“Questo immortale senso del bello…” La realtà come segno, da Leopardi alla poesia d’oggi

Hanno partecipato: Elio Gioanola, Docente di Letteratura Italiana presso la facoltà di Lettere dell’Università di Genova; Umberto Piersanti, Poeta; Antonio Spinosa, Direttore Videosapere-RAI. Moderatore: Davide Rondoni.


Rondoni: Leopardi, per molti di noi, è stato un incontro decisivo, un incontro che in qualche modo ha segnato un percorso umano, esistenziale e intellettuale. Persone anche di diverse esperienze, come quelle qui presenti, possono essere d’accordo sul fatto che il problema aperto, ripetuto e reso memorabile dalla grande poesia di Leopardi, è che il nostro cuore è fatto per qualche cosa di eterno, che non finisce. Questa è la grande domanda che Leopardi aveva, che ha testimoniato e ha reso memorabile nella bellezza dei suoi versi. Una domanda così forte e imponente da superare la risposta apparente — in realtà, il no, la tomba — che la sua cultura sensista sembrava dare a questo grande desiderio. Era una risposta fragile, detta tragicamente in molti suoi versi e in molta parte della sua riflessione.

Sentiamo Leopardi vicino, come un compagno di strada, ed è per questo che oggi vogliamo parlarne. Abbiamo chiamato per poterlo fare il Professor Elio Gioanola, che ha appena pubblicato un importante libro su Leopardi dal titolo significativo, Leopardi, la malinconia, e un poeta, Umberto Piersanti (marchigiano, quindi abituato a vedere e a mirare — per usare una parola leopardiana — gli stessi luoghi leopardiani).

Mi permetto di fare alcune domande per introdurre questo argomento con i nostri ospiti; inoltre, come appendice significativa a questo incontro, avremo il piacere di ospitare qui, in una specie di anteprima che il dipartimento del video sapere della RAI ha organizzato, una trasmissione coraggiosa, che si chiama Un popolo di poeti.

Vorrei fare la prima domanda al Professor Gioanola, chiedendogli di spiegarci perchè ha dato questo titolo al suo libro, così icastico, così semplice, così immediatamente comprensibile, Leopardi, la malinconia.

Gioanola: Ho dato questo titolo, anzitutto perchè non mi piace essere un critico accademico, e quindi concepisco i libri di critica come libri di lettura, anche per la piacevolezza del racconto. Perchè, poi, la malinconia? Perchè tutto il libro gira intorno a questo tema. Io sono un po’ fissato sui rapporti tra disagio psichico, malattia e “creatività” poetica e letteraria. Infatti, ho scritto anche Pirandello, la follia, un titolo analogo. Credo che il termine malinconia centri in maniera precisa il particolare tipo caratteriale, e anche — se si vuole — patologico, della malattia leopardiana.

Quando avete studiato Leopardi a scuola, avete certamente dovuto imbattervi nel tema delle malattie leopardiane, che vengono generalmente liquidate come un fatto personale, che non c’entra niente con la sua poesia. Io invece ho voluto mostrare, non per via teorica ma sulla base di una lettura precisa tanto dei documenti esistenziali, quanto dell’opera, che la malinconia in realtà è l’epicentro attorno a cui la sua opera si sviluppa. Perchè? Perchè, in sintesi, la malinconia è un lutto, ed è un lutto che, a differenza di quello comune, non può essere risarcito, per il quale non esiste insomma possibilità di elaborazione. Tutti noi facciamo esperienza di lutti, piccoli e grandi, e il lutto a un certo punto viene superato: invece, la malinconia è un lutto irrisarcibile, perchè non riguarda la perdita di un oggetto storico, reale, appartenente al mondo fenomenico, ma riguarda la perdita di qualcos’altro, di qualcosa di essenziale che noi continuiamo a cercare senza però trovare mai. E il risarcimento che Leopardi ha trovato, a suo modo, è, evidentemente, la poesia. La poesia che è nello stesso tempo risarcimento e apertura continua verso questo “altro” irrecuperabile nella dimensione esistenziale, ma per il quale vale la pena cercare continuamente.

Rondoni: “L’immortale senso del bello”: so che Lei, per costruire questo libro ha ricercato molto, anche proprio negli archivi di casa Leopardi, svolgendo un lavoro filologico molto attento. Come spiegherebbe, proprio partendo da queste sue ricerche, l’esperienza della bellezza per Leopardi?

Gioanola: Tutti noi sappiamo, anche scolasticamente, come Leopardi (ce lo dice lui stesso), sia passato attraverso due conversioni: la prima tra il 1815 e il 1816, quando ha 17-18 anni, la conversione dalla filologia alla poesia; la seconda, quella che segue la famosa crisi del ’19, la conversione dalla poesia alla filosofia. La prima conversione è anche il passaggio dal sistema del vero al sistema del bello. Leopardi usa proprio questa espressione, “sistema del bello”, per intendere globalmente il senso di questa sua svolta.

Tu hai parlato all’inizio, anche tu deviato da un secolo di cultura idealistico-marxiana su Leopardi, di cultura sensista: ma Leopardi non ha avuto una cultura sensista. Secondo me la faccenda del Leopardi sensista e illuminista è una grande maenzogna, che va dissolta definitivamente, e non lo dico soltanto io, lo dicono gli studiosi del problema, come ad esempio Norbert Jonard, un grande italianista francese, specialista del Settecento italiano e francese, che dimostra, testi alla mano, come Leopardi non sapesse nulla dell’illuminismo. Quindi, è un’invenzione che Leopardi sia stato illuminista e sensista; piuttosto, la sua rigorosa logicità, la forza del suo pensiero logico, non è di derivazione illuministica ma è di derivazione monaldiana. È Monaldo il maestro vero di Giacomo, come dimostrano tutti i testi, l’autobiografia di Monaldo o gli scritti giovanili e infantili di Leopardi, ad esempio le dissertazioni filosofiche scritte a 12 anni, che sono appunto il frutto della scuola monaldiana.

Monaldo, in un’epoca in cui era stato abolito l’ordine dei Gesuiti, ha voluto costruire a casa sua, nel suo palazzo, un collegio gesuitico, di cui egli stesso era Rettore e, come tale, sceglieva i professori, per esempio padre Sanchini, che costruissero una scuola secondo l’ordo studiorum elaborato dai Gesuiti alla fine del ‘500. Ebbene nell’ordo studiorum gesuitico, la logica aristotelico-tomistica era il fondamento. Leopardi ha studiato secondo questa impostazione i tre anni di liceo, (“Ex domestico lycaeo” è il titolo di un capitolo del mio libro, tratto da una lettera di Paolina che parla proprio di questa scuola di casa così strutturata); nell’ordo studiorum il liceo corrisponde ai tre anni di filosofia. La costruzione mentale di Giacomo è quindi quella paterna, ed è una costruzione che accorda una fiducia totale alla capacità della ragione umana di risolvere tutti i problemi razionalmente risolvibili. Dopodiché, interviene la religione con i suoi dogmi, a completare l’edificio della verità. Monaldo è un fissato della verità: negli anni Trenta, fonda un giornale che si chiama “La voce della ragione“, collabora a un altro che si chiama “La voce della verità“. Quattro o cinque capitoli iniziali del mio libro sono dedicati a ricostruire questo mondo della formazione di Giacomo, all’insegna del binomio paterno ragione-religione. L’immortale senso del bello nasce nel momento in cui questo mondo entra in crisi.

Leopardi da ragazzo ha fatto il filologo: ha rovistato nella biblioteca paterna in un’infinità di testi, la gran maggioranza dei quali greco romani, del mondo classico, e ha lavorato su questi testi filologicamente, trattando la poesia come se fosse un problema storico-filologico, di ricostruzione, ristabilimento e interpretazione storico-linguistica dei testi originari. Ma ad un certo punto questo materiale stesso, per esempio la poesia greca, soprattutto Omero, si modifica nelle sue mani e diventa da mondo in cui lavorare attraverso le certezze della filologia a mondo di rivelazione della bellezza. Poesia e bellezza coincidono, quindi il sistema del bello è la poesia. Nel 1815 Leopardi scrive un saggio, il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, che è l’ultimo omaggio alla educazione monaldiana. Tutta la vita di Leopardi bambino e ragazzo è una caccia filologica all’errore, appunto il sistema ragione-religione è il sistema che ricerca la verità ad ogni costo, e quindi caccia l’errore. Vale la pena di fare una piccola citazione che si legge all’esordio del Saggio sopra gli errori popolari degli antichi: “Il mondo è pieno di errori, e prima cura dell’uomo deve essere quella di conoscere il vero. Una gran parte delle verità, che i filosofi hanno voluto stabilire, sarebbe inutile se l’errore non esistesse; un’altra parte delle medesime è resa tuttora inutile per molti dagli errori che in effetti sussistono. […] Tutti convengono che fa d’uopo rinunziare ai pregiudizi, ma pochi sanno conoscerli, pochissimi sanno liberarsene, e quasi nessuno pensa di recidere il male alla radice” [quindi, l’errore è il male, anche morale, non soltanto teorico, teoretico] “Si deridono con ragione i progetti di riforma universale. Frattanto è evidente che v’ha che riformare nel mondo, e fra tutti gli abusi, quelli che riguardano la educazione sono, dopo quelli che riguardano il culto, i più perniciosi. Noi parliamo dei pregiudizi della infanzia con indifferenza. Si sa che bisogna disfarsene, che non si può essere saggi senza averli deposti. Essi però si suppongono inevitabili. Ma perchè deve il fanciullo crescere tra gli errori?”. Giacomo è stato un fanciullo che non è cresciuto fra gli errori, ma in mezzo alle certezze e alle verità stabilite da Monaldo.

Appena dopo la scrittura del Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, Giacomo ha la prima grave crisi depressiva, la prima grave crisi malinconica, e infatti scrive Appressamento della morte, una specie di cantica sulla propria fine. Ma questo è anche il momento in cui l’errore, da nemico da estirpare, diventa invece apertura verso l’immaginario, diventa “il dolce errore”. La parola “errore” non cade mai dal vocabolario di Leopardi, muta di segno: all’inizio l’errore è il negativo, ad un certo punto, in rapporto alla prima conversione, l’errore diventa invece il positivo fondamento della poesia.

Rondoni: È interessante il problema aperto dal professore, di un Leopardi il cui antecedente, Monaldo, pur costruendo una fortezza intellettualmente inattaccabile, non soddisfa. L’originalità di Leopardi è il non essere soddisfatto di questo vero, intellettualmente costruito in maniera inattaccabile. C’è qualche cosa che urge oltre, come se il vero non potesse essere soltantoun qualcosa di attingibile intellettualmente.

Vorrei ora girare la domanda al poeta qui presente. Leopardi, come accennavo prima, inizia molte volte le sue poesie con questa apertura al reale; Cristina Campo, che è una grande poetessa, diceva che la poesia è una forma di attenzione alla realtà, Paul Claudel, invece, dice che la poesia è un’attitudine stupita di fronte al reale. Volevo chiedere se, per l’esperienza di un poeta contemporaneo, questo problema dell’attenzione stupita alla realtà è ancora vero.

Piersanti: Credo di sì. Se c’è stata una grande superstizione nella poesia, è stata quella dell’avanguardia degli anni ’60, in cui tutto doveva essere detto con il colore nero. Era la grande stella di Adorno, che aveva detto che non si poteva più vedere i colori, tutto era nero, e il nostro era il mondo peggiore della storia. Si poteva fare solo afasia, balbettamento, balbettio. Certo, sicuramente esiste una dimensione di colore nero, ma non è l’unica. Anzi, continuo a credere che la poesia sia soprattutto guardare il mondo con gli occhi stupiti.

Il mio bisnonno scendeva giù per le campagne con il biroccio, e mi diceva: “…sai,Umbertino, ho visto un cagnetto lì, piccolo piccolo, e poi l’ho messo nel biroccio. Gli davo le frustate, perché era il Diavolo. È volato dietro il Monte della Conserva”. Non erano cose vere, ma era un modo stupito di guardare il mondo. Anche senza arrivare al mito, non si possono non guardare le cose con animo commosso, cantarle con animo commosso. Esistono anche altri modi di fare poesia, ma rimanere stupiti (in senso laico e religioso), di fronte al reale, di fronte al Creato, è un’attitudine a mio parere fondamentale del poeta.

Rondoni: Anche io, nell’attività letteraria che svolgo, mi accorgo spesso che di fronte alla poesia c’è ormai come una specie di spavento, di difficoltà quasi insormontabile. Perchè vale la pena leggere una poesia? Perchè vale la pena di dedicare mezz’ora della propria giornata a provare di capire una poesia, invece che guardare Beautiful?

Piersanti: Una volta, nel 1970, in pieno clima di contestazione, ad Urbino, andai a leggere le poesie agli studenti che avevano occupato il Collegio. Uno di loro mi chiese: “la tua poesia serve alla rivoluzione?” Io gli risposi di no: ebbi una salva di fischi, e non mi invitarono più nelle Università occupate.

Voglio citare a questo proposito un poeta impegnato per eccellenza, anche a sinistra, colpevole di molte cose ma anche molto coraggioso, Bertold Brecht. Lui dice: se una poesia sui papaveri ti ha insegnato a guardare meglio un campo di papaveri, ha raggiunto la sua finalità. La poesia non serve a niente perchè serve a tutto, perchè l’uomo senza la poesia non è un uomo completo. La poesia è un bisogno.

C’è invece un altro problema: non siamo abituati a leggere poesia. In Italia si legge meno poesia che in Turchia, e il volume di poesie acquistate da 59 milioni di abitanti, equivale a quello acquistato da 6 milioni di fiamminghi in Belgio. Nessuno fa il proprio dovere, la scuola le insegna male, i mass-media hanno una ricerca continua di banalità e volgarità in cui annacquano tutto, la poesia a memoria è stata tolta dalla scuola.

La poesia serve ad essere più uomini, più veri, più totali, perché ha quella cosa che voi dovreste capire forse meglio di altri, ha il dono della gratuità, della gratuità della contemplazione e, perchè no, della bellezza. Per questo vale la pena leggere poesia.

Rondoni: Vorrei riprendere ora una frase del nostro titolo, “La realtà come segno”.

La poesia, si diceva, serve perchè insegna a guardare; credo proprio che leggere una poesia in qualche modo obblighi più velocemente a capire che la realtà (anche la realtà di una parola o di una poesia stessa), non è comprensibile se non come segno di qualcos’altro. Nella lettura di una poesia — come mi suggerisce anzitutto la mia esperienza — ci si accorge immediatamente di questo, che una cosa ne vuol dire un’altra. Per questo, la poesia aiuta a vedere meglio la realtà, abitua a vedere meglio il campo di papaveri o la donna che passa in bicicletta.

Su questo tema della realtà come segno, vorrei tornare a Leopardi, facendo un’altra domanda al professore. Molte volte si contrappone il Leopardi poeta al Leopardi filosofo, con un ragionamento del tipo: il Leopardi poeta è quello che si fa tutti questi problemi, sulla realtà, la bellezza, la realtà come segno… ma invece, in filosofia c’è l’uomo serio, che ragiona e smantella tutto quello che in poesia sembra sorgere. È vera questa lettura?

Gioanola: È falsa, e per dimostrarlo basta riflettere su questo: la seconda conversione, dalla poesia alla filosofia, avviene nel ’19, dopo la famosa crisi, la tentata fuga. Ebbene, nel settembre del ’19, Leopardi scrive l’Infinito: questo significa che la conversione alla filosofia coincide con la nascita della vera poesia leopardiana. Quindi, il problema della contrapposizione tra filosofia e poesia in Leopardi, è un falso problema, che è stato così impostato dalla critica idealistica, da De Sanctis a Croce e ai crociani. Croce che dice che se Leopardi fosse stato bene la sua nera filosofia si sarebbe dissolta come una nube al sole: invece, ciò che si sarebbe dissolto sarebbe stato Leopardi intero, non solo la sua filosofia. Julia Kristeva, che ha scritto un bellissimo libro, Il Sole Nero, sulla depressione e sulla malinconia, dice che il malinconico è tendenzialmente un filosofo, perchè è portato a meditare sul senso dell’esistere più di chiunque altro. È il meno distratto di tutti gli uomini.

Poesia e filosofia sono strettamente legate fra loro, perchè quella di Leopardi non è una filosofia in quanto sistema di spiegazione del mondo, ma è, come la chiama lui stesso, una ultra-filosofia, cioè una serie di domande sulla essenza dell’umano, sul senso dell’esistere. In questo senso, Leopardi ha anticipato l’esistenzialismo ed è un grande contemporaneo di Kierkegaard e dei grandi irrazionalisti ottocenteschi, Schopenhauer o Nietzsche. Questo non è stato mai messo a fuoco dalla critica, per questo ho sentito la necessità di riprendere in toto il problema leopardiano, il che vuol dire, in gran parte, risolvere il problema del rapporto fra filosofia e poesia.

La filosofia non è il contrario della poesia, ma solo di una certa poesia, della poesia di immaginazione. Leopardi, infatti, nel momento della seconda conversione, dice di non credere più alla poesia di immaginazione. Vale la pena anche qui di fare una citazione e di ascoltare Leopardi: “Nella carriera poetica il mio spirito ha percorso lo stesso stadio che lo spirito umano in generale”. [C’è sempre questo rapporto ontogenesi-filogenesi in Leopardi]. “Da principio il mio forte era la poesia, e i miei versi erano pieni di immagini e delle mie letture poetiche io cercava di profittare riguardo alla immaginazione. Io era bensì sensibilissimo anche agli affetti, ma esprimerli in poesia non sapeva. […] Sono sempre stato sventurato, ma le mie sventure di allora erano piene di vita […]. Insomma il mio stato allora era in tutto e per tutto come quello degli antichi. […] La mutazione totale in me e il passaggio dallo stato antico al moderno, seguì si può dire dentro un anno, cioè nel 1819 dove privato dell’uso della vista e della continua distrazione della lettura, cominciai a sentire la mia infelicità in un modo assai più tenebroso, cominciai ad abbandonar la speranza, a riflettere profondamente sopra le cose […], a divenir filosofo di professione (di poeta che io era), a sentire l’infelicità certa del mondo, in luogo di conoscerla, e questo anche per uno stato di languore corporale, che tanto più mi allontanava dagli antichi e mi avvicinava ai moderni. Allora l’immaginazione in me fu sommamente infiacchita, e quantunque la facoltà dell’invenzione allora appunto crescesse in me grandemente, anzi quasi cominciasse, verteva però principalmente o sopra affari di prosa, o sopra poesie sentimentali”.

La poesia degli antichi, quella di immaginazione, per Leopardi è finita, e la poesia moderna non può più essere poesia di immaginazione. La poesia moderna però può essere poesia sentimentale, e qui ci si può confondere con i romantici, ma Leopardi non vuole confondersi con i romantici. Nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, Leopardi sceglie la poesia classica, e questo vuol dire che non bisogna confondere il sentimento, il sentirsi nel mondo, con i sentimenti. I sentimenti sono il pascolo dei romantici, ma invece Leopardi è un poeta antisentimentalista e antirealista, perchè tutto in lui punta, da un lato sulla nuda sensibilità, dall’altro sulla trasfigurazione della realtà in segno. La realtà in Leopardi c’è sempre. “La gallina tornata in su la via che ripete il suo verso”: questa è una realtà assolutamente trasfigurata, per tutta una serie di motivi che si può racchiudere in una parola: l’infinito.

La scoperta della poesia sentimentale, l’infinito appunto, e la scoperta della filosofia sono quindi per Leopardi contemporanee, sono le due facce della stessa medaglia.

Rondoni: Ora ha sollecitato la nostra curiosità: questo infinito leopardiano, cosa vuol dire? Cosa indica la parola “infinito”?

Gioanola: Se sapessi cos’é, non sarebbe più infinito, se sapessi definirlo, non sarebbe più infinito.

Io, i miei studenti lo sanno, sono un po’ maniaco, e quando commento l’Infinito — non finirei mai di commentarlo — mi fermo su una cosa su cui nessuno mai si ferma. Se guardate nelle antologie scolastiche, nei commenti all’Infinito, mai nessuno spiega che cosa vuol dire “sedendo”: del famoso binomio “sedendo e mirando”, nessuno spiega cosa vuol dire “sedendo”. Possibile che voglia dire semplicemente stare seduto?

Invece, è proprio la malinconia ad essere seduta, e infatti il verbo che indica sedersi (giacere, premere le piume ecc.), è tematico in Leopardi, lo troverete anche ne La Ginestra, quando il poeta sedendo mira l’universo stellato ecc. Quindi, è un atteggiamento assolutamente fondamentale e strettamente legato al “mirando”, verbo assolutamente leopardiano. Leopardi per “mirare” deve sedersi, in modo d’avere la siepe di fronte e non vedere. Cioè il mirare esclude la vista. Questo è estremamente importante, perché l’ eliminazione della vista significa l’eliminazione del fenomenico, l’eliminazione della realtà in quanto tale e quindi la sostituzione del reale fenomenico con un altro reale, che non è meno reale, è anche più reale, ma non è percepibile fenomenologicamente. La distinzione kantiana di fenomeno e noumeno viene a proposito, e infatti Schopenhauer, all’inizio del Mondo come volontà e rappresentazione, valorizza a lungo il noumeno kantiano, al contrario di quanto faceva Hegel, che invece eliminava tutta la parte noumenica di Kant per recepire soltanto la parte conoscibile.

“Sedendo e mirando” è un binomio di fondamentale importanza, perché il mirando apre l’infinito, proprio nel momento in cui elimina il fenomenico o lo dà come indizio di altro. E cos’è questo infinito? Ciò che non può essere definito, e di fatto sull’infinito Leopardi costruisce la poetica del vago e indefinito, addirittura elencando le parole più adatte ad esprimere il vago e l’indefinito, o facendo la famosa distinzione tra le parole ed i termini: i termini, ad esempio “bicchiere”, dicono una cosa precisa, invece le parole vanno al di là del significato fenomenico, aprono qualcosa di “remoto”, come ad esempio “antico”, “ermo”, “torre”. Leopardi, nello Zibaldone, fa dei lunghi elenchi di parole vaghe ed indefinite.

In fondo la poesia leopardiana è sempre una ricerca del vago ed indefinito, nonostante quanto ne dicono quelli che invece vogliono ricavarne dei precisi temi ideologici.

Rondoni: Proviamo ad insistere su questo tema. Leggendo L’infinito, mi ha sempre colpito il verbo naufragare, perchè è un verbo molto pieno: il naufragare implica la coscienza di una corporalità, non è un termine soltanto intellettivo. Questo vuol dire che la partecipazione all’infinito è interessante se implica la persona intera, la conoscenza dell’infinito non può essere una conoscenza solo mentale, visto che il verbo che Leopardi usa per introdurci a questo infinito, è un verbo fisico. Come diceva il professore prima, non è il fenomeno immediato quello che interessa, è un altro livello della realtà, in cui non si entra in maniera mentale o con il solo puro spirito. Mi ha sempre colpito questo, il fatto che l’infinito leopardiano è qualcosa che interessa la persona intera, che suscita attrazione alla persona intera, alla vita intera, l’infinito non lo chiede solo la mente lo chiede anche il corpo, l’infinito è un ‘esperienza che un uomo trova come sfondamento della realtà con tutto se stesso, con tutti i suoi sensi.

Rivolgo ora la parola al poeta, anche per invitarlo a leggere una sua breve poesia, per fare subito esperienza di ciò di cui stiamo parlando. Ti chiederei proprio di introdurcela brevemente.

Piersanti: Ho dedicato una poesia, Nel tempo che precede, a mia madre, mia madre bambina, che come me stava in un fosso, uno dei fossi delle cesane, che si perdono, e bisognava fare quattro chilometri per arrivare in fondo. Un giorno, ero ammalato, il contadino mi ha portato sulle spalle ed ha impiegato quattro, cinque ore per percorrerlo tutto.

Anche io venivo da famiglia contadina, e quel fosso, che per me è l’origine del mondo, per mia madre era invece il fosso in cui era chiusa. Sognava sempre di scappare, avrebbe voluto fare la levatrice ad Urbino, ma Urbino era una città troppo grande e peccaminosa per una ragazza di campagna e così non lo fece. Quando mia madre era in quel fosso (mio nonno era a combattere nel Carso, dove morirono anche i suoi due fratelli, per fare quell’unità d’Italia che ogni tanto qualcuno rimette in discussione) le era apparso un dirigibile — aveva una grande fantasia! — e diceva a sua sorella “nostro padre verrà giù da una scaletta del dirigibile!”. Allora mia nonna, che faceva le magie, aveva messo un ramo sotto il noce per farlo scendere al punto giusto. Poi, come sentirete dalla poesia, mio nonno arriva sul serio, non per la scaletta, ma per lo stradino.

“Madre, ch’eri fra tutte la più gentile/ persa con le tue amiche in fondo al fosso. / Lunga la treccia sul tuo corpo snello / scende fino alla vita, nell’acqua chiara / hai camminato scalza, scosti le brecce / Dentro la tana il gambero s’appiatta / d’intorno sono i colli che tu speri / di sorpassare un giorno, non sai la meta / guardi il greppo che pende, e ti sovrasta // Oggi Madìo ha preso con la vanga / il lepre nel trifoglio alla piantata / passano i merli dentro l’aria chiara / getta fuori il sambuco acini fitti / ma Celeste è lontano, presso i fili / dove muore chi è andato a far la guerra // scenderà questa notte giù dal cielo / — la tua fiaba narravi all’Elda attenta — / lo aspetto con il cuscino presso il noce / c’è come un carro grande che vola sopra / per lui metto le viole nel bicchiere / ho tolto dalla cenere i lenzuoli // dopo scavò la terra proprio alla porta /

Dentro ci ha messo il noce, la rama chiara / consiglio della Fenisa quand’ha saputo / che è quella la pianta dove aspetta // scende nella divisa grigioverde / lento giù per la costa sullo stradino / e splende la sua faccia per la luce / come mai si era vista dentro l’aria / sarà quella ragazza che t’aspetta / venire nella notte giù dal cielo / la prima che t’abbraccia sulla porta // prima che nascessi furono insieme/ stavano tutti là presso l’aiuola / a pescare castagne nel caldaro / ora mancano tutti, manca una casa / solo prima di nascere l’ho avuta”

Rondoni: Don Giussani, che di molti di noi è amico e maestro, racconta che la lettura di Leopardi fu una folgorazione, durante gli anni in cui era giovane seminarista, tanto che era solito ripetere spesso come ringraziamento nel momento in cui riceveva l’eucarestia, dei versi di Leopardi. Si era infatti accorto, leggendo Leopardi, della grandiosità dell’inizio del vangelo di San Giovanni, “il verbo si è fatto carne”, l’infinito si è fatto carne, si è fatto incontrabile, e l’accostamento di queste due letture, di Leopardi e del vangelo di San Giovanni, dava tutta l’ampiezza e la commozione che l’esperienza cristiana rettamente porta con sé.

Volevo chiedere al professor Gioanola, se la malinconia di cui parla è solo un aspetto quasi patologico, in qualche modo associabile ad un fenomeno depressivo della vita di Leopardi, o se può essere intesa anche come una situazione esistenziale che riguarda tutti.

Gioanola: Ho letto quanto don Giussani scrive su Leopardi, ed è un’intuizione perfetta: il verbo si fa carne. Al contrario, l’educazione cristiana di Leopardi è stata un’educazione ad un cristianesimo senza carne. Anche qui, leggo alcune citazioni: “Il cristianesimo ha contribuito non poco a distruggere il bello il grande il vivo di questo mondo, riducendo gli uomini al pensare e al pregare, o vero all’operar solamente cose dirette alla propria santificazione”. “Qualità di questa forza [del cristianesimo] tutta tetra, malinconica ec. in paragone della freschezza, della bellezza, allegria, varietà ec. della vita antica; aspetto lugubre che presero tanto i vizi, quanto la virtù dopo la propagazione intera del Cristianesimo, in maniera che si può dire che il mondo (quanto alla vita ed al bello), deteriorasse infinitamente”. “L’impero del cristianesimo è stato quasi un impero filosofico, uno stabilimento di forza filosofica, una influenza, una superiorità generale acquisita nel mondo della ragione sulla natura, le naturali illusioni ec. e dello spirito sopra il corpo”. Leopardi ha valorizzato infinitamente il corpo nella misura in cui non lo ha posseduto, perché, privato dell’essenza del vitale, la corporeità appunto, ne ha sentito una nostalgia terribile, ed ha giustamente dato la colpa di questa sua situazione alla educazione familiare.

Vogliamo leggere assieme alcune righe del celebre ritratto della madre dello Zibaldone, definita “madre cristiana”.

“Quanto anche la religion cristiana sia contraria alla natura, quando non influisce se non sul semplice e rigido raziocinio, e quando questo solo serve di norma, si può vedere da questo esempio. Io ho conosciuto intimamente una madre di famiglia che non era punto superstiziosa, ma saldissima ed esattissima nella credenza cristiana, e negli esercizi della religione. Questa non solamente non compiangeva quei genitori che perdevano i loro figli bambini, ma gl’invidiava intimamente e sinceramente, perchè questi erano volati al Paradiso senza pericoli, e avean liberato i genitori dall’incomodo di mantenerli. Trovandosi più volte in pericolo di perdere i suoi figli nella stessa età, non pregava Dio che li facesse morire, perchè la religione non lo permette, ma gioiva cordialmente; e vedendo piangere o affliggersi il marito, si rannicchiava in se stessa, e provava un vero e sensibile dispetto. Era esattissima negli uffizi che rendeva a quei poveri malati, ma nel fondo dell’anima desiderava che fossero inutili, ed arrivò a confessare che il solo timore che provava nell’interrogare o consultare i medici era di sentirne opinioni o ragguagli di miglioramento”.

Giacomo non è morto e questo è stato il suo grande torto, è vissuto come un sopravvissuto, condannato ab origine dal desiderio della madre che morisse perchè andasse in Paradiso appena dopo battezzato; questo è il cristianesimo con cui ha avuto a che fare Giacomo, di cui appunto la conversione al bello che è la conversione al corporeo, alla salute, all’allegria, agli antichi, questi favolosi e mitici antichi.

Rondoni: E la malinconia?.

Gioanola: In questa bellissima poesia che ha letto Piersanti, c’è un passaggio splendido: “manca una casa, solo prima di nascere l’ho avuta”, è la nostalgia della Cosa, non delle cose, che è al fondo della malinconia, in senso creativo, nel senso di una sensibilità esistenziale profonda. Leopardi non parla di una malinconia cupa, quella in cui uno ogni tanto cade perchè ha degli episodi depressivi gravissimi, in cui vuole morire, ma è la malinconia dolce che presiede alla nascita della poesia. La malinconia dolce è questa nostalgia della Cosa perduta e la cosa perduta è anche il seno materno, è l’eden, il mondo prima del mondo, anche il mondo prima del linguaggio, prima del simbolico. È questo luogo originario dal quale veniamo e che conosce la sua fase di incarnazione proprio nel ventre materno.

Rondoni: Ringrazio il professor Gioanola e Umberto Piersanti; vorrei ora chiamare sul palco il dottor Spinosa, perchè abbiamo accettato di presentare questa iniziativa della Rai, anzitutto perchè è un’iniziativa coraggiosa, — provate a pensare cosa vuol dire trasporre le cose di cui abbiamo chiacchierato in immagine televisiva — ed anche perchè vorremmo che, attraverso anche la nostra attenzione, questo lavoro che il dottor Spinosa sta presiedendo sia davvero utile nel senso che abbiamo descritto.

Spinosa: È un’occasione unica per Video Sapere e per me poter incontrare tanti giovani interessati alla poesia.

Video Sapere è una serie di programmi televisivi dedicati alla diffusione della cultura. In questo Meeting, che mette a tema l’amicizia fra i popoli, non poteva mancare la poesia, non soltanto il dibattito così profondo e vivace che abbiamo appena ascoltato, ma anche la poesia in generale, la poesia che è trasmessa attraverso gli schermi della televisione. Non sempre la televisione, non soltanto quella di stato, ma anche la televisione privata, si dedica alla poesia, eppure quando Paolo Severini Guidi mi ha parlato di un programma di poesia che incontrasse poeti e personaggi interessati alla poesia, ho rivolto subito una particolare attenzione alle sue parole.

I programmi si snoderanno attraverso venti puntate di dieci minuti l’una: sono puntate in cui si vedono delle personalità che o hanno contatti con la poesia, in quanto amanti della poesia, o sono essi stessi poeti.

In questa sala i poeti immagino saranno numerosissimi, poeti che hanno pubblicato i loro libri, poeti che hanno i loro libri ancora nei cassetti e soprattutto poeti che non hanno mai scritto un rigo di poesia, perchè il bello ed il grande della poesia è proprio questo. Per essere scrittori bisogna scrivere, forse — ma molto meno — per essere filosofi bisogna scrivere qualche trattato di filosofia: invece, per essere poeti basta essere poeti, avere un certo animo, avere una certa sensibilità. In questo interessante dibattito è stato rilevato come il libro di poesia, nonostante la massa di poeti, abbia scarsa circolazione: la ragione di questa scarsa circolazione è proprio il fatto che, per essere poeti, non è nemmeno necessario leggere i versi dei poeti contemporanei.

In queste trasmissioni noi abbiamo affrontati i vari temi della nostra esistenza. I temi delle puntate sono numerosissimi, le potrete vedere dalla fine di novembre prossimo, saranno venti puntate e vi dico soltanto alcuni di questi temi; il tema del viaggio, l’amor sacro, l’amor profano, l’amicizia, il gioco, la natura, fratelli e sorelle. In questa serie il poeta Umberto Piersanti è l’elemento che collega fra di loro le varie puntate e Paola Severini, l’autrice, è anche la conduttrice di questo programma, e interroga personaggi e poeti.

 

Data

21 Agosto 1995

Ora

11:30

Edizione

1995
Categoria
Incontri