QUALE CITTÀ PER IL NOSTRO FUTURO?

Quale città per il nostro futuro?

Quale città per il nostro futuro

Partecipano: Dario Nardella, Sindaco di Firenze; Giuliano Pisapia, Sindaco di Milano; Flavio Tosi, Sindaco di Verona. Introduce Giorgio Vittadini, Presidente della Fondazione per la Sussidiarietà.

 

GIORGIO VITTADINI:
Quale futuro per le nostre città. Cosa c’entra con un Meeting dedicato alle periferie esistenziali? Innanzitutto sono nato a Baggio Forze Armate che è una nota periferia di Milano. Per cui il tema delle periferie, delle periferie delle città mi appartiene, nel senso che sento cosa vuol dire una città che non è solo i suoi monumenti, ma la gente che abita, che abita in periferia e che ha i problemi che sono della vita quotidiana. La città è anche e soprattutto periferia, tanto più grande tanto più le città sono importanti e pone, come tipo di questione fondamentale, la connessione tra queste periferie, dove si abita e il centro che è il punto di prestigio visitato dai turisti. Anzi, sappiamo benissimo che il rischio che c’è nelle nostre città è di avere dei centri abitati che sono musei, bellissimi da visitare, ma dove la gente non abita più, e delle periferie anonime, brutte, dove si va ad abitare. E questo è il primo dei due argomenti che vorremmo trattare su un tema così generale come le città. Vorremmo focalizzarlo perché, appunto, non possiamo esaurire il tema di che cos’è una città. Il primo è proprio il tipo di abitare. Sono milanese e l’aspetto dell’abitare, del costruire, dello sviluppo delle città oggi ha, secondo me, due caratteristiche. Uno interessantissimo: l’idea che le nostre città non sono qualcosa da gestire nel passato, ma sono qualcosa di nuovo che innova. Per dire, di Milano, vedere i grattacieli che si alzano e che diventano però anche luoghi abitabili e nuovi per la città, penso alle Varesine, penso ai grattacieli che diventano anche punti visitabili, incontrabili per la cittadinanza, penso ai progetti che ho sentito esserci anche in città come Verona e Firenze, è certamente una cosa interessantissima, importante. Vuol dire che non viviamo di un passato remoto, ma viviamo di qualcosa di presente; però è anche vero che quest’aspetto dell’urbanista e dello sviluppo oggi ha problemi inquietanti. Primo: questa differenza che c’è tra la costruzione, in certi casi per ricchi, e la possibilità di abitare di molte famiglie. A Milano, parlo di Milano ma penso ad altre città, ci sono moltissimi vani vuoti e c’è una difficoltà gravissima ad andare ad abitare. Allora c’è questo tema. Oppure, secondo tema: il verde, il territorio, la necessità di rispondere a bisogni abitativi crescenti e la distruzione del territorio e la difficoltà anche ambientale del verde, dell’abitabilità. Terzo: la necessità di non creare luoghi diversi, ghetti, ma di integrare popolazioni di origine diversa. Ora quindi questo primo grande tema è il tema dello sviluppo urbanistico abitativo ambientale delle nostre città. Che mi sembra veramente un tema da periferie esistenziali, perché se il Papa ci ha detto qui che le periferie prima ancora che luoghi sono persone, occorre che nella città in qualunque modo la persona sia protagonista. Protagonista quando vede, come gli facciamo vedere nella mostra di Guareschi e Jannacci, la città che cresce e il bello della città che cresce, ma protagonista quando può abitare, quando può avere un verde fruibile, quando non esistono ghetti. Quindi la prima domanda ai nostri sindaci riguarderà proprio questo sviluppo. La seconda domanda che svilupperò dopo il primo giro di domande, riguarderà invece il welfare, il fatto che le nostre città sono il luogo che sono, come dire, più importante per un rapporto con i bisogni della città. Perché teoricamente sono tanti gli enti, ma poi sono i sindaci, le amministrazioni comunali che devono operare. Ma questo lo sviluppiamo dopo. Il nostro parterre è veramente interessante, perché abbiamo Giuliano Pisapia, Sindaco di Milano, Dario Nardella, Sindaco di Firenze e Flavio Tosi, Sindaco di Verona. Allora direi un primo giro di domande di un quarto d’or, poi passiamo alla seconda domanda. Comincerei, nell’ordine del tavolo, da Giuliano Pisapia.

GIULIANO PISAPIA:
Grazie, grazie per la vostra presenza e grazie anche per la vostra pazienza, perché oggi credo che per tutti coloro che sono presenti al Meeting sia stata una giornata importante e vi ringrazio proprio per il clima di passione, di entusiasmo, di sorrisi che ho trovato, che tirano su soprattutto i sindaci che in questo momento lottano contro il degrado, contro la miseria, in una situazione in cui le difficoltà sono sempre maggiori e come tutti sanno i tagli agli enti locali dal punto di vista economico sono sempre purtroppo continui, duraturi e sempre più ardui. C’è una frase bellissima che ho letto in un libro di Walter Vitali, ex Sindaco di Bologna, che dice che “Il Sindaco è il vicino di casa dei cittadini”. Questo dovrebbe e vorrebbe essere ogni Sindaco di tutte le città del mondo. Questo deve essere per quanto umanamente possibile, anche il Sindaco delle grandi città, che deve essere in grado di conoscere le zone più diverse della propria città, conoscendo e imparando a conoscere quelle che sono le criticità, i lati positivi, gli aspetti di cambiamento di ogni singola zona. Ed è vero che il Sindaco è l’unico che può avere un’effettiva e concreta conoscenza sia diretta se è presente, come i sindaci ormai sono presenti nelle zone della città, girano, parlano, vengono riconosciuti, si riconoscono con i propri “vicini di casa”, sia perché sempre di più c’è questa volontà di essere ascoltati e ascoltare, da una parte e dall’altra e questo secondo me è uno degli elementi di buona politica che sta nascendo in una capacità di superare le ideologie per andare molto al concreto e di lavorare insieme con tutte le forze sane che esistono sul territorio, con tutte le forze sociali, indipendentemente dalla collocazione politica, ognuno mantenendo e rafforzando e anche essendo fieri delle proprie provenienze, ma sapendo fare quel passo in avanti che è utile a tutti: il bene comune. L’altro ringraziamento è per questo invito. Poi rispondo alla domanda, non voglio eludere la domanda che è molto interessante, perché è un po’ il cammino della mia vita. Io sono grato di aver conosciuto e frequentato, aver avuto pezzi di cammino con molti di voi. Riflettevo oggi che tra i compagni di classe o di scuola miei o dei miei fratelli, ci sono stati tre attuali vescovi, che per altro sono molto vicini a voi e che ho incontrato anche recentemente. Quando alcuni mesi fa c’è stata a Milano, come avviene ogni anno, la messa per il ricordo delle vittime di Linate, l’incidente di Linate, io ero alla messa, e a un certo punto il celebrante, alla fine della messa, si è avvicinato e mi ha parlato per dieci – quindici minuti. Tutti erano allibiti perché non capivano di cosa mi parlasse, e tutti mi chiedevano dopo cosa c’eravamo detti in quei quindici minuti. Bene, ci siamo parlati, era don Camisasca, ci siamo parlati di quando eravamo insieme al Berchet e insieme facevamo delle cose un po’ criticate ma sicuramente positive. Ecco, io credo che poi, nella mia vita, ci sia stato un percorso che ci ha molto allontanato, adesso c’è un confronto continuo con realtà come la vostra, come la mia, come la nostra, che hanno avuto percorsi diversi, ma a un certo punto si ritrovano in una situazione in cui c’è voglia di collaborare. E questo è fondamentale per le città. È fondamentale per una città come Milano che credo, come tutti quelli che gestiscono, che hanno l’onere e l’onore di gestire, di dirigere, di organizzare, di governare una città, voglia arrivare a un’eliminazione del concetto stesso di periferia. E questo sarà possibile con l’introduzione della città metropolitana. Non in tempi brevi. Molta pazienza, molta concretezza. La città metropolitana finalmente dopo decenni in cui se ne parlava, in cui è stata anche introdotta come entità all’interno della Costituzione, diventerà realtà dal 1 gennaio 2015 e questa realtà non darà immediatamente dei risultati, ma darà immediatamente un risultato: e cioè che le periferie di Milano diventeranno delle vere e proprie municipalità e soprattutto a livello di localizzazione del territorio non saranno più delle zone esterne al centro, ma saranno ognuno dei piccoli e grandi centri. Questa è la prima trasformazione urbana che possiamo ottenere in un contesto di progressione e di modifica legislativa che dà gli spazi perché diventi realtà. Il secondo aspetto è la capacità che si ha come sindaci che conoscono la realtà, quindi quando sono veramente vicini di casa e in un confronto continuo con i cittadini, la capacità di riuscire a capire che l’innovazione non può portare, la modernità non può portare a cancellare la propria storia. Prima il professor Vittadini parlava della zona dove c’è l’ottavo grattacielo più bello del mondo: le ex Varesine, dove c’è Piazza Gae Aulenti che è una piazza, io invito i non milanesi ad andarci, di giorno, di mattina e di sera, che è una gioia viverla, una gioia visitarla e una gioia farla conoscere. Quando i ragazzi nelle scuole mi parlano di Berlino, mi parlano che il loro mito è andare a Berlino, io dico passate in Piazza Gae Aulenti e cambierete idea, perché è mille volte più bella delle piazze di Berlino, perché è una piazza in pieno centro di Milano che è vivace, in cui c’è musica, c’è attività culturale, c’è una libreria dove si mangia, c’è un luogo di lavoro, perché lì c’è il grattacielo dell’Unicredit. Una vita che dimostra come quello è uno dei centri di Milano ma a cinquanta metri c’è l’Isola, che è il vecchio quartiere di Milano che in gran parte è rimasto uguale a prima, che in gran parte ha mantenuto le abitazioni di prima. In questo contesto quindi si possono eliminare le periferie, farle diventare anche a livello istituzionale delle vere e proprie municipalità, superando il concetto dei consigli di zona, facendole diventare dei luoghi che hanno i propri poteri, le proprie competenze, le proprie risorse e la propria autonomia decisionale, in un ambito chiaramente di contesto complessivo della città metropolitana, con scelte che possono servire a far superare il concetto di periferia. Io credo che non sia più valido il discorso delle periferie che oggi sono in una situazione di difficoltà, talvolta di degrado e che sono dimenticate. È capitato spesso, chiaramente parlo per la mia città, ma gli investimenti maggiori sul welfare, malgrado i tagli – noi abbiamo investito 80 milioni di euro per aiuto al welfare – li abbiamo fatti soprattutto nelle zone periferiche. Nelle zone periferiche abbiamo voluto che ci fossero tanti luoghi di cultura, che anche i luoghi dove nascono le start-up con il finanziamento del Comune, delle istituzioni, coi finanziamenti delle Camere di Commercio, coi finanziamenti di tutti coloro, anche privati, che vogliono dare un contributo alla rinascita della città, noi abbiamo voluto che fossero nelle zone più periferiche, quelle di cui sentite parlare. Quarto Oggiaro ha un luogo, una villa bellissima, che è la villa delle associazioni, dove ci sono tante associazioni, dove noi abbiamo voluto che ci fosse un insieme, un co-working, sia start-up, sia capacità di erogazione del micro credito per far nascere o evitare che morissero imprese, piccole imprese che non erano in periodo di crisi ma che con un piccolo aiuto potevano creare nuove occupazioni. Periferie possono e sempre di più diventano una realtà che può essere superata, quando si parla ad esempio delle periferie del mondo. È bellissimo questo titolo: “Verso le periferie del mondo e dell’esistenza”. Ebbene se Milano ogni giorno, ogni sera, dà ospitalità con i propri mezzi e con l’aiuto del non-profit, del volontariato, del concetto di sussidiarietà dal basso, quello credo che sia uno dei punti che sempre di più ci trova d’accordo, se riesce a dare un tetto, un letto, una cena calda a oltre 1300, ultimamente a 1700 profughi dalla Siria, questo significa che è una città che ha superato il concetto stesso di periferia. Perché quei profughi noi li troviamo in pieno centro di Milano: alla stazione Centrale di Milano. E poi, soprattutto quelli Eritrei, perché quelli siriani, come sapete, sono profughi che vogliono stare vicino alla Centrale, vicino alla stazione, perché sperano di trovare il giorno successivo o due giorni dopo da quando sono arrivati un treno per partire in altri luoghi dell’Europa, dove chiedere asilo o fare la richiesta di essere considerati profughi, quanto meno dal punto di vista umanitario oltre che istituzionale. E quelle stesse persone che di notte sono ricoverate nelle scuole, che in queste periodo sono libere, ma che fra poco non saranno libere, della città, perché riprende l’anno scolastico, nelle varie zone periferiche, già dimostrano che il concetto di periferia sta svanendo. E non si può negare che esista! E qua arrivo veramente un po’ alla conclusione che è quella dell’abitare, perché è lì che veramente si vede che ancora le periferie purtroppo ci sono. Ma il fatto che quei profughi, dalla Stazione Centrale e dalle scuole poi si riversino creando anche disagi nella città di Milano, in pieno centro di Milano, ai giardini di Porta Venezia, creando qualche situazione di degrado, non devono farci dimenticare che sono persone che noi vogliamo, dobbiamo e crediamo fortemente che sia giusto aiutare. Sapendo anche che questo ci può eliminare o diminuire il consenso, ma sappiamo che quelle persone non si devono abbandonare. Anche questa è una dimostrazione che, attraverso il nuovo piano di governo del welfare, della città, si può eliminare sempre di più quella differenza tra centro e periferie. Però rimane il problema dell’abitare, parlo per Milano ma credo che sia così per tante grandi città. La soluzione è difficile: in pieno centro noi abbiamo centinaia e centinaia di abitazioni che rimangono invendute, che non vengono neppure affittate. Del resto è comprensibile, quando un metro quadrato costa 9.000 euro, chi oggi può permetterselo? Eppure ci sono centinaia e migliaia di persone che invece non possiedono neppure una casa. Inoltre abbiamo una situazione con le case popolari in assoluto degrado. Cosa si può fare? È chiaro che l’intervento dell’amministrazione è l’intervento di necessità, di stato di necessità, di superamento dell’emergenza. È del tutto evidente che una esigenza, accanto a quella del lavoro, è quella dell’abitare e quindi di superare quei confini tra centro e periferia. Ce la si può fare? Sì, ce la si può fare. I Comuni stanno facendo il possibile. Parlavi prima, caro Vittadini, di tante case sfitte, case popolari, posso dire che proprio recentemente abbiamo messo a bando, creando, e anche forse un po’ rischiando, perché sapete un ricorso al TAR è sempre facile (e adesso è anche facile vincerlo), spesso un ricorso al TAR viene valutato sulla base di una valutazione tecnico-giuridica che oggi non può essere da sola a prendere una decisione, anche di carattere giuridico. Ad esempio abbiamo deciso di fare bandi per l’assegnazione di numerosi immobili sfitti ma non abitabili, in quanto non sono in condizioni di abitabilità, dando quella possibilità di assegnazione immediata, di ingresso immediato, in cambio dell’impegno degli inquilini assegnatari di investire per rendere abitabili le case, cifre dell’investimento defalcabili poi dall’affitto che avrebbero dovuto pagare in futuro. Anche questa è una sperimentazione. Su questo io più volte ho fatto, formalmente e informalmente, richiesta al Governo, perché si dessero al Comune e ai Sindaci poteri speciali per questi tipi di intervento, di assegnazione. Altri due esempi, sempre di zone periferiche. Due piazze, una a Quarto Oggiaro, un’altra a Lorenteggio, due piazze di Milano molto importanti, dove c’era il centro del quartiere della zona periferica. Ebbene, le abbiamo trovate in una situazione di assoluto degrado, di abbandono, occupate da persone che poi facevano riciclaggio di merce rubata, persone che ci abitavano e ci vivevano senza non solo pagare affitto ma anche facendo attività spesso non lecite. Ebbene, abbiamo voluto, lì sì, fare gli sgombri, perché era necessario rendere liberi quei luoghi che non erano un’abitazione ma erano fondamentali per la coesione sociale nel quartiere, per la vivibilità, e li abbiamo messi a bando. Sono diventate piazze dove quei luoghi sono stati rimessi a posto, sono stati resi abitabili, da parte di associazioni, da parte di soggetti che avevano un progetto, che non pagano nulla al Comune ma hanno restituito al Comune una possibilità di rinascita e quindi della graduale eliminazione del concetto stesso di periferia. Vorrei che lo stesso fosse possibile anche nelle periferie del mondo, ma lì oggi, come Sindaci, possiamo ben poco, salvo l’impegno di aiutare i profughi, e spesso questo è criticato, e invece io lo rivendico con forza. E spero che siate con noi. Grazie.

DARIO NARDELLA:
Buona sera, grazie dell’invito, grazie al professor Vittadini, al Meeting, per me è particolarmente emozionante tornare qui al Meeting per la prima volta da Sindaco, ho avuto l’onore di parlare in altre vesti e anche assistere a tanti incontri e mi fa molto piacere essere qui con di voi. Il mio collega, il Sindaco di Milano Pisapia, ha già introdotto molti temi e riflettevo sulle sue parole, sulle quali interverrò, ma prima vorrei notare una coincidenza, curiosa, ma che mi permette di introdurre questa breve conversazione, e cioè il fatto che esattamente sessant’anni fa, nel 1954, il Sindaco di Firenze, Giorgio La Pira, Sindaco santo, come lo chiamarono i fiorentini, in un convegno a Venezia sulle città che aveva come titolo “La crisi e il ruolo delle città”, si ritrovò a parlare proprio dei temi di cui parliamo oggi al Meeting. Cosa vuol dire questo? Che parliamo di un argomento vecchio trito e ritrito? Nient’affatto, anzi, io trovo che il Meeting di quest’anno abbia avuto la felice idea di invitare i Sindaci per parlare delle città in un edizione che mette ancora una volta l’uomo al centro. Perché? Perché, come ebbe a dire proprio Giorgio La Pira sessant’anni fa in quel convegno, qual è il modello di città ideale che tutti cercano? Ideale per chi la vive, ideale per chi la amministra, e cioè l’ideale di “città-misura”, La Pira lo chiamò così, in questo consesso con tanti altri sindaci intervenuti da tutti’ Italia. Cosa significa “città misura”? Misura di cosa? Qual è la misura della città? Sono le grandi metropoli cinesi da venti milioni di abitanti? Io penso di no. Sono le città della cementificazione che fanno brillare gli occhi, dove c’è la gara tra i grattacieli più alti? Sono le città che consumano solo pubblico a ritmo da record? Sono le città che mettono la quantità prima di tutto e poi la qualità? O che mettono i numeri davanti all’uomo? Sono queste le città del futuro? Sono queste le “città-misura”, città trattino misura, di cui parlava La Pira? Penso proprio di no, e non è questo il modello di città a cui noi vogliamo guardare. Trovo invece che la sfida per noi, per chi amministra e per l’Italia, ma per l’Europa in generale sia, invece, di riproporre la città europea come città-misura, città ideale per una nuova comunità, per una idea forte, moderna, vincente di comunità. E allora dobbiamo chiederci in che cosa sta questa misura, che cosa intendeva dire il Sindaco di Firenze La Pira e che cosa noi intendiamo dire per “misura”. Ecco io trovo che proprio la parola “misura” sia la parola indovinata, perché la misura richiama una sfida di proporzioni, di armonia, di equilibrio, se la città è lo spazio in cui l’uomo trova il suo compimento, il cittadino, allora questo compimento deve essere il risultato di un armonia, di un equilibrio. La città è un po’ come un pentagramma sul quale si scrivono le note, la musica, sempre in un’idea di armonia e di confine, e allora la vita dell’uomo, del cittadino nella città è scandita nella sua quotidianità e questo ritmo, queste fasi della vita quotidiana del cittadino devono essere tra loro in armonia. Faccio un esempio banale, chiaro a tutti noi, ma che forse ci può aiutare a spiegare l’idea, il concetto di “città-misura”: insomma non è normale che un cittadino spenda troppo tempo nella sua automobile o a muoversi in una città per andare da un posto all’altro, di lavoro, di piacere, di tempo, in rapporto al tempo a disposizione che ha durante la giornata, quando questo tempo di spostamento per motivi di inefficienza, o perché i servizi non funzionano, le infrastrutture sono deboli, i trasporti pubblici non ci sono, non è in armonia con i ritmo della sua quotidianità. Ecco quella città non funziona. Città – misura significa, se guardiamo al tema che introduce Vittadini oggi, cioè “la trasformazione urbana”, significa dire stop al consumo di suolo e alla cementificazione, significa, al contrario, prendere a due mani il grande obiettivo della rigenerazione urbana, della trasformazione delle nostre città. Le città di oggi e le città di domani non hanno bisogno di allargarsi o di alzarsi qualitativamente, devono, prima di tutto, ripensarsi, rigenerarsi, trasformarsi. Cosa intendo: partiamo dalla mia esperienza, dalla città di Firenze, dove tra l’altro sono stato vicesindaco per quattro anni con l’ex Sindaco. Noi abbiamo un 1.400.000 metri quadrati di volumi dismessi, inutilizzati, vecchie fabbriche, uffici, immobili privati o pubblici, caserme. Cosa facciamo? Ci poniamo il problema di costruire nuovo senza invece chiederci come questo milione e quattrocento mila metri quadrati di stock di immobili debba essere ripensato, riconvertito? Abbiamo mille alloggi invenduti, a proposito di quello di cui parlava Giuliano, cosa pensiamo? A costruire nuovi alloggi, quando ancora non si riescono a vendere quelli che abbiamo? E se guardiamo, partendo dalla mia città all’Italia, come ha detto Roberto Reggi che conosce molto bene questo tema, è stato Sindaco anche lui, adesso è sottosegretario, noi abbiamo qui in Italia tra i 500 e 700 mila alloggi invenduti, pensate è più o meno il numero di famiglie che sono in lista di attesa per avere un alloggio popolare. Da un lato una domanda e dall’altro un’offerta che sta su un universo completamente diverso, e questi 5/7mila alloggi sono oggi lo stock immobiliare ipotecato, sostanzialmente in mano alle banche, perché sono utilizzati dalle imprese edili ovviamente a garanzia per ottenere prestiti. Allora ci rendiamo conto che spesso le soluzioni ce le abbiamo sotto gli occhi, però dobbiamo affrontarle, dobbiamo prenderle di petto. Allora la prima sfida delle città, delle grandi città metropolitane è quella della rigenerazione urbana. Trasformare i contenitori vuoti significa aprire a una nuova progettualità, significa cominciare a risolvere quel problema gigantesco del divario tra centro e periferia, come la chiamano alcuni urbanisti, il problema dell’uovo a occhio di bue, come spesso sono oggi le grandi città, le città europee, ma soprattutto quelle italiane, con un centro che, nelle città d’arte, pensiamo a firenze ma tante città italiane hanno questo modello, è denso di funzioni, di patrimonio culturale, di presenza umana. Pensiamo ai visitatori, ai turisti, l’antropizzazione diciamo dei luoghi, e poi, fuori il bianco, cioè il nulla, i dormitori, le periferie senza identità, dove il tessuto commerciale si è eroso, ha perso la sua autenticità, dove le relazioni sociali non ci sono, si sono frammentate, dove non ci sono centri di cultura, dove l’accesso anche ai luoghi di educazione e di formazione, formazione universitaria, è sporadica e quant’altro. Allora la rigenerazione urbana, spesso, presente proprio nelle periferie, ci può permettere di integrare con più forza le periferie e il centro. Questo significa lavorare su un mix di funzioni, quando si convertono i contenitori vuoti. Noi abbiamo firmato un accordo con il Ministero della Difesa per riconvertire otto caserme nella nostra città, 160mila metri quadri, sarei un folle se io facessi soltanto appartamenti! Che cosa dovrei fare invece? Immaginare questi grandi contenitori, soprattutto se sono nelle periferie, come luoghi dove io posso ripensare un mix di funzioni culturali, educative, commerciali, produttive e anche abitative. Perché non vi sia più questo divario tra il centro e le periferie, tra i luoghi dove si vive e i luoghi dove si dorme, perché la rigenerazione urbana sia anche una scommessa perché le periferie tornino ad essere il centro in qualche modo. E’ vero che la città metropolitana di cui parlava il Sindaco di Milano è una bella sfida: noi abbiamo in Italia, dopo l’abolizione delle provincie, dal 1 gennaio avremo le città metropolitane, e non può essere solo un cambio del cartellino davanti all’ufficio, altrimenti prendiamo in giro noi stessi e i nostri cittadini. Se le città metropolitane saranno, saranno il luogo dove noi ripensiamo una pianificazione urbana comune! Allora anche noi possiamo vincere la sfida centro e periferie! Perché se io guardo la mia provincia, vedo che noi abbiamo 40 piani urbanistici diversi e a Milano ce ne sono 150 e dispari e a Torino 356. Magari il piano urbanistico di Firenze punta sullo sviluppo del commerciale o del residenziale, quello del comune accanto punta sullo sviluppo dell’industriale. Dov’è l’armonia? Ecco che torna la sfida della città-misura. La città metropolitana ci consente di dire che dobbiamo trovare una misura di armonia dello sviluppo nelle grandi aree provinciali, dove i Comuni delle periferie metropolitane non sono Comuni dormitorio. Tutto ciò ci consente anche di utilizzare in modo più efficace e sostenibile il sistema della mobilità. Se io offro funzioni, servizi nell’ambito sociale, scuole, spazi verdi, in prossimità dei luoghi di abitazione e residenza, io do anche una risposta al tema della mobilità; se io concentro la grande distribuzione commerciale solo in alcuni grandi luoghi del consumo, chiamiamoli così, io incentivo una mobilità frenetica, anche privata; se io cerco di recuperare il tessuto commerciale anche di tradizione, il che non significa conservare, ma significa aprirsi a una sfida di modernità ma recuperando anche quello che di buono abbiano le città, vuol dire offrire una risposta in termini di prossimità dei servizi al cittadino. Questo significa ripensare le periferie, la riconversione urbana, la rigenerazione urbana. Allora per questo nella nostra città abbiamo preso di petto la questione dell’housing sociale, dell’edilizia residenziale, e abbiamo detto “abbiamo un grande patrimonio di edilizia residenziale popolare, riqualifichiamolo e puntiamo sulla riqualificazione degli immobili dismessi”, un mese fa abbiamo lanciato il piano casa di vendita di 1249 alloggi popolari con la prelazione degli inquilini che ci stanno dentro – nessuno rimane fuori ovviamente, chi ci vuole rimanere ci resta da inquilino e non da proprietario-; noi con le risorse che avremo dalla vendita di questi 1249 alloggi, faremo l’opera di riqualificazione di tutto il patrimonio abitativo già esistente e realizzeremo alloggi nuovi, soprattutto per giovani coppie o per famiglie che ne hanno bisogno. Allora giochiamo su una piena utilizzazione del patrimonio immobiliare che già abbiamo destinato all’edilizia pubblica o popolare, chiamatela come volete, dall’altro lato, però, riqualifichiamo immobili dismessi, lo facciamo con le risorse che otterremo vendendo il patrimonio, ma anche qui, tutto si chiude dentro un patrimonio che già abbiamo, senza aggiungere nuovo cemento, senza consumare nuovo suolo. La rigenerazione urbana passa anche dalla cultura. A Firenze abbiamo realizzato – qui c’è Salvio Anastasi, è stato tra i protagonisti di questa opera con il Ministero dei Beni e Attività Culturali – un nuovo Teatro dell’opera di Firenze. Molti hanno detto “eh in un periodo di crisi economica, cosa vi mettete, a costruire teatri?” Ma la rigenerazione urbana passa anche dalla cultura e se io per riqualificare un parco, come il parco delle cascine, che abbiamo alle porte del centro di Firenze, parco bellissimo, tra i più amati dai fiorentini, alla porta di questo parco, laddove c’era una fabbrica dismessa e abbandonata, realizzo un Teatro dell’opera, con una cavea all’aperto, dove posso fare grandi spettacoli, dove posso portare i giovani anche dalle periferie, dove posso dare una risposta di vivibilità in un parco che spesso la sera è attraversato da gente poco raccomandabile, io do una risposta a come utilizzare gli spazi pubblici, perché la rigenerazione urbana non passa solo attraverso la trasformazione degli immobili che già ho, ma passa attraverso il ripensamento degli spazi pubblici, dei luoghi aperti. Chiudo questa prima domanda, Giorgio, con una frase che mi è piaciuta molto, che ha utilizzato papa Francesco in uno dei tanti libri che si trovano in libreria, a proposito del ruolo del Sindaco, del concetto di autorità. Bergoglio dice che la parola “autorità” deriva dal latino augere, che significa “far crescere”, dunque l’autorità non è repressione, l’autorità che il Sindaco esercita come primo cittadino, non è l’esercizio di un potere inteso come sostantivo, verso chi è governato, ma è l’esercizio verso una responsabilità che è quella di far crescere la propria comunità, i propri cittadini. E cosa dice Bergoglio? “Augere, cioè far crescere, significa creare uno spazio che permetta alla persona di crescere, significa essere capaci di creare uno spazio di crescita”. Ebbene, che cosa sono le città se non degli spazi dove noi dobbiamo consentire alla persona liberamente di crescere, dove noi offriamo strumenti di crescita al cittadino come singolo nella comunità? E questi sono gli spazi pubblici nelle piazze, nel centro e in periferia, e sono i parchi dove noi realizziamo i teatri o gli anfiteatri, e sono anche gli spazi privati che vengono ripensati, o gli immobili pubblici che trovano una nuova missione. Ecco, qui secondo me sta il cuore della sfida delle nuove città: gli spazi di crescita che sono spazi di libertà, ma di libertà di, non di libertà da qualcosa, di libertà di essere, di compiere il proprio essere uomo in spazi di comunità e collettività. E’ una sfida affascinante, difficilissima, bellissima, è una sfida che oggi è in mano ai Sindaci, che oggi sono primi cittadini per responsabilità, non per privilegio; è una sfida che già in questi primi mesi mi sta prendendo il cuore, l’anima, la testa e che sono felicissimo di affrontare insieme a tanti altri colleghi. Grazie!

FLAVIO TOSI:
Buonasera a tutti, io ringrazio gli amici del Meeting per avermi invitato anche quest’anno a essere presente a questo evento e per avermi dato la possibilità di confrontarmi con i miei colleghi di città importanti del nostro territorio su un tema delicatissimo che è appunto quello dell’abitare e della qualità della vita e della possibilità di dare abitazioni a tutti nelle nostre comunità. Verona è una città di 260.000 e rotti abitanti, il 15% sono cittadini stranieri residenti nella nostra città e quindi rispetto al tema dell’abitare, dello sviluppo urbanistico e del futuro delle città, Verona è come dimensione la decima o undicesima città d’Italia. Sono varie linee perché poi il mondo dell’abitare si compone di varie possibilità e fattispecie, perché c’è la parte comunemente conosciuta che è quella delle case popolari, quindi alloggi di proprietà pubblica direttamente detenute dai comuni o aziende comunali o regionali, e qui la scelta – come ha anche appena citato il collega di Firenze – è quella di provare a portare avanti dei piani di vendita, utilizzando – o almeno la scelta di Verona è stata questa – prevalentemente il patrimonio cosiddetto privilegiato. La nostra azienda che gestisce gli immobili comunali – noi abbiamo circa 5000 immobili gestiti dai Comuni, poi c’è l’ATER che è l’azienda regionale, il Comune ha una sua azienda cioè l’AGE e una parte di questo patrimonio sono immobili di pregio, che derivano dall’ASCI principalmente -, l’AGE, non realizza immobili di pregio in centro storico, ma nel Comune, nel corso degli anni e dei secoli passati, ci sono stati dei lasciti importanti nel centro storico. E’ quindi dismettendo degli appartamenti che oggi vengono affittati nel libero mercato che si utilizza per gli usi sociali il patrimonio di edilizia pubblica comunemente inteso, mentre immobili che possono dare delle rendite più elevate sono messi sul libero mercato per massimizzare, perché sono soldi che restano comunque all’azienda che quindi li reinveste sul sociale. Quindi dismettendo immobili privilegiati, utilizzando queste risorse per pianificare la costruzione di altri immobili, si è andati a riqualificare il patrimonio di edilizia pubblica esistente. C’è un aspetto sul quale bisognerebbe incidere a livello nazionale – e questa è una platea adatta per lanciare questo messaggio – e bisognerebbe tornare indietro – adesso spiego a cosa mi riferisco – per quanto riguarda i piani PEP, quindi per l’edilizia economica popolare, dove normalmente il meccanismo è quello per cui il Comune individua delle aree agricole e procede con l’esproprio o con una acquisizione bonaria, fa poi una trasformazione urbanistica e quindi le cooperative edilizie possono dare degli immobili a un prezzo calmierato. Il vantaggio di avere una area che viene messa a disposizione a un prezzo più basso perché è un’area agricola è che i costi di costruzione si abbattono sensibilmente e si traduce poi in un vincolo da parte del Comune che impone che il prezzo di vendita sia sensibilmente più basso di quello di mercato e questo dà la possibilità, soprattutto a giovani coppie, di dire “accedo a questo tipo di alloggio”. Bisognerebbe tornare indietro su questo, perché quando ci fu il governo Prodi venne fatta una scelta che rimane un po’ inspiegabile, perché si decise – e i comuni poi si adeguarono – che il prezzo d’esproprio doveva essere legato al valore di quello che veniva realizzato e, di fatto, espropriava valori di terreno edificabile e questo, di fatto, ha, non dico messo fuori il mercato ma reso molto più complessa la possibilità di realizzare un piano PEP, perché se il prezzo dell’area diventa un prezzo e un costo, è ovvio che se vai a prendere un’area edificabile e la espropri, allora devi pagarla a un valore di terreno edificabile, ma se espropri un’area agricola a chi la detiene, devi pagare qualcosa di più ma non come un terreno edificabile, perché altrimenti lo strumento del PEP non ha più senso. Quindi spero che ci sia un ripensamento in questo senso. E questo per quanto riguarda la parte del pubblico. Poi c’è il mercato del privato in senso stretto, dove ci sono, come in tutte le città, migliaia di alloggi sfitti e dove ci sono varie linee di intervento a livello locale e alcune auspicabili a livello nazionale. A livello locale, una scelta che può essere praticata è quella di disincentivare chi tiene sfitti grandi patrimoni immobiliari, perché evidentemente questo impedisce di accedere all’abitazione attraverso il canone e mette in difficoltà soprattutto oggi che c’è maggior esigenza di aiutare le fasce più deboli. Quindi bisogna differenziare la tassazione, agevolando i contratti d’affitto, i cosiddetti 3+2, per favorire chi affitta gli immobili. Con delle salvaguardie, perché è chiaro che chi tiene sfitto l’immobile perché magari ha uno o due figli e lo tiene per la propria famiglia, è chiaro che in quel caso bisogna avere la comprensione di una famiglia che ha messo da parte qualcosa per i propri figli e quindi non deve essere penalizzata. Per quanto riguarda gli alloggi sfitti, ci sono due meccanismi che poi si vanno a innestare e quindi servirebbero dei correttivi, anche soprattutto a livello nazionale, perché talvolta chi non affitta oggi lo fa perché ha paura che magari – cosa che accade sovente – tu affitti un appartamento e chi entra dopo un po’ non ti paga più l’affitto e non riesci a liberare l’immobile, perché questo oggi succede nel nostro Paese. Comunque devi pagare la tassazione sugli immobili e un Comune non può non fare pagare nulla, perché altrimenti sarebbe passibile di danno erariale, perché deve comunque pretenderla, perché la norma è costruita così, e quindi succede che ci siano delle famiglie e delle persone che magari hanno alcuni appartamenti e non li affittano per questo timore e ti spiegano: “Guarda io ho alcuni appartamenti, non ho nessun reddito perché magari sono di eredità, ma non ho reddito perché non ho un lavoro o un’altra possibilità di reddito, non li affitto per questo timore, però devo pagare una tassazione importante”. Tutti sapete quanto si paga oggi di tasse sugli immobili e quindi alla fine uno dice: “Dovrei vendere degli appartamenti, almeno uno, per riuscire a pagare le tasse sugli altri, ma oggi a chi li vendo che non c’è mercato e nessuno li compra?”. E quindi per questo dico che bisognerebbe intervenire, non dico che bisogna arrivare al modello statunitense che è il modello un po’ – scusate – selvaggio di dire “fuori tutti il giorno dopo”, però è chiaro che bisogna trovare dei meccanismi di compensazione almeno in termini di tassazione, perché se a uno non viene pagato l’affitto ma ci deve pagare le tasse sopra, diventa un controsenso rispetto al gesto di disponibilità dell’appartamento che si mette a disposizione. Quindi a livello nazionale bisognerebbe studiare qualcosa in un momento di emergenza come questo, far vedere come noi come Comune abbiamo ideato un’idea che, anche se non è geniale non si fa in altre parti d’Italia, cioè un fondo di garanzia in cui il Comune si presta da garante quando ci sono dei parametri dicendo al proprietario “in caso di insolvenza intervengo io” e quindi si incentiva a poter appunto accedere maggiormente al mercato d’affitto. E poi ci sono gli strumenti del privato sociale, cioè quelli legati ad alcune categorie particolari e all’housing sociale in generale. Dicevo categorie particolari, perché noi stiamo sperimentando sempre con la nostra azienda comunale un meccanismo che consenta ai padri separati – che oggi sono un’emergenza sociale e che spessissimo hanno da pagare gli alimenti alla moglie per il mantenimento dei figli e non riescono a starci dentro pagando un affitto e quindi stanno diventando una emergenza sociale – di avere un alloggio, evidentemente di dimensioni ridotte, con degli spazi d’incontro – perché nel momento in cui incontra il figlio o i figli deve avere degli spazi d’incontro – e questo lo puoi fare collaborando tra l’azienda pubblica e il privato sociale. E dicevo poi l’housing sociale in senso lato, cioè la possibilità di costruire in collaborazione fra il pubblico e il privato sociale degli alloggi, spesso trovando dei contributi specifici per far sì che quelle categorie che non sono la povertà estrema ma che comunque non possono permettersi un affitto a libero mercato, possano comunque trovare una compensazione attraverso l’affitto con l’housing sociale. Poi c’è il tema delle povertà estreme. Anche la città di Verona con tutte le nostre comunità offre vari gradi di accoglienza, dal dormitorio appunto per la povertà estrema alle altre strutture. Per quanto riguarda i dormitori, è prevista una presenza massima di tre mesi, prorogabile a sei, sia per una disponibilità di posti, sia perché il dormitorio non può diventare la soluzione della vita ma essere una soluzione transitoria. E quindi sono previsti posti di cosiddetta seconda accoglienza, dove a chi sta nel dormitorio è offerto un percorso dicendo “se tu provi attraverso il Comune trovare un’attività lavorativa, ancorché precaria e il Comune guadagna qualcosina, ti diamo la possibilità di avere uno spazio in un appartamento in cui tu paghi qualcosina e ovviamente partecipi alle spese e però ti stacchi dal dormitorio”. E poi ci sono le strutture emergenziali, perché poi quando c’è l’inverno con l’emergenza freddo – e normalmente nei dormitori gestiti direttamente dal Comune o in convenzione con la Caritas o con il privato sociale si chiedono i documenti a chi accede per un fatto anche di sicurezza e di controllo delle identità -, durante i mesi invernali vengono aperte delle strutture aggiuntive dove non viene chiesto un documento a nessuno, perché è chiaro che la priorità è non fare morire di freddo la gente. Per fortuna a Verona non è mai morto di freddo nessuno per strada, perché si dà accoglienza a tutti senza distinzione nel momento in cui c’è l’emergenza. Poi c’è la questione della qualità della vita e quindi le città, come è stato ricordato dai colleghi, devono reinvestire nel cercare di qualificare l’esistente e di aumentare la qualità della vita nel centro come nelle periferie. Quindi investire sulle aree verdi attrezzate, impianti sportivi, trasporto pubblico, servizi sociali sviluppati nei quartieri e quindi fare in modo che anche nelle periferie ci sia la stessa possibilità e gli stessi diritti. E qui si arriva al tema della tassazione locale e dei rapporti con lo Stato, perché è chiaro che finché la situazione rimarrà la stessa, che è quella di tagliare risorse agli enti locali fino al punto di arrivare ad un rapporto oggi che vede la mia città che, rispetto al dare/avere con lo Stato è nel rapporto di -1, cioè oggi quello che lo Stato chiede è un milione in più di quello che restituisce, e in più ne porta via altri 48 attraverso la tassazione sugli immobili, quindi in realtà oggi è un rapporto passivo nei confronti dello Stato centrale. Quindi è auspicabile che si arrivi finalmente ad un’autonomia vera per i Comuni, perché il Comune deve poter aver risorse, gestirsele, il cittadino sa che gli paga le tasse per avere qualcosa e distingue nettamente la fiscalità locale da quella nazionale. Lo Stato non può far passare dal Comune alcune tasse quando il cittadino non sa che le dà al Comune ma poi vanno allo Stato, perché lo Stato una parte dei fondi della tassazione sugli immobili – addirittura l’aveva fatto con la tassa sui rifiuti – la preleva attraverso i Comuni e quindi il cittadino non sa a chi paga le tasse e per far cosa. Quindi sarebbe importante che lo Stato si tenesse le sue tasse, ai Comuni desse la possibilità di gestirsi le sue e di definirsele e gli amministratori rispondessero ai cittadini di quello che chiedono e di quello che fanno. E questo è un altro aspetto importante perché altrimenti l’unica leva che resta, ed oggi sono tra le poche leve che restano, è la dismissione degli immobili – perché ormai quasi tutti i Comuni fanno case e bilanci dismettendo immobili, ma non si può dismettere immobili all’infinito, perché evidentemente gli immobili di proprietà pubblica finiscono. Non dimentichiamo il patto di stabilità che blocca anche i soldi che hai e non ti permette di investirli, e poi c’è la leva degli strumenti urbanistici, dove si parlava prima delle grandi strutture commerciali che sono più aggressive e rischiano comunque di portare a delle degenerazioni dal punto di vista urbanistico. E quindi autonomia vera per i comuni per gestirsi e gestire le proprie risorse e una semplificazione delle procedure per riuscire a risolvere i bisogni della città senza troppe strettoie burocratiche.
Se tu una cosa che puoi realizzare oggi la realizzi tra tre o quattro anni, per un fatto burocratico, fai un danno colossale in termini di sviluppo, di investimenti e gli investimenti sono quelli che poi ti portano le risorse che poi dovrai reinvestire nel sociale.

GIORGIO VITTADINI:
Secondo tema: il Comune oggi è il luogo dove si aiuta il Welfare, la gente comune ecc. Come si può fare oggi in un momento di risorse scarse anche usando un altro modello di governance, la sussidiarietà, la collaborazione con gli enti intermedi? Prima Nardella, poi Tosi e poi Pisapia.

DARIO NARDELLA:
Questione della sussidiarietà. Questo è un altro tema secondo me molto avvincente anche decisivo per la qualità della vita nelle nostre città, anche perché se guardiamo alle grandi città, le città metropolitane e penso che Tosi e Pisapia condividano questo aspetto, la domanda di servizi da parte dei cittadini è sempre più selettiva, qualificata. Cioè è sempre più attenta e anche esigente ed è giusto che sia così, perché giustamente le aspettative anche di qualità della vita aumentano e quindi anche di servizi. Rispetto a questo e allo scenario che prima è stato descritto, cioè di tagli alla spesa pubblica, diminuzione dei trasferimenti dal centro, le autonomie ecc., è chiaro che noi dobbiamo trovare un modello, una soluzione che ci consenta di sostenere questa domanda di servizi e di vita. E qui la sussidiarietà, secondo me, rappresenta la risposta, perché? Ci arrivo prima da una riflessione in termini di principio. Termini di principio perché io penso che il valore della sussidiarietà ovvero la capacità di coinvolgere il cittadino come persona o in forme organizzate, associative, collettive nella gestione del bene comune, mettiamola così, sia un principio che è presente da sempre nella nostra Costituzione. E’ vero che è stato esplicitato nella famosa riforma del 2001 e tante volte qui la Meeting se n’è parlato Giorgio, no? Fondazione di Sussidiarietà nasce come custode di quel principio, Art. 118, ultimo comma, dove si dice chiaramente che il principio di sussidiarietà orizzontale ovvero appunto il coinvolgimento delle forze private della società civile nella gestione del bene comune sia un criterio di orientamento dell’azione della Pubblica Amministrazione. Però se guardiamo bene nella nostra Costituzione, già nei principi fondamentali è presente questo principio, questo valore, perché quando la Costituzione Italiana nell’Art. 3 ci dice che è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano, di fatto, la libertà e l’uguaglianza dei cittadini e che impediscono il pieno sviluppo della persona umana come singolo nella collettività, che cosa si dice? Si chiama in causa la Repubblica, è la Repubblica che ha questo compito di rimozione, però qui c’è l’equivoco che è andato avanti per anni e che nasce dal modello dello Stato liberale. L’equivoco che Repubblica e Stato siano la stessa cosa e non è così. Lo Stato è una parte della Repubblica. La Repubblica intesa come res-pubblica è cosa di tutti. Nella Repubblica c’è lo Stato, ma ci sono le autonomie territoriali e poi ci sono anche i cittadini, il singolo cittadino. Quando la Costituzione dice: “La Repubblica tutela il Patrimonio storico e artistico della Nazione”, non è che affida solo allo Stato e agli organi burocratici statuali il compito di tutelare e promuovere la cultura, e no! Compito di tutelare e promuovere la cultura come patrimonio comune, come res – comune, come res- pubblica, è di tutti e anche dei cittadini, dei Comuni, delle Regioni, delle Associazioni, dei soggetti privati e in tante altre occasioni la Costituzione, quando vuole usare la parola Stato, usa la parola Stato, quando vuole usare la parola Repubblica, usa la parola Repubblica e non lo fa a caso. Lo fa per marcare una differenza sostanziale oltre che giuridica. Dico questo perché non è un’invenzione dei tempi moderni quella della sussidiarietà e il Meeting, devo dire la Fondazione per la Sussidiarietà, il movimento, ha avuto il merito e ne sono convinto io, di riscoprire questo valore e di rimetterlo al centro nell’attualità, perché era stato dimenticato ed era stato per molti anni in Italia coperto da un modello, (sarebbe stato interessante sentire Piero Fassino su questo), diciamo di eredità transalpina e poi piemontese, della piemontesizzazione- colonificazione italiana, in cui lo Stato risponde ai tuoi bisogni in tutto e per tutto. Lo Stato è la Repubblica e tutte le sue articolazioni burocratiche sono il potere costituito che risponde a quel compito di rimuovere gli ostacoli. La parola sussidiarietà invece è la risposta alla necessità di utilizzare tutte le energie che hai nella tua società e oggi, in un periodo di scarsità di risorse economiche pubbliche disponibili, tu puoi usare la sussidiarietà come effetto moltiplicatore delle energie sociali dell’uomo che hai nella tua città. Se parto dalla dimensione della città, come effetto moltiplicatore, perché se io ho a disposizione anche i miei cittadini che non sono solo destinatari di servizi, ma sono anche produttori di servizi, io moltiplico per cento, per mille, la capacità in termini di qualità, di creatività, di progettualità di offrire, ideare, costruire anche dei servizi nuovi e anche un modello, secondo me, fatemelo dire, di sinistra, nuovo, moderno, di coinvolgimento della società civile, dove non è vista la società civile come ancella dello Stato, del potere, ma è vista come protagonista e, allora, io penso, se guardo l’esperienza di Firenze, della mia città, che lavorare sul tema dei servizi sociali, oppure sull’obiettivo della formazione, della scuola, dei servizi educativi, offrendo alla persona, all’uomo, al cittadino nelle sue organizzazioni, penso al mondo della cooperazione, nel settore dei servizi o al privato sociale, la possibilità di supportare o in certi casi anche sostituire l’Amministrazione Pubblica nell’erogazione di questi servizi, penso che sia una scommessa che ci consente anche di razionalizzare le risorse economiche a disposizione, perché io moltiplico appunto le energie che metto in campo e ho cittadini attivi, ovviamente cittadini organizzati in forme imprenditoriali. Allora nel campo ad esempio dell’accoglienza, si parlava del tema dell’immigrazione, nel campo dei servizi socio-educativi, partendo dal settore 0-3 anni, 3-6 anni, quindi le scuole dell’infanzia, gli asili nido, nell’assistenza agli anziani, in tutto quel settore diciamo del Welfare che arriva anche nell’ambito socio-sanitario, noi abbiamo dei modelli che funzionano nella mia città, che sono quello ad esempio di strutture convenzionate, che sono quelle del coinvolgimento del mondo della cooperazione sociale, cooperazione vera, perché poi ci sono anche le cooperative inventate, io parlo della cooperazione vera, quella che parte dal principio della solidarietà, della mutualità e che rende le cooperative giustamente non-profit, cosa diversa dalle imprese profit che hanno legittimamente il profitto al centro. Allora io posso costruire dei modelli che, a parità di costo, mi producono dei servizi migliori, ma soprattutto realizzano una comunità attiva. Questo elemento forse non si può trasformare in termini monetari, ma è molto, è moltissimo, perché quando io ho una comunità che è attiva e che allo stesso tempo è destinataria di servizi, ma è anche produttrice di servizi, in molti casi integrando l’azione pubblica, in altri casi sostituendola se possibile, io allora do vita a quell’effetto moltiplicatore. Con questa ottica abbiamo per esempio messo in campo dei progetti interessanti come quello dell’inserimento lavorativo dei soggetti svantaggiati, delle persone portatrici di handicap. Abbiamo cominciato ad introdurre negli appalti il 5% di obbligo di assunzione di persone svantaggiate, portatori di handicap, marginalità sociali, con l’aiuto delle cooperative sociali, che hanno un know how, un’esperienza che ad esempio la Pubblica Amministrazione spesso non ha. Perché? Perché io ci guadagno? Ci guadagno due volte io come Comune. Perché pagare l’assistenza di un ragazzo handicappato a casa, tenendolo lì a non far niente, come un peso spesso per la propria famiglia, peso pesante, perché io ho conosciuto, ho parlato con genitori che hanno passato una vita intera a sostenere figli con forti handicap in casa o anche con handicap parziali. Io ho un costo economico netto passivo, ma se quella persona invece viene formata, viene inserita in un contesto lavorativo protetto, ovviamente, viene accompagnata da persone professioniste, quella persona si sente più utile, si sente gratificata e soprattutto dà una mano alla società. Quel sussidio io lo trasformo in una fonte positiva in quell’effetto moltiplicatore e noi abbiamo potuto cominciare a Firenze ad applicare questo principio del 5% negli appalti e nei servizi per l’inserimento, grazie alla collaborazione del privato sociale, perché c’è un tessuto di know how, di capacità di professionalità: questa è sussidiarietà. Sussidiarietà significa poter offrire alla comunità servizi, progetti che altrimenti la sola Pubblica Amministrazione non potrebbe offrire, perché non ha la capacità di farlo, però allora io devo ripensare il ruolo del pubblico che deve essere quello di controllore semmai, controllare che l’attività che mi svolge il privato, in luogo e per conto del soggetto pubblico, sia svolto secondo standard qualitativi, selettivi, che sia svolto come si deve, con dei risultati che siano tangibili. E qui chiudo. Anche qui vorrei farlo con una esperienza che ho avuto quest’estate con Andrea Simoncini e un po’ di amici a San Martino di Castrozza, in un’occasione in cui noi abbiamo riletto la pagina Uno di Tracce di Carrón sull’Europa, che io ho trovato molto felice, Giorgio, perché giustamente finite le elezioni europee nessuno più parla dell’euro, però dobbiamo continuare a parlare di Europa e giustamente Carrón lo fa dicendo che non si parla solo di Europa nei due mesi di campagna elettorale, altrimenti ci prendiamo in giro. C’è un passaggio in cui Carrón cita un passaggio di Giussani, che ho ritrovato nel bel librone di Savorana che ancora sto cercando di finire, non è facile, perché è un bel mattone, insomma voluminoso, ma incredibilmente interessante, quel passaggio in cui Giussani diceva: “La soluzione dei problemi che la vita pone ogni giorno, non avviene direttamente affrontando i problemi, ma approfondendo la natura del soggetto che li affronta”. E’ questa, ho riflettuto io, è la sfida quotidiana di un Sindaco. I Sindaci sanno che sono destinatari di qualunque problema anche se riguarda il Governo. Perdi la casa, vai dal Sindaco, perdi il lavoro vai dal Sindaco, c’è criminalità vai dal Sindaco, ovviamente, il vicino di casa. Il Sindaco non deve guardare solo al problema, ma prima di tutto si deve chiedere chi è la persona che è alle prese con quel problema, chi ha davanti. Perché se noi guardiamo meccanicamente al modello: c’hai un problema, risolvi un problema. Non c’è bisogno della politica, basta avere dei buoni burocrati che stanno lì meccanicamente, devi ripianare 27 buche, ripiana 27 buche. Hai un problema di criminalità crescente nella tua città, bene, raddoppia i vigili urbani. Ma il punto non è questo, perché se vai avanti così tu avrai progressivamente comunità sempre meno attive, più passive che ti fanno richieste dove tu invece di porti il problema di cosa stanno diventando quelle persone, ti poni solo il problema di come risolvere la questione in sé, il problema che ti viene presentato. Così non funziona, perché se io ho un problema di degrado, questo spesso è legato ad una degenerazione culturale, dietro il problema del degrado, dell’inciviltà, dietro il problema del mancato rispetto delle regole, dietro il problema dell’illegalità, c’è il tema della missione educativa, della sfida educativa della mia comunità e se io ho una comunità che rispetta meno le regole, che è meno tollerante, che è meno solidale, che non si chiede chi ha accanto, che non mette la persona al centro, posso anche avere il più bravo amministratore della città, ma non risolvo i problemi di fondo di quella comunità, perché il bisogno dell’uomo è un bisogno profondamente umano e allora io Sindaco mi devo chiedere perché nella mia città c’è più inciviltà, ci sono più multe, c’è più degrado. Evidentemente la mia comunità è malata e il primo problema è porsi il problema di come io miglioro l’uomo, miglioro la persona di quella comunità, lavoro sulla scuola, lavoro sulla cultura, lavoro sull’integrazione sociale, su una comunità più solidale, questa è la cosa bella di quella frase, che secondo me da un senso alla vita del Sindaco, all’azione di un Sindaco. E solo così puoi migliorare le comunità. Vi prego non valutate, non giudicate i vostri Sindaci solo con i numeri, con quante multe fanno, con quanti vigili mettono in strada, con quante buche, non è un alibi, non sto dicendo che non dobbiamo farlo questo, non c’è dubbio, ma valutateli guardando la vostra comunità, se siete, se siamo migliorati o no, perché se siamo migliorati forse quel Sindaco ha fatto qualcosa di buono, ma se abbiamo una città più pulita ma una comunità disgregata che non esiste più, secondo me quella città ha perso e alla lunga, con i soldi che sono sempre meno, diventerà decisamente più sporca. Grazie.

FLAVIO TOSI:
Per quanto riguarda la città di Verona, una breve fotografia per capire di che numeri si tratta. Noi abbiamo un bilancio di 300 milioni di euro circa, la parte corrente è quella che interessa la spesa sociale, 90 di questi sono spesi per il personale, un altro centinaio vanno sulle spese fisse (23 milioni per i mutui, 8 milioni per l’illuminazione, acquisti di beni e servizi, ecc.), in sostanza restano circa 100 milioni di spesa corrente disponibili, dove la giunta decide come spenderli. Gli altri duecento scarsi sono di fatto vincolati. Di quei 100, 50 e oltre milioni sono destinati alla spesa sociale nel suo complesso. La spesa fissa la abbiamo ridotta ogni anno di 2 milioni, quindi quei 200 milioni che è la spesa fissa l’abbiamo ridotta dell’1% all’anno e siamo arrivati a 14 milioni in sette anni di governo della città. Se lo Stato avesse fatto lo stesso, forse le cose in Italia andrebbero meglio ma i Comuni questo lo sanno fare. Non parlo solo per Verona perché penso che sia un fatto comune a tante altre comunità locali. Dicevo di questi 50 milioni per la spesa sociale: evidentemente questo vuol dire spesa sociale per le scuole, le mense, trasporto scolastico, sussidi a chi è in difficoltà, per le povertà estreme delle quali abbiamo parlato prima, per i minori in affido. Quindi varie tipologie perché, come è stato ricordato dal prof. Vittadini, il sociale di fatto oggi è una competenza principalmente in capo ai Comuni e in parte in capo alle Regioni, che attraverso le cosiddette Case di riposo danno un contributo alla gestione della spesa sociale per quanto riguarda la popolazione anziana. Una parte delle risorse per la spesa sociale viene quindi dal Comune, anzi la parte principale. In parte sono risorse che provengono dalla Fondazione bancaria della città. E questo è un fenomeno comune, nel nostro caso la Fondazione Cariverona, che da sempre finalizza la gran parte, se non la totalità dei contributi che dà agli enti locali, su sanità, sociale, cultura e cooperazione internazionale. Ultimamente ha aggiunto anche le strutture per l’istruzione, quindi l’edilizia scolastica. E quindi per fortuna la nostra Fondazione finalizza le risorse su quelle che poi sono le priorità per le famiglie e per i cittadini veronesi. Poi c’è la parte che è evidentemente propria del volontariato e del privato sociale e quindi ci sono gli enti universalmente conosciuti che possono essere la Caritas, il Banco Alimentare e una serie innumerevole per fortuna di associazioni di volontariato che collaborano con le strutture pubbliche per la gestione del sociale nel complesso. Non vuol dire solo sussidio ai poveri ma tutto il mondo articolato del quale abbiamo parlato. Cosa si può fare per la sussidiarietà? Non perché a uno piace la sussidiarietà, ma perché la sussidiarietà è uno strumento di gestione del bene comune che ha dei costi inferiori e dei vantaggi rispetto alla gestione diretta da parte del pubblico. Ci sono cose che si possono fare a livello regionale, cose che si possono fare a livello locale, cose che si dovrebbero fare a livello statale. Per quanto riguarda il livello regionale, per esempio, in regione Veneto da anni è stato istituito il contributo per le cosiddette badanti e questo è stata un’idea corretta da parte della Regione, perché se oggi non ci fossero le badanti e non ci fosse il contributo per le cosiddette badanti, probabilmente la spesa sociale per la gestione delle case di riposo sarebbe insostenibile. Oggi la cosa è ancora in equilibrio grazie alla presenza delle badanti. Se tutti gli anziani che oggi sono seguiti da badanti, dalle badanti e dai badanti, fossero seguiti in casa di riposo, i costi aumenterebbero a dismisura e quindi il sistema sociale probabilmente non riuscirebbe a reggere. Dicevo la Regione veneto cosa ha fatto? Ha istituito un contributo, che è anche significativo, a favore delle famiglie che con una badante danno la possibilità all’anziano di esser seguito in famiglia, con un beneficio per l’anziano, perché seguito in famiglia anziché in casa di riposo evidentemente la situazione dal punto di vista della qualità della vita è decisamente migliore, abbattendo la spesa pubblica per quanto riguarda l’assistenza, facendo emergere il nero, perché nel momento in cui hai il contributo devi avere un contratto regolare con il badante o la badante e quindi quella assistenza famigliare e quindi fai emergere del nero e quindi dai anche dignità al lavoro della persona che ti presta questa assistenza e quindi dai anche un aiuto concreto alla famiglia, perché così fa fronte a questo sacrificio con l’aiuto della comunità regionale.
Il Comune di Verona da qualche anno ha istituito anche dei corsi di formazione, perché evidentemente è meglio non improvvisarsi per questi ruoli, perché sono ruoli delicati e complessi, perché assisti una persona che ha delle complessità, è giusto anche che ci siano dei corsi di formazione favoriti dall’ente locale per poter appunto formar queste figure. E dal punto di vista occupazionale, la totalità di chi ha seguito questi corsi poi trova impiego perché è un fenomeno in continua crescita. E questo è un esempio dove si può collaborare al di fuori della struttura pubblica per gestire la spesa sociale. Ci sono esempi ancora più concreti come quello dei minori in affido, e i minori in affido sono una parte significativa dei bilanci sociali dei Comuni. Sempre parlando di numeri, a Verona in alcuni casi il costo per un minore affidato può raggiungere anche i 5.000 euro al mese. Ed è una cifra colossale. Un discorso è se fosse da assistere un anziano malato e quindi fornire un certo tipo di assistenza. Ma un minore affidato è un ragazzino che deve essere aiutato nella crescita e 5000 euro al mese in una struttura pubblica per sostenere questa spesa sono una cifra spropositata e fra l’altro insostenibile. Può sostenerla magari il Comune di Verona, ma non un Comune minore. Quello che immagino tutti sappiano è che è un obbligo per i Comuni farsi carico dei minori senza genitori. Un Comune medio grande può anche provare a sostenere questo tipo di spesa per alcune figure minorili, un Comune piccolo se gli capita di avere sul bilancio alcuni casi con i numeri che vi ho detto, rischia di saltargli il bilancio. E quindi quello che noi abbiamo fatto come Comune è stato quello di provare a spingere verso strutture diverse. Quindi strutture famigliari, strutture private convenzionate, in maniera tale che non ti devi rivolgere necessariamente al pubblico che ha i costi che vi ho appena preannunciato. Con due vantaggi: uno dei costi, perché evidentemente 5.000 euro al mese per minore è una cifra colossale e quindi puoi aver dei costi inferiori; secondo perché comunque è sbagliato nei confronti del minore farlo diventare maggiorenne in una struttura pubblica. Per carità, è una struttura pubblica con tutta la disponibilità di chi lo assiste, ma non è come stare in una famiglia o in qualcosa che assomiglia al modello famigliare. È un tipo di crescita decisamente diverso. E su questo i Comuni possono agire in questa direzione. L’altro tema importante sul quale ci siamo confrontati, per questo dicevo lo Stato dovrebbe fare la sua parte, è la questione delle scuole materne e degli asili nido. Perché in Italia la sussidiarietà, e quindi il fatto che dovrebbe esserci la cosiddetta paritaria, dovrebbe portare a un rapporto veramente paritario tra la struttura statale, detenuta e gestita dal pubblico e quella che è pubblico-privata convenzionata. Dicevo prima dovrebbe essere così, poi in realtà non è così. Perché sappiamo bene che in generale lo Stato la parità non la ha mai perseguita. Perseguire la parità vorrebbe dire che lo Stato dovrebbe dire il costo con determinati requisiti e con degli standard, come diceva il collega di Firenze (tu per fare formazione, per gestire un asilo nido, per fare istruzione devi garantire determinati standard di qualità perché ovviamente così deve essere) e io Stato metto a disposizione queste risorse, che tu sia pubblico oppure privato convenzionato, terzo settore. In questo modo crei una concorrenza positiva e in questo modo crei veramente parità e risparmi denaro pubblico. Quello che noi abbiamo fatto, abbiamo cercato di fare come Comune è stato insistere in questa direzione. La regione Veneto, da anni dà un contributo perché le famiglie possano cercare di avere la vera parità. Quello che abbiamo cercato di fare come Comune è implementare ogni anno il contributo alle scuole materne convenzionate, dato che comunque il costo per il Comune delle materne convenzionate resta di gran lunga inferiore a quello che è il costo delle materne comunali, detenute e gestite dal Comune. Però abbiamo cercato di andare in quella direzione, talvolta per motivi di forza maggiore, talvolta per motivi di scelta, perché se tu predichi la sussidiarietà devi anche praticarla. Noi abbiamo avuto come tutti i Comuni difficoltà nell’avere il turnover degli insegnanti. Abbiamo avuto anche un contenzioso, che non riguarda solo il Comune di Verona, forse riguarda anche Firenze, per quanto riguarda le scuole materne, perché c’è una cosa stravagante: tu hai i tuoi dipendenti del Comune che hanno il contratto enti locali, tutti, perché sono dipendenti del Comune. Una parte, gli insegnanti della materne avevano e hanno il contratto dello Stato, però sono dipendenti del Comune. Norme dello Stato dicono: “Il Comune non può avere dipendenti con il contratto dello Stato” perché è evidentemente cosa di buon senso. Si è aperto un contenzioso in termini di tribunale del lavoro, e quindi è una causa che va avanti da lungo tempo. Il problema non è la retribuzione ma sono le ore lavorate. Con il contratto enti locali sono 30 ore settimanali, con il contratto statale sono 25 ore settimanali. Intanto ci si aspetterebbe uno sforzo in questo senso anche perché un discorso è l’insegnante dei livelli superiori, ossia il maestro, i professori dei livelli superiori che hanno delle ore lavorative aggiuntive a casa dimostrabili, perché devono fare formazione, devono fare aggiornamento, devono correggere i compiti. L’insegnante del nido della materna evidentemente ha meno incombenze da questo punto di vista. E quindi si è creata questa situazione dove la scelta era o di accettare lo status quo oppure di dire “vi chiedo di fare questo sforzo” perché chiedere di lavorare 30 ore settimanali come tutti gli altri dipendenti che hanno il contratto enti locali per le materne, è una richiesta secondo me legittima. Però siccome ci siamo trovati in questa situazione, la scelta è stata quella di, anziché accettare lo status quo, quella di dire io come Comune ho una minor disponibilità di ore di lavoro da ripartire tra il corpo insegnanti” e quindi avrei la possibilità di seguire meno bambini nelle materne. Abbiamo fatto la scelta di dire “quanti bambini in meno vengono seguiti dalle scuole materne a causa di questa situazione? A questi diamo la disponibilità alle famiglie di dirci quanto pagavano prima nelle scuole convenzionate, qual è la differenza rispetto al costo del Comune, noi gli diamo la differenza e loro si rivolgono al privato convenzionato e hanno comunque, allo stesso costo – è la sussidiarietà piena – la possibilità di avere i figli seguiti con una struttura che ha gli stessi standard perché privato convenzionato”. Allora, e vado a chiudere su questo, sarebbe importante da parte del Governo, ed è un appello, non è una critica, che si dia la possibilità veramente di declinare nuove strutture e nuove forme di sussidiarietà. Perché noi siamo un Paese complesso, con delle regole rigidissime, con dei vincoli strettissimi, con dei parametri che talvolta sono antistorici perché non sono adeguati a quelle che sono le disponibilità finanziarie e tu devi dare gli standard anche in base ai soldi che hai e a quello che puoi fare. Altrimenti il sistema non regge. Sarebbe importante che lo Stato desse quindi più flessibilità agli enti locali nel poter sperimentare forme innovative di collaborazione tra il pubblico e il terzo settore, per poter avere gli stessi risultati con costi decisamente inferiori.

GIULIANO PISAPIA:
Allora, l’ora è tarda. Non faccio come un mio ex collega della mia precedente vita che ha detto iniziando un’arringa “sarò breve” ed è durato tre ore. Quindi mi limiterò a fare alcuni flash. Perché condivido, al di là delle differenze evidentemente non di collocazione politica ma di livello di città e di abitanti, le preoccupazioni, le riserve e soprattutto le richieste che provengono dai colleghi di Verona e di Firenze. È chiaro che su questo dobbiamo essere uniti, così come dobbiamo essere uniti su altre due cose. Una quella di essere capaci sempre di più di valorizzare, di coordinare, di facilitare tutte le forze e i soggetti attivi di una città. Questo secondo me è il concetto di sussidiarietà, che molti a sinistra a suo tempo hanno demonizzato senza capirne l’importanza e senza capirne sempre di più la necessità. Governare come avete capito è difficile, governare in un periodo di crisi è difficilissimo, spesso impossibile. Quando siamo andati con i sindaci da Papa Francesco, visto che è stato citato lo cito anche io perché per me è stato molto importante, per capire quello che lui viveva oltre a quello che lui diceva, lui ci ha accolto dicendo questa cosa che secondo me riassume quello che è l’orgoglio di essere Sindaco, le difficoltà che ci troviamo ad affrontare e la volontà di superarle insieme a quella che molti chiamano “la società civile”, a me piace molto di più la “cittadinanza attiva”. Ebbene Papa Francesco ci ha detto questa cosa: “Vedete io spesso mi sento e vivo quello che vivete voi. Quando vado a casa – e già questo mi ha fatto impazzire perché il Papa che ci riceve nella sua sede dice “quando vado a casa” – alla sera penso a quello che ho fatto e sono contento di quello che ho fatto. Penso subito dopo a quello che avrei voluto fare e che non ho potuto fare e divento triste e sono convinto che così è anche per voi sindaci”. Qui credo che quanto emerso oggi è proprio questo: da un lato l’orgoglio, dall’altro la volontà, dall’altro l’impegno, tristezza di non riuscire a fare quello che si riesce a fare. Allora io faccio due considerazioni: uno, perché oggi è possibile dire quantomeno “ho fatto quanto era possibile fare”, proprio perché c’è questa consapevolezza che da soli non ce la si fa e quindi c’è una grande volontà di collaborazione, una grande decisività. Io credo che dal punto di vista di quello che è il nostro pensiero è proprio un cambiamento, almeno per quanto mi riguarda evidentemente, non mi permetto di parlare per i colleghi, un cambiamento di pensiero, cioè il privato non è necessariamente male. Col privato ci si può alleare se l’obbiettivo è comune; il non-profit, il profit, l’associazionismo sono realtà vive con cui è utile per loro, per noi, per la comunità, lavorare insieme, perché gli obbiettivi sono quasi sempre gli stessi, e queste sono le ricchezze che ci portano a superare invece le povertà delle nostre città. Avevo questo dato che avevo già citato prima in conferenza stampa che voglio però ricordare: da quando è nato, il federalismo fiscale che avrebbe dovuto comportare che ai Comuni venivano assegnate le proprie imposte, e il Comune poteva poi spenderle per il welfare sociale, per tutte le necessità. Ebbene da quando c’è questa norma di federalismo fiscale che è diventata norma diciamo costituzionale, ai Comuni sono stati sottratti oltre sette miliardi e mezzo di euro, in una situazione in cui i bisogni sono triplicati, solo negli ultimi due anni i bisogni sono triplicati. Allora prima una piccola battuta che è una realtà: i bisogni sono triplicati e, parlo per Milano, la popolazione anziana che ha bisogno, è aumentata in maniera assolutamente incredibile. Racconto questo fatto vero. Un giorno valutiamo che non abbiamo più la possibilità di dare l’ambrogino d’oro a tutti i centenari, abbiamo deciso di dare un omaggio meno costoso e quindi una foto di quel periodo, di quando sono nati, e abbiamo dovuto valutare quanti centenari ci sarebbero stati nei prossimi tre anni per gli investimenti necessari in spesa corrente. Ebbene mi è arrivata una delibera, che per fortuna ho letto, perché quella delibera diceva che nel 2013 tot numero di centenari, 2014 tot cittadini milanesi compiono cent’anni, nel 2015 tot cent’anni, la somma era 1319 nuovi centenari nel triennio; peccato che vicino c’era “salvo decessi”. Io per fortuna me ne sono accorto, perché sono abituato a leggere le delibere e chiaramente ho tolto quel “salvo decessi”, però anche gli aiuti evidentemente, a chi è anziano e ha più bisogno, soprattutto se malato, sono triplicati. Quindi i bisogni sono triplicati, le necessità sono triplicate, i fondi sono dimezzati, ecco la fondamentale importanza di un cambio di mentalità anche, e parlo per me, a sinistra rispetto alla necessità di collaborazione, di lavorare insieme, di mettere assieme le forze, perché più debolezze insieme creano, soprattutto quando le debolezze sono materiali, grande ricchezza. Io credo che questo sia il grande passo avanti che voi ci avete aiutato a fare. Abbiamo molto da imparare, abbiamo anche molto della nostra storia che insegna che il tema della solidarietà ci unisce. Io credo che questo momento di dibattito sia stato un momento importante, forse abbiamo parlato delle nostre angosce, delle nostre volontà, del nostro impegno, ma come dico sempre senza l’impegno di tutti non ce la potremo fare, con l’impegno di tutti ce la possiamo fare. Concludo ragionando su una frase che mi riporta a Expo Milano 2015. Non posso non concludere, ma veramente solo un minuto, su Expo Milano 2015. A me dispiace in maniera enorme il fatto che si parli di Expo solo in termini critici, solo sui lati e dati negativi. Considerate che sui giornali si parla di tangenti Expo, ebbene in quelle ordinanze di custodia cautelare, che hanno portato all’arresto di una persona infedele, che era giusto arrestare e su questo il Comune ha dato il proprio contributo di conoscenza e di informazione, le tangenti Expo riguardavano solo un decimo del complesso, il resto era altro, non voglio entrare nel merito, ma nulla che aveva a vedere con Expo. Quindi c’è sicuramente stata una mela marcia, questa mela marcia è stata arrestata al momento giusto, e quindi la polemica doveva finire: chiaramente bisogna non abbassare la guardia. Per Expo voglio dire anche che ce la faremo, arriveremo in tempo, ma che è fondamentale che si ritorni a parlare dei temi di Expo, che sono il lascito più importante che l’esposizione universale può dare al futuro del pianeta: la lotta alla fame nel mondo, la lotta agli sprechi alimentari, e credo che su questo sia importante l’esperienza che conoscevo, chiaramente, del Banco Alimentare, come del Banco Farmaceutico, e dall’altro la sana alimentazione. Su questo come Comune di Milano stiamo lavorando con le grandi metropoli mondiali, quelle che fanno parte del C40, l’associazione delle grandi metropoli mondiali, che si occupa di ambiente, per creare una food policy che sia condivisa a livello di città metropolitane e che non sia un sogno, un volo pindarico rispetto ad obbiettivi che non si possono ottenere, ma che invece abbia un’identità comune di obbiettivo, comprenda una sottoscrizione da parte delle grandi città metropolitane mondiali perché ci sia una food policy che possa portare a una diminuzione degli sprechi alimentari, quindi a eliminare anche parte di quelle situazioni che si vivono nelle periferie del mondo e nelle periferie delle città. Ecco, io ho qua due sindaci di grandi città italiane, credo che su questo, anche, possiamo trovare un modo per firmare e sottoscrivere durante Expo 2015, a livello di grandi e piccoli Comuni italiani, una food policy che possa portare quantomeno nei nostri territori a eliminare gli sprechi alimentari, perché non è più concepibile che ci sia chi abbia troppo e butti via quello che non riesce a consumare e chi non abbia nulla e non arrivi neppure alla fine della giornata con un cibo normale. Grazie a tutti.

GIORGIO VITTADINI:
Mi sembra che il dibattito ci dia motivi di speranza, perché come diceva Cazzullo sul Corriere l’altro giorno, di certi temi un po’ di anni fa non si parlava neanche. Oggi temi come la sussidiarietà ma anche come la solidarietà, una ricostruzione delle città, come abbiamo detto, sono diventati argomenti comuni, e non argomenti di una parte, argomenti pluralistici, culturali. Allora mi sembra che lo spirito di questo Meeting, mettere a tema queste periferie perché l’uomo torni al centro, sia un tema che riguarda tutti gli aspetti, non solo quelli religiosi, umanitari, artistici, ma anche quelli della politica. C’è la possibilità di un cammino insieme che si apre proprio in un momento di crisi come questo, e questo è l’auspicio con cui chiudiamo questo incontro ma non la collaborazione con i qui presenti Sindaci e in generale. Grazie.

Data

26 Agosto 2014

Ora

19:00

Edizione

2014

Luogo

Sala Neri CONAI
Categoria
Incontri