva una su dalla terapia intensiva: questa ha fatto la Rastelli ieri, quindi questo Rastelli tornava e poi scopro che una delle cardiopatie congenite più frequenti, il canale atrioventricolare che ha diversi sottotipi si classifica secondo Rastelli, cioè l’ha classificato Rastelli, per cui mi spiegavano, io non sapevo niente, ero appena arrivato, mi dicevano: questa qui è il canale atrioventricolare tipo A secondo Rastelli, quindi questo Rastelli mi tornava. Al che vado su internet a cercare di capire un po’ chi era, mi ricordo di quello che mi aveva detto il mio papà, e trovo quello che trovate anche voi adesso, più o meno, cioè la pagina di Wikipedia, tutto ciò che c’era prima della mostra e il sito santiebeati, quello in cui ci sono tutti i servi di Dio, i venerabili…Leggo della sua vita e mi viene anche voglia di saperne di più, tanto che cerco il libro della sorella, che però era terminato e qui mi rimane un po’ questa cosa, che mi è sempre un po’ rimasta. Dopo io sono stato anche a Londra quattro anni, anche lì Rastelli, Rastelli e dicevo, mah, sarebbe bello saper bene la sua vita…però questo veramente ogni tanto la vita ci risponde in maniera sovrabbondante anche rispetto al desiderio che magari avevamo, perché mai mi sarei immaginato poi di incontrar loro, la mostra e di essere quì. Però mi ricordo una cosa di quel periodo lì, quando ho cominciato a lavorare in cardiologia pediatrica, che andai da una dei nostri medici più anziani, tra l’altro una che stimo molto e anche profondamente cattolica e le dissi “sai che ho scoperto che hanno aperto la causa di beatificazione di Rastelli?” Lei non lo sapeva e ha una reazione un po’ strana, mi fa “bello, però cosa significa? Allora devono aprire la causa di beatificazione anche per il Professor Gargiulo” che era il nostro primario cardiochirurgo a Bologna, (a cui auguro una via di santità), però mi disse “perché è un bravo cardiochirurgo”. Questo lo racconto perché secondo me dice della difficoltà nostra a immaginarci una possibilità di una vita così eccezionale nella normalità del nostro lavoro, cioè il retropensiero che c’era un po’ dietro questa cosa era come dire: uno che è stato così bravo in un lavoro così totalizzante, come può essere indicato dalla Chiesa così una vita da guardare? Come se per esser santi bisognasse far qualcos’altro, bisognasse aver più tempo, non fosse possibile nella normalità di una vita. E’ un po’ quello che invece poi adesso ha capovolto il Papa con l’esortazione apostolica che c’è anche nella mostra, in cui proprio dice che la la vera santità è per prima cosa far bene quel che uno ha da fare. A questo punto la cosa va avanti, però, vi ripeto, è stato un po’ come un fiume carsico che rimaneva lì, ma son passati anni. Nel 2012, ho recuperato le mail, a una cena Pierluigi Strippoli, di cui han già parlato tutti e due, che è qua che parte, prima l’ho visto, Professore di Genetica a Bologna, ci racconta appunto della scoperta che aveva fatto di Lejeune, scopritore della Sindrome di Down, di cui è stata aperta anche lì la causa di beatificazione. Allora io gli dico: ‘Sai Pierluigi che c’è un altro implicato nella sindrome di Down perché la classificazione di questa malattia, il canale atrioventricolare, è la cardiopatia tipica dei Down, per cui c’è un altro implicato nella sindrome di Down di cui è stata aperta la causa di beatificazione’. Al che, lui il giorno dopo mi risponde e mi dice: ‘Ho letto la vita di Rastelli, bellissima’. Da medico prestato interamente alla ricerca lui porta un po’ di acqua al suo mulino e mi cita questa frase di Rastelli: ‘Far cessare la ricerca è far cessare la vita’. Poi non me lo ricordavo più neanche io, l’ho riscoperto adesso perché ho fatto una ricerca su Gmail per ritrovare questa mail, e anche qui la cosa muore lì. Non è che poi l’abbiamo perseguita, non è una cosa che abbiamo perseguito noi. Dopo tre anni Pierluigi mi riscrive nel 2015 dicendomi: ‘Mi sono imbattuto per caso in Giancarlo Rastelli, sai quello che ha scoperto … non si ricordava più’, a dire come questa cosa è venuta fuori al di là delle nostre cose. Sta di fatto che poi PierLuigi cita la cosa a lezione a loro, loro si appassionano e da qui viene fuori tutta questa cosa grandiosa e io ricevo una mail l’anno scorso, poco prima di chiamare Giovanni, come diceva, da PierLuigi che mi rimanda il volantino del loro incontro a Bologna e mi scrive: ‘da cosa nasce cosa’. Mi ha proprio stupito come da questo evento grosso che veramente questo anno un po’ ci ha segnato è venuto fuori. Detto questo, la mostra è stata anche per me l’occasione per conoscerlo bene Rastelli. Cosa mi ha colpito di più? Mi ha colpito innanzitutto quello che diceva Giovanni: tutti lo descrivono come un uomo felice, un uomo allegro, sempre scherzoso, con la battuta pronta, in una vita non semplice. Contate che lui, lo vedrete nella mostra, a trentun anni, al ritorno del viaggio di nozze, fa gli esami del sangue routinari che si fanno in ospedale quando si fa il medico e gli trovano un linfoma maligno. Morirà pochi anni dopo di questo linfoma. Raccontata così è l’apoteosi della sfiga come racconto. Anche la sorella, raccontando della sua fede, dice che non era mai una fede detta, troppo parlata, era sempre uno con la battuta pronta, dice ‘un giullare di Dio’. La cosa che secondo me è proprio il fil rouge della vita di Gian e che mi colpisce di più è una frase a lui cara e che i ragazzi hanno messo nella mostra, di Dostoevskij e dice. ‘io mi sento responsabile appena un uomo pone il suo sguardo su di me’. Nel senso che tutta la vita è una vita normale, è una vita come la nostra, un lavoro come il nostro, una famiglia come la nostra, problemi come i nostri, però tutto questo vissuto in maniera eccezionale perché lui stesso commentando un episodio di ‘Cani perduti senza collare’, tra l’altro un libro caro anche a don Giussani, dice: ‘Quando una strada si apre si è liberi di percorrerla, quando una mano si tende si è liberi di afferrarla’. Nel senso che lui si è sempre fatto provocare da tutte le persone che ha incontrato, dalle cose che gli sono successe, dalla malattia al lavoro, come qualcosa che chiamava lui e lui a questa cosa qui ha risposto. Dentro questo, tutti questi fatti normali sono diventati eccezionali, per cui veramente è una vita in cui l’ordinario è diventato eccezionale e l’eccezionale è diventato ordinario. Per cui la sua vita è piena di episodi così, cioè troverete una marea di episodi di carità suoi, dai tempi in cui studiava, ci sono un sacco di suoi compagni di studio che lui ha letteralmente adottato, si è presi a cuore, amici raccontano di queste cose. Centinaia di bambini che lui visitava in Italia gratuitamente quando tornava alla Mayo Clinic facendo raccolta di fondi e cominciando lui a dare i soldi. Troverete una testimonianza che è stata ospitata per più di un anno a casa sua perché aveva la bambina lì ricoverata. Tra questi vi volevo leggere solo due cose sue: uno perché mi colpiva di questa carità sua sempre una grandezza d’animo. Una volta scoprono che una persona che lui aveva aiutato aveva usato i soldi che lui gli aveva fatto avere in maniera balorda e lui dice alla sorella: ‘Non importa, almeno ha conosciuto un gesto di amore totale, quell’amore che nulla chiede che certamente gli è stato negato. Forse un giorno ripescherà dal proprio inconscio la memoria di quel gesto gratuito ricevuto’. Veramente la carità senza nessun tornaconto, questa cosa dice della sua grandezza.
Sempre per dire di questa cosa, che si faceva provocare da qualsiasi cosa succedesse, volevo leggere questa, che è una delle cose che a me piace di più sue. Si laurea e comincia a lavorare in clinica universitaria a Parma con questo professor Bozzetti e si appassiona ai malati che ha lì, cosa che potremmo fare anche noi, capitare anche a noi, ma magari nessuno di noi si è coinvolto così. Lui dice: ‘Un ultimo dell’anno, uscito da poco dall’ospedale, il signor Menapace, operato dal professor Bobbio (il primario di Gian) e amputato a entrambe le gambe voleva morire, rifiutava cibo, bevande, e parole. Stava a letto con gli occhi inchiodati al muro bianco di calce’. Gian si trovava da amici per una cena di fine anno, già vestito di grigio fumo e in camicia dal colletto perfetto, bellissimo, sorridente, un sorriso ottimista e comunicativo, un po’ ironico e un po’ tenero. Una telefonata della signora Menapace cambiò totalmente il programma della serata. Giancarlo convinse tutti con le sue poche parole essenziali ad abbandonare la cena dell’abbondanza parmigiana e ad andare da Menapace. Succede questo, lui lascia tutto e va lì.
Dice: ‘Entrò solo lui, parlamentò con Menapace per un’ora esatta da solo. Si sa soltanto che Ar-mando Menapace ad un certo punto chiamò tutti dentro, fece aprire il lambrusco delle sue viti e tagliare il culatello dei suoi maiali. Fece accendere il camino, lo accese anche dentro di sé. Pianse, rise, mangiò. Bevve la vita e la compagnia. Ricominciò a vivere da quel giorno. Da quella notte Gian e la compagnia passarono molte domeniche da Armando. Gian partì per l’America e i ragazzi, i suoi amici, continuarono ad andare a trovarlo’. Ecco, di esempi così è piena la mostra. Dopo se l’andate a vedere ne troverete tanti.
Un’altra cosa, un altro punto, è che anche la sua professione, l’America, fu vissuta così, come una cosa, con questa … come una risposta ad una provocazione che c’era, tanto che è simpatico che la prima cosa per cui lui si fa notare alla Mayo Clinic è che uno dei primi interventi a cui assiste si rompe la macchina cuore-polmoni. Tutti sono lì che cercano il superesperto americano che venga ad aggiustarla. Lui va lì, guarda e l’aggiusta. Poi scrive a casa e dice: ‘Pensavo di venire qua per farmi apprezzare come cardiochirurgo ma mi apprezzano come elettricista’. Però dice di questa sua attenzione. È appunto il lavoro che visse nelle forme più alte e ancora noi dopo cinquant’anni continuiamo a fare il suo intervento e a classificare le malattie come lui. Forse la cosa che colpì di più tutti è proprio la malattia, come diceva Giovanni, nel senso che appunto lui a trentun anni rientra dal viaggio di nozze e gli diagnosticano questo linfoma. La cosa che mi colpisce è che lui … ce lo raccontava anche la figlia Antonella … chiese alla moglie e a tutti di continuare a vivere esattamente come era prima. Anche le sue scoperte, soprattutto in quegli anni, è come se lui avesse continuato … proprio di una persona ancorata al presente, senza nessuna paura di quello che poteva succedere, senza nessun rimpianto per quello che sarebbe potuto essere e ancorata a quello che c’era in tutta la sua vita. Tanto che volevo leggervi due cose, velocissime. Una della moglie che racconta e dice: ‘ Ricevuta la prima diagnosi della malattia, la sera stessa torna a casa, prima del solito con una rosa rossa per la moglie Anna, mette sul grammofono un disco di Vivaldi e le dice: Ti devo parlare. Ho fatto degli esami che non sono andati molto bene. Io sono felice. Ho avuto tanto dalla vita e ora con te ho avuto tutto. Dopo ulteriori accertamenti la malattia si rivela essere un linfoma di Hodgkin. ‘Mi è stato concesso dell’altro tempo grazie a Dio, non ne parliamo più. Viviamo la vita normale di una coppia normale’. Anche Kirklin che era la persona per cui lui andò alla Mayo Clinic, uno dei padri nobili della cardiochirurgia pediatrica, il testo sacro di cardiochirurgia pediatrica, scrivendo di Gian scrive: ‘Un giorno venne nel mio ufficio e disse che aveva il morbo di Hodgkin. Me lo disse mostrando quasi la stessa emozione che avrebbe avuto se avesse dovuto dirmi che il nostro densimometro non funzionava correttamente, una specie di tacito patto si instaurò tra noi, di non parlare di questo male a meno che non ci fosse una urgentissima necessità di farlo. Il dottore Rastelli era troppo intelligente per non rendersi conto che il suo male era fatale eppure lavorava con felicità, con forza e produttivamente, senza il minimo pensiero in apparenza che la sua vita avrebbe potuto avere una fine drammatica. La serenità e la fiducia con cui affrontò la vita e la morte letteralmente è la più grande tra le molte cose che mi ha insegnato. Per cui questa cosa qui … volevo raccontare questo episodio semplice perché dopo l’incontro al Bambin Gesù, la sera eravamo a tavola a cena e dico alla figlia Antonella che ci raccontava appunto come la mamma le aveva detto, perché il papà è morto che lei aveva quattro anni, ci raccontava di come avesse chiesto alla madre di non parlarne più. Il dottor Iorio disse una cosa molto semplice, adesso non ricordo se le parole sono proprio quelle, però le disse: ‘Antonella, io ho un po’ l’impressione come se tuo papà fosse così amico di Gesù che se anche un amico ti dà una cosa dolorosa tu in fondo lo guardi sempre con un po’ di simpatia’. Ecco, secondo me, questa cosa, che è una cosa semplice, dice un po’ della vita di Gian. Secondo me la sua vita è una vita un po’ così.
Per concludere volevo dire che mi colpisce molto che dentro questa sua umiltà, dentro questa sua posizione fu sempre di una grande umiltà. C’è una lettera bella che, quando ci furono le prime scoperte, uscirono degli articoli sui giornali americani e lui scrive alla sorella di chiedere al padre che faceva il giornalista di non scrivere nulla su di lui perché non voleva che si spargesse la voce. Questa posizione, lo vedo per me nel mio lavoro ma in tutto, per ognuno, il bivio sempre quando uno si sveglia è cercare di fare le cose per affermare sé oppure farle per qualcun altro. Lui non ha mai cercato di affermare sé, di far vedere quanto era bravo, che si parlasse di lui, eppure proprio per questa posizione, per questa umiltà che poi è la cosa più rara e che però ci colpisce sempre di più nelle persone quando la troviamo, noi siamo ancora qui dopo cinquanta anni, in tutte la cardiochirurgie pediatriche si parla di lui e noi siamo qui al Meeting a parlare di lui.

GIORGIO BORDIN
Adesso la parola tocca al dottor Iorio, che è la persona di cui il curriculum devo leggerlo… Lui è il direttore, è un cardiochirurgo, direttore del dipartimento di cardiochirurgia al Bambin Gesù, si è laureato a Roma, poi è stato al Gemelli, è andato ad Amsterdam, è andato a Londra, Filadelfia. Ha lavorato in Arabia Saudita, cioè non è un chirurgo di primo pelo, è una persona che innanzitutto ha vissuto gli anni in cui si è formata la cardiochirurgia pediatrica moderna e mi sembra che, pur non avendo mai conosciuto Rastelli, però è legato a doppio filo per le cose che lui ci racconterà e che è inutile che anticipo. A lui sta uno dei compiti più facili e più difficili di oggi perché le cose che potrebbe raccontarci e nella piacevolezza ci terrebbero qui volentieri parecchio, dovrà sceglierle e limitarle, perché veramente è una storia fatta di tanti fatti legati a Rastelli e legati alla sua storia. A lui però volevo partire da un brano che mi ha colpito molto per chiedergli questa cosa. È una cosa che è contenuta anche nella mostra e che compare su una biografia dal titolo Tribute to Giancarlo Rastelli che è comparso sul Journal of cardiac surgery nel 2005 ad opera di Kostantinov, quindi stiamo parlando di pubblicazioni scientifiche importanti in cui scrive queste parole che traduco dal testo originale in inglese: ‘Essendo una persona caritatevole Rastelli ha sempre cercato di spiegare ai suoi pazienti le esatte cause sottostanti alle malattie come l’anatomia, la patologia e le opzioni di trattamento. Tuttavia Rastelli spesso non aveva una risposta per i suoi pazienti né una opzione chirurgica da offrire ai suoi malati di malformazioni cardiache e congenite. Questa ricerca per una risposta stimolò Rastelli, insieme ad un altro specializzando in chirurgia, il dottor Carlo Battistini a intraprendere una intensa attività di ricerca chirurgica. Battistini, Bobbio e Rastelli condividevano anche una passione per la musica classica. Passavano molte ore assieme ascoltando dischi di musica classica e discutendo di una varietà di argomenti. Questa amicizia facilitò anche la validità della loro ricerca clinica perché lavorarono molto efficacemente come un team’. Sono molto colpito di questa cosa messa dentro un articolo scientifico perché a parte sottolineare ciò che stiamo dicendo da tempo, cioè che la carità è stato il motore anche della ricerca scientifica, ci dice un’altra cosa: che l’amicizia non è un accidente o una coincidenza nel nostro lavoro ma può diventare il metodo di un lavoro. Poi mi colpisce perché, io, Fiore Iorio manco sapevo chi fosse, ma noi con Rastelli abbiamo parlato di due cose, ma io dico che siamo diventati amici. Questo è l’esito dell’essere colleghi o è l’inizio dell’essere colleghi?

FIORE SALVATORE IORIO
Grazie Giorgio. Buongiorno a tutti. Sono molto contento che c’è tutto questo interesse sulla cardiochirurgia. Per me Rastelli, ovviamente, non è una scoperta di oggi, è una scoperta di quando ho cominciato quando mi sono avvicinato alla cardiochirurgia. Devo dire due parole che, detto così sembra uno che gli è capitato qualche cosa a questo Giancarlo Rastelli. In realtà lui viveva negli anni ‘50 quando scopre che sta nascendo la cardio chirurgia. La cardiochirurgia era rimasta indietro perché gran parte del mondo dell’accademia dell’epoca riteneva che fosse impossibile operare il cuore perché bisogna fermarlo, e una volta che il cuore lo hai fermato il paziente nel giro di pochi minuti è morto. Alla Mayo clinic ritennero invece che questa cosa era possibile. C’erano alcuni chirurghi di guerra che erano rientrati dalla II guerra mondiale gli diedero un paio di stanze, gli dissero: cominciate a fare la cardiochirurgia. Quindi il primo problema fu trovare un sostituto della funzione del cuore e dei polmoni mentre il chirurgo poteva attaccare il cuore e correggerlo. Ben presto, alla meglio svilupparono un ossigenatore, una pompa ossigenatore che, che è il prototipo iniziale della circolazione extra-corporea. Non era finita, perché il sangue quando esce dalle arterie e dalle vene coagula, per cui provando a mandare il sangue in questa macchina coagulava immediatamente. Allora scoprirono che nel 1906 uno studente austriaco aveva scoperto nel fegato di bue una sostanza che rendeva il sangue incoagulabile e la chiamò eparina; non sapeva cosa fosse, non la isolò neanche, però derivava dal fegato e quindi la chiamò eparina. La scoperta fu abbandonata e ripresa da questi ricercatori che trovarono così anche la sostanza per rendere il sangue incoagulabile; ma non bastava ancora perché dopo l’intervento il paziente doveva coagulare se no tutti i passaggi d’ago avrebbero sanguinato, e piano piano trovarono la neutralizzazione di questa sostanza e fu il fosfato di protamina. Tutto questo succede negli anni ‘50. Rastelli sa benissimo cosa sta succedendo alla Mayo clinic, non in un posto qualsiasi, quindi quando lui vince questa borsa di studio e la vince perché lui ha creato un vivaio di cervelli a Parma, lui spicca perché era una persona di una intelligenza al di sopra della media, ma lui tutto questo lo finalizza a vincere una borsa di studio della NATO, non era una cosa facilissima, lui la vince e va a Rochester, perché sapeva una cosa che gli altri probabilmente non sapevano: era la pronta tecnologia per fare gli interventi al cuore ma non si conosceva le cardio patie, perché le cardiopatie congenite erano state sempre trascurate perché giudicate inoperabili. Quindi lui sapeva che lì c’era un lavoro enorme da fare, va proprio da questi giganti della cardiochirurgia, erano chirurghi che spesso si trovavano in condizioni di chiudere perché non capivano che malattia fosse questa qui. Allora lui nel sue laboratorio studio tutte le malattie che erano quelle più frequenti ovviamente, i canali atrioventricolari avevano una mortalità all’epoca del 60%, cioè più della metà moriva perché non usciva di sala operatoria; lui capì come funzionava il canale lo spiego ai chirurghi anziani della Mayo Clinic e si potè così correggerli; la moralità sia oggi credo sotto l’1%. Però oggi è tutto facile perché, come diceva Bernardo di Chartres (lui lo diceva a proposito dei classici latini) noi siamo dei nani sulle spalli di giganti, giganti grossi e Rastelli è uno di questi giganti. Noi pensiamo di vedere più lontano di loro ma perché ci sono stati loro che ci hanno sostenuto. In realtà noi non siamo né bravi come loro né grandi come loro. Però il lavoro che hanno fatto loro è stato veramente insostituibile, Giancarlo Rastelli classifica i canali, classifica il thrombus arteriosus, inventa una cosa che non è tanto la “Rastelli operation” perché la Rastelli è per la trasposizione di stenosi polmonare. IN realtà quello che lui inventa è: ci sono cardiopatie non solo questa, in cui manca la strada tra ventricolo destro e polmoni. Lui prende un homograph, cioè un tubo aortico da un cadavere e lo utilizza per costruire questa strada che non c’era; questo è il concetto di Rastelli. Perché la Rastelli per tga … stenosi polmonare non è così frequente, ma il concetto di Rastelli, cioè mettiamo un condotto artificiale per curare delle cardiopatie è stata una cosa che rivoluzionato la cardiochirurgia. Quindi lui era uno che non perdeva tempo; l caratteristica di Rastelli che ha a me ha colpito di più era la sua intelligenza ma lui la verità la guardava in faccia, non si diceva bugie. “Devo andare alla Mayoclinic, devo studiare queste cardiopatie perché non le conosciamo, le dobbiamo operare; questo lui lo fa in 10 anni. Metà di questi anni lui se li porta con un Hodgkin addosso, radioterapie, le prime chemioterapie. Lui tutto questo lo vede come una zavorra che però on ne può fare a meno e quindi intensifica, ci sono alcuni brani in cui la moglie dice “la notte noi la consumavamo per stare insieme, per parlarci, perché il tempo era poco” lo sapevano. Questa donna che lui sposa la conosce e decide il giorno stesso che questa sarà la moglie; viene in Italia la sposa e se la porta in America. Non era uno che si perdeva, sapeva perfettamente tutto quello che voleva e aveva una lucidità che non gli poteva se non venire se non con l’amicizia con qualcuno di grande; perché quello che lui ha fatto non è umano, è qualcosa di più, perché un ragazzo che in 10 anni, nessuno lo ha fatto in una vita. Forse per lui possiamo dire quella frase del libro della Sapienza che dice: Consummatus in brevi explevit tempora multa, cioè lui raggiunse la perfezione subito e quello che gli altri hanno fatto in un vita lui lo ha fatto in pochi anni. Quindi l’efficacia di quest’uomo, il fascino, il carisma sono enormi. Quando lui stava alla Mayo Clinic li confuse gli americani; io voglio bene agli americani, siamo tutti formati in America, ma in America la competizione è sempre dietro l’angolo, lui lo sapeva, lui lo racconta, si beccano sempre anche tra vecchi medici, si interrogano perché alla Mayo clinic dovevano rimanere solo quelli migliori, “i vasi di coccio” diceva lui “qui non resistono”. Lui ha resistito in mezzo a questi vasi di coccio, è diventato un gigante anche lui, un ragazzo di Parma che arriva in America e fa tutto questo in pochi anni; appunto come dicevo lui è uno dei pionieri della cardiochirurgia. Ci sono due nomi di interventi chirurgici che portano il nome di italiani; uno è la plastica di Passini per l’ernia inguinale e l’altro è ‘intervento di Rastelli. Se andate in India o in Giappone si chiama “Rastelli operation” e quello che lui è riuscito a fare con il suo cervello in questi pochissimi anni. Una persona affascinantissima. Ora, detto questo, quello che lui è riuscito a fare non è roba normale, è roba dell’altro mondo. Come è riuscito a fare queste cose? Lui ha fatto funzionare tutto quello che aveva: gli amici, anche i nemici, ci sono persone con le quali lui capì che l’accordo non poteva andare ma non era un problema. C’era un suo amico comunista che disse: “se tutti i cattolici fossero come lui io mi farei cattolico oggi perché non mi ha mai trattato … una volta dice che disse: ha detto che probabilmente io sono più gradito a Dio di un cattivo cattolico” per dirti il personaggio”. Lui voleva bene alla gente, lui stava con la gente, aveva il piacere di stare con la gente; o alla Mayo clinic o Parma o con i pescatori sul Po, era sempre lui, era sempre uguale. E poi aveva una cosa che colpisce ancora di più: la sua bellezza fisica. Chi lo nota nelle caratteristiche (“io ho visto le foto di questo ragazzo poteva fare l’attore”). Era un bel ragazzo. Quindi aveva tutto; e pur avendo tutto ha perso tutto in così breve tempo. Cosa voglio dire: Giancarlo Rastelli è più vivo lui di tanti altri che sono rimasti vivi ma che non ci hanno lasciato niente. Evidentemente i misteri della vita sono tali che noi non dobbiamo stare lì a parlarne troppo; bisogna dire di lui che è un eroe, un eroe dei nostri tempi, un ragazzo che ci dimostra che si può fare tutto, basta avere mente serena, intelligenza e soprattutto amare la gente. Ho vissuto una vita nelle sale operatorie, ho travato grandi maestri, grandi chirurghi che mi hanno insegnato, uno di questi è stato Carlo Marcelletti; noi abbiamo un filo diretto con la Mayo Clinic. Marcelletti è arrivato alla Mayo clinic pochi anni dopo che è morto Rastelli e lui ci raccontava che “mi volevano un bene che io sicuramente non meritavo”, cioè catalizzò su se stesso l’amore che gli americani dovevano ancora restituire a Giancarlo Rastelli perché la morte, lui non disse niente a nessuno, molta gente non se ne accorse se non quando è morto che non c’era più, e quindi ha lasciato un vuoto incolmabile. Ora, dalla Mayo clinic tramite Marcelletti noi abbiamo ripreso gli stessi valori della Mayo clinic che erano una dedizione totale al lavoro, lavorare in maniera instancabile e dare soprattutto l’amicizia ai malati. Quando noi stavamo ad Amsterdam, all’università di Amsterdam, le scene erano sempre le solite. Le andavi a prendere all’aeroporto, poi li accompagnavi in albergo, li aiutavi i genitori che non capivano l’olandese, tutto quello che si doveva fare e c’era intorno alla cardiochirurgia. Ora lui non c’è più ma che cosa ci ha lasciato? CI ha lasciato: 1) andare sempre diritti, valutare esattamente le cose, andare sempre diritto perché non ti puoi perdere nelle sciocchezze; la seconda cosa bisogna amare, perché se fai le cose senza amore non durano niente, non vanno lontano, una cosa che caso mai farà contento te, comprerai la casa, la macchina ma rimane niente. Lui ci ha insegnato con il suo maggiolino e le sue uova sode ha lasciato un monumento all’umanità. Queste sono le cose che noi dobbiamo guardare. Ai giovani dico: imitatelo, imitatelo nel senso di: siate liberi, cercate sempre assolutamente di essere indipendenti, ragionare con il vostro cervello, evitate le false pecore che dicono che sono pecore ma in realtà sono lupi. Il mondo della medicina non è così roseo come in realtà tante volte lo vogliamo fare vedere.

GIORGIO BORDIN
Bene. La cosa che mi sembra più evidente anche da queste ultime cose che ha detto Fiore, è come l’opera di un uomo continua davvero oltre di sé, quando è data con la totalità della propria persona. Quindi quello che ci è chiesto è di essere persone vere, vive, integrali

Data

20 Agosto 2018

Ora

12:30

Edizione

2018

Luogo

Arena Meeting Salute C3
Categoria
Arene