RUSSIA 1917. IL SOGNO INFRANTO DI UN “MONDO MAI VISTO”

Russia 1917. Il sogno infranto di un “mondo mai visto”

Partecipano: Boris Belenkin, Filologo e Storico, Direttore della Biblioteca “Memorial” di Mosca; Adriano Dell’Asta, Professore di Lingua e Letteratura Russa all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Brescia e Milano; Massimo Ciambotti, Pro-Rettore dell’Università degli Studi “Carlo Bo” di Urbino e Presidente della Fondazione Claudi; S. Ecc. Mons. Antonio Mennini, Arcivescovo Titolare di Ferento, Segreteria di Stato della Santa Sede, già Nunzio Apostolico nella Federazione Russa. Introduce Francesco Braschi, Dottore della Biblioteca Ambrosiana e Presidente dell’Associazione Russia Cristiana.

 

FRANCESCO BRASCHI:
Buonasera a tutti! Buonasera a tutti i presenti! Grazie per essere voluti intervenire a questo incontro, nel quale presentiamo la mostra dal titolo Russia 1917. Il sogno infranto di un “mondo mai visto”. Una mostra che è stata pensata dalla Fondazione Russia Cristiana in occasione del centenario della Rivoluzione Russa, ma che nello stesso tempo si presenta come la possibilità che ci viene offerta di tracciare come una possibilità nuova di leggere anche la nostra contemporaneità alla luce di quanto la ricerca storica, lo scavo nei documenti contemporanei, ha permesso di cogliere circa la decisività di quell’avvenimento che va, appunto, sotto il nome di Rivoluzione Russa. Non solo e non tanto per la storia russa, ma per tutta la storia dell’umanità e in particolare nei suoi riflessi, che, vedremo, sono anche delle radici sul mondo occidentale. Dunque la mostra che viene presentata ha insieme le caratteristiche della ricostruzione storica necessaria, doverosa, anche per mettere in luce i pregi e i limiti delle letture correnti di questo avvenimento, ma che non vuole fermarsi alla mera ricostruzione storica, bensì scandagliare -e in questo caso il ricorso alle fonti contemporanee diventa decisivo- le ragioni di quello che avvenne, sia le cause prossime sia gli intendimenti più profondi: il fine, il sogno, appunto, che animava gli attori di quel periodo storico e più in particolare della Rivoluzione stessa. Ma la mostra parla anche di un sogno infranto: un sogno, infatti, che ben presto mostrò tutto il suo carattere illusorio, e questa illusorietà sta proprio nel fatto che il sogno era quello di un mondo mai visto e, saremmo tentati di aggiungere, che non si sarebbe mai potuto vedere. Una prospettiva di liberazione che, però, arrivava a negare la libertà. Un desiderio di mettere al centro un soggetto -il popolo- che, però, andava almeno momentaneamente esautorato della sua libertà, perché solo così, in un lontano futuro, avrebbe potuto goderne appieno. Un sogno, dicevamo, infranto, un mondo impossibile da vedere e che tuttavia ha lasciato un segno indelebile nella storia del XX secolo. Questa sera siamo qui a ragionare di questa mostra, ma più ancora dell’evento a cui la mostra è dedicata, con una serie di amici che ci hanno fatto il dono della loro presenza e che sotto diversi aspetti e con diverse competenze ci potranno aiutare a entrare più in profondità, sia nel quadro della mostra, sia nella riflessione sull’evento rappresentato. I nostri ospiti sono il Professor Boris Belenkin, Filologo e Storico, Direttore della Biblioteca della Fondazione “Memorial” di Mosca. È una Fondazione che ha avuto come suo primo Presidente Andrej Sacharov, che è nata nel 1987 e ha poi avuto subito, nel momento in cui c’è stato il crollo del regime, la possibilità di essere ufficialmente presente. Una Fondazione che si occupa, appunto, di conservare la memoria, ma anche di renderla disponibile alla conoscenza e allo studio delle giovani generazioni. Abbiamo poi il Professor Adriano Dell’Asta, Professore di Lingua e Letteratura Russa presso l’Università Cattolica di Brescia e di Milano, ma di cui vogliamo anche ricordare la lunghissima attività nella Fondazione Russia Cristiana, di cui è attualmente Vicepresidente e, dunque, potremmo dire, una vita dedicata alla conoscenza e allo studio della storia russa. Abbiamo poi il Professore Massimo Ciambotti, Pro-Rettore dell’Università degli Studi “Carlo Bo” di Urbino, nella quale ha svolto una lunga carriera accademica, che è qui, però anche in veste di Presidente della Fondazione Claudio Claudi (una Fondazione dedicata a una singolare figura di letterato e filosofo vissuto nel secolo XX a Roma), che ci parlerà del motivo per cui la Fondazione Claudi ha scelto di sostenere e di promuovere la mostra sulla Rivoluzione Russa e quali consonanze tra questo tema e le attività educative che portano avanti. E da ultimo, ma certamente non per importanza, sua Eccellenza Monsignor Antonio Mennini, Arcivescovo, attualmente collaboratore della Segreteria di Stato della Santa Sede, ma che vanta una lunga esperienza diplomatica a servizio della Santa Sede, che lo ha portato in particolare a essere Nunzio Apostolico nella Federazione Russa e poi Nunzio Apostolico a Londra e dunque, il suo è uno sguardo che ci permetterà di riconoscere gli effetti che ancora oggi possono sperimentati di questo episodio che stiamo studiando, la Rivoluzione Russa, tanto per l’Oriente quanto per l’Occidente. Ho presentato gli ospiti anche nell’ordine in cui interverranno, e, dunque, penso che la cosa migliore sia dare subito loro la parola. E iniziamo dal Professor Belenkin, al quale poniamo questa domanda: lei è uno storico, uno studioso, un ricercatore, ecco, quali sono i tratti attuali della ricerca storica sulla Rivoluzione Russa che a lei più paiono interessanti e qual è l’atmosfera della comunità scientifica -ma non solo- in Russia a proposito del centenario e del giudizio che si vuole offrire di questo periodo storico? Grazie. A lei la parola.

BORIS BELENKIN:
Allora, io voglio ancora una volta ringraziare Rimini per questa possibilità, questo onore che mi è stato fatto di partecipare a questo incontro. Ora la risposta alla domanda che mi è stata fatta. Io devo dire che l’evento del 1917 purtroppo non è stato incontrato nella mia patria, in Russia, con l’atteggiamento con cui avrebbero dovuto accogliere un evento così gravido di importanza per il nostro paese. Il problema è che per rispondere e dire che cosa sta succedendo con gli studi che stanno avvenendo oggi in Russia, bisogna ricordare che, nell’arco degli ultimi cento anni passati dopo il 1917, per settanta anni in Russia c’è stato un regime sovietico, era un paese che prendeva il nome di Unione Sovietica, e naturalmente la visione della storia era molto specifica. C’erano molti pregiudizi e c’era molta poca obbiettività. Per questo quello che è avvenuto dopo, quando l’Unione Sovietica ha cessato di esistere, quest’epoca si è chiusa e non c’è stato il tempo per riesaminare ciò che era avvenuto e non c’è stato il tempo perché apparissero degli studi, dei saggi, delle ricerche fondamentali sulla nostra storia nazionale. Si può dire soltanto di studi, di ricerche dedicate al 1917 che hanno una componente tematica molto particolare. Ancora un’altra causa, che è un impedimento a questo giudizio, al fatto che il giudizio sul 1917 avesse trovato una adeguata comprensione in Russia, è indubbiamente negli ultimi anni il tentativo che c’è stato di politicizzare la storia, il tentativo, diciamo così, di una ingerenza da parte dello stato nello studio delle scienze storiche e un tentativo incompiuto da parte dello stato di portare a termine la propria identificazione, la propria identità nazionale. In queste circostanze noi ci troviamo di fronte ad una impossibilità di esaminare in maniera imparziale e oggettiva questi eventi di cento anni fa. Gli avvenimenti del 1917 purtroppo non rientrano nei piani di edificazione di un’identità che sta portando avanti lo stato. Per questo oggi la storia del 1917 in primo luogo è retaggio degli storici di professione e in qualche misura di una piccola insignificante parte della società.

FRANCESCO BRASCHI:
Grazie di cuore. Quello che ci ha appena detto il Professore Belenkin ci aiuta a capire la complessità dell’accostarsi a un tema di questo tipo. E allora al Professor Dell’Asta vorrei chiedere: che cosa ha mosso la ricerca che sta all’origine della mostra? E soprattutto, dal momento che a noi non interessa semplicemente una rivisitazione storica o un’opera di erudizione, che cosa questo studio ha fatto emergere per la coscienza che anche noi possiamo maturare del tempo in cui viviamo, nelle sue radici, ma anche nelle possibilità di crescita e di sviluppo? Grazie.

ADRIANO DELL’ASTA:
Grazie don Francesco, grazie dell’invito e della possibilità di parlare di quella che è stata indubbiamente una tragedia. La Rivoluzione è stata una tragedia, una tragedia epocale, perché mai prima c’era stata una rivoluzione con queste caratteristiche. Questa tragicità fu evidente subito e per noi l’interesse è stato esattamente di vedere perché per un certo gruppo di persone divenne evidente subito che quello che stava avvenendo era una tragedia. La cosa interessante è che le persone che ci hanno aiutato in questo percorso sono un gruppo di autori, in particolare Berdjaev, Bulgakov e Frank, che erano stati tutti originariamente marxisti, cioè persone che avevano abbandonato le loro tradizioni, perché il marxismo, la Rivoluzione prometteva loro una liberazione autentica, prometteva loro di realizzare “il sogno di un mondo mai visto” -il titolo della mostra che abbiamo dedicato alla Rivoluzione del 1917-. “Il sogno di un mondo mai visto” è un’espressione di Pasternak. Questo sogno venne infranto. Questi autori ci hanno permesso di capire perché venne infranto proprio dalla loro posizione, dalla posizione di gente che aveva abbandonato le proprie tradizioni, che quello che avevano ereditato dai loro padri lo avevano messo da parte. Poi arriva il marxismo: credono che la liberazione possa essere offerta dal marxismo. Rapidamente si rendono conto, ciascuno di loro dalla diversa prospettiva (Bulgakov allora è un economista, Berdjaev e Frank sono dei filosofi, Struve è un politico), che il marxismo questa liberazione promessa non la offre e a questo punto riguadagnano la loro tradizione. Questa era la sfida, il titolo del Meeting era Quello che tu erediti dai tuoi padri, riguadagnatelo, per possederlo e questi autori escono dall’inganno dell’ideologia marxista proprio perché riscoprono le tradizioni dei padri, riscoprono Cristo e la Chiesa, ma specificherò meglio fra poco in che senso. Questa loro posizione, questo loro ritrovamento della tradizione permette loro uno sguardo più acuto su quello che sta avvenendo. Molti si illuderanno per anni che quella è effettivamente la liberazione, un grande studioso francese dirà che era la realizzazione del Magnificat (“I potenti rovesciati dai troni”) e Berdjaev negli stessi giorni dirà che, invece, era “il suicidio di un popolo” e ci aiutano a capire che cosa è avvenuto superando innanzitutto le mitologie della storiografia corrente. Quali sono i miti della storiografia corrente? Che la Rivoluzione è scoppiata perché la Russia era un paese economicamente arretrato. Questi autori ci dicono che non è assolutamente questo il problema, che sicuramente la Russia ha delle sacche di povertà, ma è un Paese con uno sviluppo economico, industriale e agricolo incredibile. Non viene da lì la Rivoluzione, non viene neanche da un mitico difetto dei Russi, che non sarebbero, –molta storiografia dice così- non sono capaci di capire che cos’è la libertà e cos’è la democrazia, sono dei giocattoli la libertà e la democrazia che, quando vengono dati in mano ai Russi, subito li rovinano. Questa è una forma di razzismo culturale inaccettabile. Ma allora anche questo ci dicono: non è il punto e non viene neanche la Rivoluzione da un qualche complotto esterno; Berdjaev ha da questo punto di vista un giudizio impressionante: “quello che è avvenuto è a causa del bolscevico che c’è in me, i bolscevichi hanno vinto la rivoluzione e l’hanno trasformata in colpo di Stato perché io non ho saputo vincere il bolscevico che c’è in me”, cioè la prima osservazione a cui siamo stati portati da questi autori è che si era creato un vuoto nella società russa che rendeva possibile ogni avventura; vuoto come delegittimazione dello Stato, vuoto come delegittimazione della Chiesa, vuoto come una situazione in cui nessuno sa dare un giudizio su quello che avviene. E si manifesta in maniera clamorosa nel terrorismo d’inizio secolo, e qui c’è veramente un elemento di parallelo con la situazione attuale. Il terrorismo russo di inizio ‘900 conosce gli attentati suicidi, con le cinture di nitroglicerina portate da una ragazza di poco più di vent’anni nella sede della polizia di San Pietroburgo, con le carrozze-bomba: una carrozza viene portata davanti alla residenza del primo ministro Stolypin, che esce illeso dall’attentato, ma duecentocinquanta chili di dinamite fanno saltare gli attentatori e fanno morire una trentina di persone del tutto estranee con –è di questi giorni che la paura e il terrore che si diffonde per i cosiddetti attentati dei “cani sciolti”- nella Russia d’inizio secolo ci sono questi gruppi che si chiamano di “terroristi senza motivo” che colpiscono a caso con le armi che si ritrovano in mano: il vetriolo per esempio. E la società non è capace di giudicarli, di dare un giudizio vivibile: o vive con le misure eccezionali -che sicuramente arrestano il terrorismo, ma che lo lasciano semplicemente sepolto; siamo all’inizio del secolo e poi la cosa esploderà con una violenza inaudita ai tempi della Rivoluzione- o con il relativismo che passa in tutta la società. Pensate che Frank, che è uno di questi autori, che poi sarà quello che denuncia con più forza quella che lui chiama “l’etica del nichilismo”, nel 1905 ancora dopo una tragica sparatoria dove la polizia aggredisce una manifestazione pacifica facendo moltissime vittime, Frank, che di lì a poco condannerà l’etica del nichilismo dice “non ci resta altra alternativa che la lotta armata”. Quindi la società è svuotata, non sa giudicare. Lo Zar non è più cristiano: quando nel 1881 Alessandro II cade vittima di un altro attentato due pensatori cristiani, il grande romanziere Tolstoj e il grande pensatore e filosofo Solov’ev, ciascuno per conto loro, scrivono ad Alessandro III condannando l’attentato e chiedendo però che non venga applicata la pena di morte agli attentatori, perché secondo la tradizione il re cristiano non usa la pena di morte. È la tradizione che si era stabilita in Russia ai tempi di Vladimir quando si era convertito nel 988, e uno dei primi gesti di governo era stato abolire la pena di morte nell’anno 1000. Solov’ev e Tolstoj chiedono la stessa cosa ad Alessandro III, che risponde no. Lo Zar cristiano dov’è finito? La Chiesa a sua volta è delegittimata, non sa più dare le ragioni di quello che viene compiuto. È una Chiesa potente, istituzionalmente è dappertutto, al punto che i dipendenti statali devono partecipare a determinate funzioni in certi periodi dell’anno e ci sono dei registri dove questo viene verbalizzato; quando questo obbligo viene tolto da un anno all’altro dal 100% si passa al 10%, non in dieci, vent’anni, ma in un anno dal 100% al 10%. È una Chiesa che si è ridotta a strumento di Stato e quindi lega i suoi destini a quelli dello Stato, distrugge in questo modo se stessa e mina lo Stato e la società che non è più in grado di vedere dov’è il senso della vita e perché vale la pena di giudicare e di vivere. Da questa situazione nasce la lucida domanda di Berdjaev che nel 1917 pone la questione: “è la Chiesa che ha abbandonato il popolo o è il popolo che ha abbandonato la Chiesa?”. Noi l’abbiamo sentita tante volte questa domanda nella formulazione di Eliot, ma Eliot è alla fine degli anni Trenta. Qui siamo a porre questo problema per la Russia e quindi per tutta l’Europa nel 1917. In questo vuoto si è inserito il Marxismo, che questi autori dicono ha vinto perché è l’unica forza che trova nel vuoto e nella sua pneumatizzazione la propria ragion d’essere: il Marxismo deve negare la realtà, deve svuotare la realtà -ci dicono Berdjaev, Bulgakov, Frank- deve essere nichilista, deve annullare, portare all’estremo la negazione della realtà, perché questo è l’unico modo per realizzare praticamente l’ateismo, perché finché resta la realtà –questo è soprattutto Bulgakov che lo spiega, Bulgakov era il più grande economista marxista di quegli anni- resta il suo rimando a Chi la pone in essere, cioè resta Dio, e quindi resta radicalmente irrealizzabile il progetto di un potere radicalmente immanente e totalizzante, progetto che costituisce l’essenza del Marxismo, promessa di una liberazione che è opera delle sole mani dell’uomo e della sua scienza. Da qui nasce la novità totalitaria e nichilista della Rivoluzione: nasce subito la polizia politica, la Chiesa viene messa fuori legge di fatto–non può esercitare che il culto, ma anche questo solo quando è garantito e permesso dallo Stato-, viene distrutta la famiglia, il matrimonio religioso perde qualsiasi valore, viene introdotto il matrimonio civile, che però diventa una pura formalità: basta una cartolina, una lettera per divorziare, non una lettera allo Stato civile, ma all’ex-partner: “non siamo più marito e moglie”. Vengono distrutti tutti i legami naturali, fino all’eliminazione dell’io reale. Il male dell’ideologia è tutto qui, non che è un’idea cattiva, ma che c’è un’idea che può sostituire la realtà e questa è la grande scoperta di questi autori. Il male dell’ideologia non è nel suo contenuto, non c’è un’ideologia cattiva e un’ideologia buona che viene applicata male: il male è che ci sia un’ideologia che sostituisce il reale, non esiste più l’uomo reale, esiste il nemico oggettivo. Dicevo del ritorno alla Chiesa: da dove viene tanta lucidità? Esattamente dalla riscoperta di Cristo, che ha due caratteristiche per questi autori: innanzitutto Cristo è il liberatore dell’uomo, non è una verità che viene a condannare, ma è qualcuno che libera, cioè ci permette di riannodare i rapporti. È il giudizio impressionante, ancora una volta di Berdjaev, cacciato dall’Unione Sovietica e nel ’23 a un anno dalla sua espulsione dice: “noi dobbiamo amare la Russia più di quanto odiamo i bolscevichi”. Non è un relativismo, il bolscevico rimane condannato: la rivoluzione è andata così a causa del bolscevico che è in me che va vinto, ma è più importante l’amore che non colpire il nemico, usare la verità per colpire il nemico. La verità –seconda caratteristica- non la produco io, ma è offerta dalla Chiesa. Berdjaev, Bulgakov, Frank era gente che nei confronti della Chiesa aveva mille critiche durissime, ma se non vuole riprodurre la dialettica dell’ideologia, Cristo va incontrato in qualcosa di oggettivo, non può essere il prodotto di un mio incontro soggettivo personale. E qui allora la centralità della Chiesa, ed è l’altra grande novità di questi autori completamente ignorata dalla storiografia -qui mi fermo perché si aprirebbe un discorso molto più ampio ma capiscono l’importanza della Chiesa e non della semplice Chiesa Ortodossa, ma della Chiesa universale, perché pongono il problema dell’unità della Chiesa nel 1917, anche qui con una anticipazione impressionante, con una attualità incredibile. Scusate la lunghezza.

FRANCESCO BRASCHI:
Grazie di cuore perché siamo così arrivati al cuore di quello che la mostra intende offrire alla riflessione di ciascuno. E al professor Ciambotti io chiedo: davanti a questo quadro che emerge della Rivoluzione Russa e del suo significato, quali sono gli aspetti che più vi hanno convinti a sostenere questa mostra, e qual è per voi la parte più importante del messaggio, in riferimento anche all’attività che portate avanti?

MASSIMO CIAMBOTTI:
Grazie, ringrazio anch’io gli organizzatori per avermi invitato, ringrazio in particolare Monsignor Francesco Braschi per la presentazione della domanda. Come presidente della Fondazione Claudi, che ormai da più di dieci anni è impegnata nel campo culturale, in diverse attività culturali, che spaziano dalla poesia alla musica, all’arte, alla ricerca storiografica, noi abbiamo organizzato tanti eventi, e di fronte alla ipotesi di costruire una mostra di questo tipo noi abbiamo accettato ben volentieri. Cercherò di far capire anche i motivi: questo evento storico che ha cambiato il mondo aprendo una nuova era e ponendosi come matrice di fenomeni tragici che hanno segnato intere popolazioni con milioni di morti- ma devo dire che stranamente, nonostante questa portata epocale dell’evento, stranamente si tratta di una ricorrenza poco esaltata, anzi forse quasi volutamente sottaciuta, quasi come se non si volesse richiamare alla memoria, o addirittura rimuoverla- eppure un intero secolo è stato permeato dalle conseguenze politiche degli avvenimenti del 1917. Ma al di là della mera ricorrenza storica, qual è l’interesse da parte mia, da parte della fondazione Claudi, ma anche credo da parte di ciascuno di noi? Forse viene da chiederci: ma cosa ci dice oggi la Rivoluzione d’Ottobre russa? La mostra secondo me ha messo bene in evidenza che purtroppo esistono alcune analogie tra l’epoca che ha prodotto la Rivoluzione del 1917 e il mondo di oggi. Io ho alla mente tre grandi questioni che caratterizzano l’uomo moderno e che caratterizzavano proprio il punto d’origine della Rivoluzione. Il primo è la paura e l’incertezza dettate dal terrorismo. È stato ricordato per esempio il terrorismo, le uccisioni, i kamikaze, eccetera. Ventitremila attentati tra il 1900 e il 1917. Undicimila morti tra il 1900 e il 1917. Ecco la vita umana che non ha più nessun valore di fronte a questa volontà rivoluzionaria. Per caso ho trovato –la fondazione Claudi è dedicata a un poeta: è stato ricordato Claudio Claudi, ed è stata fondata da Vittorio Claudi- tra gli scritti di Claudio Claudi un pensiero pubblicato nel volume L’anatra mandarina. Di fronte a una foto dei rivoluzionari russi del 1920 Claudio scriveva: “solo Bucharin ha un volto passabilmente umano. Il volto di Lenin sembra un’intelligenza tellurica, scaturita all’improvviso con i suoi occhi disumani dalle viscere della terra. Il cranio bianco spaziato e quegli occhi neri arcuati affondati sotto la fronte. Un demone. Immagino che i titani dovessero apparire così agli occhi degli dei. Questa Rivoluzione apparirà così ai venturi.” Lui scriveva così negli anni Cinquanta. E poi sempre il Claudi sottolineava in uno scritto, Realtà e valore, l’ambivalenza della Rivoluzione e del Leninismo da una parte come espressione del bisogno dell’uomo di essere riconosciuto come degno di valore, ma dall’altra il comunismo che elimina la libertà, appiattisce le differenze e non permette all’uomo di divenire se stesso. Ma io ho trovato una pagina incredibile: Vittorio Claudi ha scritto un diario che dovremo pubblicare e in questo diario ben due pagine sono dedicate al ricordo di una intervista fatta nel ’78-’79 su La Repubblica dello scrittore ottantenne a quell’epoca, Viktor Borisovič Šklovskij. In questa intervista lui racconta un aneddoto incredibile, fa venire la pelle d’oca per quanto rende l’idea di quello che era quell’epoca. Era il 1933 e Gorkij, anzi diciamo pure Stalin, aveva deciso di mostrare a scrittori e giornalisti -e lui era appunto scrittore a quell’epoca-, perché potessero cantarne le lodi, il canale che univa il mar bianco al mar Baltico, una grandiosa realizzazione della giovane Unione delle Repubbliche Sovietiche. Opera faraonica che i nuovi schiavi avevano costruito –erano tutti detenuti per lo più politici prelevati dai lager. “Un automobile governativa venne a prenderci a casa. Partimmo in più di cento. Nomi illustri, nomi meno illustri, nomi sconosciuti. Ci scarrozzarono in lungo e in largo, ci esortavano a dialogare con gli operai detenuti a cui da qualche settimana era stato distribuito cibo più sostanzioso delle normali misere razioni, ma non si poteva cancellare dai loro corpi le tracce delle percosse, della fame. Durante questa missione creativa mi capitò l’incontro più tremendo della mia vita: in un operaio che intervistavo riconobbi mio fratello. Non lo vedevo e non avevo sue notizie dal 1919. Lui, ex-seminarista e sacrestano, non voleva compromettermi, io, ex socialista rivoluzionario con alle spalle una fortunosa fuga all’estero, non volevo comprometterlo. Non ci eravamo mai cercati. Anche lui mi disse che era fiero di contribuire all’edificazione socialista, e alla mia domanda sussurrata: “ma non mi riconosci?”. Rispose senza abbassare la voce e con tono fermo: “io adesso ho milioni di fratelli, faccia distribuire loro del pane, se può”. Gli regalai un pacchetto di sigarette. Le accettò, disse, per i suoi compagni. Non ho mai saputo il giorno, neanche l’anno della sua morte. Quanto alla causa, non ho bisogno di certificati postumi: fame, sfinimento. Ancora oggi mi chiedo se avrei potuto fare qualcosa per lui, se non avrei dovuto abbracciarlo, urlare davanti a tutti che era mio fratello, cercare di salvarlo. In fondo ero andato lì con il permesso, anzi su ordine del signore e padrone delle nostre vite. Ma Lei [si rivolge alla giornalista e le dice] non può sapere cosa sia la paura, cosa fosse quella paura: un anestetico, un denso etere che paralizzava i pensieri, le anime”. Bisogna pregare veramente Dio che non arriviamo nell’epoca di oggi a questo tipo di paura. Molto velocemente vorrei sottolineare gli altri due aspetti che colpiscono della mostra. Il secondo fattore è la presunzione razionalistica che è stata ricordata dal professor Dell’Asta, che vuole creare l’uomo nuovo. Oggi magari in un senso diverso da quello del 1917, ma sostanzialmente con la stessa idea di base: sostituire l’uomo, creatura di Dio, fatta da un altro, con un uomo capace di farsi da sé, che non ha bisogno di Dio. Nella Rivoluzione Sovietica si afferma l’idea di un uomo nuovo, quindi non si afferma la persona, ma anzi la si nega nella sua essenza, cioè la libertà. Questa idea guida chi ha il potere, fino ad affermare la perfezione come la base di un mondo nuovo al quale tutti devono sottostare. Oggi quest’idea del mondo nuovo, dell’uomo nuovo si sostanzia come sappiamo nell’utilizzo spregiudicato delle tecnologie in campo medico ed eugenetico, fino ad arrivare all’idea della clonazione umana. Terzo fattore, che è stato solo citato di striscio – diciamo – dal professor Dell’Asta, cioè il ruolo della Chiesa e direi anche forse, il ruolo della fede, la debolezza della fede, intesa nel senso di una fede che non c’entra con la vita. Anche nella Russia del XVIII-XIX secolo la vita della Chiesa dimostrava una debolezza esistenziale e culturale che nasceva da questa separazione tra fede e vita, tra fede e cultura, cosicché la cosa più importante sembrava essere quella di non disturbare troppo “il manovratore” (cioè il potere zarista). Oggi il pericolo è lo stesso: vivere un cristianesimo lontano dagli interessi reali della vita, auto-rinchiuso in una dimensione puramente spirituale o, tutt’al più occupato a cercare visibilità mediatica, ma sempre astratto, evanescente, perché? Perché non fondato sull’esperienza, ossia sul metodo sperimentale che Cristo c’entra con le esigenze reali della vita. Qui si lega un po’ il punto con cui vorrei concludere questo mio breve intervento: la mostra ci indica chiaramente una strada di responsabilità, o meglio, di ripresa, di richiamo alla responsabilità di ciascuno, certi e forti del fatto che esiste comunque un’alternativa tra l’essere schiacciati dalle leggi della storia e dai poteri che si susseguono e l’essere i padroni in assoluto della storia stessa, una responsabilità che si basa sul riprendere in mano le ragioni della nostra fede, sul riacquisto della consapevolezza di essere fatti da un Altro e quindi sul valore infinito della mia e tua vita e sul fare esperienza tutti i giorni che la paura, il vuoto, il nulla sono già stati sconfitti da Colui che ha vinto la morte. Una responsabilità quindi che assume la forma della testimonianza e di una presenza culturale originale. Ora, come si esprime? Come noi cerchiamo di esprimerla? La Fondazione Claudi fa suo questo binomio di esperienza e realismo e si è sempre quindi mostrata attenta a costruire eventi o iniziative che parlino, dialoghino con il cuore delle persone, facilitando l’incontro e siano in qualche modo utili per il lavoro su di sé che ogni giorno sfida la nostra vita. Io penso ad alcune esperienze che abbiamo fatto (sono esperienze che ripetiamo ogni anno perché sono fondanti della nostra attività culturale), una è l’ “Atelier delle arti” che consente a ragazzi delle scuole superiori di incontrare maestri o persone che hanno un’esperienza di vita da raccontare, quindi registi, poeti, letterati, artisti, e di dialogare con loro alcuni giorni, stando proprio liberamente del tempo con loro; oppure il premio internazionale di poesia “Le stanze del tempo”, dedicato a giovani poeti o poetesse, che presentano raccolte di poesie meritevoli di essere pubblicate in un volume (è troppo facile essere poeti per una poesia, è un po’ difficile essere poeti con una raccolta di poesie, tutte valide); poi abbiamo annualmente il “Piccolo Festival dell’essenziale”, a Roma, “Piccolo Festival dell’essenziale”, un ossimoro per dire “piccolo” ma anche “essenziale”, che con la direzione di Davide Rondoni è diventato un luogo di riflessione e di proposta culturale originale, ruotando ogni anno sull’approfondimento del significato di quattro parole, essenziali nel nostro tempo, attraverso diversi momenti espressivi (quest’anno ci sarà il 13, 14, 15 ottobre a Roma). Infine vorrei citare anche, proprio in occasione di questa mostra, vorremmo far nascere un rapporto con l’università di Tula, città natale di Tolstoj, con il progetto di uno scambio di incontri culturali volto a far incontrare la cultura russa con Leopardi, visto che io sono della terra marchigiana e sono presidente anche di un Centro Studi Marche) e poi magari far venire studenti anche delle nostre terre a vedere i luoghi di Leopardi. È un tentativo il nostro, un percorso fatto di incontri, di dialogo, di uno sguardo aperto sulla realtà, proprio per non essere fermi, immobili, o –pensavo– per non essere portatori sani di quel virus, di quella malattia morale, come la chiamava Benedetto XVI, questa strana propensione al nulla, questa inconsistenza di sé, questa insicurezza esistenziale collegata proprio all’assenza di ragioni per cui valga la pena vivere.

FRANCESCO BRASCHI:
Grazie. A Monsignor Mennini lasciamo ora la parola, perché la sua esperienza e la sua capacità di sguardo dentro la realtà che ha servito per tanti anni a Mosca e a Londra, ci possano aiutare a riconoscere quali sono anche oggi le sfide che ci restano, a partire da quello che ha potuto vedere, sia in oriente, a Mosca, che in occidente, a Londra, di quanto è rimasto di questo tentativo di plasmazione di un uomo “auto-concluso”.

ANTONIO MENNINI:
Buonasera, prima di tutto ringrazio il professor Braschi, gli organizzatori di questo convegno, per l’invito. Ebbene, preparandomi a questo incontro mi è toccato, mi è venuto da leggere un brano di una pagina di un nichilista, Sergej Nečaev, del suo “Catechismo del rivoluzionario”, e questo nichilista della metà dell’ottocento, più o meno, scrive così alla fine dell’800: “Noi abbiamo l’unico immutabile piano negativo, quello della distruzione spietata. Noi rinunciamo apertamente all’elaborazione delle future condizioni di vita, in quanto incompatibile con la nostra attività e riteniamo quindi sterile ogni lavoro esclusivamente teorico e della mente. Noi riteniamo l’opera di distruzione un compito così enorme e difficile da dare a essa tutte le nostre forze e non vogliamo ingannarci col sogno che ci passino le forze e la capacità di costruire.” Ecco cito questo passo perché questo pensatore nichilista, che certamente era tributario anche delle idee di Bakunin, raccolse l’ammirazione di Lenin soprattutto quando gli fu chiesto chi bisognava distruggere, chi bisognava mettere a morte e lui rispose: “non soltanto la famiglia imperiale, ma, usando un termina ecclesiale, chtenia (che nella messa di rito greco rappresenta la lunga preghiera recitata dal diacono nelle singole parti e la gente risponde: “Kyrie eleison”), cioè un’infinità di persone” e allora Lenin commentò che gli sembrava un’idea dalla semplicità geniale. Ecco noi possiamo dire, alla luce della storia, che questo scetticismo, nichilismo fu veramente alla base del programma del bolscevismo nella distruzione della religione, perché come descrive anche Hélène Carrère d’Encausse in una sua opera famosa: “l’uomo nuovo non deve avere convinzioni estranee alla cultura politica sovietica, ora la religione non fa parte di questa cultura” e anche il buon Bucharin che in occidente ha riscosso anche tanta pietà di fronte alla crudelta con cui Stalin ne decretò la morte, ma Bucharin ne “L’ABC del comunismo” dichiarava: “la religione e il comunismo sono incompatibili, sia in teoria che in pratica, la lotta antireligiosa del potere sovietico riguarda ogni religione, la lotta è contro il Pope, che si chiami pastore, abate, rabbino, patriarca, mullā o Papa, questa lotta deve svilupparsi non meno ineluttabilmente contro Dio, che si chiami Geova, Gesù, Buddha o Allah”, ecco questo è stato strettamente il piano sistematico attuato con determinazione ferrea dal regime e dai bolscevichi e alcuni autori mettono anche in luce quella che era la legalità della persecuzione, perché è difficile che la gente venisse condannata a morte per reati che erano assolutamente inezie, come vediamo in “Vita in uno sguardo” curato anche dalla nostra Marta Dell’Asta, per aver coltivato idee controrivoluzionarie, per aver pianificato piani terroristici che non esistevano né in cielo né in terra, e certamente se guardiamo un momento alle statistiche delle vittime (e certamente la più colpita fu la Chiesa ortodossa) c’è veramente da rimanere impressionati, per esempio nel corso del 1917 si calcola che i vescovi ortodossi erano trecento e già pochi anni dopo l’istituto nazionale è arrivato alla conclusione che più di duecentocinquanta vescovi sarebbero stati uccisi, per non parlare poi dei fedeli, dei cristiani ortodossi, che raggiunsero l’ammontare di tra i cinquecentomila e il milione e infatti quando Hitler invase la Russia, erano attive sull’intero territorio dell’U.R.S.S. soltanto quattro persone. Però, ecco, voglio dire non voglio farvi perdere tempo, come scriveva anche il filosofo Pareyson: “è forte il male, il terrore, ma ancora più forte del male è il dolore”. È questo dolore che sicuramente produce sofferenza, ma produce anche una forte fede. Sempre possiamo guardare la testimonianza del metropolita Benjamin, che fu la seconda vittima della rivoluzione tra gli arcivescovi. Lui scriveva: “i tempi sono cambiati ed è apparsa la possibilità di patire per amore di Cristo sofferenze sia dai nostri che dagli estranei. Soffrire è duro, pesante, ma a misura delle nostre sofferenze sovrabbonda anche la consolazione difficile, è difficile varcare questo Rubicone, questo confine, e affidarsi totalmente alla volontà di Dio, ma quando questo accade, l’uomo è ricolmo di consolazione, non sente più le terribili sofferenze, ad esse è il momento del giudizio; ci sono persone pronte a sacrificare tutto anche in nome di convinzioni politiche. Guardi come si comportano i social-rivoluzionari e altri. E noi cristiani, tanto più noi sacerdoti, non dobbiamo dimostrare simile coraggio sino alla morte?” Di questa testimonianza certamente è piena il martirologio della Chiesa, delle Chiese –direi– delle religioni in Russia, perché se certamente la grande maggioranza delle vittime furono tra i sacerdoti, fedeli, monaci ortodossi, non mancarono vittime anche famose tra i cattolici, tra i buddhisti, tra i mussulmani (nel famoso poligono di Butovo, queste enormi fosse comuni, hanno ritrovato non solo i corpi di tanti ortodossi, ma anche di persone appartenenti ad altre religioni). Quanto alla Chiesa ortodossa, prima giustamente è stato detto che era stata molto compromessa col potere, con però delle sane e importanti eccezioni, pensiamo alla vitalità del monastero di Òptina Pustýn, visitato anche tante volte da Tolstoj, non era soltanto un centro di spiritualità ma anche un centro di rielaborazione politica dove si riunivano i pensatori dell’epoca per pensare al futuro della Russia, e descritto poi in modo molto accurato nel romanzo di Dostoevskij, “I fratelli Karamazov”, il famoso Starec, Ambrogio ed altri, pensiamo anche alle deportazioni dei civili, dei due milioni e cinquecentomila polacchi deportati da Stalin in Siberia più di ottocentomila non fecero mai ritorno a casa, quindi la tragedia che si è abbattuta su questa grande nazione, su questo grande popolo è stata immane e ha coinvolto in questa tragedia tanti altri popoli, pensiamo gli abitanti dei paesi baltici, della Polonia eccetera. Ora, cosa dire del presente? Io condivido la tesi che è stata sviluppata soprattutto da Marta Dell’Asta, in questo suo libro, “La vita in uno sguardo”, che probabilmente oggi nella Russia, a parte che non c’è stata mai (credo che il professore concorderà con me) un’esplicita condanna del periodo del comunismo, del periodo sovietico, forse oggi in Russia per molti aspetti viviamo una sorta di amnesia, amnesia storica, amnesia del cuore, sì, è vero, possiamo dire che non esiste famiglia russa che non ha avuto una vittima, per tanti ancora oggi non sanno dove queste persone loro parenti sono stati uccisi, dove sono sepolti, perché uno degli ordini precisi del partito comunista era di non rivelare mai il luogo e il momento dell’uccisione, poi non so quanto c’è stata veramente una conversione, nel senso di una rivisitazione storica di questo periodo, perché noi abbiamo sentito tante volte, io mi ricordo, tanti incontri che venivano preceduti da politici russi di una certa autorevolezza in cui praticamente si faceva un “melting-pot”, cioè praticamente il periodo staliniano veniva esaltato, cioè se fino a qualche anno fa, per il 58% dei russi la più grande tragedia era stata la perdita dell’impero sovietico, ecco non so quanto veramente Stalin è messo in crisi e criticato. Sì, è riconosciuto grande non solo perché ha industrializzato a quel prezzo la Russia, ma anche perché la gente non è molto critica sui suoi metodi spicci, questo certamente rimane un problema. Fino a quando, questo è un aspetto che dovrebbe essere studiato, da alcuni anni la Chiesa, non solo la Chiesa ortodossa ha riottenuto la possibilità di insegnare i fondamenti della cultura ortodossa nelle scuole, ma anche le altre religioni, però fino a qualche anno fa molte famiglie non segnavano i loro bambini alla scuola di religione ortodossa, ma c’era una specie di educazione civica. Ecco perché certamente, è chiaro, ci sono generazioni numerose cresciute senza conoscere niente della religione, non hanno mai sentito il nome di Gesù, eccetera, ecco, però certamente questo rimane un problema e noi credo che anche in questi ultimi anni chi è stato ancora in Russia può testimoniare questo tentativo di reintrodurre un po’ Stalin nella storiografia russa, ma non tanto in una luce negativa, a parte il ridicolo che arrivano a fare anche le icone con Stalin beatificato, eccetera. questo allontanamento dall’insegnamento eccetera certamente ci porta anche a chiederci che cosa capita dall’altra parte dello spartiacque nell’ Occidente? Siamo di fronte a delle società che invece richiamano alti valori spirituali, valori spirituali oggettivi, in quanto fanno riferimento a dei punti, a dei principi trascendentali? Se vedete in Gran Bretagna anni fa per esempio ci fu un gran tentativo da parte del primo ministro e di altri di definire la Gran Bretagna come un paese cristiano, perché appunto avevano avuto le radici cristiane eccetera e poi c’era la libertà religiosa, tutto quello che vogliamo, però è chiaro che mancava anche una visione più critica, cioè: uno stato cristiano si può permettere di vendere le armi a paesi che opprimono la dignità dell’uomo, soprattutto la dignità della donna, che poi portano avanti guerre micidiali, con bombe anche chimiche, perché giustamente ci si ribella molto all’idea che il presidente siriano bombardi, questa qua è un’ipotesi, con bombe chimiche, ma nello Yemen succede ogni giorno ad opera di altri paesi certo vicini e nessuno dice niente. Noi, come anche in Italia, assistiamo a una progressiva scristianizzazione della società, una scristianizzazione che non va certamente definita e va calcolata certamente anche nei numeri che calano: molta meno gente che frequenta la chiesa, molti meno matrimoni religiosi. Però credo non sia soltanto questo, cioè la mancanza di essere consapevoli di valori comuni, la mancanza della consapevolezza di lavorare insieme per il bene comune. Ma qui appunto bisognerebbe che tutti ci mettessimo attorno a un tavolo e cercassimo almeno un consenso per dichiarare qual è il bene comune, quali sono i punti fondamentali che vogliamo raggiungere, prescindendo anche da obiettivi strettamente religiosi. Una volta il Santo Padre mi chiese in un’udienza: come sono i giovani in Gran Bretagna? – Padre Santo, son come un po’ dove son dappertutto, se non vanno più in chiesa il 90% ormai non ci va più, convivono eccetera però al contempo hanno creato altri valori, quello della generosità, quello del servizio, la buona faccia di chi predicava la big society in Gran Bretagna, ma se noi non avessimo le migliaia, le migliaia di volontari sia cattolici che anglicani, ebrei o senza religione, che si prendono cura delle charity, certamente le charity non funzionerebbero e quindi, dissi al Papa, noi dobbiamo aiutare questi ragazzi, attrezzarli anche in questo loro servizio, poi farli maturare, il tempo dirà come, forse noi ci dobbiamo chiedere anche, come in fondo si chiede anche i Papa nella “Laudato si’”, se le nostre strutture nelle parrocchie siano adatte ancora ad una pastorale attiva e attualizzata per i giovani. E poi io feci un accenno, dico: “poi sa, se non vanno a messa cinquantadue volte l’anno, ma ce ne vanno un po’ di meno, forse Lei mi dirà che sono eretici” “ma sì – dice – appunto, bisogna aiutarli in un altro modo, non solo con le messe”. Ora non voglio andare oltre perché avremmo tante cose da dire e da scambiarci, però veramente io credo che questo sia importante, creare per esempio dei canali di formazione. Ultimamente prima di lasciare la Gran Bretagna si sono messi d’accordo coi vescovi di dar vita a delle scuole di formazione politica, cioè educare i giovani al senso della res publica. Forse son cose… cioè, qui in Italia furono fatte anni fa tante scuole di formazione… Forse è il momento di riprendere questo discorso e poi certamente non tanto una chiave confessionale, ma una chiave di convivenza civile. Ringrazio per l’attenzione e soprattutto chiedo scusa per forse gli errori. Grazie.

FRANCESCO BRASCHI:
Abbiamo ancora qualche minuto, allora al professor Belenkin io volevo chiedere qualcosa di più puntuale. Lei diceva: le ricerche purtroppo sono appannaggio soltanto di un ristretto gruppo di studiosi, suscitano poco interesse. Io so che lei ha recentemente lavorato molto sui documenti dei primissimi tempi della rivoluzione: che cosa vorrebbe dire, che cosa vuol dire a un pubblico che invece è interessato a conoscere anche questi aspetti? Che cosa vorrebbe dire circa le ricerche che sta conducendo adesso, il punto importante che vuole condividere con questi ascoltatori italiani?

BORIS BELENKIN:
Grazie. Cercherò adesso di essere chiaro. Io in qualche modo cercherò adesso di connettermi all’intervento già fatto e d’altra parte io vorrei ritornare al 1917. Io comincerò da una piccola epigrafe, cui si è già detto, che cosa succede quando la gente va in chiesa o non va in chiesa ed eccovi un piccolo quadretto, è la testimonianza di una testimone oculare dei primi giorni della rivoluzione del 1917, il mese di marzo, i primi giorni subito dopo quando lo Zar aveva abdicato al trono. Ed ecco cosa succede in uni dei quartieri di Pietrogrado dove era andato il commissario del governo provvisorio della Duma di stato. È la testimonianza di un socialista di destra. C’era una specie di epidemia di arresti autonomi, la gente stessa se ne andava, arrestava e portava dal commissariato i suoi prigionieri e c’era tutta questa perquisizione e arresti e c’erano anche molti che facevano delle calunnie; qualcuno – questo racconta questo testimone oculare – qualcuno ti porta da parte e ti dice che c’è stata una predica controrivoluzionaria, altri che danno l’elenco degli appartamenti in cui secondo le sue informazioni ci sono delle provviste degli speculatori; un’altra persona, in modo molto eloquente, ti mette in mano un pezzo di carta in cui sembra esposto con tutti i dettagli che i segretari di un certo ente, dopo essersi riuniti in una stanza con alcuni impiegati e aver chiuso la porta, ha fatto con loro una riunione indubbiamente controrivoluzionaria; e a volte tornando a casa di sera mi trovavo nelle tasche un intero pacco di queste delazioni. I bolscevichi ancora non c’erano, non erano ancora tanti, quindi non c’entrano niente, siamo in marzo. Quindi rispondendo alla domanda dei documenti delle ricerche che vengono fatte, voi avete ascoltato, avete visto, molti di voi avevano già visto questa bellissima mostra. Io adesso anche a memoriale sto facendo una mostra dedicata al 1917. Io vorrei raccontarvi due parole della mostra che stiamo preparando noi, di che cosa sarà questa mostra e in che cosa consiste la mia ricerca. È una ricerca sulla essenza repressiva che c’è stata fin dall’inizio nello stato sovietico. Tutto quello che ci sarebbe stato poi dopo, il terrore rosso dell’epoca della guerra civile, vorrei dire che i giornali del 1917 già dopo il 25 ottobre dicevano che già nel paese c’era il terrore rosso, poi ci sarà il grande terrore degli anni trenta, poi ci sarà la censura durissima di settant’anni, la lotta contro i dissidenti, tutto questo sarà dopo, ma tutto era già in luce già ni primi giorni nelle prime settimane e mesi del 1917. Quindi dire che i bolscevichi nei primi giorni ella rivoluzione erano ancora vegetariani, questo è un mito assoluto, perché gli arresti fin dal primo giorno sono stati un segno di questa epoca dall’ottobre in poi. Io chiedo se è possibile far vedere le diapositive, è possibile far partire le immagini? Ecco, questa è la nostra… gli abbiamo chiamati “i primi”, cioè la nostra mostra è dedicata ai primi che sono stati arrestati dopo il 25 ottobre, cioè i primi due mesi della rivoluzione. Sono, questi, quelli che erano i membri dell’Assemblea costituente. Voi vedrete tutta una serie di volti, sono quelli che sono stati arrestati subito dopo. Chi veniva arrestato nei primi giorni del terrore del potere sovietico, a parte i membri dello stato, del governo. Cominciando dai primi giorni gli arresti avvenivano quotidianamente ed erano generali, erano ginnasiali, erano delle persone normali che erano semplicemente contro i bolscevichi, erano gli allievi ufficiali, erano i leader del partito socialdemocratico, erano i membri del partito dei democratici costituzionali che già da allora in quei primi giorni venivano chiamati “nemici del popolo”, erano professori dell’università, erano persone che venivano accusate di essere sabotatori, persone che avevano cercato di far degli scioperi, erano dei finanzieri e così via. Quindi venivano arrestati tutti, venivano arrestati i principi, venivano arrestati gli operai, venivano arrestati ebrei ed antisemiti, uomini e donne, ufficiali e soldati comuni, gli arresti erano praticamente qualcosa che accomunava tutte le classi della popolazione. Questa è una vera e propria epidemia di arresti, venivano arrestati per qualunque motivo, i ginnasiali venivano arrestati perché avevano diffuso volantini per sostenere l’assemblea costituente, qualcuno veniva accusato di sabotaggio perché avevano cercato di indire uno sciopero, per aver parlato a voce alta in strada, per aver criticato a voce alta in strada, ogni giorno venivano chiusi dei nuovi giornali, poi venivano riaperti nuovamente, poi venivano chiusi nuovamente. In realtà in effetti una delle mie principali fonti non sono tanto gli archivi di stato, dove ci sono certamente i documenti sulle repressioni, che fino ad adesso non sono mai stati consultati, ma anche io ho lavorato tanto sui giornali, questi giornali dove continuamente i giornali di quell’epoca erano un po’simili all’internet di oggi, internet a stampa, perché subito dopo il colpo di stato sovietico, questi giornali sono diventati uno spazio praticamente di difesa dei diritti umani, si cercava ogni giorno su questi giornali di parlar degli arresti e lì si diceva: portate lì a questi prigionieri vestiti e cibo. Ma tutto questo venne ben presto messo a tacere. Nel corso di due o tre mesi non rimase neanche un giornale aperto e quelli che venivano arrestati vennero rimessi in libertà e poi dopo un po’di tempo, un mese, due mesi, ricominciò la stessa cosa e gli arresti presero orai un carattere sistematico, non furono soltanto qualche centinaio, ma migliaia di persone durante la rivoluzione, durante la guerra civile che successe negli anni successivi. Qui vedrete, monsignor Mennini ha parlato della seconda vittima dei bolscevichi, nel metropolita Beniamin, ma qui vedrete tra l’altro un sacerdote, il primo sacerdote che è stato ammazzato dalle guardie rosse il quinto giorno dopo il colpo di stato di ottobre, padre Iohan Kachurov. Eccolo qui padre Iohan Kachurov, un sacerdote di Pietroburgo, e poi bolscevichi, socialdemocratici, un ex bolscevico, che però era uscito dai bolscevichi dopo l’intervento di Lenin quando tornò dall’emigrazione divenne un menscevico e uno degli organizzatori del tentativo di far cadere i bolscevichi dopo l’instaurazione del potere sovietico. Poi un altro menscevico, questo era invece Schelnov, un socialrivoluzionario; questo è un altro menscevico; e questa è l’unica fotografia, questo è un socialista populista, un famoso studioso; questa è la celebre contessa Panina, che era una grande benefattrice, aveva fatto moltissimo per le beneficenze; queste sono due persone che sono state uccise il 6 gennaio, di notte, sono stati portati dalla prigione in ospedale e praticamente trafitti di baionette da un gruppo di marinai e nessuno è stato punito. Grazie. Ecco, questa è la mostra che vuole ricordarci innanzitutto vuole ritornare e restituire questi volti, queste figure di persone e vuole ricordare che i miti storici vanno abbattuti e che quello che ha detto monsignor Mennini è in realtà molto vero e tutto questo cominciò fin dai primi giorni del potere bolscevico, grazie.

FRANCESCO BRASCHI:
Grazie per questa condivisione di risultati della ricerca storica, che ci ricordano appunto come ritornare alle storie concrete, alle figure concrete è una via per iniziare a costruire una lettura anche della storia che non si fermi sono alla constatazione di quello che c’è stato di negativo. Io vorrei concludere semplicemente con due frasi di Semyon Frank, sono riportate nel libro che accompagna la mostra, fanno parte di un saggio che viene pubblicato per la prima volta in italiano. Sono due punti concatenati che lasciano a noi una domanda a cui dobbiamo rispondere. Si chiede Frank: in sintesi, qual è il significato storico e religioso della rivoluzione russa? E risponde: la rivoluzione russa è il risultato del cammino storico e spirituale dell’uomo occidentale in più di quattro secoli dell’uomo occidentale. Tale risultato lo si vede non solo nella rivoluzione russa, ma si manifesta piuttosto chiaramente anche in Europa. E descrive questi risultati come “il permanere di alcune istanze proprie della tradizione cristiana: il valore dell’individuo, i diritti della persona, che però vengono progressivamente svuotati proprio del contenuto cristiano, quasi che potessero sopravvivere autonomamente”. E si domanda poi: ma quale significato positivo possiamo cogliere anche nella tragedia che stiamo vivendo? E la sua risposta è a mio avviso sorprendente per il cammino che indica anche a noi: non si può parlare di tornare semplicemente al passato che abbiamo già superato e neppure di negare in modo totale e radicale la forza spirituale profonda che muove l’epoca moderna. L’umanità sta di nuovo a un crocevia, sceglierà la strada giusta e storicamente necessaria se si dirigerà verso le mete antiche per vie nuove. E questo dirigersi verso le mete antiche per vie nuove significa ritrovare come fondamento del cammino della storia e della persona il riferimento a Dio, ma nello stesso tempo ritrovando questo principio uscire, lui dice, da una concezione di questi sforzi spirituali dove tutto lo sforzo era teso a impedire qualunque trasformazione, a impedire qualunque novità. Penso che sia una rilettura molto interessante di quella che è la frase posta a titolo del meeting di quest’anno: come riguadagnare l’eredità dei nostri padri? Essere coscienti innanzitutto che si tratta di un’eredità, quindi non di qualcosa che inventiamo noi, ma nello stesso tempo in quel riguadagnare c’è tutta la positività che faceva dire anche nel 1924 a Semyon Frank, quando da Berlino vedeva tutto quello che stava avvenendo nella ormai Unione Sovietica, gli faceva dire: attraverso il caos, la devastazione e la tenebra di questi giorni si intravede l’epoca in cui l’umanità cosciente tenderà non più alla libertà del figliol prodigo, che scappa dalla casa del padre, ma alla libera figliolanza che viene da Dio. Grazie per la vostra attenzione, per la vostra presenza, invitiamo tutti a vedere la mostra al padiglione A5. Buna serata. Grazie di cuore ai nostri relatori.

Data

20 Agosto 2017

Ora

19:00

Edizione

2017
Categoria
Incontri