INVITO ALLA LETTURA. PRETI DALLA FINE DEL MONDO. Viaggio tra i curas villeros di Bergoglio

Invito alla lettura: preti dalla fine del mondo. Viaggio tra i curas villeros di Bergoglio

Presentazione del libro di Silvina Premat, Giornalista de La Nación di Buenos Aires, Argentina (Ed. Emi). Partecipano: l’Autore; Carlos «Charly» Olivero, Parroco a Virgen de los Milagros de Caacupé, Villa 21, Buenos Aires, Argentina. Introduce Camillo Fornasieri, Direttore del Centro Culturale di Milano.

 

CAMILLO FORNASIERI:
Il primo libro che andiamo a presentare è delle edizioni Emi, che è una casa editrice, molto attiva nel dar voce a esperienze e nuove riflessioni nella chiesa, e anche nel rapporto con i laici nel mondo. Il libro è di Silvina Premat giornalista de La Nación, quotidiano importante di Buenos Aires, e il titolo Preti dalla fine del mondo. Viaggio tra i curas villeros di Bergoglio. La prefazione del libro è di don Luigi Ciotti, un sacerdote piemontese che svolge un lavoro nel campo del recupero di persone dalla droga, e abbiamo con noi a presentarlo padre Carlos Olivero detto «Charly», sacerdote, Parroco a Virgen de los Milagros de Caacupé della Villa 21, che credo sia una zona di Buenos Aires, che è una città con 13 milioni di abitanti, quindi molto grande rispetto a una popolazione dell’Argentina che è di 40 milioni. Quindi una città che ha visto dagli anni ’50 in avanti un’urbanizzazione dalle campagne, dai territori attorno, massiccia, non coordinata e una come dire, costruzione di sacche di povertà e di convivenza, verso le quali la Chiesa è stata richiamata all’attenzione da alcuni sacerdoti che negli anni prima del Concilio Vaticano II, immediatamente prima, hanno preso iniziative e sono andati a vivere e ad annunciare il fatto cristiano presso queste realtà. Io cedo subito la parola a un video che vedremo insieme e poi Silvina ci racconterà questa storia che per noi è importante, perché questo è un altro libro che testimonia di rapporti, d’incontri, di esperienze verso le quali l’Arcivescovo di Buenos Aires, Cardinale Bergoglio, ha guardato con molta attenzione, fino a fissare questo gruppo di sacerdoti. L’anno scorso è stato qui tra noi Padre Pepe, che ricordiamo con grande amicizia e commozione, Padre Pepe Di Paola, che è compagno di Charly, e quest’anno abbiamo lui, che poi ci racconterà la sua esperienza. Andiamo subito a vedere il film. Loro parleranno poi in spagnolo, nella loro lingua e ci sarà una traduzione overside, e quindi sentiremo la voce del nostro traduttore.

Video

SILVINA PREMAT:
Sono sacerdoti di diverse villas e sono sacerdoti che compongono la squadra dei curas villeros dei vari quartieri intorno alla città di Buenos Aires. Vedete che stanno celebrando Messa in una delle villas 31, la villa “Retiro”. Siamo nel mese di maggio 2009 per il 35°anniversario del Padre Carlos Mujica, che è stato uno dei primi sacerdoti ad agire in queste villas. Per quest’anniversario i sacerdoti organizzano una giornata di festa, con la Messa, un pranzo insieme e poi musica. Le immagini che scorrono, vedete, alla fine della Messa era consegnato un ritratto del padre Mujica al rappresentante o alla rappresentante di ognuna delle cappelle della villa con un pezzettino dei pantaloni che indossava il Padre Mujica nel momento in cui fu atrocemente assassinato. E qui scorrono delle immagini di una camminata che si fa nella villa 21, 24 di Baracas, ogni 24 Dicembre all’interno del quartiere. Vedete che viene portata l’immagine della Vergine, la Vergine azzurra che potete vedere in alcune delle immagini, la cosiddetta “Virgen azul”, che è la patrona del Paraguay. La festa coincide con la festa dell’Immacolata Concezione, l’8 Dicembre e nella villa, vedete, viene fatta questa camminata, questo pellegrinaggio all’interno del quartiere. I sacerdoti e i seminaristi fanno la benedizione di tutte le immagini religiose presentate dalle diverse famiglie che vivono nel quartiere. Vedete, state vedendo Padre Pepe, Padre Di Paola e altri sacerdoti e seminaristi della villa 21, 24, dove vive tra l’altro anche Padre Charly. Percorrono, vedete, questo quartiere, questa villa per l’intera giornata, per ore e ore, e le persone offrono loro da mangiare, caramelle, dolcetti, durante l’intera camminata. Vedete la prova della musica, musica della parrocchia. Potete vedere che le divise, le uniformi hanno i colori della Vergine, è una delle attività di prevenzione proposte nella parrocchia, appunto, delle varie villas. Abbiamo voluto mostrare queste immagini perché sappiate quali sono le condizioni di vita delle persone che abitano nelle villas della città di Buenos Aires, nella capitale argentina, a pochissimi minuti dalle sedi delle istituzioni argentine. Nella città di Buenos Aires ci sono una ventina di queste villas che hanno cominciato a costituirsi progressivamente, dopo la crisi degli anni Trenta del secolo scorso, negli spazi liberi vicini alle vie della città, sulle rive del fiume, attorno alle discariche dove veniva gettata l’immondizia, ma dove veniva anche bruciata l’immondizia. In tutte queste aree, completamente non ospitali, hanno cominciato a formarsi le villas, hanno cominciato a raggrupparsi le persone che venivano da altri Paesi o dall’interno dell’Argentina per cercare educazione, per cercare lavoro, per cercare salute. Erano famiglie che hanno dovuto lasciare le loro case, i loro famigliari, cominciare tutto da zero. Sono state costruite lì delle case con i materiali di risulta, con quello che avevano a disposizione, all’inizio cartone, poi latta e, quando potevano, costruivano con mattoni e cemento. Beh, se penso adesso a un pubblico strettamente italiano, mi viene in mente che l’esperienza di iniziare tutto di nuovo, dal nulla, assomiglia un po’, almeno come esperienza umana, a quello delle famiglie che hanno dovuto ricostruire tutto dopo la guerra qui in Europa o che sono dovute andare in America per rifarsi una vita. Perché è questo tipo di poveri di cui stiamo parlando, persone che arrivano in Argentina con un modo di vivere la fede diverso nella sua espressione, diverso da quello della maggioranza degli argentini e Charly potrà poi raccontare la molteplicità di feste, di modalità di queste espressioni. Intendo cioè parlare di religiosità popolare molto diversificata, di pietà popolare estremamente diversificata.
Nel libro che ho scritto, noi raccontiamo come sono nati questi sacerdoti, che adesso vivono nelle varie villas di Buenos Aires, quarant’anni fa, cioè negli anni Sessanta. A Buenos Aires le villas erano un fenomeno crescente e restavano disattese dalla chiesa, perché quanti ci vivevano, non erano abituati a frequentare le grandi chiese, che avvertivano culturalmente molto distanti e come contropartita nemmeno i fedeli e i sacerdoti delle parrocchie frequentavano quei nuovi insediamenti. Alcuni sacerdoti, che si sono resi conto di questo fenomeno, hanno cominciato a visitare le persone di questi quartieri e alcuni hanno deciso di vivere lì. Il primo che ha preso questa decisione è stato Padre Hector Botan, già vecchietto e malato, vive ancora nella sede sacerdotale in cui pensava di andare Bergoglio quando sarebbe andato in pensione. Botan, che è stato mandato via da casa sua, dal padre, quando disse che voleva diventare sacerdote, una volta ordinato se ne è andato a studiare teologia a Roma e quando poi è tornato in Argentina, nel ’65, ha chiesto l’autorizzazione per andare a vivere in una di queste villas. L’Arcivescovo di allora, Juan Carlos Aramburo, lo ha autorizzato e lo ha nominato portavoce del gruppo di sacerdoti che avevano deciso di andare a lavorare in queste villas. Nel 2004 io ho avuto la fortuna di intervistare Padre Botan prima che iniziasse la malattia, di cui adesso purtroppo è vittima, e lui spiegava perché aveva deciso di andare a vivere nelle villas: “A portarci alle villas fu una questione di fede, di un sacerdozio liberatore. Gesù ama l’uomo libero, liberato e liberatore”. Tutti i grandi teologi del Concilio sono stati nostri maestri, ci hanno allevati. Erano, come dicevo, gli anni ’60, quando la stessa Santa Sede spingeva i sacerdoti e i cattolici a impegnarsi direttamente nei confronti nell’uomo del nostro tempo, come si diceva, nella realtà in cui quest’uomo viveva.
Nel 1968, nelle conclusioni della Conferenza dell’Episcopato latino-americano svolta a Medellin in Colombia, si poteva leggere: “Non basta riflettere, ottenere maggiore chiarezza e parlare. E’ necessario agire. Questa non ha cessato di essere l’ora della Parola, ma è diventata con drammatica urgenza l’ora dell’azione, il momento di inventare con immaginazione creativa le azioni, che poi devono essere condotte a termine con l’audacia dello Spirito e l’equilibrio di Dio”. Questo documento traduceva per l’America Latina gli insegnamenti del Concilio Vaticano II che si era appena concluso. Quei primi sacerdoti sono poi stati raggiunti da altri che hanno cominciato a riunirsi ogni settimana, secondo quanto racconta Botan, dicendo: “Ci riunivamo settimanalmente e riepilogavamo la nostra presenza, volevamo essere autentici e rispettare le persone, ma non le conoscevamo e analizzavamo a fondo le esperienze, le risposte che dovevamo dare o che cosa imparare. Ci mettevamo molta cura e rispetto perché volevamo che i protagonisti fossero loro. Non volevamo limitarci a impartire istruzioni”. L’arcivescovo Aramburo ha voluto formalizzare questa esperienza e ha chiesto che si dessero delle regole, una sorta di statuto e hanno così redatto un documento che l’arcivescovo approvò e con questo documento fu creata quindi la squadra dei sacerdoti per queste villas e questo è avvenuto nel mese di settembre 1969. Quarant’anni dopo, nel 2009, l’allora arcivescovo Bergoglio ha elevato questo gruppo di sacerdoti a livello di vicariato. Ha creato una sorta di vicariato tematico, il vicariato per la pastorale per queste ‘Villas de Emergentia’. I sacerdoti di allora, come quelli di adesso, vivono la loro esperienza a partire dai principi descritti in questo documento: “Si parte da un desiderio, essere presenti nel mondo dei lavoratori e dei poveri, condividendone la sorte, cercando un’immagine di Chiesa solidale e accessibile che comprende quelle persone, soffrendo con loro, desiderando e favorendo la promozione integrale e autenticamente umana, e, continua, in un atteggiamento di servizio, di povertà condivisa. Tali sacerdoti cercheranno di scoprire ciò che questo popolo sofferente dice al mondo in maniera unica e originale, quale idea dell’uomo si forma attraverso le sue esperienze e privazioni e quali proprietà umane acquisiscono maggiore rilievo per esso.
Tutto questo pone nuove domande a cui essi aiuteranno a dare risposta attraverso la luce della nostra fede nel Signore e la dottrina della chiesa”. Inoltre dice: “Si è giudicato conveniente, in queste circostanze, creare una piccola comunità sacerdotale, nella quale i sacerdoti, attraverso la coerenza di povertà e immedesimazione in quest’ambiente, potranno vivere del lavoro delle loro mani e di ciò che spontaneamente ricevono dai fedeli e tenderanno quando possibile a vivere in una comunità sacerdotale, poveramente, ma decorosamente, in modo tale che la loro dimora non risulti inaccessibile ad alcuno e nessuno, nemmeno il più umile, abbia mai esitazione a frequentarla”. Vale a dire i sacerdoti venivano autorizzati a lavorare nel mondo per mezza giornata. E’ stato ispirato all’esperienza dei preti operai francesi, ma non è durato molto, perché gli stessi vicini, gli stessi abitanti della città gli hanno chiesto: “Padre, se ha bisogno di soldi, noi siamo disposti a trovare tra tutti noi il salario che lei prende lavorando e a darglielo. Ma abbiamo bisogno che lei resti nella cappella. Se lei è nella villa, noi siamo più tranquilli per la sicurezza delle nostre famiglie e lei può avere più tempo per loro”.
Questi sono i principi su cui si sono basati i sacerdoti che si sono insediati nella villas e anche quelli che ci sono adesso. Per quarant’anni hanno dovuto affrontare tante sfide, sfide correlate alle idee dei vari governi, di sradicare completamente queste villas. Dopo la crisi del 2001-2002, la grande sfida è stata di far sì che le persone potessero mangiare tutti i giorni, perché la crisi del 2001-2002 ha colpito questi quartieri in modo gravissimo e poi dal 2003 lo tsunami, come viene chiamato, il consumo diffuso di una droga a basso prezzo, il “paco”, ha fatto breccia in tutto questo. Il paco è praticamente uno scarto della lavorazione di altre droghe. Quindi la presenza della Chiesa è rimasta fino adesso, attraverso questi sacerdoti. E ora abbiamo la possibilità di ascoltare una testimonianza di Padre Charly. Padre Charly ci racconterà adesso la sua testimonianza diretta, proprio direttamente dal fatto di vivere in una di queste villas.

CARLOS OLIVERO (PADRE CHARLY):
Grazie per la possibilità di poter condividere con voi questo momento che è all’interno del Meeting 2014.
Silvina ci ha descritto prima un’immagine della villa che è certa, vera: uomini e donne che lasciano le loro terre natali, il loro paesino, le loro città, il loro Paese, e arrivano nella periferia di Buenos Aires per cercare migliori condizioni di vita. L’immagine è bella e certo commuove, mobilita molte energia, molta forza positiva. Non di meno la villa non è solo questo. Se uno parla delle villas in qualsiasi luogo dell’Argentina, fanno paura, le persone non vogliono andare lì, i taxi non ti portano in queste villas, anche nelle cartine appaiono come una macchia di colore verde. Le villas non sono integrate nel resto della società. E anche se è povera, il problema fondamentale che ha questa gente è l’assenza dello Stato. Lo Stato è stato storicamente assente. Un’immagine che consolida quello che sto dicendo è questa: poco tempo fa mi sono venuti a trovare per una casa che avevano preso. La signora padrona della casa che viveva da sola, si era ammalata, è stata ricoverata in ospedale, era in terapia intensiva, e le hanno preso la casa. I vicini sono venuti da me, erano preoccupati perché se la signora fosse uscita dall’ospedale, non avrebbe più avuto la sua casa. Gli usurpatori, coloro che avevano occupato questa casa, la stavano vendendo. Allora io ho chiamato la Procura che si era insediata da poco nella villa, mi ha risposto che non potevano fare nulla, non potevano agire perché non c’era stata una denuncia. Allora ho chiamato alcuni uffici governativi che cercano di avvicinarsi alle villas, che sono presenti nel quartiere e questi uffici mi risposero che siccome le case non hanno degli atti pubblici, come anche i suoli occupati abusivamente, non si poteva fare nulla, che capiscono che la soluzione deve essere comunitaria. Proprio per questo la Chiesa ha un ruolo, un posto assolutamente rilevante nelle villas, perché anche se ci sono gli organismi governativi, non c’è lo stato di diritto. Se lo Stato non ti garantisce la giustizia, i luoghi si occupano, la giustizia si esercita in altre maniere, manu propria. Per questo nelle villas c’è violenza, sono luoghi violenti.
L’anno scorso Buenos Aires è stata la città con più omicidi. Nella villa in cui io vivo, la villa 21 sono 60.000 le persone che vi dimorano, molte persone, poco spazio, molti attriti, grandi problemi. Il ruolo della Chiesa viene da molti fattori, perché la chiesa era lì quando non c’era nessuno. Nell’epoca del governo militare stavano distruggendo le villas, Padre Daniel del la Sierra nella villa 21 organizzò gli abitanti, riuscendo a frenare i bulldozer e a ottenere un ricorso per bloccare tutto presso i tribunali e a quel punto la villa 21 è stata l’unica a non essere distrutta. Le persone che arrivano alla villa sono gente religiosa, che ha la religiosità della Bolivia, del Paraguay, delle province argentine, per questo il ruolo della Chiesa è importante, perché tutta la vita viene vista dal punto di vista della fede. Per questo un compito storico è stato quello di occuparsi della fede, questa fede popolare che si esprime nel modo di vivere e non solo per il decesso di un famigliare, di una persona cara, i pellegrinaggi e altre cerimonie di questo tipo. Beh, la prima cosa che noi capiamo quando arriviamo nelle villas è che noi dobbiamo occuparci di questa fede, che questa fede è la garanzia dell’identità di questo popolo, che se il popolo perde la fede, se perde le tradizioni, gli usi e costumi, si svuota e allora rimane assolutamente esposto alla delinquenza, alla violenza, alle droghe e a tutti gli altri flagelli. Tuttavia il nostro lavoro nelle villas non deve essere solo di occuparci della religiosità popolare, non deve essere solo questo. Ci sono molti problemi che affliggono il nostro popolo: televisione, narco-trafficanti, i media, gruppi politici, loro cercano di guidare il nostro popolo, e noi non possiamo rimanere lì con le braccia conserte, celebrando solo la Messa, facendo i Battesimi, o con le benedizioni. Non possiamo limitarci a questo, ma occorre mettere in atto un’evangelizzazione attiva, per questo noi ci occupiamo di quello che vediamo che corre dei rischi, che è minacciato, che è soprattutto la vita dei nostri piccoli. I nostri bambini non hanno opportunità, non c’è la scuola per tutti, l’ospedale è pieno, non può accogliere tutti i malati, non ci sono teatri, non ci sono attività ludiche, attività per i piccoli, per gli adolescenti. Per questo la parrocchia ovviamente è la sede in cui vivono quelli che non hanno famiglia: ci sono mense, alloggi per questi piccoli, ci sono scuole anche per imparare delle professioni, un centro per i più piccoli. In tutti i settori delle villas abbiamo dei laboratori di supporto scolastico, il catechismo è intenso ed è rispondente al fabbisogno di questi quartieri, ed è importante indicare chiaramente qual è la retta via che noi proponiamo. Abbiamo anche molti gruppi di prevenzione: la scuola di calcio, di baseball, gli esploratori, molti gruppi e strutture di questo tipo sempre in supporto anche ai centri scolastici.
Ma il compito, la missione forse più significativa del nostro gruppo, soprattutto recentemente, ha a che vedere con l’accompagnamento di coloro che sono stati distrutti da questo tsunami indicato da Silvina, cioè il “paco”, questa droga di basso prezzo, questa droga simile al crack. Il paco genera veramente crisi d’astinenza devastanti, coloro che lo consumano difficilmente possono fare altro. Noi siamo abituati a vedere persone che fumano marjuana e poi se ne vanno al lavoro, questo non è certo possibile con il paco. Praticamente cambia completamente il rapporto fondamentale con l’esistenza. Per questo le persone che accompagniamo sono distrutte, devastate, vivono per strada, non hanno documenti, per avere un po’ di soldi per poi consumare rubano oppure agiscono nell’ambito sessuale, hanno patologie come l’HIV, la tubercolosi, l’epatite, perché sono anche esposti agli agenti atmosferici, dormono all’aperto, quindi al freddo, pioggia, non hanno nessuna possibilità di lavorare, non c’è veramente santo a cui votarsi. Quindi noi abbiamo voluto seguire un consiglio che ci ha dato l’Arcivescovo Bergoglio all’epoca a Buenos Aires che ci disse: “Ricevete tutta la vita e tutte le vite così come vengono”. Noi non ci possiamo incentrare sulla questione psicoterapeutica, non possiamo ridurre tutto all’ambito della salute, bisogna cercare un posto in cui poter dormire, bisogna prepararsi per poter lavorare e questo richiede anni e anni. Per tutta questa epoca bisogna avere dei soldi per poter sopravvivere, per poter mangiare qualcosa, per questo noi abbiamo capito che la risposta deve essere integrale, olistica, completa. E abbiamo capito che la risposta deve essere comunitaria. Quando la comunità diventa protagonista, c’è una prognosi nettamente migliore per riuscire ad arrivare a una soluzione. I problemi complessi non hanno soluzioni semplici, bisogna guardare l’intero aspetto dell’esistenza e questo non lo può avere un professionista, un’istituzione a livello singolo, deve essere l’intera comunità ad agire.
E adesso vi racconterò alcuni esempi; ma per costruire questa comunità, per riorganizzare il tessuto sociale che è stato distrutto, noi abbiamo il miglior strumento di tutti, che è il Vangelo. Perché i valori evangelici ritornano a tessere delle relazioni che risanano: la solidarietà, l’ospitalità, il perdono, la pazienza. Quando qualcuno è per strada, qualcuno della comunità lo può accogliere, quando qualcuno ha perso la libertà ed è detenuto o in carcere, qualcuno lo può visitare e quindi trasmettergli l’idea che non ci siamo dimenticati di lui o di lei. Non scartiamo sempre lo sguardo professionale, esperto, abbiamo degli esperti nel nostro team, ma la cosa più importante di tutte è che coloro che sono in trattamento possono aiutare anche altri, che ritornino a essere valutati positivamente dalla comunità, che si preparino affinché possano poi successivamente lavorare, cioè si preparino per il futuro impiego e questo ovviamente ricrea il legame, ritesse il tessuto della società. Vi vorrei raccontare due piccoli frammenti. Alejandro era un artigiano, per molti anni è stato il Presidente dell’Organizzazione degli Artigiani di una fiera artigianale molto importante a Buenos Aires, ha consumato sempre droghe. Quando poi è passato al paco, praticamente è stato devastato; un buon uomo, ha fatto un percorso molto buono, quando l’abbiamo conosciuto aveva 47 anni, aveva l’HIV, e in Argentina quando tu sei in trattamento con HIV puoi anche ottenere una pensione. Alejandro ha ottenuto questa pensione, aveva organizzato la sua vita, non consumava più droghe, aiutava addirittura delle altre persone. Quando ha incassato il denaro della pensione perché gli hanno pagato un anno intero anche con gli arretrati, ha comprato una casetta ed è andato a vivere lì. Dopo poco tempo Alejandro aveva la cuffia, praticamente nel centro del quartiere riceveva poi le linee da seguire per aiutare gli altri, e il treno lo ha preso. Non è morto subito ma ci siamo resi conto che sarebbe deceduto. Aveva avuto una frattura devastante al tronco, sono andato con lui in ospedale, gli adolescenti del centro di recupero si sono poi riuniti, io gli avevo dato la notizia che secondo i medici Alejandro purtroppo ci avrebbe lasciato molto presto e gli stessi ragazzi decisero di stare con lui per tutto il tempo che fosse vissuto, non l’avrebbero lasciato solo nemmeno un secondo. Alejandro era arrivato da solo, è vissuto altri tre giorni e durante questi tre giorni, di giorno, di notte, in qualsiasi momento c’erano 6-7-8 ragazzi, persone che erano con lui come se fossero stati i suoi più stretti famigliari. Noi abbiamo capito in quel momento che eravamo una famiglia. Accompagnare tutta la vita significa anche dare un senso cristiano alla Pasqua. Quando Nacio è arrivato, era in lacrime, distrutto, perché se n’era andata la moglie con i figli. Quando Nacio si drogava, diventava estremamente violento, viveva nell’abitazione della famiglia della moglie, era rimasto per strada ed era rimasto solo. Nacio ha parlato nei gruppi e ha raccontato che il suo problema era che non poteva lasciare la parrocchia perché doveva sfuggire alla paura che gli generavano gli spiriti, perché lui praticava la religione umbanda. Voi sapete che nell’umbandismo si fanno sacrifici, si uccidono gli animali chiedendo agli spiriti di portare male, di portare sventura alle altre persone. Nacio si è avvicinato alla confessione, a moltissime cose e quando l’ho assolto, io ho sentito che si apriva uno spazio, una finestra che era rimasta chiusa anni e anni. Entrava finalmente la luce, entrava aria, e questo incontro con Gesù è stato per Nacio la cerniera, il momento, la svolta che gli ha cambiato l’esistenza. Poi c’è stata l’azienda, è ritornato con la moglie, hanno oggi altri due figli e il prossimo 15 febbraio ci sarà il matrimonio. Da anni accompagniamo Nacio: la famiglia, i suoi figli oggi sono la nostra famiglia. Con lui e con molti altri abbiamo trascorso il Natale, il nuovo anno e festeggiamo la vita. Ho finito.
Lasciano a me le conclusioni. Io credo che per i problemi complessi non possiamo aspettare una risposta che venga direttamente dallo Stato. Certo, lo Stato ci deve essere, non può essere assente, tuttavia la Chiesa ha una responsabilità, perché è un luogo unico, speciale, perché la Chiesa è nel cuore della comunità, può tessere la comunità perché i valori del Vangelo sono la cosa migliore che abbia la nostra società e la cosa più bella che vi sia.

CAMILLO FORNASIERI:
Grazie di cuore a Charly. Sarebbero tante le cose da dire, tantissimi sono gli spunti che ci collegano a questa mossa che ci raccontava: “Quello che ci ha portato là fu una questione di fede”. Noi oggi abbiamo ascoltato un’esperienza vera, dove c’è un sacerdote al centro. Il sacerdote è il sacerdote, colui che porta Cristo presente. Questa è la loro consapevolezza. Lo Stato è assente, ma la risposta deve essere comunitaria, integrale, comunitaria così come è comunitario il soggetto che vive nel popolo. Io vorrei concludere con una frase che penso Charly conosca e che è posta all’inizio del libro di Silvina, che dice: “Non sono padri per finta. Se non ci fossero stati loro a difenderci, nessuno si ricorderebbe più di noi. Non ci chiedono niente, ci danno tutto ciò che hanno, non si risparmiamo e non si stancano di insegnarci, non vanno appresso alle donne e ci cercano soltanto per Dio”. Abbiamo sentito riaccadere questa frase che è stata scritta nel 1632 da un cacicco del Paraguay convertito, che così parlava dei Gesuiti.

Data

28 Agosto 2014

Ora

19:00

Edizione

2014

Luogo

eni Caffè Letterario A3
Categoria
Testi & Contesti