INDUSTRIA GLOBALE E LAVORO LOCALE: CONFLITTI O SINERGIE?

Industria globale e lavoro locale: conflitti o sinergie?

23/08/2011 - ore 15.00_x000D_ In collaborazione con Unioncamere. Partecipano: Andrea Gibelli, Vicepresidente della Regione Lombardia e Assessore all'Industria, Artigianato, Edilizia e Cooperazione; Federico Golla, Amministratore Delegato di Siemens Spa; Luigi Gubitosi, Manager; Leo Wencel, Presidente e Amministratore Delegato di Nestlè Italiana. Introduce Bernhard Scholz, Presidente della Compagnia delle Opere.2

In collaborazione con Unioncamere. Partecipano: Andrea Gibelli, Vicepresidente della Regione Lombardia e Assessore all’Industria, Artigianato, Edilizia e Cooperazione; Federico Golla, Amministratore Delegato di Siemens Spa; Luigi Gubitosi, Manager; Leo Wencel, Presidente e Amministratore Delegato di Nestlè Italiana. Introduce Bernhard Scholz, Presidente della Compagnia delle Opere.

 

BERNHARD SCHOLZ:
Buongiorno a tutti e benvenuti a questo incontro che ha come tema “Industria globale e lavoro locale: conflitti o sinergie?” In Italia ci sono 14.000 imprese estere presenti. Circa 10.000 nei servizi e 4.000 nell’industria. Ci lavorano 1,3 milioni di addetti che sono complessivamente il 7% di chi lavora in Italia. La dimensione media è evidentemente molto più grande della norma italiana: sono mediamente imprese con 90 addetti, quindi 25 volte quelli che hanno le piccole e medie imprese italiana. Il fatturato è di quasi 500 miliardi con un valore aggiunto fra 90 e 100 miliardi, che è 12% circa del valore aggiunto complessivo del Paese e investono il 25% di tutti gli investimenti complessivi italiani in ricerca e sviluppo. Questi sono solo alcuni dati che ci dicono che la presenza di aziende estere in Italia è un fattore importantissimo. Al contempo queste aziende vivono spesso col sospetto di importare culture, culture lavorative, culture di servizi, culture di beni che non sono proprio consone alla cultura del Paese dove sono. Quindi ci sono dei sospetti, se non delle accuse, che dicono: da un certo punto di vista lavorate bene, con efficacia, ma non siete proprio di casa. Quindi vorremmo parlare del valore aggiunto in termini economici e anche finanziari, in termini di investimenti, di ricerca, di sviluppo che portano le imprese dall’estero e come questo possa trovare una sintonia maggiore, una sintonia anche per il bene del Paese dove sono ospiti e dove lavorano. E ne parleremo con Andrea Gibelli, vicepresidente della Regione Lombardia, Assessore all’industria e all’Artigianato; con Federico Golla, Amministratore Delegato di Siemens Italia, con Leo Wencel, Presidente e Amministratore Delegato di Nestlè Italia e con Luigi Gubitosi, per 6 anni Chief Executive Officer di Wind e per i 19 anni precedenti Manager in ruoli importanti all’interno della FIAT.
Bene, noi abbiamo concordato di iniziare subito ad entrare nel merito dei problemi che ho posti e do la parola per primo a Golla.

FEDERICO GOLLA:
Grazie Bernhard. Il tema dello straniero invasore è un tema che noi abbiamo sentito negli anni con fasi alterne. Se devo essere onesto, oggi, quantomeno per quanto riguarda l’azienda che rappresento, che ha una presenza di 110 anni sul territorio nazionale, non viviamo questo senso di colpa o questo senso di accerchiamento nell’essere considerati invasori industriali su un terreno straniero. Quello che però viviamo è sicuramente non positivo per il futuro del Paese: non troviamo nessuna ragione o non ci viene offerto nessun motivo attraente per crescere nella nostra presenza in Italia. Quasi sembra che così come siamo vada bene a tutti. Non è solo un problema del mondo politico, è anche un problema confindustriale. Senza critiche ma con rilevazione dei fatti, io trovo sempre più Confindustria e le associazioni che ne dipendono, chiuse nel loro provincialismo e molto poco aperte, al di là dei gruppi di studio istituzionali, a dialogare su come attrarre le imprese nel Paese. Noi ci crediamo e continuiamo a fare degli investimenti, degli investimenti di azienda, come amiamo definirci, multilocal, perché Siemens vuole essere ed è presente in 190 Paesi nel mondo, quindi direi ovunque, con una governance unica, quindi una guida e una strategia mondiale, ma con una seconda governance che è quella locale. Io, per quanto riguarda le politiche industriali, le politiche di sviluppo, le politiche di relazione economiche e politiche per il Paese che guido, ho carta libera. Siemens dà una governance totale sul Paese e chiede un rispetto della strategia globale. In questi giorni si è letto e parlato tanto sotto gli ombrelloni della crisi e più che della crisi, delle misure che ne conseguiranno. Cosa ci auguriamo noi, azienda internazionale? Ci auguriamo innanzitutto che la crisi si risolva, quindi la manovra, qualunque essa sia, una manovra finanziaria di contenimento della spesa pubblica direi che è giusta e doverosa e nessuno più la mette in discussione. Quello che ci auguriamo è che questi risparmi non vengano ancora una volta sprecati, dilapidati, e che una parte di questa efficienza economico-finanziaria venga rimessa sul mercato per rilanciare le politiche di sviluppo industriale, per rilanciare le infrastrutture di cui questo Paese ha bisogno. Io credo, parlando a nome di Siemens ma parlando anche a nome di molte aziende multinazionali, che tutti noi siamo pronti a continuare a svolgere una ruolo importante in questo Paese, a condizione che alcune grandi barriere, come l’instabilità politica, come l’evasione fiscale, come l’incertezza delle regole, come il cambiare le regole in corso d’opera vengano radicalmente rimosse. Questo penso che sia un augurio di tutti noi e non è vero, come subdolamente qualche volta si sostiene, che noi andiamo a cercare investimenti nei Paesi emergenti. Va da sé che i grandi gruppi vanno a cercare investimenti, a cercare investimenti in Brasile, in India, in Cina, ma siamo ancora e vogliamo essere presenti nella vecchia Europa, perché ne vediamo l’opportunità, a condizione che questo malato, più o meno grave -ognuno di noi ne definisca il grado di malattia – venga rapidamente e definitivamente curato.

BERNHARD SCHOLZ:
Grazie a Federico Golla. Luigi Gubitosi ha, per quanto riguarda questo tema, un’esperienza interessante, perché avendo lavorato più di 19 anni in FIAT ha conosciuto una multinazionale italiana e poi con Wind una multinazionale estera. Quindi il paragone sarà interessante.

LUIGI GUBITOSI:
Grazie Bernhard. Buonasera. Il mercato italiano del lavoro è stato caratterizzato negli ultimi anni da una perdita di posti di lavoro, quindi anche a causa delle turbolenze di questi ultimi anni diventa sempre più importante capire come attrarre investimenti esteri in Italia, ma anche come mantenere localizzate le imprese italiane e come farle crescere. In questo contesto in Italia, c’è a volte una reazione che può sembrare contraddittoria, nel senso che da una parte creiamo gruppi di lavoro su come attrarre capitali esteri – in Confindustria si studia come rendere più attrattiva l’Italia -, dall’altra quando vi sono delle acquisizioni c’è poi una reazione preoccupata, la paura di perdere posti di lavoro. In realtà c’è una diversa qualità degli investimenti esteri, quindi diventa anche importante che l’Italia sia in grado di diventare selettiva in questo senso. Fin quando quello che interessa è il marchio importante piuttosto che il know how, è evidente che si apporta relativamente poco valore aggiunto. Quando invece il Paese viene scelto come sede di un centro di ricerca piuttosto che dell’headquarter europeo o ancora di un centro di design o di uno stabilimento, evidentemente è un investimento diretto importante che accresce il lavoro. Ma per rispondere più direttamente alla domanda: no, non c’è una grande differenza culturale nella maggioranza dei casi nelle acquisizioni. Ormai siamo abituati da molti decenni ad avere una serie di multinazionali che pensano abbastanza nello stesso modo. Non c’è sostanzialmente una grande differenza tra come agisce la FIAT, Pirelli, ENI, le grandi multinazionali italiane storiche, rispetto a come opera la Nestlè e la Siemens, che immagino siano entrambe da decenni in questi Paesi. In realtà sono aziende che sono abbastanza esperte nel gestire il rapporto con un Paese. Quando vai in un Paese devi capire come il Paese opera, attrarre management locale, spesso inserendolo all’interno di circuiti ed è quello che in genere succede con i grandi gruppi. Una differenza importante cui ci dovremo abituare, è la presenza in futuro di gruppi provenienti da Paesi emergenti. L’azienda che dirigevo fino a poco fa, Wind, è stata acquisita sei anni fa da un gruppo egiziano e poi venduta ad un gruppo russo, cosa che sarebbe stata impensabile fino a 10-15 anni fa. Ma sempre più arrivano società di Paesi emergenti che comprano in economie più mature. Questi sono gruppi – per entrambi è stata la prima grande acquisizione in un Paese maturo – sono gruppi che invece sono meno abituati a gestire questo genere di situazioni, questo tipo di acquisizioni, spesso di estrazione familiare, quindi lì possono esserci dei problemi di adattamento maggiori, anche se per fortuna nel caso di Wind non si sono verificati. Quindi io credo che non vi sia un tema culturale. Il tema vero, il tema rilevante, è come far sì che appunto l’Italia possa apparire un Paese di interesse per questi Paesi, perché poi, una volta che si è passati in mani estere, evidentemente bisogna ricordarsi che queste aziende hanno una scelta: possono investire in Italia come in altri Paesi, ci sono tante alternative. Allora la priorità deve essere far diventare l’Italia un Paese che sia “investor friendly” cioè sia amichevole nei confronti degli investitori. E io credo che – qualcuno ha detto: non bisogna mai sprecare una buona crisi -questa sia una crisi che possa darci un’opportunità di rinvestire sull’Italia stessa. E per attrarre investitori esteri ma anche italiani, bisogna investire sulle nostre infrastrutture. E quando parlo di infrastrutture parlo evidentemente di infrastrutture pesanti, cosiddette hard, come telecomunicazioni, trasporti, energia, ma anche su scuola, università, sulla giustizia civile, sul sistema fiscale e il mercato del lavoro. Ecco, su queste ultime, è importante perché a volte se ne perde l’essenza, la scuola e l’università sono estremamente importanti quando si parla di ricerca. La capacità di avere università che possano stabilire contatti con investitori esteri, avere delle scuole di eccellenza, avere della manodopera qualificata, rappresenta un grande fattore di attrazione. E in questo senso alcuni passi importanti sono stati fatti, come la riforma dell’università, anche se c’è ancora tanto da fare. Mentre invece la giustizia civile è una delle cose che spaventa di più gli investitori esteri. L’incertezza del diritto, i tempi lunghi sono spesso incomprensibili agli stranieri e questo è un tema di cui fortunatamente si riesce a parlare sempre di più in Italia, va in qualche modo indirizzato e risolto, altrimenti diventa un vincolo, ma non solo per gli esteri, anche per le industrie italiane l’incertezza del diritto è drammatica. E lo stesso vale, ahimé, per il sistema fiscale. Spesso vengono cambiate le regole in corso d’opera. Anche quest’ultima manovra spaventa un po’, in quanto per investire ci vuole una certezza, qualunque sia lo scenario, bello o brutto, purché sia chiaro. E quindi in questo senso è un grande invito che va fatto al sistema politico che dia maggiori certezze. Tutto l’investire è fatto di progetti, di speranze e quindi dandogli un quadro più certo e più stabile si potrà attrarre con maggior risultato investitori stranieri. Lo stesso vale per gli italiani. E’ evidente che le nostre imprese che sono di natura medio piccola hanno bisogno di aiuto per poter crescere. Il mercato globale fa sì che le dimensioni contino. E quindi le reti di impresa diventano ancora più importanti e soprattutto vanno coordinati i tanti interventi che si fanno per cercare di aiutare le imprese a spingere all’estero. Quindi immagino che, per esempio, il Ministero degli esteri potrebbe coordinare i tanti enti che si occupano di presenza estera piuttosto che le singole regioni che hanno presenze autonome. Quindi ci sono evidentemente tante difficoltà ma io credo che l’Italia resti un mercato molto rilevante, che possa continuare ad attrarre gli investitori nella misura in cui sapremo soddisfare queste aspettative di chiarezza e certezza.

BERNHARD SCHOLZ:
Grazie. La Nestlè è sicuramente una delle multinazionali più conosciute, più grandi a livello mondiale, la parola a Leo Wencel.

LEO WENCEL:
Grazie mille, io sono polacco e sono da un anno e mezzo in Italia, non parlo un buon italiano ma provo a parlare italiano e penso, come ha detto un famoso polacco, “quando ho sbagliato mi corrigerete vero”? Grazie mille, i polacchi piacciono molto agli italiani, ma io sono più fortunato, io ho partecipato a un esperimento in Polonia per 40 anni, un esperimento di nome socialismo, però senza foreign investment e in quegli anni senza foreign investment, quando il Paese era chiuso, nessuno è stato molto felice.
Certo, quando parliamo di industria globale il pensiero corre subito ai grandi Gruppi multinazionali. Ed in effetti penso che la storia di Nestlé – l’azienda che ho l’onore di rappresentare qui oggi – sia un ottimo esempio di azienda che in breve tempo ha saputo espandere la sua presenza al di fuori del Paese di origine, la Svizzera.
Forse non tutti sanno che la nascita di Nestlé risale a oltre 150 anni fa. Fu nel 1866, infatti, che il farmacista Henri Nestlé inventò nel suo laboratorio la farina lattea, un prodotto specifico per l’alimentazione infantile di quei bambini che non potevano essere allattati al seno.
Da quel momento in poi l’azienda ha continuato a crescere differenziando le proprie produzioni fino a diventare la prima azienda alimentare al mondo. Nestlé oggi ha una gamma di oltre 10.000 prodotti per la nutrizione pensati per ogni momento della giornata, da mattina presto a notte fonda, dall’infanzia alla terza età.
Giusto per darvi un’idea della dimensione internazionale del Gruppo, oggi Nestlé conta 443 unità produttive distribuite in 81 Paesi e più di 280.000 collaboratori.
In Italia – per restare più vicino a noi – sono circa 5.600 le persone che lavorano nei 18 stabilimenti, oltre che nella sede centrale del Gruppo a Milano.
Ma come è riuscita Nestlé a diventare così grande? Io credo che il segreto stia nella sua filosofia di business: la creazione di valore condiviso. Noi siamo infatti convinti che per avere successo a lungo termine, un’azienda deve creare valore, oltre che per sé e i suoi azionisti, anche per le comunità nelle quali è presente.
Uno dei modi che usiamo per creare valore per le comunità è sicuramente quello di prendere il meglio di ogni luogo e di ogni cultura e diffonderlo nel resto del mondo. Proprio la dimensione internazionale del Gruppo ci permette infatti di scambiare informazioni e procedure e di elaborare strategie e modelli di business da condividere ovunque.
Nestlé promuove così standard etici di comportamento sul lavoro, di sicurezza alimentare, di tutela dei diritti dei lavoratori e di sostenibilità ambientale a livello globale.
Solo per farvi un esempio, stiamo al momento implementando a livello globale l’iniziativa Nestlé Continuous Excellence. Attraverso questa iniziativa vogliamo coinvolgere tutte le nostre persone per migliorare i processi e promuovere una cultura della sicurezza. L’obiettivo infatti è quello di avere zero sprechi e zero infortuni in tutte le sedi e gli stabilimenti di Nestlé nel mondo.
Naturalmente la diffusione di standard e modelli di business a livello globale non avviene mai in maniera rigida e forzata – questo ve lo posso dire anche per esperienza personale. Prima di venire in Italia ho lavorato a lungo in Polonia e nei Paesi baltici e ho visto come gli stessi modelli e le stesse iniziative vengono di volta in volta adattati in base alla realtà, alle esigenze e alla cultura del luogo dove vengono applicati.
Penso che solo così, infatti, si possa evitare di creare conflittualità dannose per l’azienda e ottenere al contrario miglioramenti concreti.
Vorrei qui portarvi due esempi di successo della capacità di adattamento a contesti economici e sociali differenti: uno è un caso internazionale, l’altro italiano.
In India Nestlé ha creato centri di raccolta del latte sparsi nel territorio per adattarsi al meglio al tessuto produttivo locale fatto di piccoli allevatori.
In Italia, invece, abbiamo recentemente siglato un innovativo accordo per il contratto integrativo: per il raggiungimento del premio di risultato abbiamo infatti scelto di dare obiettivi legati non solo alla pura redditività, ma anche ad altri fattori più gestionali che influiscono sulla redditività dell’azienda quali l’infortunistica, la qualità del prodotto, il servizio al cliente
Fino a qui abbiamo parlato di luoghi e culture diverse, ma quando parliamo di una industria globale, stiamo parlando anche – e soprattutto – di persone. E la diversità delle persone è una delle cause principali di conflitti. Se sappiamo sfruttarla però, la diversità – sia di età, sesso, religione, cultura o nazionalità – è anche una risorsa preziosa di creatività, di innovazione e di crescita.
Per questo in Nestlé ci impegniamo per valorizzare la nostra dimensione internazionale e multiculturale promuovendo una cultura aziendale fondata sul rispetto e ascolto reciproco.
La presenza in oltre 80 Paesi del mondo ci permette, infatti, di trovare i migliori talenti, creando team interculturali che sono la vera forza vincente dell’azienda.
Un esempio di come la multiculturalità può creare sinergie di valore, è certamente il Centro di Ricerca di Losanna. Il Centro è oggi un polo riconosciuto a livello mondiale per le scoperte e gli studi condotti in scienze della nutrizione e alimentazione. Qui lavorano 700 persone, fra cui oltre 300 scienziati di ben 48 nazionalità diverse.
Questo però non significa che la ricerca in Nestlé sia completamente centralizzata. Come abbiamo già detto la flessibilità è fondamentale. Così, centri di ricerca locali sono presenti anche in Paesi dove ci sono esigenze specifiche. In Italia ad esempio abbiamo uno straordinario laboratorio di eccellenza: Casa Buitoni, a Sansepolcro, in Provincia di Arezzo.
A Casa Buitoni chef ed esperti in nutrizione inventano e sperimentano ogni giorno nuove ricette nel rispetto della tradizione culinaria italiana, ma anche con attenzione per le nuove tendenze.
E l’Italia? Cosa rappresenta l’Italia per un’azienda come Nestlé?
Direi che è facile intuire che per un’azienda che opera nel food & beverage, l’Italia con i suoi prodotti di eccellenza e la sua tradizione culinaria non può che rappresentare un tesoro da coltivare e valorizzare.
L’Italia è infatti un mercato importantissimo per Nestlé, non solo in termini di fatturato, ma anche perché è la “culla” di alcuni dei marchi e dei prodotti di maggior valore per il Gruppo. Di ogni tradizione alimentare, infatti, Nestlé scopre il meglio e contribuisce a valorizzarlo e a diffonderlo a livello internazionale, così ha fatto ad esempio con: Buitoni (dal 1988), che è diventato uno dei soli 6 brand internazionali del Gruppo; l’acqua minerale S. Pellegrino (dal 1998), che oggi è distribuita in oltre 120 Paesi ed è un simbolo del made in Italy; e Baci Perugina (dal 1988), “icona” della storia dolciaria italiana, distribuiti oggi in 55 Paesi e apprezzati da milioni di persone.
Quando sono arrivato qui in Italia – ormai due anni fa – vi assicuro che è stata un’emozione per me avere la responsabilità di questi marchi.
L’Italia rappresenta quindi un grande patrimonio per Nestlé, perché specialità culinarie come ad esempio il Bacio Perugina, i gelati Motta e le paste fresche Buitoni possono solo essere Made in Italy, per le tecnologie e le professionalità acquisite dalle persone nel corso dei decenni.
Non dimentichiamoci mai però che lavorare in una dimensione globale significa anche avere responsabilità globali. In particolare dobbiamo impegnarci per identificare le sfide che ci attendono e capire come fare per superarle con successo.
“La dimensione sinergizzata” ci aiuta anche a portare all’attenzione di tutti in maniera visibile le minacce globali emergenti.
In Nestlé facciamo particolare attenzione alle questioni come:
• la Sicurezza alimentare, soprattutto in rapporto alla crescita della popolazione
• la Sostenibilità ed efficienza agricola
• la Sicurezza delle risorse idriche
Per le iniziative intraprese Nestlé è stata premiata con la medaglia d’oro del World Environment Center come riconoscimento dell’impegno e dei risultati nel campo della sostenibilità ambientale.
L’International Water Institute di Stoccolma ha premiato Nestlé con il Premio “Stockholm Industry Water Award” 2011 per la sua leadership, la sua performance e i suoi sforzi nel migliorare la gestione dell’acqua lungo la propria catena di fornitura.
Infine, Nestlé ha aderito a LEAD, il nuovo programma per la sostenibilità lanciato dall’ONU nell’ambito del progetto Global Compact. Il programma impegna tutti partecipanti a lavorare per il raggiungimento degli obiettivi delineati nei “Blueprint for Corporate Sustainability Leadership” e a condividere le conoscenze attraverso network locali.
Ora, per concludere. Vorrei tornare alla domanda iniziale che ci ha riuniti qui oggi: “Industria globale e lavoro locale: conflitti o sinergie?”
Io penso che questa domanda non abbia una risposta automatica e univoca: in realtà ci sono conflitti da gestire e sinergie da creare. Dipende veramente da come affrontiamo la questione. Io credo però che gestita adeguatamente, ovvero in modo trasparente ed etico, come facciamo in Nestlé, si possano ottenere molte più sinergie di valore che conflitti.
Insomma, in un mondo in cui la sensibilità “Glocal” si sta diffondendo sempre di più, la nostra strategia di Nestlé è “pensare globalmente e agire localmente”. Vogliamo infatti valorizzare al massimo le differenze e creare sinergie affinché l’azienda abbia successo sul lungo termine.
Tutto ciò naturalmente impegnandoci allo stesso tempo per creare valore per tutti gli stakeholder aziendali, dalle nostre persone, alle comunità che ci ospitano in tutto il mondo.
Grazie.

BERNHARD SCHOLZ:
Arriviamo alla politica. Si parla molto adesso, abbiamo fatto già alcuni dibattiti in questo Meeting e uno dei temi fondamentali è sempre la credibilità dell’Italia e, come si dice poi spesso in aggiunta, la sua capacità di attirare investimenti esteri. Che cosa può fare l’Italia per attirare investimenti esteri e per rendere interessante, alle imprese che ci sono, una loro permanenza?

ANDREA GIBELLI:
Per rispondere a questa domanda permettetemi una battuta troppo di parte, l’Italia dovrebbe fare come la Lombardia, forse è l’unico modo per riuscire, attraverso gli strumenti che in questi anni sono stati messi a disposizione, a tenere in piedi un Paese attraverso una politica seria.
Spesso, lo dico non per partigianeria ma per dati di fatto, uno degli obbiettivi che la giunta regionale presieduta dal presidente Formigoni si è posto, è proprio di ristabilire un rapporto corretto tra cittadini, imprese e pubbliche amministrazioni, stabilendo un asticella, quella che la Regione è la prima a pagare entro 60 giorni i propri fornitori, chiedendo agli altri di fare esattamente come fa la Regione Lombardia. Questo è possibile e spesso gli enti rappresentano un tallone d’Achille, la parte pubblica, rispetto alle imprese che forniscono dei servizi. Però, aldilà della battuta che rappresenta un punto di riflessione rispetto al tema che è stato proposto, la domanda di oggi è “industria globale e lavoro locale: conflitti e sinergie”. Diciamo che in questo ultimo anno di esperienza come Assessore all’industria e artigianato, con quanto avevo potuto anche cogliere da alcune considerazioni nella mia precedente esperienza parlamentare come Presidente delle attività produttive, nella Commissione decima della Camera, mi si poneva questa domanda, se oggi l’industria è realmente globale e se il lavoro è locale, lavoro inteso come categoria distinta rispetto a un industria che oggi si interroga sulle proprie dimensioni e anche sulle proprie capacità di confrontarsi rispetto a un mondo sì globalizzato ma che apre delle sfide totalmente nuove.
Per farmi comprendere un po’ meglio, cito l’esempio di un dibattito che c’è stato all’interno di una grande multinazionale qualche anno fa. L’amministratore delegato della Boeing era di fronte a una domanda che riguardava il livello di complessità, il livello di nuovi contributi sul piano tecnologico ai propri processi produttivi e aveva fatto la seguente riflessione. Boeing, quando progettò il 777, era una grande multinazionale organizzata in termini piramidali e i propri partner erano distribuiti su il mondo, a cui noi come impresa portavamo i progetti in termini delocalizzati: c’erano collaborazioni forti con aziende italiane, con aziende canadesi, giapponesi, in Cina avevano delle forti partnership, però decidevano tutto negli Stati Uniti e poi trasferivano i processi di produzione, per quanto riguarda la realizzazione della componentistica, su tutto il mondo. La definizione che invece ha dato, ribaltando la logica di una multinazionale, quando venne progettato il 787 è la seguente: oggi Boeing è un insieme di pezzi realizzati da piccole e medie imprese che volano in stretta formazione tra loro. Quindi una multinazionale che pensa di costruire delle partnership in termini non più piramidali ma in termini assolutamente orizzontali, tra un grande colosso in un industria aerospaziale e tutti quei soggetti che rappresentano medie e piccole imprese, altamente specializzate nella componentistica, che in termini orizzontali partecipano con la loro intelligenza e con la loro esperienza sul campo ad un grande progetto competitivo.
Allora, quando oggi si parla di industria globale non dobbiamo più immaginare la grande multinazionale che arriva sul territorio e lo considera un territorio quasi da colonizzare, quasi da cannibalizzare. Gli incontri che io ho spesso con multinazionali e con piccole e medie imprese, in realtà hanno, per quanto riguarda il mio orizzonte di esperienza, la Lombardia, una prospettiva, quella di fare squadra, quella di sfruttare tutte le competenze che emergono in termini diversi da una grande multinazionale e da partnership locali, per costruire grandi progetti internazionali.
Quindi i tre punti sui quali Regione Lombardia ritiene di dare il proprio contributo su scala nazionale, sono quelli di essere esempio per quanto riguarda strumenti che consentono la competitività attraverso la collaborazione: in Lombardia ci sono 824.000 imprese, sono soprattutto piccole e medie imprese. Queste riescono a stare sui mercati attraverso forme che la Regione chiama aggregazioni attraverso le reti d’impresa, cioè quelle che consentono oggi, soprattutto alle imprese artigiane, di non vedere più proprio come mercato, il mercato di prossimità ma quello di mettersi insieme e affrontare la sfida sui mercati internazionali, dove il made in Italy è particolarmente apprezzato. Oggi sui mercati ci stai se sei sempre in forma stabile presente in un Paese. Recentemente siamo stati in Brasile, siamo andati con il Presidente in Cina, alla quarta occasione in diversi anni, quindi abbiamo realizzato dei rapporti consolidati, dove anche le nostre piccole, medie imprese, in forma aggregata attraverso le reti, possono aumentare il proprio grado di competitività. Questo non toglie che le grandi multinazionali che sono presenti sul territorio vedano in queste forme di aggregazione tra grandi e piccoli un elemento di vantaggio competitivo. Non dimentichiamoci che la Lombardia, ma sicuramente anche il resto del Paese, rappresenta quello che io chiamo l’intelligenza collettiva diffusa più alta d’Europa. Quando si ha un impresa ogni dodici abitanti, è evidente che il sensori di responsabilità, la voglia di fare impresa e le proprie capacità sono un valore particolarmente diffuso. Quindi la strada qual’è? Soprattutto per quanto riguarda la politica nazionale quella, già ricordata, di dare poche regole certe. Quando le grandi multinazionali vengono in Lombardia e chiedono quali siano le condizioni per poter fare degli investimenti, la precondizione è la certezza che il proprio investimento sia dentro un percorso, dentro una road map, che consenta di avere un ritorno previsto entro un certo periodo. Questo spesso non avviene, non avviene perché la giustizia è lenta, perché alcune disposizioni di carattere amministrativo sono particolarmente lente. Dove si è inserita la Regione Lombardia? In due grandi temi: primo, sul tema dell’attrattività e dell’internazionalizzazione; secondo, soprattutto nel creare masse critiche tali di impresa che consentano a queste imprese di essere portatori sani di un modo di fare impresa che riesce a trovare un giusto equilibrio tra competitività e distribuzione sociale del reddito.
In Pernambuco recentemente ho guidato una delegazione della Regione Lombardia, l’elemento più qualificante non era l’aspetto economico e l’aspetto tecnologico delle nostre imprese, ma era il rapporto tra impresa-lavoro come elemento di compensazione sociale di un Paese che deve costruire una classe dirigente, una classe media e un sistema sociale dove la responsabilità è un elemento decisivo. Erano gli aspetti che ci segnalavano di più. Il tema dell’attrattività. Recentemente sempre Regione Lombardia, nelle cosiddette 12 sferzate all’economia, ha introdotto il tema dell’attrattività dentro molti strumenti, uno di questi è il patto territoriale per l’attrattività e gli investimenti: un territorio si deve caratterizzare per un idea imprenditoriale organizzata e questo territorio, che non necessariamente deve essere su base provinciale, propone e si confronta con la Regione Lombardia su una serie di progetti molto dettagliati e i soggetti, sia amministrativi sia economici, devono rispettare delle tempistiche precise. Dico questo, non perché sia un idea nuova ma perché la Regione Lombardia negli anni passati ha costruito un grande sistema di relazioni, che ha consentito di costruire grandi distretti come quello molto conosciuto del distretto energetico di energy cluster, oppure il distretto del mobile, il distretto che riguarda la nautica, il distretto dell’industria aerospaziale. Ecco, alcuni territori devono caratterizzarsi in modo da definire con il tempo una sorta di brand territoriale, cioè essere riconosciuti per quello che fanno. Non ho incontrato un imprenditore di una grande impresa o di una piccola impresa, nell’ultimo anno, che non mi abbia sottolineato che il valore aggiunto al suo lavoro sono i suoi operai cioè investire sul capitale umano. Costruire un rapporto corretto tra imprese e lavoratore è l’elemento di competitività più alto e diventa l’elemento che consentirà alle nostre imprese di caratterizzarsi ancora di più, passando da un sistema di eccellenze singole a un sistema di eccellenze organizzate. Quindi tra piccole imprese, grandi imprese e lavoro un nuovo modo per intendere l’impresa, proprio perché oggi sui mercati internazionali, partendo dalla mia premessa, anche le grandi imprese hanno colto la capacità di costruire partnership con piccole imprese, senza quelle grandi dimensioni piramidali che spesso facevano calare dall’alto progetti, e proprio perché il mercato della competitività chiede maggiori sinergie. Quindi grande e piccolo insieme e lavoratori e imprenditori dentro una nuova esperienza non solo professionale ma anche umana.

BERNHARD SCHOLZ:
Grazie a Andrea Gibelli, penso che questo concetto di collaborazione fra piccole, medie e grandi imprese stia al vertice dell’eccellenza italiana, perché teniamo conto che non esiste una casa automobilistica tedesca che non abbia fornitori decisivi, non marginali, decisivi italiani. La differenza però, e su questo adesso voglio fare il secondo round delle domande, sta nel fatto che tu investi, anzi compri un azienda in un altro Paese, la inglobi, la fai diventare una parte tua oppure investi direttamente in questo Paese creando una tua azienda. Allora domanda che per primo faccio a Federico Golla: perché conviene investire in Italia? Quali ragioni ci sono?

FEDERICO GOLLA:
Ce ne sono, ce ne sono sicuramente. Tutti sappiamo che per crescere ci sono due vie: una è la via della crescita organica e l’altra è la via della crescita per acquisizione. Secondo me, oggi, anche per un grosso gruppo multinazionale conviene investire sulle acquisizioni: sulle acquisizioni nella fascia high-tech, sulle acquisizioni di startup o di piccole aziende dove il contenuto umano e tecnologico è alto e permette con un investimento giusto un accorciamento dei tempi. Dove invece è molto più difficile investire in Italia è nel cosiddetto greenfield. E’ praticamente impensabile oggi di fare dei piani di investimento proprio per la questione dell’incertezza dei tempi. Noi abbiamo fatto due investimenti di cui siamo molto, molto fieri, di cui vediamo già i risultati. Uno è a Genova nel software per manufacturing: con un’acquisizione locale, siamo riusciti ad essere il centro di competenza mondiale per il software di produzione. Quindi da Genova con 650 ricercatori salviamo il mondo in questa verticale di mercato. La seconda acquisizione che abbiamo fatto, in quota di minoranza per il momento, è Archimede in Umbria, un’azienda del gruppo Angelantoni di alta tecnologia, tecnologia del freddo, apparecchiature per la NASA, con la quale stiamo sviluppando assieme un prodotto che avrà una valenza mondiale, che sono i tubi a sale liquido per il solare termodinamico. Anche questo diventerà, inauguriamo a metà settembre ufficialmente la fabbrica, diventerà un centro di competenza mondiale per lo sviluppo di tutte le energie solari, soprattutto legate al famoso progetto Desertec. In sintesi, direi che per noi la crescita è fondamentale. Io ho trovato un dato di letteratura che mi ha impressionato, che sono andato a rileggere tre volte secondo fonti diverse, e mi dava sempre lo stesso risultato. L’Italia negli anni dal ’52 al 1991 è cresciuta a parametri comparabili del 4%. L’Italia della Seconda Repubblica dal 1991 ad oggi è cresciuta meno dell1%. Quindi noi abbiamo perso tre quarti della velocità di crescita che abbiamo avuto dal dopoguerra agli anni ’90. Questo si chiama in teoria economica “recessione” e tutti sappiamo che quando la recessione è continua diventa crisi ineluttabile. L’augurio che noi facciamo è proprio la via per uscire da questo rischio di recessione o da questa certezza di recessione e aprire agli investitori internazionali la possibilità di portare non solo capitali, competenze, risorse, qualità, non per mangiare l’azienda acquisita ma per estenderla in una forma di network. Prima si citava la capacità di Boeing ad esempio di potere combinare la sua strategia globale con l’utilizzo di risorse, competenze umane, competenze tecnologiche anche in altri Paesi. Non dimentichiamoci che siamo ancora un grande Paese industrializzato e non dimentichiamoci che siamo nel G8 e nel G10, sarebbe veramente un peccato mortale far scivolare questo Paese in un piano inclinato solo per un problema di cecità politica. Io credo che la crisi di cui si parla oggi sia probabilmente esagerata. Non sono pessimista di natura, non lo sarò mai, però sicuramente è una crisi o l’annuncio di una crisi che ci ha aperto gli occhi per far qualcosa bene e veloce. Diamo tutti per scontato la necessità di risparmiare i costi della politica ma non basteranno se le imprese multinazionali e le imprese locali non metteranno la mano al portafoglio per fare seri investimenti in tecnologia e in sviluppo delle capacità umane.

BERNHARD SCHOLZ:
La stessa domanda a Luigi Gubitosi: perché conviene?

LUIGI GUBITOSI:
L’Italia ha comunque dei centri di eccellenza, anche se è innegabile che è diventata meno attraente rispetto al passato. Io credo che, in parte, la decelerazione di crescita sia un fenomeno naturale, nel senso che è evidente che, partiti dal dopoguerra, c’era, se non altro, un aspetto demografico di ricostruzione che spingeva fortemente. Detto questo, la decelerazione è stata molto forte e questo è dipeso evidentemente dallo scarso investimento in infrastrutture di cui parlavamo prima, unito ad una forte crescita del debito pubblico che in qualche modo è stato dirottato su spese meno produttive. Però l’Italia resta ancora interessante. Va detto che la competizione è molto aumentata, cioè si compete sia all’interno delle stesse aziende – per esempio Golla parlava di un centro di ricerca che ha fatto a Genova: questo centro di ricerche poteva essere fatto a Dussendorf piuttosto che a Parigi, all’interno della stessa Siemens. Probabilmente c’è una competizione tra i vari Paesi per attrarre investimenti, come c’era ai tempi della Fiat, evidentemente; fare un investimento in un Paese piuttosto che un altro, in Polonia piuttosto che in Sudamerica, evidentemente ha tutta una serie di implicazioni e quindi vi è una certa competizione tra le aree geografiche. È evidente che, oltre che tra le aziende, c’è tra i singoli Paesi; in questo senso torniamo al tema precedente. È attraente ma adesso ci sono anche i Paesi emergenti che rappresentano dei mercati di sbocco importanti. Se pensiamo a due Paesi come l’Italia e la Turchia, vediamo che adesso la Turchia ci ha superato demograficamente, sono 70 milioni, cresce bene, ha tutta una serie di problemi, ecc. Queste sono le alternative. Non c’è più solo Italia, Francia, Germania, Spagna, abbiamo tanti Paesi che stanno crescendo e quindi quando si tratta di avviare nuovi stabilimenti produttivi, evidentemente, è molto importante avere tutta una struttura di contorno. Ecco, non abbiamo parlato per esempio del fatto che è estremamente importante continuare a mantenere, perché le imprese italiane possano crescere e poi sia anche utile alle imprese che arrivano, l’accesso al credito. Le banche in realtà hanno supportato moltissimo il sistema Italia, le banche italiane evidentemente. Non hanno quindi molto senso, secondo me, i tanti attacchi che ha avuto il sistema finanziario, che invece va in qualche modo tutelato e protetto perché possa continuare a dare accesso al credito. Quindi, io credo che le reti di impresa saranno molto importanti ma che in qualche modo sarà anche importante spingere per un consolidamento, almeno in alcuni settori, delle imprese italiane. Quindi, imprese più grosse, che possano continuare a investire all’estero e in qualche modo compensare l’inevitabile acquisizione che avverrà. Per quanto riguarda l’altra attività dell’Italia, dipenderà dalla nostra capacità di crescere. Un mercato che cresce sicuramente è molto più attraente di un mercato stabile o, al limite, anche recessivo.

BERNHARD SCHOLZ:
Grazie. Leo Wencel.

LEO WENCEL:
Ok. Posso parlare questa volta in English?
Allora, parlerò in inglese perché è una domanda difficile. Grazie della comprensione.
Gli investimenti nelle aziende non sono mai una questione dogmatica. Non si tratta di decidere se investie in un Paese piuttosto che in un altro in maniera dogmatica. Si tratta di una analisi dei vantaggi e degli svantaggi che comporta investire in un Paese piuttosto che in un altro. È sempre una scelta. E c’è sempre una competizione per il denaro.
La Neslè investe in Italia dal 1930, ha compiuto molti investimenti; è da allora in questo Paese e ci rimarrà per sempre. E questo perché per noi l’Italia ha un grande mercato che offre grande opportunità e quindi un mercato molto importante per l’Europa. In secondo luogo perché la competenza alimentare italiana è di un grado eccellente. Abbiamo investito, ad esempio, nel centro di ricerca di Sansepolcro, che permette di fornire ad altri consumatori nel mondo la migliore cucina e i migliori alimenti italiani. Secondo noi molti prodotti italiani hanno un potenziale a livello mondiale. Riteniamo anche che gli italiani siano molto competenti, e nella nostra azienda ci sono molti italiani che occupano posizioni di alto livello. Ma questo è il passato. Quale sarà il futuro? Se diciamo che gli investimenti possono creare il futuro, beh, sappiamo che il 40% dei laureati vogliono lasciare l’Italia, perché ritengono di non avere un futuro nel loro Paese. L’investimento è il risultato, non è solo la decisione dell’azienda, ma è un risultato del clima politico, fiscale, della legislazione sul lavoro e così via. Quindi, ogni Governo può incoraggiare piuttosto che scoraggiare, a seconda dei risultati che vuole raggiungere. Quando ero giovane, in Polonia, la prima azienda internazionale che ho conosciuto era la Fiat. Non dobbiamo dimenticare che si tratta di una impostazione reciproca. Ci sono altri Paesi, altri aziende che ricevono, che ospitano aziende italiane che si espandono all’estero. In maniera analoga ci sono investimenti che vengono fatti in Italia. La mia opinione personale è che questo meraviglioso Paese meriti più grandi aziende al di fuori dell’Italia. Ricordiamo la Fiat. Se facciamo entrare più aziende estere in Italia, ci saranno più aziende italiane che andranno all’estero. La situazione può essere migliorata, possono migliorare le condizioni perché si investa di più in Italia, affinché l’economia si muova più velocemente e permetta, nello stesso tempo, alle aziende italiane di espandersi all’estero.

BERNHARD SCHOLZ:
Allora conviene, non solo in Lombardia…

ANDREA GIBELLI:
Sì, diciamo che questo è un augurio. L’augurio è che questo Paese continui ad essere attraente per investitori stranieri e possa offrire attraverso le proprie esperienze imprenditoriali delle forti partnership. La battuta che avevo fatto era chiaramente una battuta partigiana, ma che dimostra ancora una volta che sul terreno ci sono delle sfide in termini di riforme istituzionali, proprio in questo momento dove una fortissima manovra finanziaria entra nel vivo in Parlamento, per affrontare con coraggio e determinazione una serie di sfide che obbligano il Paese a diventare un Paese come è stato descritto: non essere solo un Paese che rappresenta sicuramente la propria presenza a livello mondiale attraverso le prime 10 economie del mondo, ma che quando lo si va a vedere in termini più dettagliati, mostra una tale differenza in alcuni suoi territori che la necessità è quella di accompagnare politiche di sviluppo a politiche di responsabilità. Faccio una battuta che riguarda il federalismo fiscale: al di là degli aspetti finanziari che non voglio toccare in questa sede, però un giornalista, tempo fa, mi ha chiesto cosa intendevo io per federalismo fiscale. Gli ho risposto proprio con una battuta: facciamo fare alle altre regioni quello che quattro, cinque regioni fanno senza bisogno di avere una legge alle spalle, cioè essere responsabili dei soldi che gli vengono affidati. E questo è un Paese che non ha il medesimo grado di responsabilità. In molte finanziarie mi sono trovato a dover votare, sia come parlamentare di maggioranza che come parlamentare dell’opposizione, quindi in maniera assolutamente equidistante – lo voglio dire qua – ma con responsabilità che non nego mai, il decreto, in ogni tipo di governo, per sanare i debiti della sanità di quattro regioni, con una spesa che oscillava tra i 4 miliardi e mezzo e i 7 miliardi e mezzo. Allora, con 4 miliardi di euro si potrebbero aumentare ogni anno di 300 euro tutte le pensioni minime d’Italia, o si potrebbe fare ogni anno una pedemontana in Lombardia o un pezzo di una grande infrastruttura che potrebbe servire alla Toscana, alla Campania, al Lazio, quindi senza distinzione, 4 miliardi che invece vanno dentro a questa voragine assolutamente incontrollata, visto che solo dopo 40 anni dalla nascita delle Regioni, nella finanziaria dell’anno scorso – quella dei tagli eh! -, si è inserito per la prima volta, politicamente, che quando tu non rispetti gli accordi con lo Stato, lo Stato, l’anno dopo, non ti trasferisce la differenza. Quindi si è creata una situazione veramente difficile tra le Regioni virtuose e quelle che non lo sono. Quindi, la responsabilità verso i costi standard, la capacità di avere un’amministrazione a tutti i livelli, perché questo è possibile, più responsabile, deve portare le imprese a vedere il nostro Paese in termini assolutamente nuovi. Solo così riusciremo ad essere competitivi. Chiudo con un riferimento: quando ci sono stati i tagli, mi sono definito l’assessore al posto giusto perché avevo voglia di lavorare al momento sbagliato. Arrivo e mi tagliano i soldi. Ecco. Però, quando si ha un’idea di economia di spesa, si fanno un po’ queste battute: in base alle risorse che ho, spendo. Ebbene, grazie a un lavoro che mi ha anticipato, quindi non tanto per merito mio, ma accompagnando nell’ultimo anno la volontà di andare a ritagliare tutte le opportunità che l’Europa mette a disposizione, un mese fa il presidente Formigoni ha sottoscritto, e ero anch’io presente orgogliosamente a quella sottoscrizione, con la Banca degli investimenti europei, la possibilità di avere, per la Regione Lombardia, finanziando il capitale circolante delle imprese, 200 milioni di euro. È la prima Regione d’Italia che lo fa. Lo facciano anche le altre. Prendano la valigia, i tecnici, e vadano ad accettare questa sfida, perché solo così noi faremo uscire il nostro Paese da una situazione dove spesso si continua ad investire in parti di territorio che non hanno capacità imprenditoriale, mortificando i territori che invece hanno un’alta capacità imprenditoriale. Questo è il periodo delle scelte. Questo non è più il periodo dove si può guardare il Paese che si vorrebbe avere, ma guardare il Paese che c’è e valorizzare quello. Guardate, al di là di tutte le questioni di carattere politico, di tutte le norme che vengono indicate anche in termini assolutamente positivi, io ho inaugurato, da circa un anno, una iniziativa che chiamo assessorato itinerante: vado a vedere due o tre imprese grandi e piccole e parlo direttamente con gli operai e gli imprenditori. Ho fatto più di 36 tappe, ho visto più di 100 imprese e mi è capitato di incontrare imprenditori che mi dicevano: “Il mio mollificio è a Bergamo ma mi hanno dato un terreno a un euro al metro quadrato urbanizzato se trasferisco la mia impresa là”. Altre imprese in Polonia, altre imprese in Bulgaria, quindi nella Comunità Europea. La risposta di tutti era la mia terra, voglio continuare a lavorare qui, voglio dar da lavorare alle famiglie del mio Paese, mettetemi nelle condizioni di continuare a farlo. Ma questo mettermi nelle condizioni di continuare a farlo è venuto dopo ad un senso di responsabilità che noi dobbiamo valorizzare e che non ha un aspetto puramente economico. È un’affezione e un senso di appartenenza che prima o poi finirà, sono io il primo a dirlo, perché con i sindacati ogni settimana faccio un tavolo anticrisi con il mio collega Gianni Rossoni e tutte le settimane c’è un’impresa da 50-100-200 dipendenti che chiude o decide di delocalizzare. Quindi vuol dire 200 famiglie che se ne vanno. Non è facile affrontare persone che ti vengono a dire: “io sono 30 anni che lavoro con mia moglie. Lì che cosa faccio?” Solo che io sono l’assessore di una Regione a statuto ordinario e non ho gli strumenti di una Regione a statuto speciale, non ho gli stessi strumenti che ha la Catalogna, non ho gli stessi strumenti che hanno alcune regioni tedesche di uno Stato federale. Sono un assessore che ha 823.000 imprese, dentro una Regione che ha un prodotto interno lordo superiore all’Austria, alla Danimarca, al Portogallo, alla Romania, alla Finlandia, ma con strumenti ordinari. Oggi bisogna puntare alla straordinarietà delle nostre imprese, investendo dove questo serve. Io ho avuto un incontro col Ministro Romani, rispetto alla distribuzione delle risorse, e gli ho detto: “L’economia di questo Paese va da Treviso, passando per Reggio Emilia, grosso modo in un imbuto – facciamo Rimini -; però, prendendo l’Emilia e andando verso nord, da una parte verso il Piemonte, dall’altra parte verso il Veneto, c’è il 70% dell’economia. O si salva questa parte del Paese o il Paese non esiste. Non si tratta di alimentare egoismi, si tratta di convogliare le risorse dove il Paese fa economia e, responsabilizzando gli altri, consentire agli altri di sfruttare quelle opportunità che le ricchezze, in una forma di responsabilità distribuita, consentano di investire e permettere anche ad altre parti del Paese di avere le medesime opportunità che si hanno nelle regioni del nord. Questa è la strada e, secondo me, il miglior contributo a un Paese che non deve importare modelli. Negli ultimi 100 anni si è importato dal sud verso il nord un modello di governo e dal nord verso il sud un modello di economia. Oggi, invece, ritengo che bisogna costruire un Paese dove ognuno fa la sua parte responsabilmente, senza imporre modelli economici e culturali. Solo così ogni popolazione di questo Paese verrà valorizzata e avrà un suo spazio in un Paese che cambia veramente.

BERNHARD SCHOLZ:
Bene. Grazie. Io penso che questa discussione che è andata a trattare delle multinazionali ha esplicitato comunque un concetto di trasversalità più generale, perché il fatto che attraverso un’entità economica si arrivi ad uno scambio a livello internazionale anche di competenze, di processi, di modelli organizzativi, non applicando, ma adeguando, adattando alle situazioni locali, mi sembra assolutamente importante, perché in un mondo che vuole crescere insieme, questo scambio è indispensabile.
C’è un altro fattore che spesso viene sottovalutato: che per alcune grandi questioni occorre anche una forza finanziaria di un certo livello. Io non posso creare aeroporti, ospedali, fare forti investimenti in certe tecnologie o in certi prodotti chimici se non ho alle spalle una forza finanziaria di un certo livello. Però mi sembra che sia emerso che questo non può aumentare il bene dell’azienda, della multinazionale stessa e del Paese dove lavora, se questo non parte da una valorizzazione di quello che c’è. Perché il fatto che un’azienda come la Nestlè, per fare un esempio, che abbiamo sentito, esporti una competenza alimentare italiana particolare, vuol dire che coglie una peculiarità di un Paese e la porta a livello mondiale. Che un centro di eccellenza della Siemens sia situato in Italia, vuol dire che in questo Paese ci sono competenze molto particolari e specifiche che in altri Paesi sono meno evolute, meno curate. Questo induce anche a un’ultima considerazione: che la modalità con la quale una multinazionale può essere presente in qualsiasi parte del mondo, presuppone una partnership.
Ci sono stati, inutile non dirlo, dei modelli di colonizzazione reale, dove la multinazionale importava il suo modello di business, se ne disinteressava completamente delle culture locali, delle cose locali, andava lì sostanzialmente per sfruttare. Questo c’era e in alcuni pochi casi c’è ancora oggi, ma che cosa ha cambiato questo? Non una imposizione etica ma semplicemente la ragionevolezza che non funziona. Io non posso creare il mio proprio bene, seguire il mio interesse, a prescindere dal bene e dagli interessi dei luoghi dove sono presente.
Questa lezione, grazie a Dio, è stata imparata da quasi tutti. Chi non l’ha ancora imparata la imparerà e in questo senso la multinazionalità si sta configurando sempre di più come una partnership che diventa un bene per tutti.
Vi ringrazio. Ringrazio i presenti a questo tavolo e penso che chi ha ascoltato questo incontra possa essersi sentito valorizzato anche per la piccola e media impresa alla quale lavora o dove ha una responsabilità particolare, perché il contributo che può dare non è assolutamente relativizzato ma potenziato attraverso la presenza di grandi imprese. Grazie.

(Trascrizione non rivista dai relatori)

Data

23 Agosto 2011

Ora

15:00

Edizione

2011

Luogo

Sala C1
Categoria
Incontri