INVITO ALLA LETTURA. Introduce Camillo Fornasieri, Direttore del Centro Culturale di Milano.

Invito alla lettura. Dopo il miracolo

Invito alla lettura. Luigi Giussani. La virtù della fede

DOPO IL MIRACOLO
Presentazione del libro di Alessandro Zaccuri, Giornalista e Scrittore (Ed. Mondadori). Partecipa l’Autore.
A seguire:
LUIGI GIUSSANI. LA VIRTÙ DELLA FEDE
Presentazione del libro di Francesco Ventorino, Professore Emerito di Ontologia e di Etica presso lo Studio Teologico San Paolo di Catania (Ed. Marietti 1820). Partecipano: l’Autore; Massimo Borghesi, Docente di Filosofia Morale all’Università degli Studi di Perugia.

 

INVITO ALLA LETTURA. Introduce Camillo Fornasieri, Direttore del Centro Culturale di Milano.
Ore: 15.00 eni Caffè Letterario D5

CAMILLO FORNASIERI:
Un caro benvenuto a voi tutti. Cominciamo questo momento pomeridiano di proposta di lettura di libri. Oggi ne abbiamo due: cominciamo con l’aspetto più legato alla letteratura, con un romanzo. Il libro è edito da Mondadori e si intitola Dopo il miracolo, è di Alessandro Zaccuri che è qui con noi per commentarlo e raccontarlo. Lo salutiamo calorosamente. Lui è qui al Meeting anche in veste di giornalista: presta la sua creatività e bravura al quotidiano Avvenire, soprattutto nella pagina della cultura che mi permetto di segnalare perché è forse la più bella pagina culturale degli ultimi dieci anni. E’ nato a La Spezia. Con Mondadori, è al suo terzo romanzo. Ha scritto Il signor figlio nel 2007, che è stato anche selezionato tra i cinque per il premio Campiello, Infinita notte nel 2009, e poi questo, ma è anche autore di saggi e attento osservatore della società. Ecco, il titolo è spiazzante, perché ogni romanzo, ogni storia, vorrebbe fare intuire una narrazione: forse, intitolarlo sul dopo ci fa già capire l’intento. Ma voglio chiedere a lui qual è stato e qual è, nascosto tra le righe, questo tema del miracolo che ci porta subito al fatto che, se la realtà ci provoca continuamente, risuscitando il desiderio di infinito che può giacere anche chiuso nel fondo dell’animo o dell’esistenza, c’è necessità di un cambiamento, la necessità di una mano offerta, di qualcosa da seguire, e dunque di un miracolo, qualcosa che non solo confermi l’esistenza in questa sua attesa ma ne dia la possibilità di esperienza. Credo che il miracolo sia il modo con cui Zaccuri sente: dunque, niente di miracolistico, miracolo come cambiamento della realtà. Voglio chiederti come è nato, quale esigenza intravedi tra noi nel tuo tempo che osservi, di cui scrivi e a cui vuoi comunicare qualcosa di ancora di più profondo, di ancora più decisivo.

ALESSANDRO ZACCURI:
Grazie a Camillo, grazie a tutti voi che siete qui. Mi fa molto piacere poter parlare di questo libro al Meeting, e in particolare in questa edizione. Io sono mosso da un paio di convinzioni che possono bastare per una vita. Una è che il raccontare storie, il testimoniare, come abbiamo sentito anche in diversi incontri in questi giorni qui al Meeting, sia strutturale per il cristiano. Alcuni mi hanno detto: “Come mai un cattolico scrive romanzi, torna a fare romanzi di questo tipo?”. Io mi meraviglio di più quando chi scrive romanzi non è mosso dalla consapevolezza che il linguaggio stesso scelto da Gesù nella sua permanenza sulla terra è stato di usare due strumenti: lo strumento del racconto e lo strumento del miracolo. Il racconto di Gesù non è uno strumento di ripiego, le parabole non sono un ripiego, perché altrimenti i pescatori non capivano, ma è il bisogno di andare a colpire il cuore dell’uomo lì dove più è esposto. E il miracolo è questa sollecitudine originaria che io vedo nel cristianesimo verso il corpo: si incontrano, queste due istanze, nel miracolo originario di tutti gli altri, che è l’incarnazione e la resurrezione. Per me è evidente che chi vive in questo orizzonte senta il bisogno di raccontare. Tant’è vero che, anche nei libri precedenti che ha citato Camillo, io ero convinto di avere abbastanza chiaramente parlato di questo. Nel primo libro, c’era una lunga parte sullo Spirito Santo, nel secondo c’erano delle pagine che per me erano centrali sulla Madonna di Vladimir, per esempio. Ma siccome la prima volta, quando parlavo dello Spirito Santo, uno ha detto che era un libro new age, la seconda volta non hanno capito cos’era la Madonna di Vladimir. Allora ho detto: stavolta faccio un libro ambientato in un seminario, così si capisce di cosa vogliamo parlare, non ci sono, almeno su questo, equivoci. Già i libri precedenti, ma secondo me tutti i grandi libri, tutte le grandi storie, indipendentemente dalla consapevolezza di chi le racconta, sono abitate dalla presenza del mistero nella realtà. Questo è il motivo per cui si inizia a raccontare una storia. Si raccontano tante storie d’amore perché la presenza dell’amore nella nostra vita è qualcosa di inspiegabile, di ingombrante, di meraviglioso, di faticoso e tutti gli aggettivi che si possono adoperare. Nello specifico, questa è una storia che avevo in mente da un po’ di anni e che mi sono convinto a raccontare quando ho trovato un modo per evitare un altro equivoco. E’ una storia ambientata appunto in un seminario, una storia che ha a che vedere molto con la fede: il miracolo è inteso più che altro come segno di contraddizione. C’è chi ci crede, c’è chi non ci crede, c’è chi ci crede però a modo suo, quindi dettando condizioni alla realtà: un atteggiamento molto presente nella cultura del nostro tempo. Siamo disposti ad accettare la realtà, a patto che la realtà dia ragione a noi, altrimenti bisogna un pochino cambiare le cose, non vederle, selezionarle. Mi premeva raccontare una storia dove ci fosse tutto questo ma anche far passare in qualche modo la sensazione che questo non è un problema dei cristiani, non è un problema dei credenti, è un problema di tutti gli uomini. Nel libro, essendo ambientato in un seminario, si ricorre talvolta, anche semplicemente per un effetto di realtà – insomma, i medici di E. R., il dr. House, nominano farmaci di cui io ignoravo l’esistenza e di cui ignoro l’efficacia, però io capisco la storia lo stesso – a terminologie teologiche precise, per far capire che questi sono preti e seminaristi veri. Però mi premeva che passasse l’idea che questa non è una storia che riguarda i preti, i seminaristi ma chiunque. Allora, anziché prendere una citazione della Sacra Scrittura o di qualche grande padre spirituale, ho trovato nel Pinocchio di Collodi, che ha, lo sappiamo, una grande tradizione, anche attraverso il Cardinale Biffi, di lettura in chiave cristiana, questa frase straordinaria che dice Pinocchio quando trova il presunto cadavere della Fata Turchina, quando crede che la Fata Turchina sia morta: una parola che secondo me è meravigliosa, rivivisci, una parola bellissima che ci ricorda che la lingua italiana ti può ancora saltellare in bocca, danzare, dire delle cose magnifiche. Ma più che altro in quel grido, in quel pianto che non è neanche detto da un essere umano, in quel momento, perché Pinocchio è ancora burattino, c’è il desiderio originario davanti alla perdita, davanti alla sofferenza, davanti alla morte, che la morte venga superata. E io trovo veramente commovente e straordinario che questa, che è la paura più grande dell’uomo, che la vita finisca, il cristianesimo la prenda e ce la ridia come speranza. Questo libro racconta, attraverso la storia di alcuni personaggi e, in alcune pagine, di molti personaggi, questo desiderio, questo spavento e questa speranza.
Se vuoi, dico due parole in più sulla trama: non vi dico come va a finire, però il motore di tutto è la figura di un prete. Siamo a metà degli anni ’80. Nel libro mi permetto di ricordare – magari se lo ricorda anche Camillo, visto che siamo coetanei – che in quel momento non è che tutti amassero Giovanni Paolo II come l’hanno amato dopo. Anche questo prete giovane è uno che ha la sua idea che il mondo debba andare in un certo modo, è convinto che l’opera dell’uomo sia quella di mettere le note a piè di pagina: cioè, tutto deve essere razionale. Proprio a questo prete, che ha tutto il suo scetticismo, tutta la sua ironia nei confronti di una parte del magistero, capita una cosa inspiegabile: gli viene accreditato, o addirittura potremmo dire imputato, per la sua mentalità, un miracolo. E’ un miracolo molto impegnativo. Benedicendo una bambina che sembrava in fin di vita – quindi torniamo all’immagine che c’è ancora in Pinocchio – questa bambina si è risvegliata ed è tornata a vivere. E la madre, che è una donna che ha scoperto la fede tardi, in maniera turbinosa, in maniera forse anche superficiale, senz’altro superficiale rispetto alla visione dell’altro protagonista che è don Alberto, questa mamma, questa Mariasole vuole che lui esca allo scoperto, vuole che lui ammetta di aver fatto il miracolo. Lui non lo fa ed è disposto per questa sua coerenza a lasciare Roma dove ha avviato una brillante carriera teologica e tornare nel piccolo centro dell’Appennino, tra l’Emilia e i primi avamposti della Liguria, in una città non identificata, immaginaria, che ha dentro tanta di quella zona geografica e culturale. E’ disposto a tornare lì, in questo seminario oscuro, a fare lezione a una dozzina di disperati che hanno messo insieme un seminario per nascondere questo prete. C’è anche un giovane seminarista africano, che voleva tanto andare a Roma e invece si è trovato sui picchi dell’Appennino, quindi ha i suoi motivi di scontento. Però, per una serie di casualità, la madre scopre dove è andato a finire il prete e inizia con un gruppo di persone che invece stanno riscoprendo (altro fenomeno tipico di quegli anni) una religiosità molto emotiva, a prendere d’assedio questo seminario, continuando incessantemente a pregare il rosario: e lì parte lo scontro. Parte lo scontro che non è uno scontro vero, in realtà, perché don Alberto crede con la testa, Mariasole crede con il cuore e tutti e due, alla fine, e tutti i personaggi del libro trovano un punto d’accordo. Il punto d’accordo è che il miracolo è quello che avviene nell’esperienza dell’uomo. Potremmo dire così, per Mariasole, che vede la figlia comunque restituita alla vita: alla fine, non interessa più che ci sia una qualche certificazione teologica o scientifica o medica che quello è stato un miracolo, è la vita stessa che viene recepita come miracolo.

CAMILLO FORNASIERI:
Potresti dirci con più nettezza, anche più immediatezza, alcune posizioni di fronte al miracolo che tu hai voluto collocare e di cui è necessario parlare, soprattutto in raffronto a questa cosa che mi ha colpito, cioè che la bambina, sentendo dire che il momento della sua nascita, o della sua riviviscenza secondo Collodi, è avvenuto in quel momento, vuole sapere se è figlia di questo? Cioè, le posizioni di fronte al cambiamento della realtà, raffrontate anche col desiderio che ci sia un’origine nuova di sé, un’origine vera.

ALESSANDRO ZACCURI:
Sì, questo è in effetti il punto centrale. Per Mariasole, per la madre, è tutto un miracolo.

CAMILLO FORNASIERI:
Mariasole è l’ex sessantottina…

ALESSANDRO ZACCURI:
… è l’ex sessantottina convertita, anche lei, davanti ad una immagine di Maria, davanti alla Vergine di San Luca a Bologna. Lei vuole insomma che questo miracolo sia riconosciuto, ha bisogno di una fede che si esprima per segni non controversi, per segni riconoscibili. Dal suo punto di vista, don Alberto è uno che ama molto i giochi di prestigio della mente: in questo seminario nascosto, lui sta componendo un grande trattato che deve mettere le cose a posto. Mettere le cose a posto vuol dire che, siccome il miracolo iniziale della creazione è talmente grande, tutto è miracolo e quindi nulla può essere miracolo. Nel libro, ho cercato di rappresentare così, don Alberto: non è un personaggio negativo, è comunque quella parte di ostinazione che c’è nel cuore di tutti noi. E’ un po’ come la storia del quarto tentatore di Eliot, quello del “fare la cosa giusta per il motivo sbagliato”. Lui dice molte volte la cosa giusta partendo da intenzioni sbagliate, intenzioni un po’ interessate. Al momento della confessione – che è per me uno dei momenti importanti perché è il momento in cui la misericordia di Dio si fa presente, riconoscibile, in atto -, la bambina, l’ex miracolata ormai adolescente, dice: “Io sono figlia del miracolo”. La risposta che dà lui è: “Noi tutti siamo figli di un miracolo”. La si può leggere in due modi. Nel modo che intende lui: “Non poniamoci il problema perché non è questo il problema”, oppure nel riconoscere che ciascuno di noi non ha origine in sé, ciascuno di noi ha origine in questa meraviglia che sta fuori di noi. Questo è il grande tema: da una parte, quello della fede, dall’altra, quello del dubbio. Un altro dei tentativi che mi ha un pochino animato scrivendo questa storia è questo: io penso che ormai abbiamo capito tutti l’assioma per cui in ogni credente si nasconde un non credente, questo va bene, è esperienza quotidiana di ciascuno di noi. E’ arrivato secondo me il momento in cui anche la cultura non credente, che è la cultura non dico più diffusa, però più ascoltata oggi, accetti dentro di sé il rischio della credenza, il rischio della fede. Perché, primo, anche gli atei si innamorano, e questo non è spiegabile in maniera razionale, quindi una qualche esperienza del mistero, se non altro in questo, ce l’hanno. Secondariamente, questa è una parte che anche a me sta molto a cuore, un mondo dove è possibile il miracolo è un mondo più grande, è un mondo più vivo ed è anche un mondo più divertente. Ci sono questi personaggi che a volte si trovano in situazioni buffe, non perché ci sia un desiderio di irridere alcuni momenti, alcune cose, ma perché ci sono certe realtà nella nostra vita che sono talmente grandi, come l’esperienza del lutto, per esempio, rispetto alle quali tutto il resto diventa minore, tutto il resto diventa in un qualche modo attraversato da una tenerezza, da un’indulgenza. Questo mondo in cui io sono convinto di vivere, è il mondo in cui i miracoli sono possibili, non nella forma del miracolismo ma nella forma del Mistero che abita la nostra vita e che dà senso a quello che viviamo: un mondo senz’altro più brillante rispetto a quello dove tutto è deciso da regole che poi non possono fondarsi su se stesse. Anche la lezione di ieri di Prades era in questa direzione: sono rimasto molto colpito quando l’ascoltavo, perché il desiderio dell’uomo contemporaneo di fare miracoli su se stesso è la versione malamente aggiornata della famosa fanfaronata del barone di Munchausen, che dice di essersi salvato tirandosi da solo su per i capelli. Questo non si può fare.

CAMILLO FORNASIERI:
Grazie, ancora un paio di cose. Che cosa hai incontrato nei lettori, nei colleghi, anche, nel panorama della letteratura e dei romanzi che spesso ormai fanno scivolare le storie in qualcosa di non vero, cioè rappresentano situazioni che non hanno più la struttura di una possibile esistenza reale di cose, di avvenimenti e anche di sentimenti profondi, umani? Collegata o comunque anche diversa, è una domanda su cosa significa riportare oggi come protagonisti, un sacerdote, un seminario, l’Appennino, cioè gli anni ’80: è un rifacimento di Bernanos? Sono tempi cambiatissimi, c’è un’atmosfera nel libro che non mi pare sia solamente il frutto di scelte estetiche o anche funzionali a un pubblico, alla tua provenienza e firma sul giornale: mi pare ci sia qualcosa di vero.

ALESSANDRO ZACCURI:
Guarda, molto brevemente. Agli anni ’80 ci sono arrivato per un motivo, diciamo di bassa cucina narrativa. Don Alberto sparisce, e oggi nessuno di noi può veramente sparire, perché c’è comunque un qualche sito Internet dove compare perfino quel seminario lì, in cui io scopro che don Alberto Brugnati – si chiama così – è andato a insegnare. Quindi, bisognava avere un presente abbastanza simile al nostro ma che non fosse il nostro, perché altrimenti in questo mondo, semplicemente, questa cosa non poteva accadere. Però, tornare indietro di venti, trent’anni, permette anche, secondo me, di renderci conto di quanto quell’Italia di una volta che noi pensiamo di esserci lasciati alle spalle sia in realtà presente ancora nel nostro Paese e in generale nel nostro mondo: c’è più tradizione, a volte anche sotto forma di una certa pigrizia nell’esperienza religiosa, per esempio. Io resto molto colpito quando mi capita di guardare le coppie molto giovani che hanno dei figli piccoli. Questi ragazzi hanno avuto la rivoluzione sessuale, hanno l’iPhone, hanno la pillola per non fare più figli, ecc. E poi li trattano esattamente come loro sono stati trattati dai loro genitori, e come i loro genitori erano stati trattati dai loro nonni. Nella fede, è accaduta la stessa cosa: ci si è fossilizzati su alcune esperienze e su quelle non si è più andati avanti. Quindi, c’era bisogno di questo scarto temporale anche per illuminare questa maturità imperfetta. L’Appennino è un posto dove sono state ambientate delle bellissime storie che hanno per protagonisti i preti. Io ho provato a raccontare i preti, da un lato, perché un pochino penso di conoscerli e perché vedevo troppi libri in giro dove c’erano dei preti che non mi convincevano. Ho trovato dei libri in cui sembravano proprio dei preti che avevano studiato al CEPU, con tutto il rispetto per il CEPU, però non sapevano niente della Trinità, non sapevano amministrare i sacramenti. Come tutto questo sia stato recepito, poi: io ho avuto per questo libro davvero molti elogi anche della critica. Il punto importante è quello che afferma uno dei pochi scrittori che in Italia, negli ultimi decenni, ha provato a tenere duro su questa linea, Ferruccio Parazzoli, un uomo che ha anche alle volte le sue idee, magari discutibili, però su una cosa credo che si possa essere d’accordo con lui, che da anni la ripete: “Non si possono raccontare storie solo dai tetti in giù”. La letteratura, qualsiasi esperienza di racconto, non può contentarsi di una dimensione orizzontale, deve avere una dimensione verticale: la dimensione verticale parte dal “sottosuolo” di Dostoevskij e arriva fino al Paradiso di Dante. Ci deve essere questa linea che si muove dall’alto in basso. E’ un tentativo che ho fatto, anche altri amici scrittori mi hanno fatto capire che mi ero inguaiato, secondo loro, però lo hanno apprezzato con simpatia. Grazie.

CAMILLO FORNASIERI:
Ringraziamo Zaccuri di questa sua offerta, di avere avuto il coraggio di porre a tema qualcosa che in fondo in fondo è desiderabile e, se si è onesti, se si è veri, potrebbe diventare un grido. E lo ha buttato dentro la confusione del nostro tempo, che è un po’ indietro ma è vicinissimo. E in questa confusione riesce a ritornare a quel punto di evidenza che fissa l’esperienza umana in questo suo bisogno di infinito, in questa necessità di un cambiamento, perché possa diventare realmente esperienza. Dicono di una scrittura molto bella e anche di una trama affascinante, perché inizia in modo inatteso e prosegue in altrettanti modi inattesi, ha dentro una trama, quasi di giallo, comunque dinamiche di sorpresa notevoli, non è per nulla un romanzo di pensieri.

ALESSANDRO ZACCURI:
Anche all’inizio della Genesi, c’è un omicidio…

CAMILLO FORNASIERI:
E ora una nuova proposta del grande amico e padre di tanti, Francesco Ventorino, che salutiamo, e facciamo subito lo stesso col caro amico, il professor Massimo Borghesi. L’offerta di Francesco Ventorino è questo libro edito da Marietti, Luigi Giussani. La virtù della fede, una sorta di continuazione di una riflessione costante che don Francesco ha iniziato da tempo e ha portato l’anno scorso già ad un primo esito, nel libro La virtù dell’amicizia, sempre riferito a don Giussani. In quel libro c’era un primo incontro, una prima conoscenza, un primo moto verso una corrispondenza intuita. Qui invece c’è una riflessione più distesa sugli aspetti fondamentali del cammino della fede. Partendo dall’esperienza, don Ventorino è filosofo, la testimonianza di una conoscenza sempre affettiva e originale, che suggerisce una possibilità di cambiamento per chi lo incontra o lo ascolta. Il concetto di esperienza, l’atto di fede, la bellezza e il fascino dell’umanità di Cristo e la figura della Madonna: sono i quattro passaggi contenuti nel libro, con un’ultima postilla relativa anche a ciò che la storia di Comunione e Liberazione è stata, il carisma di don Giussani che si è proposto come forma durevole per tutti. Dunque, una postilla importante perché riguarda anche il tema della continuazione di questa storia: come prosegue, dove sta la sua autorevolezza, quale cambiamento richiede in chi ne è parte, dall’ultimo fino al primo chiamata a guidarla. Una riflessione, un saggio di esperienza dove troviamo bellissimi raffronti e tracce di appunti personali che ci fanno vedere l’immensa ricchezza del magistero di don Giussani e ci permettono di ripercorrere questa esperienza cristiana, così descritta nella ragionevolezza proposta all’uomo, rivelando anche lati della figura di don Giussani più difficili da rilevare nei testi ufficiali. C’è una prefazione importante del Card. Carlo Caffarra di Bologna, e una postfazione dell’amico Piero Barcellona che, ospite per vari anni al Meeting, appone un commento a questo nucleo centrale, la fede che lui stesso ha re-incontrato attraverso don Francesco Ventorino. Ho fatto una brevissima introduzione: chiedo a don Francesco di raccontarci gli spunti principali e dirci meglio quali sono le caratteristiche in filigrana di questa virtù della fede secondo la vita di don Giussani.

FRANCESCO VENTORINO:
Hai detto bene perché questo libro, più che un trattato di teologia, vuole essere una testimonianza, come il primo che ho fatto, sulla virtù dell’amicizia in don Giussani. Vuole essere una testimonianza su di lui e sul mio rapporto con lui, e dire quanto egli sia stato determinante per la mia vita di cristiano e di prete. Una testimonianza che, come ha scritto il Card. Caffarra nella sua prefazione, oltre che essere un debito di gratitudine è una responsabilità ecclesiale, e ne dà le motivazioni, perché afferma che il carisma di un fondatore è scritto nella sua persona prima che nei suoi libri. Anzi, potrebbe anche non aver scritto nessun libro – e cita Francesco d’Assisi -, il libro è la sua persona, perciò può essere tramandato solo attraverso la testimonianza di coloro che hanno condiviso l’amicizia con il fondatore. Ecco perché Caffarra dice che, oltre ad essere un debito di gratitudine, è una grande responsabilità ecclesiale, che io intendo assumermi con le capacità che ho. Sono appena all’inizio, voglio continuare la mia riflessione sul pensiero teologico di don Giussani con lo stesso metodo della testimonianza personale, perché ritengo di dover dare questo contributo al corpo della Chiesa, come dice ancora Caffarra.
Il mio, dunque, è un tentativo di comunicare l’esperienza fatta in 45 anni di vita vissuta nell’amicizia con don Giussani: se si potesse riassumere in una parola l’originalità di questo rapporto, la genialità con la quale Giussani mi ha fatto riscoprire il cristianesimo, è quella forma di ragionevolezza della fede che lui proponeva, mostrando la corrispondenza che c’è tra la fede cristiana e il cuore dell’uomo.
Voi che avete tanti anni di vita nel Movimento, pensate che questa sia una cosa ovvia.
Quando io ho incontrato don Giussani, non era ovvio assolutamente presentare la fede così. Noi eravamo educati da una apologetica che ci era stata trasmessa, per cui mostravamo la ragionevolezza della fede dimostrando la verità di un fatto passato. Dovevamo dimostrare che Cristo c’era stato veramente e che, secondo la testimonianza degli apostoli e dei primi, si era dimostrato attraverso gli insegnamenti e i miracoli veramente credibile come figlio di Dio. Pensate a una proposta cristiana fatta in questi termini, quando ho cominciato a fare il prete io, alla fine degli anni ’50, quando il cristianesimo non c’era più e bisognava interessare i ragazzi al cristianesimo. Com’era possibile fare ciò parlando della verità di un fatto passato? Nessun interesse, e io mi trovavo nei guai, ero già prete e non sapevo da dove partire. Se non avessi incontrato don Giussani, non avrei assolutamente trovato questo geniale metodo di proposta del cristianesimo come corrispondenza all’attesa che c’è nel cuore di ogni uomo, partendo da questa ipotesi che innanzitutto ho dovuto assumere per me, perché ho dovuto fare per me questo lavoro: ho cominciato a presentare il cristianesimo così e ne ho visto i frutti. Ho chiesto a Massimo Borghesi di spiegare meglio di me il mio libro. Pochi sanno che io e lui siamo stati colleghi, studenti all’Università di Perugia. C’è da precisare che io avevo 20 anni più di lui, però studiavamo entrambi filosofia in quell’ateneo e adesso lui è professore lì. Abbiamo fondato insieme il Clu a Perugia, si parla degli inizi degli anni ’70: quindi, ci unisce anche una storia di condivisione del carisma di Giussani e di iniziativa fervorosa e fervente in quegli anni in cui fare la proposta di CL, in qualche modo, comportava anche il rischio fisico dell’esistenza. Grazie, Massimo.

MASSIMO BORGHESI:
Come avrete capito, è per me un grande piacere presentare questo volume di un amico fraterno come è stato per me, ed è, don Ciccio. Tu citavi i 45 anni con don Giussani, noi ci conosciamo da 40 anni, quindi ci avviciniamo a quella data. Questo volume, come ci ricordava prima Fornasieri, ha una bella prefazione del Cardinal Caffarra e una postfazione interessante, problematica di Pietro Barcellona, problematica perché dimostra tutta la difficoltà di un uomo che viene da una tradizione molto lontana ad afferrare questa provocazione che nasce dal volume. Questo volume segue l’altro, ci veniva ricordato, Luigi Giussani – La virtù dell’amicizia, edito nel 2011, e ad essi, come accennava don Ciccio, ne seguiranno altri due, cioè: Luigi Giussani – La virtù della speranza, Luigi Giussani – la virtù della carità. In questa maniera: le virtù teologali più una virtù etica, perché l’amicizia è una virtù etica, secondo l’idea di Aristotele, per cui l’amicizia appunto è una virtù e non è una semplice simpatia o empatia. Dico subito che il volume che presentiamo è un bel volume, anzi, a mio modesto parere, uno dei più belli usciti su don Giussani. Più bello anche, a mio parere, del primo, che pure è un testo interessante, ma più bello perché è più agile, originale nel delineare i momenti fondamentali del pensiero di Giussani, e poi, merito non secondario, perché riporta numerosi brani di Giussani di rara bellezza: solo leggere i pezzi di Giussani che vengono riportati nel volume è un godimento della mente e del cuore.
Indico qui, in maniera sintetica, i motivi che rendono, a mio parere, questo volume molto prezioso, e condivido con voi questo giudizio. Primo elemento: l’aver posto Giussani in dialogo con la grande tradizione teologica, filosofica e spirituale della Chiesa. Giussani è grande non perché è solo, isolato, non sorge come un fungo, non è un meteorite. Talvolta, anche nell’ambito del Movimento, sembra che Giussani sia venuto dal nulla. Giussani viene da una storia, da una storia profonda, si nutre di apporti, è grande perché sintetizza in maniera originale questi apporti ma non lo si capisce se non lo si colloca in dialogo con la grande tradizione della Chiesa, della Chiesa ambrosiana, della scuola di Vengono, da cui lui proviene, che era il miglior istituto teologico dell’Italia di allora, e forse non solo di allora. È grande perché sintetizza in modo originale quei contenuti che gli erano stati trasmessi.
Quindi, l’originalità di Giussani va compresa nell’alveo della grande tradizione della Chiesa, ed è quello che, in maniera intelligente ed opportuna, dice il cardinal Caffarra: “Ogni capitolo mostra che il carisma di don Giussani trova nella grande tradizione teologica, sia di Agostino che di Tommaso, la sua radicazione. Nello stesso tempo, esso ha una capacità di ascolto della modernità non frequente. Non a caso fu un grande ammiratore e di Newman e di Leopardi”. Questa capacità, per cui la tradizione è posta in dialogo con la modernità, è il genio di Giussani, è qui che va trovato il suo punto. Don Francesco Ventorino, cioè don Ciccio, come tutti gli amici lo conoscono, profondo conoscitore di san Tommaso, inserisce Giussani in questo confronto fecondo e così lo rende interessante, perché è interessante in questo rapporto, quando uno dentro a una tradizione spicca per la sua originalità. Ma per capire che uno è originale bisogna metterlo a confronto con una tradizione, se no non si capisce in cosa stia la sua originalità.
Punto secondo di interesse di questo volume: vi è in don Ciccio, nel suo volume, un’attenzione nello storicizzare gli interventi di Giussani. Cosa vuol dire storicizzare? Vuol dire situare le sue riflessioni, le sue parole in un orizzonte spazio-temporale. Se l’avvenimento cristiano è storico, va compreso nella sua storicità. Vi è un’abitudine inveterata, anche dentro Cl, di citare Giussani come uno scrittore edificante: si prendono riflessioni degli anni ’80, degli anni ’70, degli anni ’60, degli anni ’90, come se dicesse sempre le stesse cose. Se Giussani negli anni ’60, o negli anni ’70 o negli anni ’90, ha detto quelle cose, è perché teneva presenti gli avvenimenti di allora, interni a Cl ed esterni a Cl. Se uno non capisce questo, non capisce che quelle parole sono un giudizio su ciò che concretamente accadeva allora. E quindi non lo valorizza, lo legge in maniera totalmente non intelligente. Non si può leggere Giussani semplicemente come autore edificante, certamente è un autore edificante, edifica e moltissimo, edifica lo spirito, ma non lo si può leggere così, non lo si può confinare ad essere un autore spirituale, altrimenti lo si destoricizza e gli si toglie la carne. E questo non aiuta il giudizio, la maturazione di un giudizio e di una riflessione.
Don Ciccio ha vissuto in prima persona le varie fasi del movimento di Cl, in presa diretta, spesso a gomito con Giussani, e allora le date di certi interventi diventano importanti. Mi hanno colpito nel libro le date. Giussani, dice Ciccio, nel ’92 dice questo, nel ’76, il famoso discorso di Viterbo ’76, dice questo. Le date sono importanti. Non si può citare Giussani non tenendo presente le date, altrimenti tutto è una pappa, tutto è uguale, come accade purtroppo tra molti di Cl, lasciatemelo dire con tanta libertà, per cui tutto è uguale, come se avesse detto sempre le stesse cose. Questo non aiuta in una maturazione di giudizio, innanzitutto sulla storia stessa di Cl, che è scandita da momenti, da correzioni, da passaggi, da riprese, da abbandoni. Le date: perché Giussani dice quelle cose in quel determinato momento, perché l’accento cade qui e non altrove? In Giussani sono gli accenti, che contano. Un amico carissimo diceva sempre: in lui contano gli aggettivi, gli avverbi. Spesso è più importante l’aggettivo del sostantivo, perché era il modo per accentuare una cosa che contava; è quando ripeteva una cosa con un accento particolare, che si capiva dove urgeva il cuore e la mente sua in quel momento. Il libro che presentiamo indica queste date, punti di svolta, preoccupazioni che insorgono: e aiuta quindi ad un’intelligenza critica della storia di Cl. Leggere il libro di don Francesco Ventorino, al di fuori di questa prospettiva, non è utile, è svisare, penso, la preoccupazione che l’autore ha avuto.
Terzo punto di interesse: se l’inserimento, e quindi il dialogo con la tradizione della Chiesa, è un punto importante, se la storicizzazione del Giussani pensiero è importante, altrettanto preziosa è la suddivisione dei singoli capitoli, in cui don Ciccio dà un affondo, non pretende di trattare sistematicamente il pensiero di Giussani, coglie dei punti nevralgici che però sono di grande importanza. Il primo, che precede il secondo, che è la dinamica dell’atto di fede, è dedicato all’esperienza cristiana. Quante volte abbiamo ripetuto questo termine, quante volte! Ebbene, Giussani nel 1963 pubblica un piccolo fascicolo dal titolo L’esperienza, con l’imprimatur di Monsignor Figini, che trovate raccolto nel volume Il rischio educativo, edito nel 2005 da Rizzoli. Ebbene, come diceva don Ciccio prima, noi leggiamo queste cose così come se fossero le cose più ovvie del mondo. Nel 1963, la categoria di esperienza era – c’è qui Mons. Luigi Negri, ci potrà dare conferma – letteralmente bandita dalla riflessione teologica cattolica: dire esperienza voleva dire essere modernisti o essere in odore di soggettivismo religioso. Tant’è vero che quando Giussani si mette a riflettere, e introduce la categoria di esperienza, c’era un solo libro a disposizione della letteratura, ed era quello che lui cita di Jean Mouroux, L’esperienza cristiana, edito dalla Morcelliana nel 1956. Dirà Giussani: “Lo lessi ma non mi servì a nulla”. Questo per dire che il concetto di esperienza di Giussani è totalmente originale. Lui stesso, che era così discreto nel rivendicare punti di originalità, dice sul concetto di esperienza: no quello è mio, è originale. Era un tema rischioso, spinoso al pari dell’altro: il senso religioso. Perché Il senso religioso, la cui prima stesura è del 1958 (che abbiamo pubblicato nel 2009, insieme alla lettera pastorale di Montini sul senso religioso, da cui Giussani prende l’idea de Il senso religioso), era una tematica modernista, potenzialmente ereticale anche quella. Insomma, Giussani introduce queste categorie che noi usiamo così, dilapidandole, che nella riflessione teologica cattolica di quegli anni erano progressiste, in odore di eresia, all’avanguardia, rischiose. E ha il coraggio di assumere queste categorie inserendole in un dialogo fecondo con la tradizione della Chiesa. Ma era un cammino molto rischioso perché erano temi che adombravano un certo soggettivismo, che dalla teologia di quegli anni veniva visto come una sorta di peste. Per riflettere sulla nozione di esperienza, Giussani non aveva nulla. Siamo quindi di fronte a una nozione originale, una nozione chiave che trova nel libro una prima sistematica trattazione. Originale perché è grazie alla nozione di esperienza che, al di là di ogni modernismo, Giussani incontra la modernità. Non so se vi siete mai resi conto: se Giussani incontra il moderno, riprendendo don Ciccio, se è capace di dialogare con i giovani del Berchet a Milano, è perché ha intuitivamente e poi teoricamente la categoria di esperienza. L’esperienza vuol dire che il soggetto entra in gioco. Non basta il contenuto oggettivo della Rivelazione, occorre che anche il soggetto sia chiamato a certificare la verità di ciò che viene incontrato, occorre che la tua esistenza sia chiamata in gioco, il tuo io, quello che tante volte, poi talvolta fino alla nausea, viene ripetuto, e talvolta in maniera assolutamente inintelligente. Quindi, Giussani supera una nozione autoritaria della fede e pone il problema del soggetto che crede, della sua rispondenza personale, della sua corrispondenza. Il problema della corrispondenza è il problema della tua risposta, della tua rispondenza, di te che ti ritrovi in quel contenuto, in quella Presenza, quella Presenza che non può fare a meno di te: questa è l’intuizione dell’esperienza. Il contenuto cristiano non è un meteorite che ti cade sulla testa e tu lo devi solo accettare supinamente, come uno schiavo. È qualcosa che richiede l’adesione di te, del tuo cuore, della tua vita, e tu devi provare che è vero. Tutta la pedagogia di Giussani nasce da qui: tu devi provare, al limite, rischiando, al limite per te non è vero, anche se hai sbagliato tu, però è così che il Signore si affida alla tua libertà, non la nega, non fa a meno di quella, anche se questo porta al rifiuto di Lui stesso.
Ebbene, cosa diceva Giussani in quel breve opuscolo del ’63, che don Ciccio opportunamente richiama, che non era una riflessione teorica ma già rifletteva l’esperienza di Gs, elaborava la categoria di esperienza a partire dall’esperienza di Gs? Tre cose, diceva, l’esperienza cristiana si basa su tre fattori: l’incontro con un fatto obiettivo, una comunità; il potere di percepire il significato dell’incontro, cioè la grazia della fede – la fede è grazia ed è quella grazia che ti consente di percepire il valore dell’incontro -; la coscienza della corrispondenza tra il significato del fatto e il significato della propria esistenza. Ebbene, l’esperienza diviene qui verifica della corrispondenza tra l’oggetto incontrato e la realtà del proprio cuore, cuore inteso sia in senso biblico-agostiniano che in senso tomista come vis appetitiva, come inclinazione originale. Era l’idea che il cristianesimo corrisponde all’umano, questa è l’idea cattolica di Giussani: il cristianesimo non nega l’umano, come nella posizione protestante e luterana, il cristianesimo non ha bisogno per affermarsi di negare l’umanità dell’uomo peccatore, il cristianesimo corrisponde all’umano. Questa è l’idea cattolica di Giussani: tomisticamente, gratia perficit naturam non tollit, la grazia completa, esalta la natura dell’uomo, non la sopprime, diciamo così. Era l’idea che Giussani tante volte ha detto del “centuplo quaggiù”. Si trattava di una verifica che non riduceva l’altro a me stesso, la realtà alla nostra misura, e che tuttavia richiedeva la certificazione del cuore, cioè l’esperienza. Giussani toglieva in tal modo il concetto di esperienza al modernismo e lo collocava sul terreno dell’ortodossia, un’ortodossia che valorizzava l’accento moderno.
Secondo capitolo: la dinamica dell’atto di fede. Si chiede don Ciccio: come accade la fede? Dalla corrispondenza si passa alla fede come riconoscimento amoroso. E qui è una delle parti più belle, secondo me, del volume, anche per le citazioni di Giussani che contiene in sé. Dice qui, il testo di Giussani che viene riportato, che la fede è riconoscimento amoroso, è una conoscenza amorosa: è bellissima questa definizione della fede. La fede non è semplicemente un riconoscimento, è un riconoscimento amoroso di una presenza che ti fa innamorare. Non basta dire: io credo in Gesù, tu credi in Gesù, perché Gesù ha colpito il tuo cuore, perché Gesù corrisponde al tuo cuore. Corrispondere al cuore vuol dire fare innamorare uno, quando uno ti corrisponde lo prendi in simpatia, quando un ragazzo e una ragazza si corrispondono, si innamorano. Corrispondere è un riconoscimento amoroso, se no è un riconoscimento intellettuale, e una verità intellettuale non tiene, non è una verità cristiana. Si può riconoscere la verità della fede ed essere “il Grande Inquisitore” di Dostoevskij: chi più dell’Inquisitore difende la verità? Però non si può dire che abbia molto cuore o che il suo riconoscimento sia amoroso. Quindi, la corrispondenza è giudizio e amore, non solo l’evidenza che ti porta ad aderire ma anche il giudizio che la realtà incontrata è un bene per te, è desiderabile, diciamo così. E qui don Ciccio cita quella bellissima affermazione del cardinal Newman: “Noi crediamo perché amiamo”. Per poter credere, bisogna prima in qualche modo che il cuore sia toccato, bisogna che la figura di Cristo, in qualche modo, la sua presenza, ti abbia toccato il cuore, se no non è possibile cristianamente credere. Amiamo perché ci fidiamo, perché sappiamo che il testimone del bene è degno di fede, dice don Ciccio. La fede suppone la ragione per essere fede: io mi fido di colui che mi testimonia quella presenza. La ragione certifica l’affidabilità, e nel caso cristiano l’eccezionalità di Cristo.
E qui vengono alcune delle pagine più belle, a mio modesto giudizio, del testo, perché riporta dei brani di Giussani veramente strepitosi (io alcuni li ricordavo, altri meno): Giussani dice che ciò che è eccezionale è proprio ciò che corrisponde alla natura. Il concetto di eccezionale è ciò che corrisponde alla natura, perché noi troviamo molte cose che ci corrispondono ma fino a un certo punto: quello che ti corrisponde pienamente diventa eccezionale per te, tanto è raro trovare qualcosa che ti corrisponde pienamente. È l’eccezionalità che porta alla fede, a fidarsi di Lui. E qui Giussani dice, a pagina 53 del volume (perdonate se vi leggo alcune cose, ma sono queste le cose più belle, non quelle che sto dicendo io): “Io ho davanti una eccezionalità […] senza paragone […] perché corrisponde alle attese del cuore tuo […]. Corrisponde d’improvviso – d’improvviso! – al […] tuo cuore come mai avresti potuto immaginare […]. L’eccezionale, cioè, è, paradossalmente, l’apparire di ciò che è più naturale per noi […]. Che quello che più desidero più avvenga: questo è naturale, scontrarsi con qualcosa di assolutamente, profondamente naturale perché corrisponde alle esigenze del cuore che la natura ci ha dato è una cosa assolutamente eccezionale”. Ma pensate: ciò che corrisponde, che dovrebbe essere banale, no?, ciò che corrisponde alla natura dovrebbe essere banale, ebbene, è proprio ciò che è eccezionale. L’eccezionalità con cui appare la figura di Cristo è ciò che rende facile riconoscerlo, è facile riconoscerlo come ontologia divina perché è eccezionale: anche questo mi ha colpito tantissimo. Ricordate quando Giussani diceva che il cristianesimo è semplice, è semplice essere cristiano? Perché è semplice? Perché è eccezionale, cioè corrisponde alla natura dell’uomo. Questa corrispondenza è grazia. Uno dei meriti del libro di don Ciccio è che sottolinea in maniera molto bella il concetto di grazia in Giussani: voi capite che non è così chiaro, non è così evidente, spesso. In Giussani, la fede è grazia, la corrispondenza è grazia, il cristianesimo è grazia, la presenza è grazia. Non esiste parola più bella di questa, dice Giussani, che implica una ricchezza e una fantasia senza fine con una mobilità e una fantasia senza possibilità di limite e dove tutto è per amore. Ciccio commenta e dice: “Per don Giussani, il punto di partenza non è mai stato un appello al senso religioso, ma la grazia di un incontro cristiano nel quale il senso religioso dell’uomo trova nello stesso tempo adeguata formulazione e risposta imprevedibile e gratuita”. E qui cita la famosa intervista ad Angelo Scola del 1987, quando Scola gli chiede: “Ma il punto di partenza, per lei, è il senso religioso?”. E lui dice: “No, è l’avvenimento cristiano, a partire dal quale il senso religioso è provocato in quanto tale”. Il punto di partenza nel 1987 non è il senso religioso ma innanzitutto l’incontro. Questo vale sempre, però nel 1987 è anche un giudizio storico, in un momento in cui la società non è più cristiana. Non è l’appello al senso religioso che ti porta direttamente al cristianesimo, ma è l’incontro con una presenza che ti commuove, che fa nascere in te la domanda religiosa e sul significato della vita. Cioè, nel 1987 questo è un giudizio storico, non è soltanto un giudizio teologico. “Incontrando Cristo” dice in altre pagine, 66 e 67, “scopro la natura del cuore, il senso religioso. Incontrando un Tu, scopro chi sono io. Il Tu è il luogo della scoperta dell’io”. Anche questo è bellissimo.
Capitolo tre: “Memoria, presenza di Cristo”. E’ bellissimo, anche qui, per i brani che riporta. È stato detto in maniera assolutamente autorevole da Mons. Luigi Negri, nella prefazione al primo volume Luigi Giussani. Le virtù dell’amicizia, che il contributo originale di Giussani è l’antropologia ed è vero, certamente. Come si fa a disconoscere questo? Il senso religioso è l’antropologia. Lì Giussani ha dato un contributo di primo piano per i motivi che abbiamo detto prima, introducendo questa categoria alla luce di Montini che era assolutamente originale in quegli anni. Però, se mi permetti, anche Giussani degli ultimi anni ha dato un contributo sul terreno più schiettamente teologico, nel modo come ha presentato il cristianesimo oggi. Negli ultimi anni, il suo contributo originale è restituire il cristianesimo alla sua realtà attuale, nell’immedesimarsi con i testimoni oculari del Vangelo. Il linguaggio di Giussani non era semplicemente poetico, lo era, ma era il tentativo di rendere presente, attuale, contemporaneo, Cristo come lo vedevano i primi. In questo è stato unico. Io non ho presente altri che visualizzavano il contenuto cristiano come un film in diretta, come coloro che lo vedevano passare, nell’immedesimarsi con i testimoni oculari del Vangelo, coloro che lo vedono passare, predicare, mangiare, carezzare i bambini, guarire gli ammalati. E’ come il Péguy de Il mistero della carità di Giovanna d’Arco, quando dice: “Che bello quelli che lo vedevano passare”. Giussani era Péguy, lo stesso modo di concepire il cristianesimo come presenza, ora, in atto, come scrive Ciccio molto bene a pag. 76: “Entrare nella profondità del mistero di Cristo, immedesimandosi in lui attraverso il racconto dei Vangeli, è stata la suprema passione della vita di don Giussani, soprattutto negli ultimi anni!”. Ma com’ è vero! Perché prima lo aveva detto ma non con quella intensità, con quella visibilità, visionarietà come negli ultimi anni. E aggiunge: “Chi lo ascoltava, veniva coinvolto nel fascino di una scoperta sempre più intensa e immensa della divina umanità di Cristo, fonte inesauribile di dolcezza spirituale”. Tutti gli interventi degli anni ’80 e dei primi anni ’90, quelli per intenderci che furono raccolti nel volume de Il Sabato: vi ricordate, i più vecchi, Un avvenimento di vita, cioè una storia?, e che poi sono stati rieditati negli ultimi anni dai volumi della Rizzoli. Tutti hanno questa presa diretta, alcuni sono di una bellezza unica. Ma nessuno ha mai parlato così cristianamente negli ultimi anni! Ruotano attorno a questa visione, una visione che richiede immedesimazione cioè “immaginazione riproduttiva” se usiamo i termini kantiani, perché mi ha colpito, leggendo i brani che tu riporti, quante volte lui dice: “Ma immaginate” sta narrando pezzi di Vangelo, “immaginate, immaginatevi…”. Lo dice e lo ridice, sta cercando di portare i suoi ascoltatori attraverso una scena che viene dipinta davanti a loro: non si capisce il cristianesimo se non si ha questo processo di immedesimazione che Péguy e Giussani hanno avuto nella stessa maniera, come un fatto presente.
Cinque minuti, due o tre brani di Giussani per coglierlo in questa presa diretta, perché sono cose davvero bellissime. Qui Ciccio riporta alcuni brani, citando direttamente Giussani, di tre episodi in particolare: Giovanni e Andrea, il tradimento di Pietro e la resurrezione del figlio della vedova di Nain, che sono tra le cose più belle su cui Giussani tornava costantemente. A pag. 79, se qualcuno ha già il volume – e chi non ce l’ha lo dovrà comprare subito -, dice Giussani, riferito a Giovanni e Andrea: «Ma immaginate quei due che lo stanno ad ascoltare alcune ore e poi devono andare a casa, Lui li congeda e se ne tornano zitti, zitti, perché invasi dall’impressione avuta del Mistero sentito, presentito, sentito, e poi si dividono, ognuno dei due va a casa sua non si salutano, non perché non si salutino, ma si salutano in un altro modo si salutano senza salutarsi, perché sono pieni della stessa cosa, sono una cosa sola loro due, tanto sono pieni della stessa cosa. E Andrea entra in casa sua e mette giù il mantello e la moglie gli dice: “ma Andrea che hai, sei diverso che ti è successo?”, immaginate che lui scoppiasse in pianto abbracciandola e lei che sconvolta da questo continuasse a domandargli: “ma che hai?” e lui a stringere sua moglie che non si era mai sentita cos’ stretta in vita sua, era un altro! Era lui ma era un altro!». E ancora, sul tradimento di Pietro, quante volte in quegli anni Giussani tornava sul tradimento di Pietro, non per il tradimento di Pietro ma per quella famosa frase: “Pietro, mi ami tu?”. Perché su quel “mi ami tu” si fondava tutta l’etica cristiana, si fondava tutta la sequela cristiana. E dice qui, a pag. 50: «Aveva preparato del pesce arrosto per loro. Tutti si siedono, mangiano, nel quasi totale silenzio che gravava sulla spiaggia Gesù sdraiato guardava al suo vicino che era Simon Pietro, lo fissò e Pietro sentì immaginiamoci come sentì il peso di quello sguardo perché si ricordava del tradimento di poche settimane prima e di tutto quello che aveva fatto, si era fatto persino chiamare “Satana” da Cristo, si ricordava di tutti i suoi difetti, perché quando ci si sbaglia gravemente una volta viene in mente anche tutto il resto, anche quello che è meno grave. Pietro si sentì come schiacciato nella sua incapacità, della sua incapacità di essere uomo e quell’uomo lì vicino apre bocca e dice: [immaginatevi come Simone dovesse tremare] “Simone mi ami tu?”. Ma se voi cercate di immedesimarvi, vedete, immaginazione e immedesimazione, se voi cercate di immedesimarvi in questa situazione, tremate adesso soltanto pensandoci a questa scena così drammatica, cioè così descrittiva dell’umano, esaltatrice dell’umano, perché il dramma è ciò che esalta i fattori dell’umano, è solo la tragedia che li annichila. Il nichilismo porta alla tragedia, l’incontro con Cristo porta nella vita il dramma».
Ancora un altro brano – non ve lo leggo tutto -, dove c’è il famoso episodio dello sguardo, in cui «il Signore gli si stese vicino, lo guardava, lui guardava, guardava ma non guardava, perché aveva vergogna più del solito, gli voleva bene e perciò si è voltato verso di lui, si è voltato verso di lui e gli ha dato quella risposta per cui era continuamente voltato verso di lui, ovunque fosse, dovunque fosse, anche quando era a casa, sempre era voltato verso di lui». E il terzo brano dice: “Provate a immedesimarvi, proviamo a immedesimarci”, ecc.
E poi c’è l’episodio bellissimo che si concludeva così: «Vedi, Signore, io ti amo». Ti voglio bene: ti voglio vuole dire ti affermo, riconosco quel che sei per me per tutti. E poi,
l’episodio della madre di Nain, quel “donna non piangere” che Giussani ripete, ripete, ripete e commenta, e sembra Péguy, sembra Il Mistero della carità di Giovanna D’Arco, in questo continuo ripetere: “Donna non piangere”. Dice don Ciccio, di fronte a questa capacità visionaria di immaginazione: «Tutti stavamo di fronte alla contemporaneità di Cristo realizzatasi attraverso quell’uomo. L’avvenimento dell’incontro cristiano, di cui egli aveva spesso parlato, in quel momento stava accadendo. In quel momento! Chi di voi ha sentito gli ultimi anni di Giussani, mentre parlava l’avvenimento accadeva, era lì! Nessuno sarebbe stato convinto da un mero discorso sull’avvenimento o sull’astratta definizione della sua corrispondenza con il cuore dell’uomo. Solo la presenza di Cristo, resa attuale da quel prete umanissimo, convinceva. Per questo il suo carisma era irriducibile a un concetto, ad un discorso di metodo cristiano, a qualcosa che può essere imparato dai suoi libri. Il suo metodo era egli stesso, la sua umanità, il suo carisma non sarebbe stato estrapolato da lui così come non è estrapolabile da coloro che da lui sono stati segnati, era con lui che la memoria di Cristo facilmente diventava una presenza». Grazie.

FRANCESCO VENTORINO:
Un suggerimento, fatevi presentare i libri da Massimo Borghesi e vi accorgerete di quello che avete scritto. E ti ringrazio che hai finito col ricordare questa dolce familiarità con don Giussani, di cui non si poteva fare a meno, perché questo modo di presentare il cristianesimo non era un metodo che si apprendeva una volta per tutte, era un atteggiamento nei confronti di Cristo che non si finiva mai di imparare, ma nei confronti di tutta la realtà, che non si finiva mai di imparare. Per questo non ci si stancava mai di stare con quell’uomo, di guardarlo, come diceva lui di Cristo, di guardarlo parlare, di guardarlo mentre parlava. E’ una grande grazia che ha segnato la mia vita di prete, grazia la cui gratitudine voglio esprimere anche con quel lavoro che ho promesso, a me stesso e al popolo del Movimento, di fare. Un’altra cosa vorrei dire: l’anno scorso eravamo a presentare un altro libro mio sul sacerdozio, Il ministero della bellezza, con Mons. Luigi Negri. Dopo la presentazione di quel libro, gli ho detto: “Guarda che avrei degli scarabocchi che ho fatto sulla mia amicizia con don Giussani, te li mando e mi dici se sono degni di qualche attenzione”. E glieli ho mandati. Dopo 24 ore, forse neanche, mi ha chiamato per telefono incoraggiandomi a pubblicarli, che avrei fatto un grande servizio al carisma di don Giussani, alla Chiesa e al Movimento, se li avessi pubblicati. Quindi, io sono grato a lui perché senza quella sua sollecitazione non avrei fatto niente. Grazie! E un altro grazie devo dire a un altro uomo che forse è nascosto qui fra di voi, è un teologo molto arguto anche se molto modesto, è un grande amico mio, si chiama don Andrea Bellandi, insegna alla Facoltà Teologica dell’Italia Centrale, di cui è stato anche Preside: adesso è un prete del Movimento a Firenze. Vi assicuro che è un censore inesorabile, quando un testo passa dalla sua censura, è sicuramente ortodosso. Per dirvi che questo testo è stato rivisto da teologi, da vescovi e da cardinali che lo hanno corretto, approvato e mi hanno incoraggiato nel continuare questa operazione. Grazie.

CAMILLO FORNASIERI:
Grazie, allora, scherzando con il latino, dato che c’è l’imprimatur bellandi, possiamo cogliere l’invito dell’offerta di don Francesco. Abbiamo colto come il tema della fede sia appunto una consapevolezza e una metodo che è continuamente, costantemente in cammino, e costantemente si prende e si riprende a partire da un avvenimento che accade. Questo è il metodo che il movimento di Comunione e Liberazione offre alla Chiesa, che è il metodo del cristianesimo. Grazie a tutti, grazie a Massimo Borghesi e grazie a don Francesco Ventorino per il suo libro.

Data

22 Agosto 2012

Ora

15:00

Edizione

2012

Luogo

eni Caffè Letterario D5
Categoria
Testi & Contesti