LE INGIUSTIZIE E LA GIUSTIZIA

Le ingiustizie e la giustizia

Interviene Giovanni Legnini, Vice Presidente del CSM (Consiglio Superiore della Magistratura). Introduce Roberto Fontolan, Direttore Centro Internazionale di Comunione e Liberazione.

 

Ore: 19.00 Salone Intesa Sanpaolo A3
LE INGIUSTIZIE E LA GIUSTIZIA

Interviene Giovanni Legnini, Vice Presidente del CSM (Consiglio Superiore della Magistratura). Introduce Roberto Fontolan, Direttore Centro Internazionale di Comunione e Liberazione.

ROBERTO FONTOLAN
Buonasera, siamo un po’ intimiditi a prendere la parola da questo palco. lo dico per chi ha assistito all’incontro precedente, che ha avuto una certa intensità e densità. Faremo del nostro meglio per trascorrere insieme questo tempo.
Giovanni Legnini ha un’intensa storia di impegno politico e amministrativo, di servizio alla polis, e negli ultimi 4 anni è stato vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura. Quindi Giovanni Legnini fa le veci del Presidente della Repubblica in questo importantissimo organismo. Si è occupato a lungo, intensamente, profondamente, in questi anni, dei temi della giustizia; è venuto anche al Meeting a parlarne, in un’altra occasione molto bella, insieme al giudice Giovanni Canzio. Il titolo che ci siamo dati, che lui stesso ha voluto imprimere a questa nostra conversazione, è “Le ingiustizie e la giustizia”. Io comincerei da questo punto: che cosa sia giusto e che cosa non lo sia, se il vero e il giusto coincidano, se possa mai esistere un corretto rapporto tra potere e giustizia. Sono tutti temi che agitano il pensiero umano da sempre, a volte anche in modo molto profondo, molto drammatico. Abbiamo avuto anche degli echi poco fa, di un rapporto tra il male e il giusto: è un problema che assilla in qualche modo l’umanità da quando l’umanità ha cominciato a farsi domande sul destino, sull’esistenza. E tra l’altro è ritornato un po’ questo tema in questo periodo perché Luciano Violante e Marta Cartabia hanno da poco pubblicato un volume che si intitola Giustizia e mito, in cui, ripercorrendo le figure delle tragedie greche classiche, Antigone, Edipo, Creonte, hanno riportato d’attualità tutte queste grandi tematiche. Abbiamo anche avuto la grande evocazione di Giobbe, nell’incontro precedente, con l’universalità della sua vicenda. Vorrei sapere da Giovanni Legnini se, anche in base a questa attività, a questa presenza, a questo servizio alla polis, alla repubblica, al nostro Paese in questi anni, pensa che potremo mai dare una risposta alla domanda: «Che cosa è davvero la giustizia?». Anche perché di giustizia parliamo sempre in relazione a qualcosa, è una di quelle cose che non si danno da sole, sono sempre “rispetto a” qualcos’altro: all’errore, al male, alla vita collettiva, alla politica, al potere, al contesto reale delle nostre vite. Intanto benvenuto, bentornato qui. Spero che, anche se il mandato da vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura sta per scadere (manca circa un mese), non sarà una buona ragione per non tornare al Meeting in altre occasioni. Continuerà questo nostro dialogo nel tempo, ma volevo affrontare un po’ il tema di fondo: come possiamo definire la giustizia? A noi umani è concesso definirla, sapere bene che cos’è, oppure no?

GIOVANNI LEGNINI
Innanzitutto grazie al Meeting per questo rinnovato invito, per questa opportunità. Lo dicevo a te nel ringraziarti per avermi condotto verso questo dialogo; l’ho detto anche ad altri amici che ho incontrato: il Meeting di Rimini è sempre stato un luogo straordinario di confronto, di dialogo tra varie culture, nel Movimento, tra il Movimento e altri interlocutori di varia estrazione, ma forse in questo momento storico questo luogo, questo evento, questo appuntamento è uno dei pochissimi nei quali è possibile sviluppare il dialogo, il confronto. Il che gli conferisce ulteriore forza ed ulteriore valore nell’interesse di tutti quanti noi, nell’interesse degli italiani. In secondo luogo io sono abituato ad accettare le sfide, ad affrontare situazioni difficili, in questi anni ne ho vissute molte di situazioni difficili, alcune non riferibili per ragioni ovvie di riservatezza; ma affrontare la sfida di un dialogo dopo aver ascoltato don Julián Carrón in quella platea, in quel contesto, con quei contenuti così densi e così intensi e così pieni di stimoli e di riflessioni, è una sfida davvero difficile, quindi sono grato a ciascuno di voi per la vostra presenza e per la pazienza che avrete. La tua domanda si pone, lo dicevi già in premessa, in relazione con le riflessioni che abbiamo ascoltato fino a poco fa. Quella domanda, quell’interrogativo di Giobbe, quel “perché?” è espressivo di questo interrogativo che tu riproponevi in altro modo: «Che cosa è giusto e che cosa è ingiusto?». È un interrogativo drammatico per ciascuno di noi, per la comunità umana nel suo complesso, lo è da sempre. Ma oggi presenta aspetti inediti, perché sempre tra la dimensione etica, quella morale e quella del diritto (quella giuridica, quella dell’ordinamento) vi è stata una qualche asimmetria, un disallineamento, pur in presenza (con qualche cesura nella storia) di una tensione costante verso un ordinamento capace di recepire nella norma, nella regola giuridica, la legge morale, la dimensione etica. Da qualche tempo assistiamo ad una crisi di questo rapporto, pur necessario, indispensabile. Crisi che si è particolarmente accentuata negli ultimi anni. Ciò che viene ritenuto giusto da ciascuno di noi o da una parte della società non sempre trova riscontro nella legge, nell’ordinamento. Ciò che l’ordinamento ritiene essere giusto, quindi ciò che è norma imperativa, non sempre viene percepito come giusto dalla comunità, dalla collettività o da una parte dei cittadini. Vi è un qualche conflitto tra le due dimensioni. Eppure, ripeto, la necessità di una relazione, della regola morale che si aggiunge, che integra, che va oltre quella giuridica è una necessità. È una necessità per ciascuno degli Stati, è una necessità per ciascuno di noi. La Cei già nel 1961, con un documento sulla legalità, sottolineò questa difficoltà. Cito testualmente: «Il rispetto della legalità è chiamato ad essere non un semplice atto formale, ma un gesto personale che trova nell’ordine morale la sua anima, la sua giustificazione». Quindi questo fondamento insopprimibile, ineliminabile. «Ciò spiega come la caduta del senso di legalità può avere radici diverse, che vanno dal modo di gestire il potere, di formulare le leggi, al senso di solidarietà tra gli uomini e alla loro moralità». Dunque la caduta del senso di legalità aveva già allora una radice, quella della crisi del senso di solidarietà, di una crisi del modo di gestire il potere. Una riflessione, un dibattito che ha interessato peraltro giuristi, studiosi, operatori del diritto, avvocati e magistrati, che si proietta fino ai giorni nostri, giorni nei quali appunto questa contraddizione sembra, come dicevo, accentuarsi. Eppure abbiamo bisogno di riallineare il senso di giustizia insopprimibile per l’uomo con l’adeguatezza dell’ordinamento. Dov’è la crisi a cui mi riferivo poco fa? La crisi è nel fatto, appunto, che gli Stati nazionali, i legislatori e, ne parleremo dopo, anche in qualche misura i giudici, la magistratura, non sempre riescono a interpretare quel senso di giustizia che è in continua evoluzione ed è in continua evoluzione anche per effetto del cambiamento d’epoca di cui ha parlato papa Francesco che riguarda molteplici aspetti. Quindi noi abbiamo (e chiudo su questa prima sollecitazione) bisogno di ripensare ad un sistema normativo, a contenuti del nostro ordinamento giuridico, al diritto nel suo complesso come un sistema capace di raccogliere le domande di giustizia, a fronte di vecchie e nuove ingiustizie. Questo è il senso di questa prima risposta che mi sono incaricato di dare.

ROBERTO FONTOLAN
Se interpreto bene, abbiamo come due dimensioni: una dimensione che accompagna da sempre la vita, il pensiero, la riflessione su che cosa è la giustizia e questo è, come dire, permanente nella coscienza dell’uomo, nelle generazioni. C’è sempre un tema che riguarda che cosa è la giustizia. Poi su questo però si innesta, direi, la mobilità del tempo, gli eventi, i contesti che cambiano, le culture, le società, i nuovi bisogni, le nuove problematiche. È su questa dimensione che si riscontra questa grave crisi, se capisco bene.

GIOVANNI LEGNINI
È così, è così e questo fenomeno che tu descrivi porta diritti verso un altro punto di crisi. Quando io parlo di crisi parlo di una accezione migliore, cioè di una difficoltà, di una rottura capace però anche di generare nuove speranze, cioè il fatto che a fronte di una funzione antica, storica della legge, della regola giuridica, di leggere i fenomeni della vita, di contenere la realtà, di prevedere i fatti – i fatti non solo quelli accaduti, mi sembra ovvio, ma quelli che possono accadere – la norma non può che applicarsi per l’avvenire, per il futuro. A fronte di questa antica attitudine che portò a definire nel corso dei secoli, fino alle costituzioni moderne, il senso dello Stato, della statualità, il primato della legge, noi oggi viviamo una crisi. La crisi la viviamo perché i fatti della vita, i cambiamenti ai quali assistiamo, anzi che viviamo, sono più rapidi della capacità del legislatore di dettare la regola per il caso e per il fatto che si verifica. Potrei fare molti esempi: c’è qualcuno che fino a molti decenni fa poteva prevedere i flussi migratori ai quali assistiamo? C’è qualcun altro che poteva prevedere il carattere rivoluzionario, pervasivo, della digitalizzazione nella vita di ciascuno di noi? C’è qualcuno che poteva prevedere venti anni fa gli effetti di una crisi economica così devastante? Non solo per il nostro Paese ma per l’intero occidente? Gli effetti sociali ed economici sulla vita delle persone come quelli che abbiamo registrato negli ultimi dieci anni? E il potere statuale, il legislatore è stato capace di fornire la regola efficace per intercettare quei fenomeni che sono andati manifestandosi con molta forza, con molta virulenza? Questo è l’interrogativo che oggi i giuristi, ma non solo i giuristi, anche i governi, i parlamenti, si pongono con maggiore forza. Questo interrogativo è tanto più rilevante, rilevante in modo tale da costringere a ripensare anche al modo con il quale si provvede alla produzione normativa, ad emanare le regole ed è tanto più rilevante se si considera che quei fenomeni che segnano il cambiamento d’epoca di cui ha parlato papa Francesco si svolgono per gran parte su base sovranazionale, su scala globale. E la dimensione statale è diventata troppo ridotta per poter intercettare fenomeni che sovrastano gli Stati, che vanno oltre i confini nazionali e poiché la norma imperativa non può che disciplinare i fatti che si svolgono dentro i confini dello Stato che emana le norme, questa crisi presenta ulteriori profili, genera ulteriori interrogativi. Non è un caso che si parli sempre più tra i giuristi di cosiddette fonti multi livello, cioè non più solo la fonte statuale, ma la fonte di derivazione europea, il diritto europeo, che ormai pervade gran parte dei fatti della vita di ciascuno dei cittadini dell’Unione europea; e poi le fonti pattizie, quelle convenzionali e poi le fonti di diritto internazionale, che vanno crescendo sempre di più per necessità. La necessità di una visione globale, di un potere globale, capace di regolare quei fenomeni. D’altronde potremmo fare su questo moltissimi esempi, anche di stringente attualità. Citavo prima il fenomeno delle migrazioni, ma potremmo citare alcuni fatti che hanno occupato le attenzioni degli Stati, dei governi, dei parlamenti, delle magistrature, italiana, ma non solo italiana. Ad esempio il trattamento fiscale dei giganti del web, questa grande capacità elusiva sotto il profilo fiscale che essi hanno manifestato, oppure tutti i temi che afferiscono alla tutela e alla riservatezza personale, a fronte di una enorme capacità di immagazzinamento di dati, di informazioni, da parte dei social media e non solo, nei termini che conosciamo, che si sono manifestati. Ecco, questi fenomeni, la globalizzazione di questi fenomeni indeboliscono gli Stati, indeboliscono la forza della legge, e questo è un altro fattore di crisi. Ma è uno dei fattori di crisi che deve spingerci verso una maggiore integrazione, io sono convinto verso una maggiore integrazione europea, verso un dialogo, verso un confronto, verso l’individuazione di strumenti di governo mondiale, che sono sempre più necessari.

ROBERTO FONTOLAN
Nel dibattito politico europeo degli ultimi anni e forse non solo europeo, questo fenomeno della globalità delle dimensioni e la diminuzione di peso, diciamo, dell’ordine classico dello Stato, in tanto dibattito politico recente ha scatenato fenomeni al contrario, come il tentativo di recuperare sovranità degli stati e di allontanare invece il peso della globalizzazione, che siano essi organismi internazionali, che siano fenomeni dell’economia, della finanza, ecc. C’è un po’ questa divaricazione forse…

GIOVANNI LEGNINI
Ciò che tu descrivi è una reazione, guai a noi se sottovalutassimo le ragioni, la forza di questa reazione che va sotto il nome di sovranismo, lo vogliamo chiamare riaffermazione delle ragioni degli stati nazionali, tutela delle identità, delle nazioni, chiamiamolo come ci pare ma è evidente che questa reazione si produce se le risposte che un tempo gli stati nazionali, la legge, gli ordinamenti giuridici riuscivano a fornire non vengono fornite da altri soggetti. In fondo la crisi dell’Europa ha anche questa ragione. Io credo che questo che tu indicavi costituisca uno dei temi più drammatici, che incidono – e lo stiamo vedendo nel nostro Paese e non solo nel nostro Paese – nell’orientamento dell’opinione pubblica e che incide, fenomeno che incide anche sulla domanda principale a cui tu ti riferivi: che cosa è giusto, che cosa non è giusto, poiché un ordine morale, una scala di valori, una conseguente sistema di regole, che un tempo erano sedimentate su scala nazionale non sono più capaci di fornire le risposte nei termini che dicevo. Si genera incertezza, si genera disorientamento e quelle incertezze, quel disorientamento, quelle paure, portano a posizioni che tendono a riaffermare appunto le ragioni del confine, dei confini, le ragioni delle identità, alle quali noi eravamo abituati fino a non molto tempo fa, prima che si producessero i grandi cambiamenti. Ma pongo un interrogativo ovvio, scontato, che è presente nelle riflessioni di ciascuno di noi quotidianamente: sarà sufficiente quella risposta di chiusura, di ritorno, appunto, alle certezze degli stati nazionali, a risolvere i problemi ai quali abbiamo fatto cenno, a fornire risposte alle nuove ingiustizie, quelle generate dalla globalizzazione? Ecco, proviamo a riflettere sui contenuti, ad esempio, di due grandi encicliche, dei due Papi viventi. La Caritas in veritate e la Laudato si’. La Laudato si’, che affronta come tutti sappiamo l’enorme tema ambientale, della sostenibilità, dedica un capitolo intero alla giustizia, ponendo in relazione l’aggressione alle risorse naturali, lo sfruttamento discriminatorio delle risorse naturali, la limitatezza delle risorse naturali, con le diseguaglianze, con una nuova domanda di giustizia, con la necessità, quindi, di definire regole, un quadro anche giuridico, oltre che morale, capace di governare i fenomeni che avvengono in parte sui territori, e quindi governabili dagli stati, per altra parte su base globale. Pensiamo per esempio a tutto il tema dell’inquinamento atmosferico, dei cambiamenti climatici.

ROBERTO FONTOLAN
E la Caritas in veritate che hai citato?

GIOVANNI LEGNINI
La Caritas in veritate è un vero e proprio programma economico globale, io così l’ho interpretato e l’ho letto, in filigrana ovviamente, ricchissimo di contenuti e pone mille interrogativi sulla globalizzazione innanzitutto e sulla necessità di riallineare attraverso la carità, attraverso il dono, attraverso la gratuità, di riallineare quelle regole morali, quella scala di valori di cui tutti abbiamo bisogno, anche con un ordine economico e quindi con un ordine giuridico. Anche quella è una fonte inesauribile di spunti e di riflessioni capaci di fornirci una chiave di lettura di ciò che sta accadendo e anche delle risposte che non riusciamo a dare ai problemi, ma anche alle opportunità che l’umanità ha di fronte a sé.

ROBERTO FONTOLAN
C’è un libro che ha fatto molto successo nei nostri paesi dall’anno scorso, il libro di un pensatore studioso anglo-indiano, Pankaj Mishra, che si intitola L’età della rabbia. Ha avuto un enorme successo, un best seller internazionale, perché anche solo con il titolo (il libro è documentato, un analisi molto importante, piena di lavoro serio) ha trovato il modo, con una didascalia, che in un attimo, in un istante, fa capire qualcosa di questa nostra epoca, di quello che dicevi sui grandi fenomeni nuovi che abbiamo vissuto, subito, che stiamo vivendo, da un paio di decadi a questa parte, ma anche la cronica distanza che tante volte la vita reale ci presenta davanti al bisogno di giustizia. Sono fatti, eventi, davanti ai quali la reazione è: troviamo un colpevole. Si è fatto questo ragionamento anche sul terremoto dell’Aquila, con gli scienziati che non avevano dato le risposte, avevano mancato. Indipendentemente dall’oggetto, dal merito, tante volte dal chirurgo che sbaglia l’intervento, o semplicemente non è in grado di risolvere un problema, al terremoto, per non parlare di altri fatti in cui c’è una responsabilità umana, come è il caso del ponte di Genova degli ultimi giorni, tante volte la reazione è quella di trovare un colpevole. La mia domanda è: trovare un colpevole e fare giustizia è la stessa cosa? Coincide la domanda, il bisogno di giustizia con il trovare un colpevole?

GIOVANNI LEGNINI
La tua domanda apre un nuovo capitolo di riflessione. La rabbia, il rancore sociale, il disagio, le nuove ingiustizie, figlie dei fenomeni cui ci riferivamo prima, per una parte rilevantissima figlie della crisi che ha colpito l’occidente, con particolare intensità l’Italia, ma anche di quel grande movimento che ci proviene dai paesi cosiddetti emergenti, di quelli che crescono a ritmi velocissimi e che pone il tema della ridistribuzione delle risorse, del lavoro, della ricchezza, ecco questa rabbia, questo risentimento che porta alla necessità di individuare il colpevole, comporta una conseguenza che sarebbe grave sottovalutare. Se gli stati nazionali non sono nelle condizioni di fornire tutte le risposte a quelle domande figlie del disagio, se la comunità internazionale non ha ancora definito regole, sistemi di decisione capaci di fornire risposte, qual è la via che il cittadino pensa di dover imboccare, se non ha di fronte a sé un quadro di regole, una dinamica democratica, una capacità di rivolgersi ai sistemi della rappresentanza, capaci di fornire risposte e soddisfazione alle domande figlie della rabbia? Ebbene, costituisce un dato ormai di comune esperienza, che quel cittadino, quei cittadini molte volte si rivolgono alla giustizia. Formulano la domanda al giudice, ad una corte, ad un tribunale. Tu facevi riferimento al terremoto, quello aquilano che io ho vissuto direttamente, sia come abruzzese sia come legislatore, poi come componente del Governo… Qualche tempo fa parlai a questo proposito con Franco Roberti, che è stato fino a qualche mese fa procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, e che era stato giudice in Irpinia, durante il terremoto dell’Irpinia, e gli chiesi: «Negli anni Ottanta, quante indagini penali, quante cause risarcitorie, quante domande variamente qualificate e indirizzate si rivolgevano al sistema giudiziario?»
«Mah, lui mi disse, pochissime». Oppure, gli effetti di altre avversità atmosferiche. Oppure la responsabilità, le responsabilità, la lesione dei diritti di cui si rendono protagonisti i grandi gestori dei servizi collettivi, dei servizi pubblici, privati o pubblici, anche le questioni sottese alla tragedia di Genova e così via. Qual è la tendenza crescente dei cittadini? È appunto quella che dicevo, cioè: «Il Governo non mi dà risposta, la legge non contiene la risposta, le risorse sono insufficienti, lo spazio europeo, l’ambito europeo non risponde, quindi io mi rivolgo al mio giudice» e poiché noi viviamo, per fortuna dico, in un sistema costituzionale nel quale vige il principio cosiddetto del non liquet, cioè il giudice ha l’obbligo di fornire una risposta, deve rispondere alla domanda sottesa, anzi contenuta nella iniziativa sia in sede penale, sia in sede – essendo l’esercizio dell’azione penale obbligatoria – sia soprattutto in sede civile, va da sé che una parte delle risposte che un tempo discendevano, provenivano dal potere legislativo e dal potere esecutivo si è nel tempo trasferito verso il potere giudiziario. Vogliamo chiamarla supplenza, come l’hanno chiamata in molti, vogliamo chiamarla “giurisdizzazione” dei rapporti sociali, dei conflitti, chiamiamola come vogliamo, ma è una dinamica che segna un altro aspetto del cambiamento d’epoca. Le nostre generazioni possono ricordare che un tempo l’idea che si potesse fare causa a una compagnia aerea, l’idea che si potesse fare causa a Trenitalia per un ritardo, l’idea che si potesse fare causa all’Enel o alla SIP o addirittura che a fronte di una nevicata e di danni conseguenti alla circolazione si potesse citare il Comune, era un idea pressoché inesistente, marginalissima.
Quindi la consapevolezza, la necessità di affermazione dei nuovi diritti, dei diritti, non solo dei diritti fondamentali, ecco dunque che la giurisdizione – e su questo in questi anni ci siamo fortemente impegnati a capire, decifrare e indirizzare, trasmettere una consapevolezza anche gli altri poteri – ecco quindi che la giurisdizione si è caricata nel corso degli anni, non per propria decisione – non ne avrebbe il potere – non per propria volontà…

ROBERTO FONTOLAN
… neanche voracità…

GIOVANNI LEGNINI
No, ma poi il protagonismo di questo, quel magistrato c’è sempre stato. Attenzione: noi non siamo in presenza di quel fenomeno che io reputo pieno di conseguenze positive, che fu dirompente; quel fenomeno che parte dagli anni Sessanta, il Sessantotto di questa bellissima mostra che voi avete allestito, e continua negli anni Settanta e poi Ottanta, quello d’una magistratura, d’una parte della magistratura che si incaricò di scardinare il conformismo giudiziario, di proporre tecniche di interpretazione delle norme di diritto costituzionalmente orientate, tecniche di interpretazione creativa. Potremmo andare molto lontano: lì c’era un indirizzo culturale innanzitutto, di cultura giudiziaria, condivisibile o meno che fosse, la tutela dell’ambiente era affidata a un sistema normativo rudimentale, pressoché inesistente, e nacque il fenomeno dei cosiddetti “pretori d’assalto”. Il diritto del lavoro era un diritto, prima dello Statuto dei lavoratori, era un diritto povero, un sistema di regole molto povero. I pretori del lavoro divennero protagonisti terminali di domande sociali molto forti. Oggi non siamo più in presenza di quel fenomeno, oggi siamo in presenza di ciò cui mi riferivo prima e cioè del fatto che se la legge non è capace di dirimere, di regolare i conflitti, se i governi non sono capaci di dare le risposte, è il cittadino che domanda; non è colpa del cittadino, perché se quel cittadino avesse ottenuto risposte in altro modo…non è che i cittadini non dormono per fare causa, per promuovere un giudizio, per fare una denuncia! Ecco quindi che siamo in presenza di questo terzo aspetto che cambia, che segna il cambiamento d’epoca, quello cioè che vede il potere giudiziario espandere il suo ruolo, la sua funzione, cambiare il suo ruolo, la sua funzione, trovandosi costretto a fornire risposte alle quali non sempre i parlamenti sono stati in grado di provvedere; potrei riferirmi alle questioni etiche (molte), gran parte delle quali sono state affrontate prima dalle corti, prima dai giudici e poi e non sempre dal legislatore.

ROBERTO FONTOLAN
Quello che stavi dicendo è interessante da un lato, ma tocca anche un punto nevralgico, cioè che quando si parla anche nella dottrina classica di equilibrio tra i poteri, al di là delle formule, diciamo, da manuale di diritto costituzionale, è qualcosa che tocca poi la vita reale di tantissime persone, della nostra esistenza, del nostro modo di essere e di rapportarci agli altri nella vita di tutti i giorni; allora uno dei fattori di crisi, se capisco bene quello che avevi accennato prima, è che nel separarsi, nell’essersi inserito questo diaframma tra ordine morale, ordine della giustizia, ordine della legge, che è un po’ il riferimento a quel giudizio contenuto in quel documento della Cei, si è insinuato – adesso non so, forse è una mia interpretazione però è come se avesse aperto la strada – anche un grande squilibrio tra tutti i poteri. Voglio dire il manager, l’operatore finanziario è come se fosse diventato un agente neutrale, è neutro dal punto di vista morale, dal punto di vista della legge, il politico lo stesso, il giornalista lo stesso, tanto poi tutti ci rivolgiamo a un giudice che stabilirà se l’operato del giornalista, del manager della finanza, del politico è stato corretto no, giusto o no, perché non c’è un ordine morale che sostiene o che implica un dovere anche del giornalista, dell’operatore finanziario, eccetera, tutti pensiamo: tanto poi ci sarà un giudice che deciderà lui. Lo dico in modo un po’ grossier: faccio quello che mi pare, tanto poi ci sarà qualcuno che dirà se ho sbagliato, e questo qualcuno è il giudice.

GIOVANNI LEGNINI
Questo è un aspetto del problema e una delle conseguenze della situazione che si è determinata, delle dinamiche che ho provato a descrivere, ma v’è n’è un altro di aspetto contiguo a ciò che tu dicevi. Vi sono alcuni studiosi giuristi che ritengono che ormai siamo molto oltre la classica separazione dei poteri. Addirittura qualcuno dice che non c’è più la separazione dei poteri così come storicamente si è determinata. Per fortuna che è esistito ed esiste questo principio anche nella nostra Carta costituzionale, ma addirittura non ci sarebbe più. Ora io non sono convinto di questo. Il potere legislativo è forse incerto, inefficace, ma è saldo il potere dei governi, seppur indebolito, è saldo il potere giudiziario e non può oltrepassare i confini che la Costituzione e l’ordinamento assegnano ad esso. Ciò che mi preme evidenziare non è soltanto il rischio o la certezza secondo taluni della messa in discussione del principio di separazione dei poteri, ma è il fatto che, tu vi facevi cenno, questa situazione, essa sì, rischia di generare un conflitto, se non l’ha già generato, un conflitto tra politica e giustizia, tra politica e magistratura. E perché questo? Perché la domanda del cittadino, quelle domande a cui mi riferivo, quelle generate dalle ingiustizie, per stare al titolo del nostro dialogo, dalle nuove e dalle antiche ingiustizie non vengono più soddisfatte dal potere legislativo, dal potere esecutivo, ma si indirizzano verso il potere legislativo, verso il potere giudiziario e spesso il vuoto normativo, l’inadeguatezza della norma, la cattiva stesura delle disposizioni di legge costringe il giudice ad un interpretazione che va oltre il dato letterale della norma e quindi si produce un effetto di supplenza, appunto; ciò che doveva essere deciso nei parlamenti, per necessità viene deciso nelle aule di giustizia e va da sé che si generi un conflitto, che si svolge un conflitto e va da sé che si rischia di alimentare non la sfiducia nel sistema giudiziario, anzi, sotto certi aspetti si produce un di più di fiducia o di aspettativa, più che di sfiducia, nel sistema giudiziario, ma si rischia l’aggravarsi della sfiducia nei confronti delle istituzioni, delle istituzioni politiche, delle istituzioni rappresentative e del sistema istituzionale nel suo complesso. Ritorna il tema del risentimento, della rabbia, della insoddisfazione alle quali assistiamo. Questo è a mio modo di vedere uno degli aspetti delle dinamiche del sistema sociale e del rapporto tra la società e le istituzioni democratiche poco attenzionati, abbiamo tutti ancora in mente i vecchi conflitti tra politica e magistratura. Francamente li trovo molto marginali rispetto a un problema così epocale come quello che ho cercato di descrivere.

ROBERTO FONTOLAN
Sì, io volevo mettere l’accento su quell’aspetto nel senso…facciamo l’esempio: il giornalista che pubblica atti che sul piano deontologico del giornalismo dovrebbe non pubblicare, perché riguardano cose marginali, in realtà li pubblica pensando: mio dovere è quello di pubblicare la notizia, qualunque notizia essa sia; poi se questo sia moralmente o deontologicamente responsabile è un problema che non ci si pone più, perché si porrà al massimo un problema di giustizia, che si porrà davanti a un giudice. Questo è un aspetto, non so se mi sono spiegato meglio adesso, mi sembra un aspetto di questa crisi, di questa divaricazione che tu stesso all’inizio mettevi in luce tra la morale, che dovrebbe animare il comportamento di chiunque e soprattutto di chi ha responsabilità a vari livelli nella vita pubblica, come chi opera nella finanza, nell’economia, nei media e così via, nei grandi agglomerati tecnologici e non trasferire un problema di ordine morale e farlo diventare un problema di ordine giuridico e se un giudice mi dà ragione ho fatto bene, se un giudice mi dà torto ho fatto male. C’è’ un prima che un po’ si sta sgretolando, ecco.

GIOVANNI LEGNINI
Ciò che tu dici riporta al tema di fondo di questo nostro dialogo, non tutto può essere risolto, disciplinato dalla legge, abbiamo parlato della incapacità, spesso, ma vi è anche un dato strutturale di sistema di fondo, cioè non tutti i comportamenti possono essere orientati nella direzione del corretto esercizio della propria funzione, della propria attività, del proprio lavoro o ben orientati verso il bene comune attingendo al dato normativo. Su questo punto, non rileva solo il tema della dimensione etica, della sfera etica e deontologica che deve integrare quella giuridica; della regola morale, di comportamento, che deve accompagnare quella prevista dall’ordinamento, quella obbligatoria per legge. Vi è un ulteriore aspetto che va sempre più manifestandosi, e cioè va sempre più sviluppandosi una attività proveniente da poteri pubblici, che ricondurrei alla categoria della cosiddetta soft law, cioè atti di indirizzo, norme facoltizzanti, norme capaci di orientare anche la deontologia. Noi stessi, per esempio, il Consiglio superiore della magistratura, nell’ambito del potere di normazione secondaria – non è un potere normativo primario, ma comunque un potere di indirizzo – ci siamo resi protagonisti di alcune iniziative annoverabili in questa categoria. Per esempio, abbiamo proposto delle comunicazioni di stampa, abbiamo di recente emanato linee-guida sulla comunicazione delle decisioni giudiziarie, sui profili organizzativi della comunicazione delle iniziative e delle attività giudiziarie che costituisce una novità rilevante, abbiamo emanato linee-guida, atti di indirizzo sulla migliore organizzazione giudiziaria per il contrasto alla violenza di genere, per esempio, le iniziative, le attività contro il femminicidio, e potrei continuare con un elenco molto lungo. Ci siamo occupati, sempre in questa chiave integratrice della volontà del legislatore e del dato letterale della norma, di misure di prevenzione, di gestione dei disciolti Opg, di questo transito epocale dagli ospedali psichiatrici alle strutture protette o alla rete sociale assistenziale, e potrei continuare. Cioè, sfera etica, dato normativo e atti di … per forte persuasione possono coesistere, anzi devono coesistere, insieme ai codici deontologici, alle regole deontologiche che ciascuna delle categorie professionali dovrebbe adottare. Come si vede, questa crisi ci obbliga a ricomporre un quadro. Non si può ritenere che la legge statale risolva tutti i problemi, sia capace di affrontare tutti i fenomeni della vita; altrettanto può dirsi per la fonte di produzione normativa europea. Non si può pensare che sul giudice, sulla giurisdizione si scarichi ogni tensione, ogni domanda, ogni istanza di risoluzione di conflitti o di domanda finalizzata ad alleviare ingiustizie e diseguaglianze, ma ciascuno degli attori istituzionali, dei protagonisti della nostra vita pubblica deve essere consapevole che non può agire come una monade, in modo isolato, ma è parte di un sistema, che va scomponendosi e ricomponendosi. Vogliamo fare un esempio, quello della lotta alla corruzione? Il ruolo dell’Anac, di cui si è discusso: anche lì siamo nel campo della prevenzione e non della repressione; a quella autorità indipendente sono stati attribuiti poteri di vigilanza, alcuni poteri interdittivi, alcuni poteri sanzionatori ma anche poteri di emanare atti di indirizzo, appunto strumenti di soft law capaci di orientare, in funzione preventiva, l’agire delle amministrazioni pubbliche e delle imprese che concorrono agli appalti. Come si vede, il mosaico faticosamente può essere ricomposto, ma questa ricomposizione – che si origina dai dati di crisi ai quali mi sono riferito – ha bisogno di cura, ha bisogno di una visione, ha bisogno di una maggiore consapevolezza in ciascuno degli attori istituzionali: non si può esercitare la funzione legislativa, fare il parlamentare come si faceva trent’anni fa, quarant’anni fa, non si può interpretare il ruolo di governo come si faceva un tempo, non si può pensare che il giudice è il mero applicatore di una norma astratta, “bocca della legge”, e invece il giudice è sempre più creatore, attraverso la giurisprudenza, l’attività interpretativa, di ciò che viene chiamato il “diritto vivente”. Un quadro che si ricompone e che richiede dialogo, confronto tra saperi, confronto tra poteri, capacità di immaginare una via d’uscita all’epoca della paura, delle incertezze, all’epoca nella quale la domanda di giustizia si fa sempre più prepotente ed esigente.

ROBERTO FONTOLAN
Avvicinandoci verso la conclusione, volevo chiederti: all’approssimarsi della fine di questo servizio reso al Paese in qualità di vice-presidente del Csm, cosa hai visto di ingiusto che avresti voluto riparare anche come tensione personale, come urgenza, come spinta proprio tua, e non hai potuto fare; e cosa invece hai potuto vedere di ingiusto e riparare? Io so che c’è una cosa che forse pesa, non so quanto, ma questo tema della riforma penitenziaria sul quale tanta parte del sistema giudiziario ha lavorato, ed anche del sistema politico, almeno nella fase precedente, ha lavorato…

GIOVANNI LEGNINI
Il Consiglio superiore della magistratura è un organismo complesso, molto delicato, è difficile ricondurne le decisioni, i provvedimenti, l’attività nel suo complesso alle categorie del giusto e dell’ingiusto e di ciò di cui si può essere soddisfatti o insoddisfatti. Noi abbiamo cercato di interpretare con il rigore doveroso le funzioni costituzionali e quelle che la legge istitutiva – di cui quest’anno ricade il sessantesimo anniversario, anzi, per una felice coincidenza storica il sessantesimo dell’entrata in vigore della legge istitutiva del Consiglio superiore della magistratura ricadrà il 24 di settembre, che è esattamente la data di scadenza del nostro mandato, quindi una coincidenza felice, terremo quel giorno un plenum nel quale daremo conto dell’attività dei quattro anni esatti che si compiranno in quel giorno; il plenum sarà presieduto dal Capo dello Stato, ci sarà il presidente della Corte costituzionale che si farà carico di fornirci una lettura, dal punto di vista alto che egli rappresenta, della funzione dell’organo di governo autonomo della magistratura – quindi abbiamo cercato di interpretare le funzioni in modo rigoroso ma tenendo conto del quadro al quale in parte mi sono riferito durante questo nostro dialogo, cioè un esercizio di quelle funzioni burocratico, autoreferenziale, conservativo sarebbe risultato fuori dalla storia. Abbiamo cercato di aprire quella istituzione, di aprirla a una realtà che muta, che porta con sé un mutamento del ruolo e del modello di giudice nell’ordinamento e nel rapporto con la società, e dell’ordine giudiziario nel rapporto con gli altri poteri dello Stato; lo abbiamo aperto al dialogo con le altre giurisdizioni, quella amministrativa, quella contabile, con le autorità indipendenti; abbiamo parlato dei diritti, abbiamo parlato delle ingiustizie, abbiamo parlato delle domande nuove dei cittadini. Quanta della cura di questi diritti è demandata oggi alle autorità indipendenti che sono proliferate in questi anni, non solo quelle storiche, Banca d’Italia, Consob, ma anche l’Antitrust, l’Anac, il Garante per la privacy, il Garante dei minori e dell’infanzia e numerosissime autorità? Ecco, vi è stato questo grande sforzo di apertura, che insieme a quelle attività a cui mi riferivo, quelle che riguardano la cultura dell’organizzazione degli uffici giudiziari insieme alla completa autoriforma della normativa di funzionamento secondaria costituiscono i motivi di grande soddisfazione che si accompagnano a questo impegno molto difficile, al quale abbiamo assolto pienamente, anche scontando qualche polemica, quella di cambiare gran parte della dirigenza degli uffici giudiziari italiani. Quando il passato Governo, o meglio il governo Renzi, decise di abbassare l’età pensionabile da settantacinque a settanta anni, l’età massima di permanenza in servizio dei magistrati, si verificò una fuoriuscita anticipata di diverse centinaia di capi e vice-capi degli uffici giudiziari. Noi abbiamo fatto mille nomine, con un tasso di contenzioso molto basso, con un gradimento che abbiamo registrato essere abbastanza elevato e anche con polemiche a volte aspre ed elevate. Gli obiettivi mancati, gli aspetti di giustizia che avrei potuto e che tu mi chiedi? Ecco, io penso che siamo appena agli inizi del percorso che deve portare la magistratura italiana ad interrogarsi sulla necessità di accrescere il livello di responsabilità di fronte all’intervenuta crescita del potere che i cittadini, che l’ordinamento affidano a loro: il potere dell’ordine giudiziario è andato crescendo non per scelta dei magistrati, ma in virtù dei fenomeni ai quali mi sono riferito fino a questo momento. Se cresce il potere, deve crescere la responsabilità. L’ascolto, la predisposizione al dialogo, senza mai rinunciare ai principi di indipendenza assoluta della funzione, il considerare che non hai di fronte un fascicolo, ma hai di fronte un dramma personale, un’aspirazione personale, un torto subito, un reato nel quale c’è un colpevole da individuare e una vittima da risarcire, ecco, questa evoluzione culturale è appena iniziata. Mi sarebbe piaciuto poter fare di più su questo, ma già aver aperto un cantiere di riflessione lo ritengo un passo avanti significativo. L’altro rammarico è che, a fronte di un esercizio così efficace della funzione disciplinare, del controllo sul corretto funzionamento degli uffici – che avviene anche attraverso l’istituto dell’incompatibilità ambientale e funzionale – non sempre si è espressa al massimo la volontà di far emergere tutto ciò che deve emergere. Io penso che la giustizia disciplinare funziona: coloro che pensano che la magistratura italiana, che la giustizia disciplinare affidata al Csm costituisca una sorta di giustizia domestica, si sbaglia. No, è una giustizia rigorosa, ma vi sono una serie di comportamenti che andrebbero meglio rilevati, e questo spetta innanzitutto ai magistrati che guidano gli uffici, che vivono e operano negli uffici, perché noi abbiamo bisogno – i cittadini italiani, anche in virtù di questo mutamento d’epoca al quale mi sono riferito, hanno bisogno – di certezze, quelle legate alla tempestività, alla prevedibilità delle decisioni, ma anche la certezza di avere di fronte un giudice imparziale, indipendente – e su questo io non ho alcun dubbio che il nostro sistema garantisca questa necessità – ma anche competente, preparato, predisposto al dialogo e al di sopra di ogni sospetto con riguardo a relazioni più o meno opache. Ecco, di questo abbiamo fortemente bisogno, perché la fiducia nella magistratura e l’efficienza del sistema giudiziario costituiscono una delle leve di ripartenza del nostro Paese. Con questo spirito abbiamo cercato in questi anni di assolvere a questo servizio a cui tu ti sei riferito. Grazie.

ROBERTO FONTOLAN
Grazie per la visione che ci hai portato, per il punto di vista così approfondito, grazie perché sei tornato qui, in questo luogo, che è uno dei rari luoghi – come hai detto all’inizio – dove la possibilità di un dialogo aperto e di un confronto sensato ed equilibrato resiste; e grazie anche per il fatto che sono certo che il nostro rapporto, la nostra amicizia, il nostro dialogo continuerà nel tempo.

GIOVANNI LEGNINI
Di questo sono assolutamente sicuro anch’io. Grazie a voi.

Trascrizione non rivista dai relatori

Data

20 Agosto 2018

Ora

19:00

Edizione

2018
Categoria
Incontri