L’IMPENSABILE POSSIBILE: QUANDO CON LO SPORT SI DIVENTA GRANDI

L'impensabile possibile: quando con lo sport si diventa grandi

L'impensabile è possibile: quando con lo sport si diventa grandi

Partecipano: Marco Calamai, Allenatore di Basket e Docente presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Bologna; Massimiliano Ruggiero, Manager e Allenatore di Rugby; Pedro Samaniego, Responsabile della Casa Virgen di Caacupé ad Asunción, Paraguay. Introduce Davide Perillo, Direttore di Tracce.

 

DAVIDE PERILLO:
Buona sera e benvenuti a questo incontro. Se le periferie non sono soltanto luoghi, ma soprattutto persone, come ci richiama il Papa, l’incontro di stasera ci aiuta a capire cosa aiuta a far crescere queste persone. Che cosa è la persona se non soprattutto un bisogno di diventar grandi, di diventar se stessi, di diventare tutto quello che può essere e questo bisogno che noi vediamo nelle periferie, che è sinonimo di periferie, è un bisogno che diventa anche disagio come vedremo, è un bisogno che può essere un bisogno fisico, sociale, o semplicemente il bisogno di diventar grandi. Beh ecco, lo sport è una strada, un mezzo per affrontare questo bisogno, per aiutare che venga fuori e che l’uomo diventi se stesso. Credo che poche cose come lo sport aiutino a vedere che cosa una persona è. Pensiamo per esempio quanto noi impariamo dai nostri figli vedendoli giocare, vedendoli fare sport, quanto si scopra della loro personalità, sia come una lente d’ingrandimento, sia un amplificatore che ci permette di vedere l’umano meglio, perché nello sport viene fuori tutto. E dato che noi siamo bisogno e non c’è niente che ci definisca più di questo, l’incontro di stasera è per capire come, nelle periferie dell’umano, lo sport possa giocare un ruolo importante, utile. Lo facciamo con tre ospiti che usano lo sport, non è una parola brutta, proprio per far venir fuori tutto il potenziale dell’umano. Ve li presento, cominciando da Max Ruggero, che è alla mia sinistra, che di professione fa il manager, è un formatore, è responsabile area di un importante Istituto bancario assicurativo, ma è soprattutto, anzi più che soprattutto, è anche un appassionato di Rugby. Da giovane ha giocato in serie A, è stato anche allenatore delle nazionali giovanili, quindi ha un livello alto e soprattutto ha sempre usato e usa tuttora il Rugby per educare. Ci racconterà anche come questa sua passione, oltre ad interagire con il suo lavoro, è diventata anche un progetto per aiutare i ragazzi della sua zona – lui trevigiano, zona di tradizione rugbistica solida – a crescere e diventare grandi. L’altro ospite che è qui alla mia destra, è Marco Calamai, anche lui vi prego di salutarlo con un applauso. Dovremmo dire, anzi, lo chiamiamo coach Calamai, perché è un allenatore di basket, ha allenato, prima giocato in serie A, poi allenato ad alto livello, ha fatto una cosa come 365 panchine in serie A, è stato campione del mondo come allenatore con la nazionale militare italiana, è un professionista della pallacanestro, che ad un certo punto, però, ha cambiato strada, non ha lasciato il basket, ma ha cambiato percorso e ci racconterà come e perché e che cosa sta facendo adesso attraverso il basket. E poi, qui accanto a me, c’è Pedro Samaniego, che invece, viene dal Paraguay, dei tre è quello che con lo sport centra apparentemente di meno, ma anche per lui lo sport è diventato una parte fondamentale dell’opera che si è assunto, che è quella di educare. Pedro faceva tutt’altro nella vita, fino a quando gli è capitato per un’opera caritativa, di entrare in un carcere minorile in Paraguay dove vive e lì ha incontrato il bisogno dei ragazzi che c’erano, periferia che più periferia non si può, e si è coinvolto, si è coinvolto tanto da iniziare a coinvolgere il suo tempo e poi la sua vita con questi ragazzi: è nata una casa di accoglienza che permettesse ai ragazzi del carcere di riabilitarsi, di reimparare a vivere e poi un centro di sviluppo umano e dentro questa opera, questo contesto, ha iniziato a sperimentare, ad adoperare anche il calcio come possibilità di educare, rieducare alla vita questi ragazzi.
Ci racconteranno le loro esperienze e ci racconteranno anche del tesoro che hanno scoperto in queste periferie dell’umano, perché se c’è qualcosa di bello nelle periferie è che sono posti dove non si va a portare qualcosa e basta, ma sono soprattutto posti dove impariamo, scopriamo un tesoro per noi. Facciamocelo raccontare partendo appunto dal Rugby.

MASSIMILIANO RUGGIERO:
Grazie. Grazie, buona sera a tutti. Allora io dividerò il mio intervento in tre parti. In una parte racconterò un po’ del Rugby, dei valori di questo sport, che non è così conosciuto e praticato in Italia e racconterò come può essere anche uno strumento educativo per i bambini, nella seconda parte farò vedere che questo modo di interpretare questo sport, che diventa anche un modo di vivere, diventa anche un modo di comportarsi degli adulti, dei professionisti che praticano questa attività, questo gioco, e alla fine racconterò della mia esperienza, del mio progetto che, attraverso questo gioco e con l’aiuto di una società sportiva di Treviso, che milita in serie A, ma che è molto attenta e collabora con i servizi sociali e con le carceri, cerca di aiutare questi ragazzi carcerati a prender un percorso diverso, un po’ più positivo. Allora, il Rugby di sicuro è uno sport che accoglie e valorizza le differenze. Perché accoglie e valorizza le differenze? Perché è insito proprio nel gioco del Rugby avere delle persone che hanno delle strutture fisiche che sono completamente diverse. In questa foto (fig.5) potete vedere il n. 5 che è molto più grande degli altri, il n. 13 che è più piccolino e la cosa bella è vedere, in modo particolare quando giocano i ragazzini, i bambini, come vengano valorizzati. Possiamo vedere per esempio dei bambini che sono piccolini, grassottelli, e giocano in prima linea, giocano pilone, e sono importantissimi per sostenere, per spingere la mischia; potete vedere quei ragazzi che sono invece alti, dinoccolati, che giocano in seconda linea, che prendono i palloni alti che vengono dalle rimesse laterali, o potete vedere i ragazzini piccoli, veloci che sono quelli che comandano la mischia, comandano gli otto bufali che sono davanti o le ali, che sono giocatori più veloci. Ogni giocatore è valorizzato per le proprie caratteristiche, è accettato, è apprezzato per quello che è, e ogni giocatore viene riconosciuto e si sente importante nel gioco collettivo. Mi piace vedere i bambini un po’ cicciottelli, che magari arrivano lì e sono un po’ timorosi perché in altre attività sono scartati, che diventano fondamentali per spingere le mischie, e sono quelli che vengono abbracciati dalle ali, da quelli veloci, che sono quelli che solitamente portano il pallone in meta e li ringraziano per aver vinto quel pallone.
Il Rugby insegna anche dei valori come il rispetto, la cooperazione, la solidarietà. Come si possono vedere applicati questi valori? Come possono essere trasmessi? Innanzitutto dobbiamo sapere che nel Rugby il pallone viene passato indietro e nel Rugby tutti attaccano e tutti difendono con un movimento che dev’essere sempre avanzante nella conquista di un territorio, di un terreno. Già il passare il pallone all’indietro è un po’ contro natura, è l’unico sport che pratica questo tipo di gesto tecnico. A me piace vederlo come la valorizzazione e l’importanza di colui che è dietro, e questo viene ancor di più visto quando diventa fondamentale il sostegno per fare punti. Nel Rugby i punti si fanno quando si schiaccia alla meta, quando si porta il pallone oltre la linea di meta, ci si tuffa e si deve schiacciare il pallone, questo è il modo principale per fare i punti nel Rugby, ma tu da solo non riesci a portare il pallone, perché hai quindici persone che con tutti i mezzi cercheranno di fermarti, sempre nel rispetto della tutela fisica ovviamente, ma cercheranno di impedirtelo, e voi sapete che nel Rugby, quando per fermare una persona, per fermare un giocatore bisogna placcarlo, si placca dal collo in giù, e quando una persona cade per terra, deve, per regolamento, per legge, perché nel Rugby funzionano le leggi, deve lasciare la palla, deve permettere anche al difensore di impossessarsi di quel pallone lì, bene, a qual punto diventa fondamentale il sostegno. Il sostegno è uno dei principi di questo sport. Il sostegno vuol dire riuscire ad arrivare ad aiutare il tuo compagno che porta avanti la palla e che è caduto per terra o che deve passartela, perché non ci sono più spazi per avanzare, e devi aiutarlo. E questo che cosa denota? Non è facile andare a spingere, a buttare via delle persone che magari sono più grandi, più grosse di te. Questo ti fa capire quanto tu possa essere importante, anche perché, quando hai la palla in mano e stai avanzando, tu sai che dietro di te ci sono quattordici compagni che sono pronti ad aiutarti e questo ti dà fiducia, ti fa sentire forte in quella squadra. Io dico che crea anche autostima, perché se io so che sto andando a fare sostegno a un compagno, magari solo per buttare via degli avversari, io inizio a capire che sono importante nel gioco e inizio a capire anche che sono un bambino, un ragazzo, un giocatore coraggioso, perché metterò il mio corpo in difesa del mio compagno che è per terra, questo crea autostima, e un circuito virtuoso che porta la squadra a una considerazione, a una consapevolezza del proprio valore. Quindi è un mettersi al servizio degli altri, a tutela del proprio compagno e per la continuazione del gioco. A tal proposito io, proprio per lo spirito educativo, ho voluto portarvi un filmato nel quale voi vedrete dei bambini, under 9, hanno 7/8 anni e questi bambini giocano scalzi, liberi da ogni regola. Le uniche due regole che vengono date sono: cercare di passare il pallone all’indietro e placcare l’avversario dal collo in giù. Vi invito a focalizzare la vostra attenzione su questi due bambini: un biondino con la maglietta nera, e un bambino di colore con il caschetto blu e verde. Questi due bambini non si conoscono, lì hanno giocato insieme, la storia di questi due bambini ve la racconterò ed è straordinaria ed io l’ho scoperta dopo qualche anno. Concentratevi su questi due: questi due bambini fanno una battaglia uno con l’altro e a un certo punto il bambino biondino riesce in uno scontro a rubare il pallone al bambino nero che è molto dotato fisicamente, è molto veloce e ha una squadra anche molto veloce, riesce a rubargli la palla, sta per scappare, viene ripreso e perde la palla e i Verdi faranno una meta, e quel bambino a un certo punto vive un senso fortissimo di frustrazione e gli vien da piangere, lì finisce la partita, c’è il saluto finale, le squadre di Rugby si salutano prima di iniziare un incontro, si salutano alla fine dell’incontro e l’incontro che è fatto di due tempi va a finire con un terzo tempo dove assieme vanno a mangiare, quindi sia dai piccolini, che dal sei nazioni o dal mondiale, tutte le squadre di Rugby quando hanno finito di giocare vanno al terzo tempo. Bene, l’allenatore che fino a prima avete visto girare per il campo e dare delle piccole indicazioni, prende questo bambino, riconosce il suo lato di difficoltà, lo accoglie, lo sostiene, gli parla, gli dà alcune indicazioni, alcune strategie, e infine esorta il bambino a rimanere concentrato ad avere autostima, e a focalizzarsi sulle sue qualità, la velocità e il sostegno, il sostegno che è la ricerca dei compagni. Bene, adesso vi faccio veder questo filmato che magari parla meglio di tante parole. Finirà questo filmato con il rientro in campo di questo bambino e vedremo come avrà reagito a questa frustrazione.
Vedete, questo è il primo incontro, viene placcato subito dal bambino di colore e prende subito la prima legnata, il gioco continua a svilupparsi e questo bambino si prepara, adesso tocca a lui, si ferma, lo placca; poi questo bambino riparte, lo placca ancora lui; il bambino ha ancora un’altra volta la palla in mano e continua a placcarlo, vedete i Verdi hanno sempre il possesso della palla, continuano ad avanzare; un altro placcaggio fatto dal biondino, a questo punto iniziamo a vedere un’azione nella quale, dopo l’ennesimo placcaggio, un’altra meta subita dai Neri, inizia uno scontro tra biondino e il bambino con il caschetto. Il bambino, che si chiama Richi, prende la palla in mano, la strappa, sta quasi per partire, viene ripreso dai Verdi che gli rubano la palla e fa meta. Il bambino inizia a vivere un momento di grande frustrazione, e si vede l’allenatore avversario che gli fa le coccole, il suo allenatore che è un ex allenatore della nazionale di Rugby, oggi allenatore della nazionale femminile, se lo prende in braccio, chiedendo “ma che cos’hai Richi?”, e questo gli dice “ho fatto tanti placcaggi e potevo fare una meta e alla fine mi hanno rubato la palla”, ed è particolarmente frustrato. L’allenatore si fa raccontare questa cosa, lo ascolta, dopo di che, vedrete, inizia a parlargli, e a dargli delle indicazioni. Il bambino è preso dallo sconforto ma ascolta e a questo punto, l’ultimo respiro, riparte un’altra partita. Vediamo che fa subito il primo placcaggio, cerca la palla, c è un altro che sta scappando, lui gli corre dietro, lo placca e si rimette praticamente a giocare, deve fare un altro placcaggio (ha fatto trenta placcaggi questo bambino) e a un certo punto deve partire, va via il primo, va via il secondo, poi viene fermato, fa la sua lotta e riescono finalmente a fare la loro meta. Continua a lottare anche nella partita successiva, prende i suoi placcaggi, cerca di controllare che non scappino, qui prende la palla e non si riesce a inquadrare bene, ma fa la sua prima meta, poi continua il suo gioco al placcaggio, ne placca uno, ne placca un altro e poi fa finalmente l’ultima meta, e fa due mete. Bene, ora che cos’è la cosa particolare e straordinaria? La cosa particolare e straordinaria è veder come ha superato la crisi, il momento di difficoltà. Il Rugby, come spesso lo sport, può essere un momento che aiuta questi ragazzini a maturare, a superare questi momenti di difficoltà, ad accettare la sconfitta, a rimettersi in gioco, a rialzarsi da terra. Nel Rugby c’è una sola regola, se tu vieni placcato e cadi per terra devi essere più veloce a rialzarti rispetto a chi ti ha placcato, è un po’ un concetto diverso rispetto a quello di buttarsi per terra e prendere un fallo a favore, da noi vince chi si alza per primo. Cosa ha fatto l’allenatore? Ha fatto praticamente una funzione genitoriale, ha accolto questo bambino, gli ha dato però anche delle regole, che deve cercare il sostegno, deve cercare il proprio compagni. L’intervento è stato quindi sia di tipo normativo che affettivo, prima l’ha accolto, poi gli ha dato delle regole. Io credo che la chiave del Rugby, dei valori e del rispetto degli stessi rappresenti l’espressione della comunità di questo gioco, di persone che giocano a questo sport. Quando mi chiedevano prima perché ho accettato l’ invito a parlare di questo, è perché ritengo che anche la vostra comunità sia una comunità che ha un obiettivo comune e che attraverso i principi e i valori che contiene voglia raggiungere degli obiettivi, delle mete, che non sono propriamente personali, che non portano un ritorno economico diretto, ma che comunque fanno star bene. Un’identità come quella vostra, come quella nostra di rugbisti, sono l’espressione di un senso di appartenenza, ma a mio modo di vedere devono accettare le differenze, devono accettare le culture differenti, delle regole comunque e dei comportamenti a tutela di tutti. Infine vi faccio vedere un filmato, un filmato degli adulti, qui vedrete due squadre, sono il Sud Africa e il Samoa al Mondiale del 2003, vedrete queste squadre che si legnano come dei fabbri ferrai, poi alla fine della partita si trovano, si salutano, e vedrete una cosa straordinaria.

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Stanno pregando, il Sud Africa sono cattolici, ci sono protestanti, il Samoa sono cattolici, ognuno prega a proprio modo, e dico che ci potrebbero essere anche mussulmani, ognuno prega il proprio Dio accettando le differenze dell’altro, però uniti da uno spirito comune che è il rispetto del gioco, che è il rispetto dell’avversario, che è il rispetto della persona. Questo per me è il Rugby, questo per me è lo sport, ed è quello che ci può insegnare. Adesso parlo un minuto dell’esperienza che sto vivendo a Treviso. Io non riesco più per impegni professionali ad allenare una squadra di ragazzini o le nazionali, però investo il mio tempo in un progetto che si chiama “Ragazzi difficili e prospettive vincenti” con i servizi sociali di Treviso, con le carceri, dove, attraverso dei compagni di squadra, dei giocatori anche nazionali, dedichiamo del tempo, anche divertendoci, per trasmettere questi valori, i valori di cui vi ho parlato oggi, per trasmettere questi principi a dei ragazzi che magari sono stati più sfortunati di noi e che, partendo dal presupposto che nessun bambino nasce sbagliato ma le esperienze ti possono portare a commettere degli errori, grazie a degli altri tipi di esperienze possono trovare una strada più corretta, un rispetto, innanzitutto di se stessi e del perché sono venuti al mondo. Vorrei concludere dicendo che quei due bambini che si sono scontrati in quella partita, poi sono diventati due grandi amici. Berry è un bambino che ha delle grosse difficoltà, oggi è in una comunità, ha avuto un percorso difficilissimo sin da bambino, in Etiopia dove è nato, però hanno avuto modo di giocare tre anni insieme. Poco tempo fa, in uno scontro che c’è stato a Treviso tra delle bande, era stato coinvolto un amico di Riccardo, che è mio figlio e quando Berry è arrivato e ha riconosciuto che c’era Riccardo che stava osservando questa cosa e Riccardo gli ha detto “guarda che lì ci sono dei miei amici, dei ragazzi che giocano con noi”, il Berry ha fermato la sua banda e gli ha detto: “Quelli non si toccano perché sono dei ragazzi che giocavano a Rugby con me”. Allora anche se non sempre riusciamo a tirare fuori questi ragazzini dalle difficoltà, dai percorsi che stanno facendo, io credo che dobbiamo continuare a lottare perché è un seme che mettiamo, è un seme che prima o poi andrà a fiorire. Grazie.

DAVIDE PERILLO:
L’ applauso va naturalmente anche a Richi che se lo merita.
Marco Calamai, coach Calamai, raccontaci invece del tuo percorso, di perché a un certo punto hai smesso di allenare a livello professionistico e hai iniziato a fare basket con altre persone, incontrando un’altra periferia, un disagio, una differenza. Prego.

MARCO CALAMAI:
Grazie. Io volevo partire intanto dal percorso che mi ha portato qui, poi parlo del percorso che mi ha portato nella disabilità e a lasciare il professionismo. Intanto sono qui e di questo ringrazio gli organizzatori gentilissimi e gli amici qui di fronte a me, speciali: don Eugenio, Francesca, Paolo, Paola, Mauro, eccetera, che da tanto tempo mi chiedevano questo ed io non riuscivo a decidermi, però ora sono qui davvero con gioia e sento che i loro discorsi del passato rispetto al fermento, alla voglia di tanti ragazzi che sono qui, erano veri e quindi sento questa partecipazione e questa voglia. Vi racconto un episodio piccino che è successo ieri sera: mi avete assegnato uno dei vostri volontari, Alessandro, uno stuart molto bravo, molto competente; io non ho mai avuto uno stuart in vita mia, già vado poco in aereo perché ho anche paura, sicché gli stuart li conosco poco e mi ha detto stamattina che ieri sera, dopo qualche ora che ero qui ad ascoltare una presentazione di un libro e a vivere un po’ il Meeting, avevo un’altra faccia e un’altra luce; ecco, questo è la testimonianza che ho fatto bene a venire. Certamente il titolo del Meeting di quest’anno, le periferie del mondo, il disagio, mi ha molto preso. Credo che lì ci sia proprio la vita vera, dura, perché dire che la fatica è bella è una bugia, però è una vita non finta. Sono qui perché mi piace pensare che l’impensabile è davvero possibile, sennò non avrei fatto questo percorso con la disabilità. D’altra parte se uno, credo il più grande personaggio del Novecento, se Nelson Mandela ci ha regalato tante frasi tra cui “Sembra sempre impossibile una cosa fino a quando qualcuno non la fa”, mi pare che qui il titolo abbia azzeccato. E poi sono qui, e qui andiamo nell’argomento, per analizzare con voi, valutare e anche confutare questa affermazione, la seconda parte del titolo di questo incontro: “Quando con lo sport si diventa grandi”. Io credo che questa affermazione sia vera nell’avverbio ‘quando’, perché non sempre con lo sport, o almeno con l’immagine dello sport che oggi ci arriva, si riesca proprio a diventare grandi. Io credo che lo sport sia uno di quei mondi dove ci sono più contraddizioni, dove si passa da episodi di bieco razzismo a personaggi come Alfredo Martini, di una umanità, di una bontà, davvero un babbo buono del mondo dello sport e del ciclismo italiano. Ecco, è proprio molto ambivalente il mondo sportivo e secondo me è fatica dire che fa crescere uno sport dove regnano violenza e razzismo, business, furbizia, lotte di potere. Per fortuna, e il Rugby ne è un esempio di alto livello ma ce ne sono nel nuoto, in atletica, in tanti sport, ma non in tutti, per fortuna ci sono altri esempi, però non tutti sono così. Io, se vent’anni fa mi sono ribellato a questo mondo, invito voi che avete vent’anni oggi a pensare di poterlo fare, non allo sport tout court ma a una certa immagine. Mi chiedeva Davide perché questa scelta di lasciare il professionismo e un mondo, quello del Basket, uno sport meraviglioso, il più bello che esista secondo me. Ma è questo che mi ha permesso di agganciare un mondo delicato come la disabilità, perché credo di aver sempre pensato, anche da insegnante, che la persona debba essere al centro di un progetto sportivo e non il dio denaro e quindi è stata una scelta facile per me passare da un mondo che mi stava ormai stretto e dove certi valori erano ormai un po’ dimenticati a un mondo delicato ma molto ricco di umanità e di valori, come quello della disabilità mentale. Certamente una scelta che è frutto anche di un percorso interiore, di una ricerca di una verità, non posso dire il contrario, però è stato facile per me incontrare questi ragazzi quando ero pronto per farlo, e siccome credo che lo sport, con una visione troppo spesso performante, iper-agonistica, non mi pareva il mondo più adatto per portarci i miei ragazzi speciali, ecco mi sono spostato in una dimensione del gioco, inteso come momento di divertimento, di incontro con l’altro, di attività non ripetitiva e gioiosa. Chiedo alla regia di preparare il primo filmato che non è parlato, ma ci parlo io sopra e mi scuso con quelli che già l’avranno visto, ma questo è un filmato che da vent’anni porto perché è un esempio insuperato. Ecco, parlando di gioia e di felicità, io giro sempre con in tasca una palla, non posso portare quella da Basket perché è troppo grande, ma ricordo sempre questa frase di questa teologa tedesca Dorothee Solle, che a domanda di come spiegherebbe a un bambino la felicità rispose “non gliela spiegherei, gli darei una palla per farlo giocare”, dove, chi mi conosce sa, che l’importante è “per farlo giocare”, non per insegnargli a giocare, perché lui possa tirar fuori la sua felicità per un oggetto che affascina tutti, anche quelli che dimostrano apparentemente paura di toccarla. Prima che parta il primo filmato, vi do una chiave di lettura molto rapida: la bambina che prende la palla in questo momento è una bambina autistica, chiusa al mondo e anche alla palla che la viene a cercare perché è la vita; la prende ma, visto che la prende, la ingloba e la protegge e non vorrebbe passarla più, perché se proprio mi vieni a cercare ti tengo, poi vedrete una mano con una maglia blu che tocca la palla, la accarezza e dà l’indicazione con l’indice per dire: vai, la palla non brucia, non fa male, puoi passarla. Non è mia quella mano, non ero in grado di capire questa cosa, è di un altro ragazzo a sedere vicino a lei, psicotico, per la letteratura di allora e forse anche di oggi, inadatto a frequentare ragazzi autistici, ma se si cresce insieme la sofferenza ti unisce, la delicatezza la capisci dell’altro e dà la direzione. Vedrete quindi la capacità pedagogica dell’insegnante ragazzo nell’insegnare e vedrete la capacità di apprendimento della bambina che il primo giro ingloba la palla, il secondo giro la passa. Successivamente vedrete una serie di esercizi e vedrete un piccolo miracolo sportivo di un ragazzo cerebroleso che riesce con fiducia e con la magia dei compagni e della palla non a camminare sull’acqua, perché non è possibile, ma a recuperare di se stesso quello che è possibile. Quindi se gentilmente andate avanti vedrete queste immagini come proseguono. Questo è il momento della difficoltà e dell’autismo esasperato: la palla gira, la mano che avete vista di questo qui che si dondola, che è uno psicotico, passa la palla a un altro ragazzo, la bambina la prende e miracolosamente, fiduciosa dell’altro insegnamento, la passa. Questi sono dei piccoli esempi che hanno contraddistinto la mia vita in questi diciannove anni. Ora le immagini si spostano su un tiro a canestro: questo è il bambino che poi entrerà in gioco successivamente con il canestro e questi sono gli esercizi con cui abbiamo conquistato la fiducia di Sara, così si chiama, e nemmeno io vi so spiegare se quello che vedete, il modo in cui l’ho agganciata, è di strisciare la palla sulle gambe; ora lei a volte me la butta e a volte la butta via, io non vi so spiegare se quando la butta via è una provocazione di un bambino di dieci anni, se è una forma di autismo, ma non ve lo sa spiegare neanche uno psichiatra, so che è una lenta lotta coi ragazzi con queste chiusure, è veramente un corteggiamento insistente ma delicato. Qui l’obiettivo è più limitato: ci giochiamo la palla sul tavolo; qual è l’obiettivo? Tenerla sul tavolo, ma lei la butta via. Mi provoca o ha paura? Non mi interessa, io non devo cedere alla sua paura e non la posso aggredire, quindi ci vuole la delicatezza dell’insistenza e la dolcezza dell’insegnamento. Quello che a me interessa dimostrare, non a me ma a lei e ai compagni, è che lei è capace di capire perché, come vedete, la palla sopra la gioca, la gioca il minimo indispensabile, la tocca con la punta delle dita, cerca di non entrare troppo in contatto ma la tocca. Il gioco si sposta perché ogni passaggio deve essere seguito dal successivo. Il passaggio qual è? Giochiamoci la palla sotto il tavolo, con le mani, perché a Basket si gioca con le mani; e lei naturalmente torna sui percorsi che conosce: scusa ho imparato sopra, gioco sopra; no, giochiamo sotto, allora lei ubbidisce al mio richiamo ma anche alla sua paura, gioca con i piedi; io dico “no, puoi farcela con le mani”; lei mi dimostra e dimostra a se stessa che ce la può fare, lo fa, ma le ho chiesto troppo in uno spazio breve e quando la palla torna sopra, lei si alza e si richiude per un attimo nel suo autismo, ma non importa, ha dimostrato di aver fatto un passo avanti. E questo è il passo successivo: con il tavolo, perché da sola non ci arriva, tira a canestro. Adesso lasciate sfumare nella vostra mente queste immagini e concentratevi sul ragazzo successivo, che è quello che avete visto per un attimo, un ragazzo spastico, cerebroleso, tanto le parole non cambiano l’oggettività della cosa che è questa: lui, quando è arrivato, non riusciva a mettere la palla dentro nemmeno se gliela mettevo io. Vi garantisco che è più facile buttar dentro la palla che fuori, messa così, lui ha un blocco che deriva dalla patologia, un blocco di insicurezza e di paura che gli impedisce di realizzare un obiettivo. Lo vedrete da qui a pochi mesi il cambiamento. Questa è la mia palestra, dalla serie A, alla stalla di Stuffione di Ravarino, quindi quando sentite gli insegnanti, gli allenatori, i maestri che dicono “non ho il pallone, non ho la palestra”, mandateli a quel paese, perché si può fare tutto se uno ha voglia e fantasia. Questa è una vecchia stalla, ridotta in quel modo, ci abbiam portato Rai1, Rai2, cioè abbiamo lavorato lì. Vedete che qui la bambina non riesce a tirare da lontano, vorrebbe scegliere altre strade, io la rassicuro nelle sue capacità e questo è il suo tiro straordinario, tecnicamente perfetto. Questo è quello che era prima bloccato, che diceva no, che non camminava. Lui con un appoggio cammina passati pochi mesi, guardate la mobilità della testa, guardate come prende la palla e guardate come la mette dentro, sono passati pochi mesi. Dov’è il miracolo? Nella fiducia che noi abbiamo in lui, nella fiducia nei compagni. Ragazzo psicotico che dovrebbe essere aggressivo nella sua paura, che delicatamente consegna il pallone e questo ragazzo che fa canestro, perché lo può fare, perché noi non possiamo insegnare quello che non si può fare, noi possiamo solo tirare fuori, questa è la neuropsichiatra con cui lavoro, quello che lui può fare. Questo è l’aspetto, secondo me, straordinario di questo gioco e qui dovrebbero sfumare le immagini su questo primo filmato. Allora, questo è insuperato da diciannove anni, è uno dei primi episodi, infatti, il filmato è molto artigianale, dell’inizio della nostra attività. Vi dicevo il passaggio all’aspetto giocoso, ma per forza, perché è una riflessione che ho già condiviso con alcuni di voi ma non è superabile questa qui, cioè non è che lo sport sia cattivo e il gioco sia bello. Lo sport diventato nelle forme che vi descrivevo non è positivo ma l’aspetto del gioco invece è fondamentale. Riportando, come dico sempre, questa frase di Umberto Eco che non è certo uno sportivo e dato che prima Davide citava i bisogni, “il gioco è uno dei cinque bisogni che abbiamo: gioco, conoscenza, affetto, nutrimento e riposo”. Sì, non sono tanti quelli che indica lui, ma il gioco inteso come aspetto di incontro, di divertimento, di crescita, di crescere come fanno i bambini o i cuccioli, imitando nel gioco i grandi e crescendo insieme. Lo sport è un pezzettino, il gioco è tutto, è una dimensione umana, lo sport è un pezzetto insignificante del gioco, è il gioco regolarizzato, catalogato, con le classifiche, campionati, ma senza il gioco non si può vivere nel mondo, senza lo sport si fa più fatica, allo sport sano penso, senza un altro sport, forse, si sta anche meglio e certe esasperazioni sicuramente non vanno bene. Allora io mi sono sempre chiesto e vi chiedo: è possibile recuperare con fatica un altro modo di fare sport, quello che abbiamo visto prima, gli esempi di Massimiliano, del Rugby? Io credo che sia possibile e se io sono qui e se voi siete qui credo che lo riteniamo possibile. Poi il titolo parla della luce delle periferie del mondo; ecco io credo che vent’anni fa, facendo questa scelta che nasce da una fatica che facevo nel mondo della pallacanestro strutturata, con i procuratori, gli agenti, che comandavano sulle società, comandavano sui giocatori, giocatori che guardavano le statistiche invece di guardare i compagni, non mi stava più bene questa roba qua, però cercavo qualcos’altro e quando tu cerchi qualcos’altro, se fai l’errore che ho fatto io, di aspettare per anni che il qualcos’altro si manifestasse, non si manifesta mai, ma se hai il coraggio di dire basta a un mondo che ti sta stretto e vai verso un mondo nuovo che non sai qual è, forse puoi azzeccare ed io ho azzeccato, ho lasciato quel mondo e ho incontrato questi ragazzi. Allora non vi dirò mai che disabilità è bello perché è faticoso, io parlo di disabilità mentale, però lì ho trovato, in questa periferia, che poi è centro, ma chiamiamola periferia, quello che cercavo, la luce che volevo. In che cosa? Nella generosità, in quelle qualità nascoste che non sono spendibili nel nostro mondo – parlo di memoria, parlo di altruismo, parlo di intuito, parlo di intelligenza sociale, parlo di bontà – ma che esistono, che sono qualità uniche, e quindi credo di essere diventato, attraverso questo, diciamo, un allenatore un pochino più completo. Vi spiego perché si trova la verità in questa periferia: perché i disabili sono veri, i miei disabili mentali sono veri, perché? Avendo meno strumenti di contatto con una realtà malata come questo mondo, sono meno corrotti, sono più vicini a quel bambino, ai bambini appena nati, più puri, e quindi sono più diretti. Se ti dicono “mi stai antipatico”, state sicuri che è vero, ma anche se vi dicono “vi voglio bene o mi sei mancato” è vero e questa è una benzina pulita che ti entra dentro. Le mie squadre sono miste, non maschi e femmine sicuro, non disabilità diverse, down, psicotici o autistici sicuro, ma parlo di normodotati e di disabili e sapete chi sono i normodotati? Siete voi, i ragazzi che hanno quindici anni, diciotto anni, vent’anni, che sono qui. Quando io sento raccontare sui giornali o leggo o vedo alla televisione che gli adolescenti di oggi sono poco emotivi, asettici, disinteressati, mi scappa da ridere, perché è vero che sono così, ma per fortuna che sono così, che si difendono da un mondo falso e fasullo come questo. Ma di fronte a un progetto di aiutare gli altri, come questi ragazzi, io non devo chiamarli, vengono loro, venite voi, ed io non devo insegnargli niente, loro sanno come si prende un autistico. Chi gliel’ha insegnato? La vicinanza di quando sono nati, la loro purezza e il bisogno di dare qualcosa a qualcuno. Nasce allora questo mix interessantissimo, secondo me, di normodotati e disabili che si aiutano insieme, perché è una balla colossale che l’integrazione, ora va di moda dire inclusione, fa bene a quelli in difficoltà, no fa bene a tutt’e due, perché i quindicenni che vengono cambiano. Alcuni genitori mi dicono: ma sa che non risponde più a casa, non sbatte le porte; a scuola m’han detto: che è successo? Si è messo a studiare. Io non gli ho fatto nulla, stare con chi ha bisogno gratifica, fa crescere, quindi la crescita è su due binari. Noi abbiamo fortuna a lavorare con questo mondo e con questi ragazzi. Ecco, io credo che a questo punto, se riusciamo a mandare il secondo filmato, voi vedrete – ed io non parlo qui perché più di un minuto non ho mai parlato – voi vedrete, e li riconoscerete da soli, disabili e normodotati giocare insieme ma contro chi giocano? Non giocano contro altri disabili o squadre miste, giocano contro normodotati, giocano nel torneo dell’ASPI, che è il torneo San Paolo Italia, delle parrocchie, e vincono e vinciamo, perché io sono in panchina duro, perché li rimprovero, perché loro hanno qualità, perché il normodotato diventa stimolo e sprone e supporto per il disabile e il disabile per imitazione, per orgoglio, dà tutto: guardateli in faccia. Possiamo partire col filmato, ascoltate quello che vi racconto in questo minuto.

Video

Ecco, su questa panchina che vedete, ce ne sono quindici o sedici a sedere, perché l’unica concessione che abbiamo avuto in questo torneo è che noi giochiamo in quindici o sedici, cinque in campo ma con molte riserve, il che è un limite, perché più gente porti, più ne devi far giocare, più è difficile, però cerchiamo di far giocare un pochino tutti. Riflettete sull’attenzione che avevano, pensate a certe immagini televisive dove c’è un giocatore che butta in terra la maglia, un altro che manda a quel paese l’allenatore – uno dei motivi per cui ho smesso è anche questo, sennò sarebbe stato un litigio continuo, perché non ci sto che uno mi mandi a quel paese se alleno – guardate questi come stanno attenti, è una cosa straordinaria, e penso che sia un aspetto su cui riflettere. Avete visto: ragazzi dai quindici ai trent’anni, normo e disabili, che possono giocare insieme; gli altri erano scarsi ma erano tutti normodotati e a loro come a molte altre squadre gli è toccato anche di perdere. Questo ha cominciato anche a far notizia, perché voi sapete che la notizia la fai se fai delle cose strane: disabili che battono i normodotati fa notizia, ma non è strano perché ci sono tante qualità nascoste. Grazie

DAVIDE PERILLO:
Grazie molte perché conviene andarci nelle periferie come dice il Papa. Periferie, Paraguay e i ragazzi borderline che hai incontrato tu. Raccontaci come sei arrivato lì.

PEDRO SAMANIEGO:
Buonasera, prima di tutto vorrei ringraziare quelli che mi hanno ringraziato per essere qui con voi. Evidentemente questa è una parte della mia storia perché sono stato qui quattro anni fa’ a raccontare qui la mia storia. Adesso farò una piccola sintesi: ho conosciuto le persone della Cdo Sport, ho raccontato loro un po’ quello che stavo facendo e mi avevano suggerito come stimolo di utilizzare lo sport per stare insieme con i ragazzi.
La storia della mia vita è un po’ particolare: sono di professione contabile, ho lavorato in questo settore da quando mi sono laureato. Per le iniziative del movimento al quale appartengo, che è quello di Comunione e Liberazione, ho frequentato il carcere minorile di Asunción per imparare a vivere la dimensione della gratuità. Da questa presenza quindicinale, in questo luogo è nata l’amicizia, e da questa amicizia è nata una casa, da questa realtà dolorosa di tanti giovani che sono rifiutati dalla società è nata questa relazione impensabile: una casa alla quale abbiamo dato il nome della Madonna protettrice del Paraguay la “Vergine di Caacupé”. Sono quindici anni che sono coinvolto in questa realtà molto difficile del nostro Paese di molti adolescenti che commettono delitti.
Adesso vi faccio vedere qualche slides per far capire meglio la nostra storia.
Questo è il luogo dove ho cominciato a fare la caritativa, la mia presenza nel carcere non ha mai avuto l’intenzione di risolvere il problema e la situazione è evidentemente molto, si può dire, catastrofica, molto dolorosa. All’inizio la casa è nata per accogliere quelli che già avevano completato la condanna, oggi è una casa aperta anche ai ragazzi che devono ancora completare la condanna e la casa stessa è gestita da un’associazione. La capacità della casa attualmente è di ventiquattro ragazzi, che per ordine diretto del giudice completano il programma stabilito dal giudice stesso. L’esperienza più bella che viviamo nella casa è proprio la vita stessa, una presenza costante, potremmo dire una convivenza 24 ore su 24. Esige da parte nostra una profonda capacità di donare e di condividere tutto. Lì, in effetti, ci sono un po’ tutti, come una rappresentazione, potremmo dire così, dei limiti e delle capacità e delle incapacità umane, in questi anni è diventato davvero uno spettacolo per gli occhi di Dio e anche degli uomini stessi.
Per molto tempo la nostra è stata un po’ come un’esperienza nascosta nella regione, perché la gente attorno aveva paura di noi, pensavano, infatti, che, come d’altra parte la mentalità dominante, fossimo un potenziale pericolo nel senso che avremmo potuto causare qualche tipo di vandalismo nella zona. In questa circostanza abbiamo pensato di aprire una proprietà vicino alla casa, un nuovo spazio per dare la possibilità di accogliere un po’ tutti i giovani della località che stava attorno alla casa stessa, perché all’inizio aveva creato un po’ le condizioni per avere paura e nella parte della popolazione attorno come un aspetto di sospetto, quasi di paura appunto. Vedendoci contenti, felici, capaci anche di un certo ordine, lavoratori, studiosi, hanno incominciato a desiderare quasi la stessa cosa per i loro figli e per questo abbiamo preso la decisione di aprire questo spazio e l’abbiamo chiamato “Centro per lo sviluppo umano don Luigi Giussani”. Uno spazio per dare la possibilità a tutti di introdursi un po’ di più, diciamo, nella vita della casa stessa e così dentro il Centro che vediamo nelle slides, di pensare anche allo sport come uno strumento di sviluppo, in modo particolare attraverso il calcio che è uno sport particolarmente praticato nel mio Paese. All’inizio abbiamo pensato di proporre questa esperienza sportiva solo per i ragazzi che vivevano nella casa, all’inizio era così, poi si è trasformata nel tempo come un luogo per praticare lo sport sia per i ragazzi all’interno della casa e sia per tutti i ragazzi che stavano fuori dalla casa e quindi nella zona circostante. Si sono sentite attirate anche persone adulte, per partecipare all’attività stessa della casa e così nel tempo si è creata la condizione perché gli stessi adulti non si trasformassero solo in atleti ma anche in educatori di se stessi e dei giovani. Il Centro non fornisce soltanto un’attività sportiva ma dà la possibilità di frequentare una scuola e così si creano le condizioni perché, di fatto, i ragazzi possano avere una formazione, possano recuperare gli anni perduti e possa compiersi uno degli obiettivi della nostra associazione, che è quello di una risocializzazione, di un reinserimento dei ragazzi stessi nella società. In questo Centro è offerta la possibilità di recuperare gli anni perduti sia per i ragazzi della casa, sia anche per i ragazzi della zona. Il divertimento, che è evidentemente causato dallo sport, ha chiesto anche a noi stessi educatori, a noi adulti, di andare un po’ al fondo della questione, per essere in grado di comunicare con lo sport il senso profondo, il senso delle cose Vediamo che questi ragazzi hanno necessità di adulti, di veri adulti; adulti che non siano adulti per modo di dire, ma nei quali gli stessi ideali siano incarnati in modo da essere essi stessi punto di riferimento per i giovani stessi. Quello che è successo a me quindici anni fa’, dalla passione per la mia vita, nello scoprirmi amato, ha come risvegliato la stessa passione per gli altri, passione che si è comunicata quasi per osmosi a tutte le persone, possiamo dire, del quartiere, della regione, della zona vicina circostante. E’ come se ci guardassero in maniera stupita per tutto quello che è accaduto e accade in mezzo a noi. Questa forma di contagio ha permesso di sviluppare una formazione che va’ al di là di una proposta tecnica o metodologica. Ciò che all’inizio era praticamente impensabile o inarrivabile, cioè tenere nella casa giovani con il peso della condanna e giovani liberi della zona circostante, è accaduto e ora si ritrovano tutti desiderosi di trovare una risposta alle esigenze più profonde del loro cuore. Si incontrano uniti come un unico cuore che batte per il bene più grande che desiderano e cioè la felicità. E così abbiamo scoperto che è possibile tutto, quando ci si aspetta fondamentalmente qualche cosa di buono, e così adulti e giovani si sentono sempre di più coinvolti come amici e non soltanto come atleti. Grazie.

DAVIDE PERILLO:
Grazie Pedro. E’ molto tardi, però ci tengo a fare una domanda a cui vi prego di rispondere con una battuta secca: Che cosa state imparando dal lavoro che state facendo? Proprio trenta secondi di risposta. Max

MASSIMILIANO RUGGIERO:
Io mi ritengo una persona molto fortunata e fare questo tipo di attività mi mantiene con i piedi per terra e mi fa capire che ci sono tante persone che sono in difficoltà ma che c’è comunque una speranza, perché quando si ha successo con uno di questi ragazzi, tu ti senti bene; quindi lo faccio un po’ egoisticamente, un sano egoismo. Perché il loro successo diventa il mio successo e mi mantiene vivi quei valori che mi permettono di lavorare bene e di stare meglio con le persone che stanno bene, con la mia famiglia, con i miei colleghi.

DAVIDE PERILLO:
Chiarissimo grazie. Calamai, cosa stai scoprendo tu e cos’è il Basket che nel tuo lavoro è diventato un modo per scoprire te stesso ancora di più?

MARCO CALAMAI:
Sì, sinteticamente credo che questa sia la disciplina, secondo me, più adatta per incrociare, mettersi in relazione con le persone con disabilità mentale. Ci sono tutti i principi della vita nella pallacanestro: l’alto del canestro, il basso del terrone, il forte di un blocco e il delicato di un passaggio. E’ un gioco che mette in relazione e quindi c’è tutto. Io ho imparato parecchie cose: ho imparato a essere un allenatore che ascolta, mentre prima ascoltavo poco, perché loro si sanno ascoltare, che sa aspettare perché loro si sanno aspettare: ragazzi veloci che aspettano i più lenti. Ho imparato che per loro le regole sono importanti come forma di guida e non come imposizione e soprattutto ho imparato che i gruppi veri non sono i gruppi delle mie squadre del passato, che erano molto unite e che si rispettavano molto, ma i gruppi dei disabili vanno al di là, lì non si parla di rispetto e di tolleranza. Aver rispetto come sai è in latino respicere, guardare lontano, lì si parla di osmosi, di fusione e di accoglienza: io ti ho accolto per come tu sei, io ti prendo per come tu sei. Ecco io ho imparato che questi gruppi, attraverso la passione, il patire l’altro e l’accettarsi, sono davvero dei gruppi uniti in questo modo. Io non lo sapevo e questo me l’hanno regalato e ho solo il merito di averli saputi ascoltare. Grazie.

DAVIDE PERILLO:
Stessa domanda per Pedro: Tu cosa stai scoprendo in te in questo lavoro?

PEDRO SAMANIEGO:
Sì, io ho appreso da questa esperienza, come ha detto Calmai, la vera gratuità, non pretendere nulla dall’altro, accettarlo come è, anche se uno può essere il peggiore delinquente. Seconda cosa: che io evidentemente non posso cambiare la testa di nessuno, però posso vivere insieme una diversità che può svegliare la stessa passione che mi muove.

DAVIDE PERILLO:
E’ molto tardi, non c’è niente da aggiungere a quello che hanno raccontato i nostri amici. Mi permetto solo di osservare due cose rapide: la prima, che normalmente quando si parla di sport in questi termini si parla di sport “a misura d’uomo”, come se si dovesse ridimensionare, come se fosse una dimensione più ridotta rispetto allo sport vero, che invece è quello di cui si parlava prima: lo “show business”. Invece parlarne così, viverlo così, è la modalità vera di viverlo, perché l’unica misura vera dell’uomo è l’infinito, desiderare l’infinito, che abbiamo visto all’opera, abbiamo visto nei filmati in quei ragazzi che tiravano a canestro, abbiamo sentito raccontare dai nostri ospiti qua. La seconda osservazione: è vero che lo sport educa, può educare, non è detto che lo faccia ma può educare, non solo perché istilla dei valori, il rispetto, la tolleranza, il rispetto delle regole, l’ altruismo, ma educa soprattutto perché attraverso il rapporto, attraverso questa compagnia che ci si fa tra chi allena e chi viene allenato, si cresce insieme e viene fuori l’uomo. Educa perché tira fuori l’uomo, quello che è, quello che è veramente, quello che non sa di poter fare, ma scopre di riuscire a fare.
Terza cosa che mi permetto di osservare, molto rapida: è impressionante perché si cresce insieme, si cresce insieme, loro crescono facendo questo lavoro e noi cresciamo ascoltandoli. Si capisce di più perché se si è leali con il proprio desiderio, se si è leali con il proprio cuore quando il mondo lo si sente un po’ stretto, come diceva Calamai prima, e si inizia a farsi la domanda che ci ha fatto il Papa nel messaggio inaugurale “cosa cercate veramente?”, se si è leali con questo desiderio e se si cerca veramente, nasce quello che abbiamo sentito e nasce insieme con gli altri, e allora anche loro e anche noi attraverso di loro stiamo scoprendo qualcosa andando in queste periferie che abbiamo visto raccontare oggi. Ecco, conviene andarci perché abbiamo capito che da lì le barriere si abbattano: abili e disabili giocano insieme, borderline e ragazzi del “quartiere bene” vivono insieme e il mondo si capisce meglio, soprattutto scopriamo di più noi stessi. Grazie tantissimo agli ospiti, grazie a voi che siete qui e vi prego purtroppo di lasciare con una certa rapidità la sala perché ci sarà un incontro subito dopo, ma prima vi ricordo due cose: l’incontro è organizzato dalla CDO sport; in questi anni sono usciti due libri che raccontano e vanno a fondo proprio dell’esperienza educativa nello sport: Bellezza, ascesi, utilità e il secondo appena uscito: Bellezza, gratuità e cameratismo. Sono due libri che raccolgono testimonianze e interventi che permettono di approfondire quello che abbiamo sentito stasera e sono in vendita all’uscita, così come appena si esce da qua, nello stand della CDO sport, padiglione A5, coach Calamai riceverà il premio “Retina d’oro speciale 2014” organizzato e promosso da Unicredit; mentre mercoledì alle 18 al Villaggio Ragazzi ci sarà un altro incontro sullo sport con Nando Sanvito, che presenta la videostoria sportiva “In Alto i cuori”. Grazie, buonasera a tutti.

Data

26 Agosto 2014

Ora

17:00

Edizione

2014

Luogo

Sala D3
Categoria
Incontri