NUOVI ITALIANI, NUOVI EUROPEI. I giovani e le sfide della società multietnica

Nuovi italiani, nuovi europei. I giovani e le sfide della società multietnica

Partecipano: Eraldo Affinati, Scrittore, Insegnante e Presidente dell’Associazione Penny Wirton; Valeria Fedeli, Ministra dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca; Giorgio Paolucci, Giornalista. Introduce Elisabetta Soglio, Giornalista de Il Corriere della Sera.

 

ELISABETTA SOGLIO:
Buon giorno a tutti, buon pomeriggio. Sono Elisabetta Soglio, una giornalista del Corriere della Sera. Sono molto contenta di essere qui, di essere tornata al Meeting di Rimini, perché ha ragione il presidente Violante che ho intervistato qualche giorno fa, qui si pensa ai giovani, qui si pensa a formare i giovani e qui ci sono grandi possibilità per scambiare opinioni. Cercheremo di farlo anche questo pomeriggio parlando di un tema importante e molto di attualità anche in questi giorni, anche se, poi vedremo, in questi giorni è di attualità in una chiave negativa. Noi cercheremo di parlare della possibilità di fare integrazione raccontando esperienze positive di giovani di seconda generazione, non solo in realtà, che sono pienamente integrati nella nostra società, quindi cercheremo di approfondire queste storie che poi sono le storie di una delle mostre del Meeting, “Nuove generazioni: i volti giovani dell’Italia multietnica”, che è curata, tra gli altri, da un nutrito gruppo di persone e tra gli altri da Giorgio Paolucci, giornalista, scrittore, è stato anche il mio capo ad “Avvenire” tanti anni fa, quindi diciamo lo tratto molto bene, anche un po’ per riverenza che ti rimane nella vita. Abbiamo con noi ospiti il Ministro Valeria Fedeli della Pubblica Istruzione, che ringraziamo di essere anche lei ospite al Meeting di Rimini, e abbiamo anche con noi Eraldo Affinati, che è scrittore, lo amate molto, portatore delle scuole Penny Wirton, che ha preparato, tra l’altro, la prefazione al volume che illustra questa mostra, se non l’avete vista andate a vederla perché è veramente straordinaria, e soprattutto in giorni come questi dove siamo ancora tutti molto colpiti dall’ennesimo attentato che ha colpito Barcellona, una città comunque vicina a noi, ci aiuta forse a ridimensionare i nostri giudizi, o quanto meno ad avere una visione più ampia e più complessiva del problema dell’immigrazione. Io lascerei subito la parola a Giorgio Paolucci che magari ci aiuta proprio a illustrare brevemente i contenuti della mostra, so che ha anche un video da farci vedere, quindi, Giorgio, lascerei la parola a te.

GIORGIO PAOLUCCI:
Bene, grazie, vi aspettiamo ovviamente tutti alla mostra ma vi diamo un piccolo aperitivo con questo video che vediamo tra poco, che fa vedere subito qual è la prospettiva con cui ci siamo messi di fronte a questo spaccato d’Italia, che è la prospettiva dell’incontro, la prospettiva di far parlare questa realtà anziché metterci a parlare addosso a questa realtà; quindi prima di tutto vorrei farvi vedere questo video .

Video

Ecco, è un piccolo spaccato dell’Italia che abbiamo voluto raccontare in questa mostra, dare visibilità a quello che c’è. Alcuni dopo la mostra sono venuti a dirci, alcuni visitatori: “ma non pensavamo che le cose fossero già così, pensavamo che questo fosse il futuro, e invece è il presente”. Il presente fatto da un milione e mezzo di giovani, minorenni, figli di immigrati che sono arrivati qua, ragazzi nati in Italia oppure bambini che sono arrivati qua da piccoli, hanno raggiunto i genitori, hanno frequentato le nostre scuole, stanno diventando un pezzo dell’Italia che cambia, un pezzo dell’Italia multietnica, sono un nuovo volto di come si può essere Italiani, aldilà di quello che c’è scritto sul passaporto, sulla carta d’identità, hanno un grandissimo desiderio di appartenenza, di appartenenza alla nostra società, non solo dal punto di vista linguistico, ma anche dal punto di vista valoriale, un desiderio di amicizia, un desiderio di fare società insieme, di con-vivere. Un milione e mezzo, dicevo, di questi nuovi italiani, ottocento quindicimila sono gli studenti stranieri che vanno a scuola, dalla scuola dell’infanzia fino alla scuola superiore, 9% del totale della popolazione scolastica, e sei su dieci sono nati in Italia, quindi fin da piccoli condividono il destino dei nostri figli e dei nostri nipoti. E questo è il tentativo che la mostra fa, è proprio il tentativo di valorizzare l’esperienza, di raccontare quello che c’è, e non di fare della sociologia, non di fare della statistica, non di fare della politica anzitutto, ma di dare atto del grande cambiamento che è in atto nel nostro paese, quindi la prima parola chiave della mostra è la parola cambiamento, e per testimoniare questo cambiamento credo che noi abbiamo anche il compito e, se mi permettete come giornalista, credo anche il dovere, di cambiare la narrazione, cioè di rendere la narrazione di questi temi meno ansiogena, meno legata ai fenomeni drammatici e negativi che pure ci sono, e rispetto ai quali non dobbiamo assolutamente chiudere gli occhi, ma di far vedere che questa foresta silenziosa sta crescendo, sta cambiando la pelle e i parametri della nostra società. Quindi una mostra non da leggere ma anzitutto da vivere, pensiamo che la nostra mostra sia un po’ un piccolo avvenimento, un cantiere aperto, anche per chi verrà a visitarla vedrà come l’abbiamo concepita, con spazi aperti dove è possibile vedere dei video che parlano della scuola, della famiglia, delle società sportive, dei gruppi di aggregazione dove questi giovani incontrano altre persone, e soprattutto di coinvolgere i visitatori in un’esperienza. Facciamo due incontri al giorno in cui abbiamo invitato i protagonisti dei sette video che abbiamo girato a farsi conoscere dai visitatori, dal popolo del Meeting…

ELISABETTA SOGLIO:
Prima c’era il cinese dei ravioli a Milano!

GIORGIO PAOLUCCI:
Prima c’era il cinese, sì, c’era un cinese che ha inventato una ravioleria in Via Paolo Sarpi, nella chinatown milanese, insieme a uno dei più antichi macellai milanesi, quindi un esempio di come l’amicizia e la convivenza può creare anche impresa, un impresa del bene, potremmo dire!

ELISABETTA SOGLIO:
Esatto!

GIORGIO PAOLUCCI:
Poi parleremo di questo. Quindi la prima parola è la parola cambiamento, fotografare un cambiamento che c’è già, che è già in atto. La seconda grande parola che la mostra propone è un viaggio dentro la parola tradizione, e quindi dentro la parola eredità che il Meeting ha messo nel suo titolo prendendolo dal Faust di Goethe. Ed è interessante ad esempio notare, lo facciamo vedere all’inizio della mostra, che questa parola tradizione è molto presente nella testa e nel cuore dei ragazzi delle nuove generazioni. Noi abbiamo messo all’ingresso due frasi, una di un celebre teologo cattolico, Romano Guardini, che scrive: “Nella monotonia del puro proseguire, noi soffocheremmo”, cioè la tradizione non può essere semplicemente la ripetizione meccanica di valori e di esperienze ma ha bisogno sempre di esser fatta propria dai giovani, dev’essere misurata con la libertà delle persone, non posso semplicemente concepire la tradizione come un sacco che mi porto dietro le spalle, a un certo punto questo sacco lo devo aprire e vedere se quello che c’è dentro mi corrisponde, se è qualcosa che funziona per costruire la mia felicità, e questa è un’operazione che i giovani delle nuove generazioni fanno, perché hanno alle spalle tradizioni spesso molto lontane, molto diverse da quelle dell’occidente, e le confrontano con quelle che l’occidente gli propone.

ELISABETTA SOGLIO:
Giorgio, ti interrompo ma perché secondo me quest’esperienza di confrontarsi con la tradizione poi è anche un’esperienza dei giovani italiani, perché anche i giovani italiani si misurano con la tradizione dei loro genitori che oggi è distante anni luce perché sappiamo che, come dire, le generazioni cambiano molto velocemente quindi è un tema che poi alla fine riguarda tutti no? Confrontarsi con una cultura poi per trovare un’identità, è una cosa che accomuna i giovani italiani e i giovani nati da genitori stranieri…

GIORGIO PAOLUCCI:
Infatti una delle cose più interessanti che abbiamo riscontrato andando in giro per l’Italia nei mesi scorsi a fare queste interviste è vedere questa corrispondenza, cioè vedere che il modo con cui si guarda al passato e con cui si considera se il passato può essere una cosa utile al presente è solo la verifica della corrispondenza, cioè se questo passato mi corrisponde, mi dice qualcosa di vitale lo prendo, se è solo per dovere non lo prendo più, e questo lo fanno sia i giovani figli di immigrati sia gli italiani tout court, in questo senso la mostra è una mostra che, illuminando un mondo, ci ributta la palla addosso, cioè ci costringe a rifarci questa domanda rispetto a come stiamo nei confronti dei nostri figli o nei confronti dei nostri nipoti. E la terza parola chiave è la parola identità. I giovani percepiscono l’identità come qualche cosa che è in evoluzione, non una cassaforte nella quale metto dei valori e li chiudo a chiave per paura che qualcuno li venga a rubare, li venga a corrompere, l’identità non come una corazza che io indosso per combattere contro il nemico che sta invadendo il mio territorio, ma l’identità come una serie di certezze su cui la mia vita è radicata e, nello stesso tempo, come una grande apertura, un’apertura verso l’altro, l’identità si compie solo nella misura in cui è capace di incontrare tutti, non nella misura in cui si chiude in una torre, pensando di poter difendere il territorio, la vera identità è un’identità capace di incontrare tutti in forza delle certezze che la animano, non posso dire “tu”, non posso dire “io” se non dico “noi”, la pienezza dell’io si realizza nell’incontro con l’altro, e questo è molto evidente in questi giovani che arrivano in Italia da piccoli o nascono in Italia con un patrimonio molto diverso da quello nostro ma capiscono quanto l’incontro col nostro patrimonio li può arricchire, e in questo senso a mio parere possono anche un indicare anche una direzione, quando diciamo che si vuole “difendere” l’identità italiana a volte questa parola può essere fraintesa, può essere strumentalizzata, l’identità italiana non è, ripeto, un orto chiuso, ma è qualche cosa che è sempre stata capace nei secoli di fare i conti con le persone che in Italia arrivavano, che l’Italia la invadevano ma che ne venivano contaminati. C’è un saggio al termine del catalogo della nostra mostra che racconta proprio questo, l’Italia da sempre terra di contaminazioni, l’Italia da sempre terra che è stata capace di farsi contaminare e di contaminare chi arrivava, l’esperienza che viene dalla costruzione di questa mostra ce lo conferma, cioè il fatto che questi giovani hanno voglia di interloquire con noi e ci rendono capaci di aprire il nostro orizzonte a quello che è l’Italia del futuro, un’Italia che farà sempre di più i conti con questa nuova realtà e che da questa nuova realtà potrà, io credo, arricchirsi.

ELISABETTA SOGLIO:
Grazie Giorgio. Una mostra, diceva Giorgio, che non parte da dati, da statistiche, parte dal racconto di storie, volti, storie, esperienze, forse anche per questo è una mostra molto immediata e con cui è facile poi interagire e trovarsi. Questo metodo delle storie, delle testimonianze è un metodo su cui anche Eraldo Affinati ci può aiutare, perché l’esperienza delle scuole Penny Wirton sono esperienze basate su storie, quindi io ti direi: aiutaci a capire come tu hai già sperimentato la possibilità di integrazione in questi tuoi dieci anni di attività.

ERALDO AFFINATI:
Guardi, io partirei dalle fotografie che abbiamo recentemente visto sui giornali di quei terroristi marocchini che erano giovanissimi, il più piccolo aveva diciassette anni, i più grandicelli venti, ventuno, ventidue anni. Io ho insegnato per tanti anni alla “città dei ragazzi”, proprio a ragazzi così alle porte di Roma, appunto in questa comunità educativa che accoglieva immigrati minorenni non accompagnati, e ho conosciuto molti di questi ragazzi. Ma poi ieri uno di loro, a cui ho dedicato anche un libro appunto intitolato “la città dei ragazzi”, in cui racconto il viaggio che ho fatto in Marocco, andando a ritrovare , diciamo così, i luoghi della partenza di questi miei studenti, proprio ieri uno di loro mi ha mandato una fotografia di suo figlio, suo figlio che era nato, e in qualche modo testimoniando, come dire, un cerchio chiuso, e quindi istintivamente ho pensato: da una parte abbiamo avuto il terrorista, dall’altra parte abbiamo avuto un cittadino italiano come questi che abbiamo appena visto nei filmati. “Che cos’è” ho pensato dentro di me “cos’è che non ha funzionato in Spagna nel momento in cui alcuni di questi si sono radicalizzati e cosa invece ha funzionato in Italia quando i miei studenti, molti di loro li vedo che oggi sono risorti, hanno trovato lavoro? Ecco la risposta è: la scuola. La scuola, gli adulti credibili che questi ragazzi hanno trovato. La prima domanda che mi faccio quindi è: chi è l’adulto credibile? In quale modo noi possiamo rappresentare per questi ragazzi in qualche misura, una esperienza fondativa, formativa, farli diventare grandi? L’adulto credibile è quello che compie una scelta, che dice: “io tra tante possibili strade, scelgo di praticare questa strada e te la offro a te adolescente come punto di riferimento”. Se l’adulto non fa questo, se l’adulto resta eternamente giovane, da un punto di vista spirituale prima ancora che anagrafico, quell’adolescente potrà in un primo momento seguirlo, magari affascinato dalla sua posizione, però immediatamente lo abbandonerà, perché i ragazzi hanno bisogno di certezze, di punti saldi. Io ho insegnato trent’anni italiano e storia negli istituti professionali di stato a ragazzi dai quattordici ai diciotto anni prima di dedicarmi ai ragazzi immigrati con la fondazione della scuola Penny Wirton insieme a mia moglie Anna Lucelenzi. Cosa ho capito? Ho capito che in fondo oggi dobbiamo rifondare l’esperienza, il senso vero, il senso pieno dell’esperienza. Oggi molto spesso le nostre parole non sono legittimate, sono parole libere, sono parole gratuite, sono parole che vanno, diciamo così, per conto loro, non sono radicate dall’esperienza. Ecco perché i ragazzi ci abbandonano, ecco perché gli adolescenti scappano, ecco perché a volte molte delle nostre, diciamo, vite non sono per loro affascinanti, non sono più dei punti di riferimento.
Alla scuola Penny Wirton noi abbiamo pensato di rinnovare qui ed ora il sogno di Don Lorenzo Milani a cui ho dedicato il mio ultimo libro intitolato “L’uomo del futuro”. Pensare di fare una scuola, che prende il nome da un grande romanzo per ragazzi di Silvio Darzio intitolato “Penny Wirton e sua madre”, pensare di fare una scuola basta sulla qualità della relazione umana e questo è facile da dire, ma è difficile da mettere in pratica. Quando un professore entra in classe e ha di fronte venticinque ragazzi, uno diverso dall’altro, ci può essere il DSA, il BES, quello bravo, l’L2, il “seconda generazione”, il neo-arrivato e deve ricondurre tutti ad un disegno unitario, di fronte alla pagina dei “Promessi sposi” o dei “Malavoglia” di Verga, devi riuscire a, come dire, trasmettere la tradizione, devi formare la coscienza di questo ragazzo, ecco, tu come insegnante ti devi mettere in gioco, non puoi pensare di recitare un ruolo, non puoi pensare di distribuire, come se fosse un traffico concettuale, la tradizione, spiegare il programma e mettere il voto. Allora io ho cercato, nella Penny Wirton, di realizzare questo incontro umano. Ecco, la prefazione che ho fatto al libro che illustra questa mostra, di cui abbiamo visto i filmati, si intitola “La sfida dell’incontro”, perché è una sfida, perché non è tutta “rose e fiori”, non è “abbracciamoci e vogliamoci bene”, significa capire chi sei tu, chi sono io, da dove vieni tu, da dove vengo io, ecco perché sono andato in Marocco a vedere da dove venivano Omar e Faris, ecco perché sono andato in Gambia a vedere da dove veniva Kalik. Volevo capire quali erano i punti della partenza, volevo conoscere non la foce, perché noi la conosciamo quando arrivano a Lampedusa, arrivano in Italia, volevo conoscere la sorgente, capire da dove vengono. E allora ho pensato che la Penny Wirton potesse rappresentare anche il luogo di questo incontro. Ma tra chi avveniva questo incontro poi? Tra i liceali italiani, i ragazzi delle scuole medie superiori e i loro coetanei immigrati. E vi assicuro che quest’anno, che abbiamo fatto circa trenta convenzioni con licei, soltanto a Roma, per favorire tirocinii formativi di questi nostri studenti, che insegnavano italiani ai loro coetanei immigrati, quest’anno ho avuto uno degli spettacoli per me più belli, che insegno da tanti anni: vedere, non so, Giulia, del liceo Virgilio di Roma, quindi la ragazzetta di diciassette anni, figlia della buona borghesia romana, che si mette seduta di fronte a Rashedur, appena arrivato dal Bangladesh, analfabeta nella lingua madre, che non aveva mai tenuto una penna in mano, ecco, vedere questi due adolescenti, che mai e poi mai si sarebbero incontrati, se non ci fosse stata quella piattaforma che, in qualche modo, avevamo creato per loro, questi due adolescenti incontrarsi. Ed ecco che Giulia insegna il verbo essere, il verbo avere a questo suo coetaneo bengalese. Uno spettacolo sensazionale. L’idea che l’Italia in questo momento possa essere il laboratorio antropologico della nuova Europa, ecco, di fronte a me, con questa scuola, Penny Wirton, inventata dal niente, sostanzialmente, io e mia moglie, due insegnanti abbastanza irrequieti, non contenti tutto sommato di quello schema chiuso che in fondo però avevamo sperimentato per tutta la nostra carriera scolastica, che si inventano una scuola in cui chiamano a raccolta il paese, un paese molto ma molto più bello di quello che noi vediamo in televisione, un paese disposto a lavorare gratis, a fondo perduto, e questo è importante, a fondo perduto.
Io vi ringrazio di questa testimonianza perché sento, diciamo, una tensione che in fondo ci accomuna, che è quella di chi vuole uscire dal sistema retributivo che ci governa: io ti do e tu mi dai, e io quindi non ti do se tu non mi dai. No, non è questo. Noi abbiamo dei volontari, e sono ormai centinaia, in tutta Italia, a partire dalla Sicilia fino in Friuli, e qui in Emilia abbiamo alcune sedi importanti a Forlì e a Faenza, abbiamo dei volontari che si mettono in gioco gratuitamente, non solo ex-insegnanti, anche persone che vengono da altre esperienze e che rivelano in questa attività una attitudine pedagogica spesso a loro stessi ignota. Ma voglio chiudere questo mio primo intervento ricordando Giulio, che per me è stato, diciamo, lo studente mio di riferimento, al quale ho dedicato il mio libro intitolato, significativamente, “Elogio del ripetente”. Chi era Giulio? Giulio era stato bocciato in prima liceo scientifico, era stato bocciato all’istituto nautico e stava per essere bocciato anche all’istituto Carlo Cattaneo, dove io insegnavo, perché aveva dei comportamenti che i professori in qualche modo sanzionavano, anche perché lui rifiutava il sistema di valutazione che lo aveva già condannato e stava quindi per andare ad ingrossare le file lunghissime e dolorose della dispersione scolastica. Un giorno lo presi da parte e gli feci questa proposta fortissima, dico: “ormai tu la scuola vedo che stai proprio ai limiti, ma perché non vieni con me, oggi pomeriggio, che andiamo ad insegnare italiano agli immigrati?” e questo ragazzo, all’inizio perplesso, che mi dice: “professore, proviamo, facciamo questa prova, oggi pomeriggio vengo, alle due esco da scuola” e me lo vedo tutti i martedì pomeriggio, Giulio che viene tutto l’anno a fare l’insegnamento dell’italiano agli immigrati, ma chi, proprio lo stesso ragazzo che era stato irrequieto? Lo stesso che era stato bocciato? Lo stesso che era stato indisciplinato? Lo stesso che era stato ribelle? Sì, proprio lui. Si trasforma in volontario e mi aiuta a dividere anche gli altri ragazzi quando c’erano delle tensioni fra loro, intervenendo e frapponendosi fra di loro, come se fosse già un piccolo educatore. Per me quella è stata una delle cose più belle che ho visto nella mia lunga carriera d’insegnante ed è quella la ragione per cui ho pensato: qua dobbiamo lavorare, dobbiamo lavorare per fare in modo che l’esperienza del priore di Barbiana non resti inascoltata.

ELISABETTA SOGLIO:
Bello eh? Signor Ministro… è bella questa cosa di una scuola dove si guarda alla qualità della relazione umana, di una scuola che è laboratorio antropologico di un nuovo modo di stare insieme e di convivere.

VALERIA FEDELI:
È assolutamente una cosa straordinaria, poi Affinati lo sa… intanto ringrazio dell’invito, sono particolarmente contenta di essere qui a questo dibattito, perché mi aggancio subito ad una delle cose che qui sono state presentate. In realtà i video che cosa ci dicono? Io vorrei partire da questo: i video ci dicono che poco si racconta della qualità della scuola italiana, della qualità dell’insegnamento italiano, della qualità della relazione umana nella scuola, perché queste testimonianze, che abbiamo visto prima e sono visibili completamente nella mostra, che anch’io invito, a vedere ci dicono che in realtà la scuola italiana è una scuola che include, non solo abbiamo l’esperienza della scuola di Barbiana, cinquant’anni fa, l’abbiamo ricordata quest’anno, ma c’è proprio concettualmente, nella scuola italiana, l’inclusione, che ha due caratteristiche: includi perché la scuola serve esattamente a convivere insieme tra differenze. Io vorrei sempre ricordare qui che la scuola italiana è l’unica scuola in Europa che include i diversamente abili, voi sapete che negli altri paesi europei ci sono ancora le classi differenziate. Ecco, per dire che bisogna raccontarla la scuola italiana e nel raccontare la scuola italiana, la scuola inclusiva, significa che noi abbiamo nel nostro DNA culturale, nell’esperienza, come viene detto e come veniva raccontata, anche quella che fa Affinati, molto importante e significativa, il fatto che accogliere però è integrare, attenzione, non è inserire, non è che prendo, ti inserisco in un contesto che non cambia, è una reciproca ricchezza. A me piace molto il concetto che veniva espresso prima, cioè: i nuovi italiani, guardate che sono anche le nostre ragazze, i nostri ragazzi, i nostri figli, i nostri nipoti che crescono dentro a classi che sono composte diversamente, gli 815.000 ragazze e ragazzi che frequentano le nostre scuole sono una ricchezza reciproca, come una ricchezza reciproca sono le diverse situazioni, le diverse umanità, le diverse caratteristiche che i singoli hanno. Ecco, io credo che questa sia la prima cosa che vada affermata. La seconda però che voglio affermare qui è che ci sono contraddizioni in questo percorso, che è facile qua fra di noi, dirlo, affermarlo, ma guardate ci sono altre due cose che sono significative, se vogliamo proseguire, da questo punto di vista, a rendere la scuola italiana il punto di volta anche per corrispondere al riappropriarci di quello che ci hanno consegnato le nostre generazioni, i nostri padri. La scuola è il motore di questo cambiamento. Poco, secondo me, in questo paese, si riconosce la funzione generale dell’istruzione, dell’educazione. Sembra che sia un tema che riguardi soltanto il Ministero della Pubblica Istruzione, dell’Università e della Ricerca, guardate, il tema dell’educazione, dell’istruzione, riguarda l’insieme della società se vogliamo davvero puntare a che le nuove generazioni costruiscano attraverso conoscenze, competenze, qualità di relazione umana una società differente.

ELISABETTA SOGLIO:
Cioè, le nuove società nascono dalle scuole?

VALERIA FEDELI:
Nascono assolutamente dalle scuole. Però nascono dalle scuole se alle scuole si riconosce una funzione generale per il paese, se alle scuole si riconoscono i valori che sono espressi. Guardate, la finalità della scuola è ovviamente la formazione e l’educazione delle studentesse e degli studenti, punto centrale. Ma come la si fa la scuola? Noi non possiamo restare un paese che non fa e non da riconoscimento culturale e sociale agli insegnanti, ai presidi, a tutto il personale che opera dentro la scuola, perché sono loro che poi, concretamente, quotidianamente, fanno vivere l’insieme delle responsabilità che si hanno, perché guardiamo anche alle esperienze di volontariato, è vero, ma il sistema scolastico è lungo e largo nel nostro paese, anzi, dovrebbe includere di più, aumentare i livelli di istruzione, di partecipazione, ma chi regge tutto questo? Lo reggono esattamente gli insegnanti, i docenti, l’insieme del personale. Ecco perché io penso che quando si parla, ed è fondamentale, di nuovi italiani, significa però saper investire sul serio in una qualità culturale e formativa più forte, le nostre insegnanti, i nostri insegnanti lo fanno. Guardate, sì, ho capito la cosa che diceva Affinati, mi permetto di dirla: va bene, non devi avere solo uno scambio tra “ti do”, la mia competenza, la mia professionalità, e il riconoscimento economico, ma guardate, non può andare lontano un paese in cui nella graduatoria nazionale le retribuzioni dei docenti sono le più basse di tutta la pubblica amministrazione, non è possibile, perché vuol dire non riconoscere valore a questa funzione. Lo dico perché questo è un altro degli elementi importanti, noi non possiamo continuare a chiedere, e giustamente, perché la scuola è un punto di volta decisivo, il meglio per le nostre ragazze e per i nostri ragazzi e non supportarli con nuove competenze, nuova didattica, nuova qualità dell’insegnamento, anche perché su questo io penso che gli investimenti che abbiamo avviato siano assolutamente importanti. Siccome so che devo essere stringata chiudo con una cosa: in fondo la scuola se non è questo, se non include non è scuola, lo diceva, non io, ma don Milani, la scuola per chi già ce la fa è parziale, come un ospedale non lo fai per chi è sano, lo fai per chi ha bisogno esattamente di avere più strumenti anche di conoscenza e di convivenza. Poi in un mondo che è interdipendente che è già cambiato se vogliamo davvero puntare su i nuovi italiani, le nuove italiane, la scuola è centrale, dobbiamo farlo diventare un tema di tutto il paese però.

ELISABETTA SOGLIO:
Grazie Ministro, ma quindi ci ha anche annunciato che farà una battaglia, guardi che a lei le scappano via le parole

VALERIA FEDELI:
Ha ragione.

ELISABETTA SOGLIO:
Farà una battaglia per le retribuzioni degli insegnanti?

VALERIA FEDELI:
Io lo faccio, guardate il problema non è un fatto demagogico, certo che lo faccio, ma lo faccio perché diventa importante. Se tu hai una competenza, una professionalità che consideri importante per l’insieme del paese tu la devi socialmente riconoscere, e se la riconosci socialmente la devi anche riconoscere dal punto di vista retributivo e anche dal punto di vista della funzione numericamente espressa, se no non è vero. Ma è giusta questa battaglia, perché è una battaglia che rimette al centro il valore dell’educazione permanente. Guardate non lo dico io, utilizzo una frase che a me ha molto colpito, mi appartiene per storia, ma insomma che mi ha molto colpito in un recente incontro anche con Papa Francesco, quando lui a 7000 ragazzi che abbiamo incontrato insieme nella sala Nervi dice: “La sfida è la sfida all’educazione, alla comunità educante, ma la comunità educante è fatta di tante parti, è fatta della scuola, dei componenti della scuola, è fatta dai decisori politici, ma è fatta dall’insieme della società. Se tu marginalizzi chi sta nella scuola non c’è dubbio che poi non affronti nemmeno, mi permetto di dirlo, un rapporto tra i nuovi italiani, quelli che hanno origini differenti, che tu, diciamo, in qualche modo metti all’interno della scuola in una relazione nuova e positiva con l’insieme delle realtà italiane, ma c’è un rapporto nuovo che dobbiamo anche creare con i territori, con le famiglie che stanno nei territori. E qui secondo me c’è una seconda sfida che è il rapporto tra comunità educante della scuola e famiglie. Io penso che su questi temi dei nuovi italiani e delle nuove italiane dobbiamo rilanciare la corresponsabilità educativa tra scuola famiglia e società, non ignorando anche che quell’origine che tu recuperi in qualche modo mantenendola, innovandola e modificandola dentro percorsi formativi nella scuola per le ragazze e per i ragazzi ha però bisogno anche che sia in relazione con la famiglia di queste ragazze e di questi ragazzi, perché se no noi, diciamo, rischiamo di non rendere libere queste ragazze e questi ragazzi davvero nella loro scelta di riappropriarsi e di tenere le proprie origini, ma anche di una relazione positiva con le proprie famiglie. Non voglio citare esempi che ci sono stati in questi mesi, ma guardate che il tema si pone, ecco perché la sfida della comunità educante è una sfida che riguarda tutti, non riguarda soltanto la scuola.

ELISABETTA SOGLIO:
Grazie ministro. L’ha detto, fa la battaglia. Qui ci sono i testimoni.

VALERIA FEDELI:
Ho già annunciato, quindi non è una novità di oggi.

ELISABETTA SOGLIO:
Giorgio Paolucci, all’inizio del suo intervento Affinati faceva riferimento ai fatti di Barcellona: un ragazzo di 17 anni, un adolescente, faceva parte di questo commando che avrebbe avuto obiettivi ancora più devastanti e che comunque ha gettato un Paese, e anche un po’ tutta l’Europa, ancora una volta nello sgomento. Facendo questa mostra, affrontando questo tema, avete valutato il fatto che comunque c’è anche la reazione di chi dice: “si, va beh, voi ci fate vedere questi, però in realtà ci sono anche quegli altri”?

GIORGIO PAOLUCCI:
Si, anche perché avevamo in mente che chi esce dalla mostra potrebbe dire: “è una mostra buonista, va tutto bene… che tutte… storie di successo, storie di eccellenza. Ma il marcio non lo raccontate? I problemi non li volete guardare in faccia”. E invece abbiamo voluto appunto inserire in una delle cinque stanze della mostra una stanza dedicata al terrorismo, in cui c’è un video, secondo me il più bello della mostra dal punto di vista delle cose che hai chiesto tu in questo momento, che fa vedere che cosa accade, che cosa non ha funzionato, diceva prima Affinati, in questo processo di trasmissione di valori ed esperienze, che cosa è saltato; perché un giovane, non un foreign fighter, non un soldato di ritorno, ma un giovane nato nei nostri paesi, nelle nostre città, che è andato a scuola insieme ai nostri figli, che non ha problemi di lingua, e che si è apparentemente totalmente integrato e che magari fino a un anno fa andava in discoteca, si divertiva, sembrava apparentemente uguale agli altri, che cosa accade nella testa di un ragazzo di 17, 20 anni perché avvenga improvvisamente questa rottura, questa ribellione nei confronti sia dei padri, sia dell’eredità che ha ricevuto dai padri, sia di quello che ha respirato, degli elementi culturali e vitali che ha respirato nel paese in cui è nato ed è cresciuto? Abbiamo avuto l’occasione, la voglio raccontare perché è uno dei frutti più belli di questo lavoro, di andare ad intervistare alla periferia di Bologna la madre Valeria Kadija Collina, la madre del primo terrorista italo-marocchino che ha partecipato all’attentato di Londra nel Marzo di quest’anno. Una signora bolognese convertita all’Islam, sposata a un cittadino marocchino e che ha cresciuto questo ragazzo, che viveva in parte in Marocco in parte in Italia e che racconta come a un certo punto lo ha visto allontanarsi, allontanarsi non solo fisicamente, ma allontanarsi dalla mente e dal cuore di sua madre. E a un certo punto dice: “ho visto che lui si stava ossificando”, usa questo termine impressionante, cioè si stava riducendo a uno scheletro, aveva dimenticato che cosa vuol dire cercare la verità, che cosa vuol dire cercare la bellezza, non era più un ragazzo appassionato della realtà. “Mi mandò una foto da Londra, dove era andato a lavorare, in cui aveva uno sguardo che io non avevo mai visto, uno sguardo cupo, e io gli scrissi e gli dissi: ‘mandami un’altra foto, tu non sei quello che c’è in questa foto’. E allora capii troppo tardi che lui se ne stava andando, se ne era andato anche da questa passione della ricerca religiosa che insieme avevano vissuto. E mi diceva: ‘voglio andare in Siria, perché in Siria c’è la possibilità di lavorare e di farsi una famiglia. Mamma, vieni anche tu in Siria’.” E lei gli rispose: “no, io sto benissimo qua, non vengo in Siria a cercarmi dei guai. Ma perché tu vuoi andare là?” “non lo riconoscevo più mio figlio, aveva dimenticato di cercare la verità, aveva dimenticato che si vive per cercare la bellezza, per cercare il compimento di sé”. Ecco, io credo che qui siamo al cuore della questione del terrorismo, prima ancora che ragionare comprensibilmente di prevenzione, di controllo, di collaborazione tra i Servizi Segreti. L’altro giorno c’era un servizio alla radio che ha dato delle cifre impressionanti a proposito dei Servizi Segreti inglesi… ora non trovo le cifre, ma faceva vedere quante persone ci vorrebbero, circa 60 mila persone, per seguire i sospetti terroristi in Inghilterra. 60 mila persone ogni giorno per seguire i sospetti terroristi solo in Inghilterra e il capo dei Servizi Segreti diceva: “non possiamo farcela, ci vuole altro. Noi non possiamo bastare”. Ecco, ci vuole altro, che cosa ci vuole? Ci vuole quello che prima ricordava Affinati, ci vuole il fascino, ci vuole un’attrattiva più forte del vuoto che si è creato nella mente di questi giovani, perché ogni vuoto che si crea verrà riempito dalla violenza se non viene riempito da qualche cosa di positivo. Ecco, la mostra credo che abbia uno dei suoi punti più acuti e più commoventi nella testimonianza di questa donna e in quello che poi ci ha raccontato il prof. Wael Farouq, del grande lavoro educativo che serve perché questo vuoto venga riempito di esperienze affascinanti, di esperienze attrattive, di esperienze positive e non della segatura del nichilismo che porta questi giovani a morire.

ELISABETTA SOGLIO:
Grazie. La mostra è accompagnata ovviamente da un catalogo a cui Eraldo Affinati ha fatto una prefazione molto di cuore e molto di analisi lucida. Mi ha colpito uno dei passaggi di questa prefazione in cui parli di una fragilità spirituale che viene fuori nel momento in cui ci troviamo a dover affrontare questi flussi, questo tentativo, appunto, di integrare. Ti volevo chiedere di spiegarci meglio cosa intendi per “fragilità spirituale”, è un problema nostro, di noi italiani, europeo, è un problema generale, da cosa viene?

ERALDO AFFINATI:
Finkielkraut, un grande studioso francese, ha scritto un libro intitolato: “l’identità infelice”, per dire che in Europa è come se ci fosse, come dire, il tentativo di ritrovare delle ragioni dello stare insieme. Noi europei siamo quelli che abbiamo una delle responsabilità storiche più forti nei confronti dei cosiddetti “dannati della Terra”. Dobbiamo riuscire a ritrovare, come dire, il modo per anche risarcire questi popoli rispetto al peso della colonizzazione che noi abbiamo avuto. E noi italiani in particolare, dentro l’Europa, abbiamo un compito storico, perché noi non siamo soltanto la frontiera meridionale dell’Europa, ma siamo il Paese dove è nato l’Umanesimo, siamo il Paese dove è nato il Rinascimento, dove è nato lo spirito critico. Noi dovremmo metterci alla testa idealmente del Vecchio Continente, perché l’Europa è nata nei monasteri benedettini e inevitabilmente dovremmo noi dettare le regole a Maastricht, non farcele dettare da loro. Ma questo come potremmo farlo se non nel confronto umano, diretto con questi nuovi popoli? Allora qua le reazioni possono essere due: o c’è una sorta di romanticismo verso gli altri, che ci porterebbe ad abbandonare le nostre tradizioni, oppure ci può essere una chiusura isterica nella nostra posizione identitaria. Ecco, sono entrambe due posizioni sbagliate. Io credo che noi dobbiamo riuscire a trovare forza nei nostri valori, misurandoli però con quelli altrui, quindi mettendoli in gioco, non tenendoli in cassaforte, altrimenti se tu i tuoi valori te li tieni, diciamo, nascosti, coperti da un’assicurazione, è chiaro che quei valori restano lettera morta e poi ti accorgi che non ti servono a niente. Le nostre radici, a un certo punto un ragazzo nei video, mi sono segnato, dice: “senza radici l’albero non cresce”, è un ragazzo di questi che abbiamo sentito prima. Ma le radici di un uomo, proviamo ad immaginare, si intrecciano a quelle di tutti gli altri. Non è che le radici di un uomo sono soltanto sue, si intrecciano a quelle di tutti gli altri. Allora ecco che se tu fai vibrare le radici della tua pianta, cioè la tua storia, inevitabilmente è come se chiamassi in causa tutti gli altri. E questo movimento che ti porta a uscire dall’individualismo, questo movimento che ti porta a uscire dall’egoismo, dal soggettivismo, ti porta verso una coralità, non annebbiandoti nell’altro, non polverizzandoti nell’altro, ma affermando il tuo carattere, fortificato dal confronto con l’altro. Ecco, questo lavoro in quale altro luogo possiamo farlo se non nella scuola? È lì, è nella scuola che noi ci giochiamo tutto, è nella scuola che noi cerchiamo di ritrovare il senso di questo incontro. Però c’è un problema, e la ministra prima lo sottolineava mi sembra in modo anche doloroso: lo scollamento fra la scuola e la famiglia. E qua, è inutile nascondercelo, ma gli insegnanti oggi sono più soli rispetto a come era don Lorenzo Milani a Barbiana, vi dico perché. Don Lorenzo Milani con i suoi primi sei piccoli monaci, quando andava dai genitori di questi bambini, la mamma, quando il bambino andava a lamentarsi perché magari il priore gli aveva dato un nocchino, in toscano, appunto, uno scappellotto, rispondeva dicendo: “se lui te ne ha dato uno, io te ne darò due”. Cioè, la mamma del bambino di Barbiana in qualche modo sosteneva l’azione del maestro. Oggi invece non è così. Io che insegno da tanti anni vi dico che spesso le famiglie in qualche misura, quando ci sono, perché molte non ci sono, sono assenti, a volte creano un ostacolo all’azione educativa. Allora noi dobbiamo ricucire questo strappo, dobbiamo sanare questa ferita, dobbiamo asciugare queste lacrime, perché questo è un problema grosso. Perché qui c’è una frattura proprio etica, per cui da una parte abbiamo, come dire, il pronunciamento di questi valori, e dall’altra abbiamo i ragazzi abbandonati a se stessi. Io li conosco, perché ho insegnato tanto nelle borgate romane, vedo chi sono questi ragazzi. Sono ragazzi che il pomeriggio non hanno punti di riferimento, sono ancora i Gianni di cui parlava don Lorenzo Milani quando affermava il concetto di “uguaglianza delle posizioni di partenza”, un mito novecentesco. Quante volte l’abbiamo sentito dire: “tutti devono partire dalla stessa posizione”. Però poi, quando tu dai il 6, la sufficienza a Pierino, lo metti sullo stesso piano del 6 che tu dai a Gianni? Ma non sono sullo stesso piano, quei due 6. Perché Gianni non ha mai letto un libro in vita sua, invece Pierino quando arriva in classe ha già letto libri, è già andato a teatro, ha visto film. Quindi il 6 di Pierino, avrebbe detto il Priore di Barbiana, forse poteva essere 5 e il 6 di Gianni doveva essere 8. Tu devi premiare il movimento prima ancora che il traguardo che questi ragazzi raggiungono. Allora per fare questo hai bisogno di un’alleanza, un’alleanza con i genitori, con le istituzioni. Io che viaggio e vado spesso in molte scuole italiane, mi accorgo che ci sono molti insegnanti davvero appassionati, davvero pronti a mettersi in gioco, a sporcarsi le mani, a non tenersele pulite dentro la tasca. Però spesso si trovano a volte imprigionati in una rete burocratica che a volte penalizza e mortifica le migliori iniziative. Io mi ricorderò sempre quello che mi disse una professoressa al termine di un corso di formazione quando io feci un incontro, raccontai più o meno con i toni che sto usando adesso,alla fine lei mi disse: “ma Affinati, ma io adesso devo andare a scrivere il bilancio delle competenze, oggi pomeriggio”, come a dire: “ma come faccio poi io a realizzare questa, diciamo, intensità dell’esperienza?” Ecco, è lì che noi dobbiamo anche lavorare, dobbiamo riuscire ad alleggerire il lavoro, a mettere l’insegnante fresco con tutta la sua forza, con tutta la sua intensità di fronte al ragazzo, scrollandogli, mettendogli via tutti quei pesi burocratici che a volte lo appesantiscono. Però dobbiamo avere la forza di parlare a tutti e la scuola non lo può fare da sola. Non è che possiamo attribuire alla scuola un peso che non può portare da sola; dobbiamo trovare delle azioni comuni da fare, anche se il colore della nostra casacca è diverso, dobbiamo ritrovarci in azioni comuni. Noi alla Penny Wirton abbiamo volontari che sono diversi uno dall’altro, ci può essere uno che fa quest’azione per motivi politici, perché ha un’idea politica da realizzare, un altro che ha una fede religiosa, un altro che ha una crisi esistenziale a cui contrapporsi. Sono diverse queste persone e forse se parlassero fra di loro entrerebbero in disaccordo. Ma come mai però, messi di fronte a Mohammed, si trovano perfettamente nella stessa azione di pura gratuità che realizzano con lui? Ecco, noi dobbiamo trovare tante azioni come queste, capaci di unirci invece di dividere.

ELISABETTA SOGLIO:
Grazie. Ministro, vede quanti applausi strappa però quando si parla di insegnanti, vuol dire che la categoria dei docenti in Italia non è proprio da buttare via.

VALERIA FEDELI:
Assolutamente…

ELISABETTA SOGLIO:
C’è un grande riconoscimento e questa è una cosa positiva…

VALERIA FEDELI:
Certo, lui è uno dei tanti che lo fa…

ELISABETTA SOGLIO:
Ieri il Papa Francesco, per la giornata del migrante, ha lanciato questo messaggio in cui ha chiesto che venga sostanzialmente riconosciuto e certificata la nazionalità al momento della nascita. Lui non ha parlato di ius soli, però questo è il dibattito che c’è in corso adesso al Parlamento e che sta un po’ anche dividendo la politica italiana. Lei ha una posizione molto chiara che ha più volte dichiarato, a favore ovviamente dell’approvazione di questa norma. Lei crede che si stia affrontando questo tema nella maniera giusta e soprattutto, crede che, come dire, la nostra classe politica sarà in grado di arrivare ad una decisione saggia, equa, e che vada nella direzione di questa necessità di integrazione?

VALERIA FEDELI:
Intanto grazie per questa domanda. La mia convinzione l’ho espressa più volte, ma la voglio anche precisare in questo modo. Noi qui stiamo parlando di integrazione, di nuovi italiane, di nuovi italiani, cioè di 820.000 ragazze e ragazzi che sono già nel nostro percorso scolastico, sono nati in italia o ci sono arrivati con uno dei genitori che sono qui, e noi parliamo esattamente di qualità della relazione umana. Questi sono ragazze e ragazzi che studiano la nostra lingua, tifano le nostre squadre, mangiano i nostri cibi, giocano con i nostri ragazzi e tra di loro ovviamente si comportano anche con curiosità rispetto alle proprie differenze. Quando poi invece c’è un tema che riguarda la loro cittadinanza, che vuol dire semplicemente, poi, una cosa importante: non solo votare, attenzione, ma anche poter fare alcune attività o non poterle fare se hai o non hai la cittadinanza. Ecco, lì c’è una cesura. Io credo che la società italiana, questa è la mia convinzione, sia molto più avanti della rappresentazione della bassa qualità del dibattito politico che in sede istituzionale abbiamo dato su questo tema. Lo voglio dire perché si possono avere opinioni diverse, ovviamente, su questo, però guardate che anche la qualità del dibattito politico deve essere rispettosa perché comunque stai parlando di bambini di ragazze e di ragazze in carne ed ossa che ti seguono nel dibattuto pubblico e cosa possono comprendere quando ascoltano espressioni molto violente, quando si confonde loro con un tema che non c’entra nulla come quello invece importante, complesso e complicato da gestire come l’immigrazione e la parte, diciamo, di sicurezza. Questo è un tema importante. Io dico che una classe dirigente che vuole davvero creare condizioni positive è una classe dirigente che deve trovare un punto di sintesi positiva sui questa legge sapendo che non è di per sé risolutiva, ma è un pezzo che corrisponde però esattamente ad una scelta di valori che ci appartengono. Io spero che ce la faremo perché se noi non ce la facessimo, guardate, la dico così, diventerà un po’ più complicato quando andiamo nelle classi a parlare di integrazione, di capacità di conoscenza, di relazioni tra soggetti e persone umane e dire tu sì, tu no, E poi lo voglio dire qui perché mi sta molto a cuore quello che succederà anche in termini proprio di ricorrenza l’anno prossimo. Voi sapete che quest’anno, il 27 dicembre, ricorre l’anniversario, i 70 anni della firma della nostra carta costituzionale, e al primo di gennaio del 2018 sono 70 anni in cui è un vigore la nostra carta costituzionale. Il che significa per esempio, oltre alle tante altre cose che ci sono, noi in quella carta abbiamo un articolo, che è l’articolo 3 della Costituzione, che dice che nessuno deve essere discriminato in base al sesso , si dice ancora la parola razza, ovviamente per non dimenticare le leggi razziali, di opinione politica , di condizione economica e così via. Ora se noi, e questo noi lo faremo come campagna nelle scuole, affronteremo in tutte le scuole tutto questo, e ricorderemo e faremo discutere, faremo ricordare, faremo studiare, faremo apprendere alle nostre ragazze e a i nostri ragazzi anche la vergogna che ci fu, l’anno prossimo a 80 delle leggi razziali, quando solo il fatto di essere un ebreo venivi portato via da una scuola, beh, ma qual è il significato che diamo non riconoscendo cittadinanza alle ragazze e ai ragazzi che sono già nelle nostre scuole, che parlano la nostra lingua e che, guardate a me ha molto emozionato, un mese fa al Pantheon, a questi ragazzi a cui sono andata a portare il mio saluto, eravamo in piazza insieme a testimoniare il bisogno di questa legge, i giornalisti chiedevano, ma tu di dove sei? Ovviamente intendevano di che origine sei, ciascuno di loro rispondeva: io sono di Modena, io sono di Reggio Emilia, sono di Padova e la cosa molto emozionante è che tutti insieme abbiamo cantato l’inno nazionale. So che sono simboli, ma i simboli significano anche appartenenza, significano la capacità di essere italiani, anche nel riconoscersi nei valori, Ecco io dico che se una classe politica con tutte le attenzioni e con tutta la complessità, non sono una che la rende facile, questa cosa, so che ci sono contraddizioni, ma è un segnale importante. Se vogliamo andare avanti a costruire il rispetto e la dignità delle persone, partiamo dal fatto di riconoscere a queste bambine e a questi bambini la cittadinanza dopo i cicli di scuola che fanno con i nostri figli e con i nostri nipoti. Se non siamo capaci di fare questo , secondo me subiamo una regressione culturale e poi diventa difficile dire che siamo ancora una forte e coesa comunità educante.

ELISABETTA SOGLIO:
Abbiamo ancora tempo per un veloce ultimo giro di domande. Giorgio, a te volevo chiedere la mostra è già iniziata, ci sono già tante persone che la stanno visitando , tante persone prenotate, tu che razioni cogli, anche rispetto a questo tema, cioè la mostra è iniziata praticamente tre giorni dopo l’attentato. Che reazioni hai colto, reazioni di paura, un po’ di diffidenza, oppure magari non so , di stupore rispetto a realtà che non si conoscono.

GIORGIO PAOLUCCI:
Noi abbiamo colto reazioni di curiosità, reazioni di curiosità, di interesse, di voler andare a fondo di questo mondo, gente sorpresa che appunto ci racconta: ma non pensavo che le cose stessero così, ma non solo dal punto di vista dei numeri, ma anche dal punto di vista delle possibilità. Cioè, alcuni ci hanno detto : sì però ci sono anche tanti aspetti negativi che non avete messo in evidenza. E altri ci hanno detto: sì, però, se raccontate che queste storie di successo sono possibili, vuol dire che si può, vuol dire che si puù, che può accadere che Abdullah Embodi, bambino di 5 anni nato a Dakar, arrivi in Italia dopo che il padre ha venduto accendini per sette anni nella galleria Vittorio Emanuele alla fine degli anni 80, e che con la sanatoria Martelli che forse ancora qualcuno ricorda , si mette in regola, poi diventa camionista, poi diventa operaio, poi fa arrivare qua la moglie e i due figli e arriva Abdullah a 5 anni nella scuola di Zingonia, senza sapere una parola di italiano, va in prima elementare , si innamora chissà perché del fatto che lui da grande vuole fare l’avvocato, fa le scuole superiori, si iscrive all’università Cattolica di Milano a giurisprudenza, lui, bambino di tradizione islamica , professante, si laurea, diventa avvocato e diventa il primo avvocato nero di origine africana del foro di Milano. Una storia di successo, una storia che dimostra che si può. Fa impressione vedere la storia di Rambo Alilovich, giovane bosniaco di etnia rom, che si chiama Rambo perché suo nono non si era perso uno dei film di Silvester Stallone ei genitori gli hanno appiccicato questo nome un po’ pericoloso soprattutto per un rom , cresciuto in una bidonville alla periferia di Torino , venduto e poi riacquistato e poi tolto ai genitori e poi adottato da una famiglia italiana , e vederlo oggi dopo 20 anni a capo di una commissione che si occupa della scolarizzazione ed educazione dei bambini rom alla periferia di Torino, a capo di un progetto della Commissione europea. Quindi uno partito dal nulla, il Pierino del racconto di Eraldo Affinati, che è diventato leader di un gruppo di comunità educante . Allora se tutto questo accade, accade perché noi siamo buonisti o accade perchè davvero è possibile che si realizzino queste storie di successo? Noi queste storie di successo le abbiamo volute raccontare e la gente è rimasta colpita e ha detto si può. Non vogliamo dire che questa è la normalità, che questa è l’Italia, è anche questa l’Italia. Noi l’abbiamo chiamata “i volti giovai dell’Italia multi etnica”, perché è un processo che è in atto. Io credo che stia alle istituzioni e alla società civile agevolare questo processo, tirar fuori dal fango queste pepite d’oro e far vedere che l’oro c’è anche dentro il fango, che è possibile rimuovere il fango e far vedere l’oro e far vedere una possibilità di successo. E tutte queste storie di successo, ci colpisce che sono tutte connotate da una parola: la parola incontro. Queste persone sono diventate così perché hanno incontrato qualcuno che ha cambiato la loro vita. Può essere stato il padre, può essere stato il nonno, un insegnante, un amico, un sacerdote, l’allenatore della squadra di calcio , il capo della band giovanile, come è accaduto a Yuru, bambino figlio di un utu, di un padre utu e di una madre tutzi, scappati dal Ruanda durante le stragi del ’94 con questo bambino in braccio, se lo sono portati a Roma, hanno ottenuto l’asilo politico e 20 anni dopo vediamo Yuru, questo giovane ruandese a capo di una band musicale giovanile che gira per i quartieri di Roma durante le feste, e canta e balla l’hip hop, coinvolgendo giovani di 18 nazioni all’interno di un laboratorio della stazione Termini. L’esperienza del gruppo Termini underground che noi presenteremo sabato alla fine del Meeting alle 12:30 nell’ultimo dei nostri incontri. Ecco sono le piccole perle che ci sono. Ci potrete dire che siamo buonisti. Noi vi possiamo dire che questa è l’Italia possibile e questa è l’Italia che vogliamo costruire insieme a loro.

ELISABETTA SOGLIO:
Brevemente anche a Eraldo Affinati quest’ultima questione. Parlava di incontro Giorgio Paolucci. Secondo te c’è paura dell’incontro, c’è ancora paura dell’incontro?

ERALDO AFFINATI:
Beh, sì, c’è molta ignoranza anche nei confronti delle sorprese che potrebbero regalarti questi incontri. L’altro giorno una mia volontaria della Penny Wirton mi diceva che se prima ancora di fare questa esperienza avesse incontrato un bengalese per strada rientrando a casa la sera dopo aver fatto la spesa, probabilmente avrebbe scantonato . Dopo aver fatto la nostra esperienza di confronto quotidiano e aver capito chi era questa persona, come viveva a Roma, in dieci persone dentro una stanza che pagano 400 euro a testa, cioè, quando hai capito chi hai di fronte ti ha fatto vedere su whatsapp la foto di Dacca, dove lui ha vissuto , quando hai visto, quando hai toccato con mano, ti accorgi che queste paure, questi timori non hanno ragione di essere nel momento in cui tu ti confronti davvero con questa persona che può anche regalarti una mela semplicemente perché capisce che hai fatto qualcosa per lui e quindi non sa cos’altro darti se non questo frutto in segno di riconoscenza. Io dico che la democrazia ce la dobbiamo ricostruire sempre. E questo lo dico perché da insegnante mi accorgo che nessuna generazione è migliore o peggiore della precedente, ma tutte sono diverse, hanno una forma diversa. E io che sono nipote di un uomo, mio nonno, Alfredo Cavina, partigiano della trentaseiesima brigata Garibaldi, fucilato dai nazisti non lontano da qui, da Rimini, mia mamma è romagnola, sempre lo dico questo. Penso sempre a mio nonno. Penso sempre a quando Calamandrei diceva dove è morto un partigiano, lì è nata la democrazia. Ecco , io penso, al fatto che quando accompagno i miei studenti alle fosse ardeatine, ovviamente sono tutti studenti immigrati adesso, o quando io gli faccio conoscere Piero Terracina, uno degli ultimi superstiti di Auschwitz, ecco in quel momento io sto cercando nel mio piccolo di ricreare le condizioni affinchè questi ragazzi capiscano che la democrazia non è che è una cosa che te la regalano è un pacco postale che tu ricevi in dono, è un lavoro faticoso, faticoso di mediazione, di confronto , di ricucitura e che ogni generazione è chiamata a compiere, ma mai mai come in questo momento storico questo lavoro è davvero significativo. Perché non è più la democrazia italiana di Barbiana, i ragazzi di Barbiana oggi vengono da tutto il mondo , e quindi diventa una questione planetaria , di cui tu come essere umano non puoi non dichiarati responsabile. Ma non la responsabilità giuridica, perché quella anche i carnefici di Auschwitz dissero : io ho eseguito gli ordini, quindi non basta affermare una responsabilità soltanto giuridica, noi dobbiamo recuperare quello che diceva Dostoevskij: io mi sento responsabile quando un uomo posa il suo sguardo su di me. Ecco, quel tipo di responsabilità. iIo credo che qui al Meeting questo sia la nostra fondamentale, una responsabilità pregiuridica, premorale, presocioale, quello che distingue l’uomo dall’animale. E chi se non l’insegnante è il portatore di questa responsabilità? Ecco perché la scuola non può essere lasciata da sola.

ELISABETTA SOGLIO:
Affinati, le ha alzato la palla, Ministro. La scuola non può essere lasciata da sola.

VALERIA FEDELI:
L’ha già fatto più volte. La scuola non può essere lasciata da sola esattamente perché essere educatori, essere educatrici, significa esattamente essere messi nelle condizioni di costruire una convivenza civile di pace e non di conflitto. Poco abbiamo affrontato questo aspetto, ma credo anche che dal punto di vista proprio del contrasto a ogni forma di violenza, l’educazione, gli strumenti che può dare alla scuola sono strumenti fondamentali. Pensate, cito soltanto, non solo il tema del terrorismo, ma soprattutto dei ragazzi, dei minori non accompagnati che arrivano, meno stanno in alcuno luoghi e più si inseriscono velocemente nella scuola, più hanno immediatamente l’apprendimento della lingua, l’integrazione, meno sono soggetti a quella solitudine che poi ti trasforma. Ma non lasciare la scuola da sola io lo voglio dire qui a questo Meeting che considero davvero un punto vero di incontro e di ascolto, ma anche di capacità di costruire insieme su cioè che ci unisce. Io credo che dovremmo insieme ri-costruire , diceva Affinati , io lo riprendo perché lui sa che ci stiamo lavorando, io voglio ricostruire davvero e lo stiamo già attivando, un patto nuovo di merito concreto., non solo di visione, ma anche di atti concreti tra la scuola, mondo della scuola, famiglia e società. Guardate, senza questo noi non riusciamo nemmeno a contrastare tutti gli elementi di volenza che entrano nella vita quotidiana della nostra società. Pensate agli elementi dell’utilizzo del digitale che è fondamentale rispetto al bullismo e al cyberbullismo. Pensate a cosa significa, qual è la nuova responsabilità che tutti abbiamo attraverso l’utilizzo del digitale sui contenuti formativi e di istruzione. Allora questo non può vedere una cesura tra ciò che fa la scuola, ciò che avviene in famiglia perché la conflittualità che si determina in realtà penalizza i percorsi di educazione, quindi penalizza la forza che la scuola ha, io insisto, per la formazione di una cittadina e di un cittadino a 360°. E’ conoscenza, è competenza , ma è anche forza individuale in relazione alla comunità. Qui si è usato un termine che a me piace moltissimo, che è un concetto di fondo. credo per ciascuno di noi, sicuramente anche per me: l’identità tu la salvaguardi, comunque la vivi, in relazione all’altra, all’altro nella sua diversità. Beh, noi stiamo e dobbiamo ricostruire in un’epoca differente da quelle precedenti che non sono né migliori, né peggiori, però il concetto di relazione nuova di questa nuova umanità che ormai è interconnessa. Anche questo è un elemento che noi dobbiamo saper affrontare nella modernità. Non dobbiamo avere paura di queste nuove differenze, dobbiamo saperle affrontare e capire la paura. Io non sono una che elude i problemi, so che c’è paura, bisogna saperla affrontare, rispettare la paura. Ma alla paura dobbiamo invece far corrispondere invece conoscenza, stimolo alla curiosità, perché l’unica modalità con cuoi possiamo affrontare le sfide della comunità educante che abbiamo di fronte. Io lo dico così in conclusione, mi è già capitato di dirlo in altre occasioni ma ci tengo a dirlo qua. Guardate, lo sforzo che dobbiamo fare tutti e ci tenevo veramente a ridirlo qui è che sul terreno della comunità educante, dell’educazione e dell’istruzione, leviamoci le giacche di parte , lavoriamo insieme su ciò che è meglio, non solo per le generazioni di oggi, ma per gli adulti di oggi. Perché se non riprendiamo questo rapporto tra giovani e adulti noi non saremo in grado di affrontare tutte le sfide. Io credo che ci sia questa possibilità. In primis spetta a noi della politica, smettere di dare spettacoli anche nel modo con cui anche discutiamo , ma credo che una esperienza e diciamo i dibattiti che si stanno sviluppando qui a questo Meeting siano un contributo fondamentale e, devo dire, mi dà anche molta più forza sapere che la scuola i docenti e tutto il personale, da domani sarà un poi’ meno solo, e un po’ meno solo nell’affrontare le nostre sfide educative. Grazie

ELISABETTA SOGLIO:
Grazie. Ecco, proprio perché ci vuole una responsabilità collettiva, vi rubo soltanto un minuto, diciamo quasi per fatto personale, perché mi piace dire qui al Meeting di una iniziativa nuova che sta per nascere col mio “terzo bambino”, in realtà i miei due grandi sono a casa , però questo terzo bambino è un progetto editoriale nuovo del Corriere della sera che ripeto mi piace raccontare per la prima volta in una parola e mezzo qui al Meeting perchè credo che voi abbiate la sensibilità giusta per capire l’importanza di questa cosa che inizieremo. Dal 19 settembre tutte le settimane il Corriere della Sera pubblicherà insieme al giornale un inserto di 24, anche 32 pagine interamente dedicato ai temi del terzo settore e che si intitolerà: Buone notizie, l’impresa del bene. Perché siamo convinti che anche noi come parte comunicativa, chi fa comunicazione, anche noi non ci possiamo chiamare fuori dal dovere di dare una narrazione , come si dice oggi, più completa del mondo che ci sta davanti, perché è giusto raccontare che ci sono le stragi e che ci sono delle cose che non funzionano , ma è anche giusto valorizzare il lavoro che tante associazioni, tante cooperative, tante imprese sociali oggi fanno. E quindi per la prima volta nel panorama editoriale facciamo questo tentativo, sarà un esperimento, spero che voi ci seguirete e capirete lo sforzo che proprio vogliamo fare e mi piaceva dirlo per la prima volta anche a nome del mio direttore qui al Meeting di Rimini, perchè ripeto credo ci sia anche una consonanza di sentimenti. Devo anche dire, perché Giorgio me lo ha fatto notare, che diciamo dietro questo progetto c’’è anche la scuola di Avvenire, del mio oratorio, c’è tutta una scuola dietro di cose che ti mettono dentro, di don Milani , che ti mettono dentro e che alla fine danno frutto, diventi anziana, ma alla fine porti a casa qualche cosa.
L’ultimissima cosa che vi dico è che siccome è bello continuare a incontrarsi al Meeting e a confrontarsi in questa maniera così positiva e costruttiva, servono donazioni,e sapete che all’interno dei padiglioni trovate le postazioni Dona Ora, dovete andare proprio nei desk dedicati: ci sono i volontari con la maglietta verde Dona Ora e se contribuiamo tutti, magari con un piccolo sforzo facciamo tutti un mondo più bello. Grazie a tutti, grazie al ministro Valeria Fedeli, grazie a Giorgio Paolucci, Grazie a Eraldo Affinati.

Data

22 Agosto 2017

Ora

15:00

Edizione

2017
Categoria
Incontri