IL MIELE E LA NEVE. IL RITORNO DI CHI SI ERA PERSO: L’AVVENTURA DELLA PARS

Il miele e la neve. Il ritorno di chi si era perso: l’avventura della PARS

Il miele e la neve. Il ritorno di chi si era perso: l'avventura della PARS

Partecipano: Salvatore Abbruzzese, Docente di Sociologia dei Processi Culturali e Comunicativi all’Università degli Studi di Trento; José Berdini, Responsabile Comunità Terapeutiche PARS; Patrizia Rallo, Insegnante Scuola per l’Infanzia. Introduce Giorgio Vittadini, Presidente Fondazione per la Sussidiarietà. In occasione dell’incontro esecuzione del Duo per violino e viola op. 13 di Louis Spohr in Mi minore, Tempo di minuetto, eseguita da Michele e Matteo Torresetti.

 

GIORGIO VITTADINI:
Buongiorno. Diamo inizio a questo incontro dal titolo strano, Il miele e la neve. Il ritorno di chi si era perso: l’avventura della PARS. Prima di presentare i relatori, darò brevemente il contesto di questo incontro. La PARS è una comunità terapeutica di recupero di persone affette da droga, alcolismo, anche depressione o malattie psichiche. L’incontro non è stato pensato negli ultimi tempi ma è diventato di strettissima attualità, anche rispetto al titolo del Meeting, proprio dopo l’estate che abbiamo visto. Un’estate in cui non è che si sia scoperto che c’è un problema, soprattutto giovanile, di droga, alcolismo, sballo. Ipocritamente si è fatto finta di scoprire che ci sono discoteche in cui passa un po’ di droga. In realtà, il problema è enormemente più grave. Pensate che, sulla base dell’ultima indagine italiana riferita alla popolazione nazionale (15-64 anni), condotta dal Dipartimento delle Politiche Antidroga, è stato stimato che il numero totale di consumatori di sostanze stupefacenti è pari a 2 milioni e 300 mila persone; il 36,8% dei detenuti in carcere si droga. Di fronte a questo, aggiungiamo che l’alcolismo è diventato, direttamente con gli incidenti stradali connessi ad esso, e indirettamente, la prima causa di morte giovanile. Quindi, un fenomeno che oltretutto non è nelle discoteche: in gran parte delle scuole italiane la droga circola abbondantemente. Allora, l’ipocrisia sta nel fare finta che sia un problema estivo, di qualche discoteca, e non un problema generale, di tipo educativo. Il secondo punto consiste nel fatto che da un po’ di anni, più che curarsi, si è passati a metadonizzare la gente, cioè a rincoglionirla. Sostanzialmente si pensa che, rincoglionendo la gente e dando metadone, quindi rendendo la patologia stabile e meno pericolosa, si risolve il problema: in molti casi, si è deciso di smettere di sperare di aiutare la gente ad uscire da questa situazione, perché si pensa che, se si rincoglioniscono un po’, le persone rimangono come amebe e si risolve il problema. Da questo punto di vista, le comunità terapeutiche non sono più di moda come qualche anno fa, perché evidentemente, quando l’impegno è totale, aiutare la gente ad affrontare davvero il problema implica non solo questioni repressive o semplicemente una medicalizzazione ma evidentemente anche un intervento sulle ragioni per cui uno si droga. Allora questo incontro diventa cruciale, perché l’opposto della mancanza è il vuoto, per cui uno si droga: se la mancanza apre a costruire, il vuoto spinge a chiudere. Questo incontro ha alcuni interlocutori che ci possono introdurre a come la PARS affronta questa cosa. In ordine di intervento, Patrizia Rallo, insegnante di scuola per l’infanzia, ci mostrerà come in questo caso la comunità non sia contrapposta alla famiglia ma implichi un rapporto con la famiglia: uno dei problemi più gravi sul tema della droga, è che o si fa fuori la famiglia nell’affronto del problema, o la famiglia stessa fa finta di ignorare che esiste il problema. Si rifiuta di credere che ci sia il problema per un figlio oppure si dice che “non c’è niente da fare”, secondo Salvatore Abruzzese, uno dei più importanti sociologi italiani, che ha scritto un libro che è appena uscito proprio sulla PARS, da cui prende il nome l’incontro. E poi José Berdini, responsabile della comunità terapeutica PARS.
Loro tre ci introdurranno a questa avventura che spero sia conosciuta oggi ma che poi diventi, come altre realtà che abbiamo presentato al Meeting, come L’Imprevisto di Pesaro, una conoscenza per noi normale. L’inizio dell’incontro prevede l’esecuzione del Duo per violino e viola op. 300 di Louis Spohr in Mi minore, Tempo di minuetto, eseguita da Michele e Matteo Torresetti. Perché? Se andate a vedere il luogo centrale della PARS, una bellissima fattoria sulle colline tra Fermo e Macerata, dove si coltiva la terra, si producono stupende marmellate e altro, trovate che nella casa abitano delle famiglie il cui lavoro prevalente è la musica. Abbiamo professori di musica che insegnano nei Conservatori e anche figli giovani avviati a questa professione. Il tema della musica ci dice che, più che il recupero, qui si introduce alla bellezza; e introducendo alla bellezza, ci si apre ad uscire dalla bruttura della droga. Allora, questa introduzione musicale ci permette di entrare nel tema, conoscere quest’esperienza che non è un’esperienza di muri scrostati e puzza di materiale medico, ma proprio un’introduzione alla bellezza. Chiamerei Michele e Matteo Torresetti perché eseguano.

PATRIZIA RALLO:
Buonasera a tutti e perdonate l’emozione. Sono madre di una giovane ex-tossicodipendente. Scoprire che il proprio figlio è vittima della droga arreca all’anima una ferita da cui non è facile riprendersi. Il dramma è scoppiato con la morte del suo amico, insieme al quale si facevano di cocaina ed eroina. Quando Maria ci ha raccontato quello che era successo, ho vissuto uno dei momenti più dolorosi della mia vita. Consapevole di avere fino ad allora sminuito i tanti segnali di disagio che derivavano dal suo comportamento, mi sono resa conto che non potevo sottovalutare quanto stava accadendo e confidare che la cosa si risolvesse senza drammi. La prima reazione è stata temere che il destino le avesse fatto lo sgambetto. La speranza che potesse avere una vita come tutti, con i sogni e le attese della sua età, si è spenta per un attimo. Ho percepito la sua fine, come se tutte le strade si chiudessero, non riuscivo a pensare ad un futuro possibile. In un colpo si era bruciata ogni possibilità di felicità. L’ho abbracciata pensando che si stava giocando tutto e mi sono chiesta in che modo avrebbe superato il trauma vissuto: il rimorso per la morte dell’amico, l’enormità di ciò che le stava capitando. Per due giorni hanno prevalso il sentimento di impotenza e la disperazione. Ero afflitta dal pensiero che quanto accaduto avrebbe cambiato totalmente la nostra vita, soprattutto la sua, precludendole le opportunità che i suoi coetanei avrebbero avuto. Il pensiero di un processo, di una condanna, di una fedina penale macchiata mi devastavano. La paura mi avrebbe paralizzato se non avessi intuito un attimo dopo che quella poteva essere la modalità misteriosa con cui Dio operava per trasformare la sua vita. Nella disperazione è balenata una luce: l’intuizione che di quel dramma Egli avrebbe fatto una cosa grande, che quello per Maria potesse essere l’inizio e non la fine. Quando i fatti accaduti nella sua vita ci hanno fatto prendere in considerazione l’ipotesi di un cammino comunitario, ci siamo messi in cerca di una struttura a cui affidarla: è entrata circa un mese più tardi, nel gennaio del 2009. È rimasta con loro per quasi due anni, durante i quali l’abbiamo vista due volte, la prima dopo un anno e mezzo. Non avevamo contatti, ricevevamo dagli operatori notizie telefoniche, una volta a settimana, e potevamo scriverci una volta al mese, ma le nostre lettere subivano una sorta di censura e spesso venivano cestinate perché inadeguate. Credo sia stato il momento più duro per tutti noi: il fatto di non vederla e di non potere riscontrare di persona come stesse, era l’aspetto più difficile da gestire. Dovevamo fidarci e basta, sperando che le cose stessero effettivamente come ci venivano riportate. Parlai allora con l’attuale Papa, il cardinale Bergoglio, che mi rassicurò che tutto è per il bene, promettendomi di pregare per Maria, affinché il Signore potesse guidarla in quel difficile cammino. Ho incontrato la PARS pochi mesi dopo il suo ingresso in comunità, durante il Meeting di Rimini. Ascoltando le parole del responsabile, ho rivissuto con commozione le vicende che ci avevano colpito così duramente, rammaricandomi di non averne conosciuto prima l’esistenza. Ricordo le parole dette su una società anestetizzata e menzognera. Dimenticando di essere cattivi, ci illudiamo di potercela fare da soli e questo ci porta irrimediabilmente a odiare Dio, cioè la possibilità stessa della salvezza. Quel racconto mi commosse profondamente e desiderai con tutta me stessa che Maria potesse fare parte della loro esperienza. Tutto questo sembrava impossibile allora: ma Dio fa le cose, è Lui che opera, c’è un filo in tutto quello che accade che noi spesso non siamo capaci di vedere e che all’improvviso, magari dopo anni, si svela. Così è stato. Dopo due anni nella comunità calabrese e varie vicissitudini, Maria è tornata a casa. Dal momento in cui l’abbiamo riabbracciata, ci siamo messi in gioco per fare in modo che trovasse un luogo nel quale essere accolta, educata e sostenuta nel cammino di recupero. Riuscire ad entrare alla PARS, provenendo da una regione diversa, non è stato semplice, e sono grata di non avere dubitato un attimo che quella fosse la destinazione di Maria, il luogo dove Dio la voleva. Con molte preghiere, comprese quelle preziose del Papa, e molta tenacia, dopo circa un mese siamo riuscite ad ottenere l’autorizzazione del SERT e finalmente è entrata nella nuova comunità. Così è iniziato per tutta la famiglia un percorso in cui il confronto tra noi e con i parenti dei ragazzi che si trovavano lì è stato fondamentale per capire le dinamiche che hanno fatto sì che i nostri figli finissero nel tunnel della droga. L’esperienza alla PARS ha educato prima di tutto noi genitori, dandoci modo di capire che amare i propri figli significa dare loro punti di riferimento e porti sicuri. Non possiamo permetterci di assecondarli in ogni richiesta. Abbiamo il compito di renderli adulti e per farlo dobbiamo esserlo noi. Ricorderò sempre una delle sue prime testimonianze sul tema del buco. La lettura su cui i ragazzi avevano lavorato è L’arazzo di Nostra Signora di Péguy, nel quale il poeta, tra i motivi di preghiera, ha quello di affidare un suo giovane amico morto per una iniezione di morfina alla Madonna. “O Vergine, non era il peggiore del gregge. Non aveva che un difetto nella giovane corazza, ma la morte che ci fiuta e segue le nostre tracce, è passata nel buco che s’è fatto nella pelle. Eccolo allora nel vostro regno. Siete regina e madre e saprete prenderlo… Dove è passata la morte passerà anche la grazia”.
Maria in quell’occasione disse che in comunità aveva trovato persone che l’amavano, l’accoglievano e la perdonavano proprio come aveva sempre fatto la sua mamma. Credo che amare i propri figli non significhi evitare loro il dolore, deresponsabilizzarli. Abbracciare e perdonare l’errore di un figlio, così come dovremmo fare con noi stessi, non corrisponde a togliere significato a ciò che è accaduto, alla responsabilità che ognuno di noi ha quando commette un errore. Piuttosto, è dirgli che nonostante il male c’è qualcuno che lo abbraccia ed è più grande di quel male, e che non è questo a dire l’ultima parola. Nella storia di Maria è stato chiaro che quel male e la morte del suo amico erano per qualcosa di più grande. Ho sempre desiderato che le mie figlie incontrassero Cristo, consapevole che il vero bene per loro stava nelle circostanze in cui erano chiamate. Di fronte a quei fatti terribili ho pensato che quello era il modo in cui Dio si faceva incontrare, ho capito che era la sua risposta per me. Così è iniziato un cammino doloroso, lungo e pieno di ostacoli, ma Dio ha esaurito la mia domanda. Maria è diventata una donna, è cresciuta e ha a sua volta una famiglia con un bambino che è frutto del grande amore che Egli ha avuto per la sua vita e per tutti noi. Di questo tutt’ora ringrazio: che il suo e il nostro dramma sia stato lo stesso buco da cui passa la vita che non finisce. Oggi ho la certezza che la vita può ancora essere qualcosa di grande, che la promessa di felicità non è stata tradita e che attraverso la sofferenza e la croce Maria sta imparando a vivere, e in lei sta germogliando il seme che è stato posto alla sua nascita. Grazie.

GIORGIO VITTADINI:
Salvatore.

SALVATORE ABRUZZESE:
Questo libro in realtà è un cammino. Io non avevo nessuna speranza. Quando ho messo piede alla PARS per partecipare a uno dei tanti incontri di studio, venivo da anni di profonda rassegnazione, come molti di noi: contro la droga si può ben poco, sì, ci sono tentativi che si portano avanti da diverse parti d’Italia e d’Europa, ma non è facile uscirne, ci sono mille ricadute. Insomma, non è possibile. Ero sostanzialmente un non credente: non credevo che fosse possibile un cammino di recupero se non veramente, come dire, come miracolo. Nella PARS ho incontrato, in primo luogo, oltre agli amici e agli operatori, quelli che sono gli ex-tossicodipendenti. Ho incontrato persone per me assolutamente impossibili da ricondurre a un passato di dipendenza. Persone assolutamente disponibili, buone, aperte, con grande volontà, con grande impegno, attente ad ogni cosa, attente agli altri. Mi sono chiesto: ma com’è possibile? Com’è successo? Da dove sono usciti fuori? Come è stato possibile arrivare a questo? Questa cosa la debbo studiare. Ne ho parlato con gli amici della PARS e mi sono messo semplicemente a guardare, a guardare, a raccogliere interviste, racconti, percorsi che sono percorsi di ritorno. Questo libro non parlerà della caduta, non parlerà dei momenti tragici. Sì, qualcuno lo dice, ma non è quello l’essenziale: l’essenziale è essere tornati tra noi. È importante pensare a un ex-tossico dipendente come a qualcuno che è tornato tra noi. Perché è una ricchezza che è tornata, è una vita che è tornata, è qualcuno che è tornato, per lui ma anche per noi, per arricchire noi. È una cosa bella, un bel ritorno. Mi sono messo quindi a lavorare per cercare di capire come fosse possibile, e ho trovato diversi elementi. Primo elemento che si incontra nelle testimonianze, è il recupero di una vita quotidiana densa, attenta, curiosa di ogni particolare, sensibile a tutto. Si impara a rimettere in ordine tutto, dalle cose più semplici, come può essere mettere a posto la propria stanza ogni mattina quando ci si alza, come può essere mettersi in ordine, fino alle cose più importanti, stare attenti all’altro, alle cose comuni, stare attenti alle persone che ci sono intorno. Una disponibilità, un’attenzione, questo il primo passaggio. Secondo passaggio, quando ho chiesto dove avessero trovato la forza per uscire dal dramma. Anche perché nelle interviste si capisce come queste persone avessero vissuto drammi profondi. Stiamo parlando di persone che erano arrivate ai tempi ultimi, molta gente è arrivata alla PARS portata dai carabinieri. Voglio dire, non ci è arrivata perché stava già sulla via della salvezza, del recupero. Ebbene, queste persone hanno dato sostanzialmente due risposte: per uscire fuori, il primo elemento è stato vedere altri che ce l’avevano fatta, vedere persone che c’erano riuscite. Il secondo elemento forte, altrettanto importante, è la famiglia: scoprire di essere stati amati, scoprire che qualcuno li aveva attesi. Vengo a scoprire che la PARS chiama le famiglie una volta ogni mese. Le fa venire, le invita ad un giorno di festa, con una messa, una celebrazione, un’ottima mensa, un ottimo pranzo. E alla fine addirittura una festa, addirittura brani musicali, addirittura dei concerti, delle conferenze: la vita piena, in abbondanza, con le famiglie. Recuperare il rapporto con i propri cari, recuperare il rapporto con le persone che ci hanno tenuto, che stavano ad aspettare. Ma non basta: terzo passaggio. La PARS si occupa di reinserimento. Il problema della PARS non è solo quello di strappare la persona al dramma, al rapporto mortale con la tossicodipendenza (perché la tossicodipendenza porta alla morte, bisognerà pur dirlo da qualche parte: non esiste compatibilità, non esiste la droga del sabato sera, sono delle illusioni piccolo-borghesi, pericolosissime. Non è vero, non c’è, non è altro che il primo passo verso un legarsi progressivo alla morte). Ebbene, questa possibilità di uscire fuori, di essere strappati, è insufficiente: c’è bisogno di rientrare nel mondo. La PARS si è dovuta occupare, si è preoccupata e si preoccupa di reinserire questa gente nel mondo. Ma per reinserire non basta trovare un lavoro, anzi, quella forse è l’ultima cosa. Per reinserire bisogna che il mondo torni ad essere guardato con occhi nuovi, torni ad essere visto in maniera diversa. In barba alla mia disciplina, cioè alla mia sociologia, i miei amici della PARS mi hanno dimostrato, e soprattutto i ragazzi ex-tossicodipendenti, che lo stesso ambiente nel quale avevano incontrato la sostanza (lo stesso Paese, la stessa città, lo stesso luogo) poteva essere rivissuto in un’altra maniera. Si poteva ritornare a casa, rivivendo tutto in un altro modo. Ricostruendo, quindi guardando il mondo con occhi nuovi, ma non solo. Bisognava anche dare delle competenze, delle capacità concrete: da qui le varie forme di attività che la PARS produce. L’agricoltura biologica non viene fatta per caso, così come anche l’edilizia non viene fatta per caso, così come anche il verde pubblico non viene curato per caso. Si tratta di far riapprendere a persone che erano state completamente destrutturate dalla droga la possibilità concreta di rimettere insieme, oltre all’attenzione all’altro, oltre all’attenzione per le cose e il quotidiano, anche una professionalità, una manualità, un’artigianalità, capace di farli rientrare nel mondo. Ma non basta: è chiaro che oltre a questo ci voleva un ultimo esempio, un ultimo salto di qualità. Non bastavano i genitori che arrivavano ogni mese, non bastavano gli psicoterapeuti, non bastava il lavoro nei campi o nella tenuta del verde pubblico o nell’edilizia: ci voleva qualcosa di più, ci voleva l’immagine di una vita possibile, l’immagine di una vita buona da vivere, di una vita che si tiene. E qui c’è il ruolo della fraternità san Michele Arcangelo che sta dentro la PARS, un’esperienza di persone che hanno fatto la scelta di vivere la loro vita quotidiana alla luce di un servizio, quello dell’organizzazione, del recupero in una comunità di tossicodipendenti, accanto al loro lavoro, che ciascuno di loro continua a fare nella vicina Macerata, nell’ospedale, all’università o dove è possibile. L’esperienza di questa fraternità, di questo mondo concreto a portata di mano, di persone che riescono a vivere in maniera assolutamente umana ma anche assolutamente felice, autentica, piena, in qualche maniera entra nel percorso di recupero e di riabilitazione di queste persone. Arriviamo quindi alla parte finale: dove sta la possibilità per tutto questo di tenersi in piedi? Come si arriva a mettere insieme il lavoro nei campi, il lavoro nell’edilizia (sapete quant’è duro), con i brani di musica che abbiamo ascoltato, che loro fanno anche una volta al mese quando vengono le famiglie, e anche durante l’estate? Hanno persino una scuola di musica, pensate un po’. Come si fa a mettere insieme queste cose, come si fa a ricollegare tutto il buono, tutto il bello, tutto il meglio che c’è, con il lavoro duro, quotidiano, in settori di primo impatto? Perché, sapete, agricoltura biologica vuole dire zappare. Come si fa a mettere insieme il bello con il vero di un lavoro quotidiano, con l’esperienza di una vita possibile, ritornando negli stessi luoghi dai quali siete partiti, con la stessa famiglia, con le stesse persone riviste in un’altra maniera? Ci vuole una speranza più grande. Avete già visto nella testimonianza di Patrizia: questa speranza più grande è ovvio che si fonda su un’eccedenza di bene, di vero, un’eccedenza di buono, che è appunto la speranza cristiana.
Allora, è interessantissimo e me lo sono chiesto, come passa questa speranza cristiana? Come funziona? Voi sapete che sono un sociologo, quindi, alla fine, molto grossolano. Nei fatti, cosa succede? Nei fatti succede qualcosa di meraviglioso. Succede che apparentemente nulla accade: una statua della Vergine Maria in un angoletto, la messa ogni domenica mattina, la preghiera prima di sedersi a tavola, qualcuno, un gruppetto che dice le lodi: e poi vengo a scoprire che fanno anche la processione del Venerdì Santo. Gesti semplici, non ostentati, li ho scoperti dopo mesi. Cose da matti, nemmeno erano stati messi in prima linea, erano stati quasi messi in un angolo sereno, buono, un angolo della loro vita privata ma che in qualche maniera alimentano costantemente questo mondo e fanno sì che il tutto si regga in piedi. Il tutto si regga in piedi vuol dire, tradotto in numeri, che dinanzi all’impatto duro, perché la PARS è molto realista, entrare vuol dire accettare un programma di lavoro, di impegno, un programma terapeutico ma anche di impegno e lavoro quotidiano. Molte persone, quando arrivano lì, non vogliono, vogliono andare via. È chiaro che durante le prime settimane c’è un’alta percentuale di gente che se ne vuole andare, con risultati ahimè terribili. Ma quelli che restano, che sono circa la metà di quelli che arrivano portati dai carabinieri o dai magistrati o dagli inviati del SERT, quindi persone che stanno a un passo dalla fine, di questi il 99% si salva, il 99% ritorna tra noi. Questo allora è un dato importante, è un elemento forte, vuol dire effettivamente qualcosa di buono, qualcosa di potente che è stato avviato. Io ero il non credente, che per primo diceva: “ma la comunità, figurati, queste persone, una mezza comune, cosa vuoi che porti, alla fine diventano dipendenti dalla comunità…”. Ma non è così, non è assolutamente nulla di tutto questo. Queste persone ritornano nel mondo, come l’esperienza di Patrizia ha dimostrato. Ritornare nel mondo vuol dire ritornare a vivere, ma a vivere la vita piena, la vita buona, la vita in abbondanza, dove c’è una famiglia, dove ci sono dei figli, dove i figli sono desiderati, dove in qualche maniera si riprende a camminare: e questa è una meravigliosa notizia che ho cercato in tutti i modi di comunicare, con tutti i modi immaginabili, con parole, foto, il meglio che potevo. Perché questa buona notizia deve circolare. Perché questo è un percorso di ritorno tra noi, è veramente qualche cosa che vale la pena di guardare da vicino, anche per chi come me non si occupa più tanto di tossicodipendenza. Io mi ero occupato di tossicodipendenza vent’anni fa, quando collaboravo con il CENSIS e contribuivo a scrivere il primo Rapporto nazionale sulla tossicodipendenza per la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Avevo trent’anni, il mondo adesso è cambiato. Questa è una buona notizia, mi è sembrato giusto presentarla, ne vale veramente la pena. Questo è un libro di testimonianze: vale la pena riascoltare testimonianze come quella di Patrizia perché ci danno la misura della posta in gioco, la misura della scommessa enorme che è stata giocata dalla Pars, la capacità di far tornare tra noi, per la nostra fortuna, per la nostra gioia, persone meravigliose. Grazie.

JOSÈ BERDINI:
In giugno abbiamo incontrato il Papa a Roma. Siamo andati lì in maniera anche improvvisata, con questo mega striscione con su scritto: “Corpo a corpo contro la droga”, una frase che Bergoglio utilizzò a Buenos Aires. Questo corpo a corpo potrebbe in qualche modo essere letto, essere interpretato, e di fatto lo è in qualche maniera, soprattutto dai benpensanti, dai mondani, dai potenti, quindi anche da noi, come una faccenda contro qualcuno, contro le mafie. Cioè, il Papa in sostanza viene molto utilizzato da questo punto di vista. Questa frase tra l’altro è indicativa… Invece viene interpretato e venduto dai media come una faccenda appunto contro le mafie, contro qualcuno. Io ci ho un po’ riflettuto stanotte. Sarà che noi, le famiglie che vivono presso il villaggio, ma tutti gli operatori, un po’ perché rompiamo continuativamente loro la vita, sarà perché ci sentiamo fortemente peccatori, gravi peccatori, sentiamo questo “corpo a corpo”, questa indicazione del Papa come confacente alla nostra persona, come aderente al nostro vivere in comunità. Di fatto, leggiamo l’indicazione di Bergoglio come fondante, proprio come fondamento, come pietra angolare, l’esperienza della relazione tra gli uomini che altrimenti, almeno io credo per me, è impossibile. Innanzitutto tra sé e sé, e poi tra sé e i propri amici, tra sé e la moglie, tra sé e i figli. Quindi, questa indicazione del corpo a corpo contro la droga, che è contro il modo di vivere una vita senza significato, la intendiamo come base essenziale per la costruzione dei nostri centri di cura, del nostro metodo di lavoro, del nostro vivere come famiglie presso il Villaggio san Michele. Ricordando Giussani, si potrebbe dire, immaginando la sua genialità, che questo corpo a corpo forse lo avrebbe letto dentro il mistero della Trinità, perché la Trinità è il dinamismo della relazione. Non esiste relazione umana se non aderente, specchio e continuità con l’esperienza che Dio fa con se stesso, con lo Spirito e con Gesù. Nel leggere le testimonianze che Salvatore riporta nel libro, innanzitutto ci siamo resi conto della grazia – e non è scontato – a cui Dio ci invita, della sfida che abbiamo davanti, considerando questo mondo infame in cui ci troviamo. Mi sono andato a rileggere alcune testimonianze. La prima testimonianza con cui lui apre è interessante, perché i più vecchi tra di noi forse la ricorderanno. Qui è citato un nome di fantasia, un certo Sergio, e il titolo del paragrafetto, virgolettato da Salvatore che ha molta fantasia, è: “Ha fatto tutto mia madre”. Salvatore non ha avuto la grazia, la fortuna di conoscere questa mamma che Sergio descrive con quella frase. Uno potrebbe immaginare una mamma come l’enorme san Cristoforo che abbiamo visto ieri. Invece la mamma è un barattolino con fare frettoloso, con occhi vivacissimi, una donna che ha lavorato sempre nel mondo della calzatura. Lei costringe letteralmente questo uomo, che si era sposato con un trans, parlo degli anni ’80, questa mamma costringe fisicamente Sergio, ad entrare in comunità. E lui dice di sé: “Andavamo a ballare a Rimini negli anni ’80, ho preso la patente nel 1981. Partivamo il sabato pomeriggio e andavamo a ballare a Rimini, poi ci portavamo l’hashish e l’alcool. Lo facevo solo per il fine settimana, in compagnia con gli amici, e ci divertivamo”. Questo racconto è di una semplicità enorme. Tra l’altro siamo in un tempo, come giustamente Giorgio diceva prima, in cui si accusano i tempi estivi, si vogliono chiudere le discoteche, si vogliono chiudere le strade, si vogliono chiudere le case chiuse, si vuole chiudere tutto. In questa che non si può definire se non demenza, questa mamma riesce a fare ciò che né i magistrati né i servizi pubblici né le comunità terapeutiche, cioè noi, riescono a fare. Noi a malapena riusciamo a pensare ciò che lei in maniera ferocissima – me la ricordo bene perché questa storia l’abbiamo vissuta insieme – è riuscita a fare. Poi quest’uomo entra in comunità, inizia a camminare, come dice lui stesso, e si riprende questa vita. Lui dice: “Entro nella Pars nel 1993, ricordo con precisione la data, il 24 di luglio, ha fatto tutto mia mamma”. E poi, andando avanti, parla dell’oggi. L’oggi è terribile perché un uomo come lui che aveva avuto quel passato, con cocaina, eroina, LSD e quant’altro, oggi dice di sé: “Io sono con questa bambina”, si è sposato, ha una figlioletta, “e le racconto le favole e gioisco nel raccontarle”, la bambina tra l’altro ha avuto un mare di problemi fisici, quindi lui è stato proprio un camminatore dentro questa esperienza. Poi, mi ha colpito un’altra testimonianza di una donna più adulta che è alcolista, una donna che aveva già due figli quando ha avvicinato noi. Il titolo che Salvatore ha scelto per parlare di Raffaella è indicativo. Lei, in un momento di disperanza, perché la comunità ti mette dentro una disperazione, ti mette dentro una tale fatica di vivere che ti fa dire, come lei a un certo punto: “Signore solo tu puoi capire come sto dentro”. E lui giustamente, Salvatore, valorizza questa cosa. Mi ha colpito molto la storia di Raffaella perché, pur essendo una persona che è stata molto vicina a noi – è quella che poi ha tirato su il laboratorio di marmellate, una donna che ha lavorato molto con noi – certe cose non le conoscevo. Lei si è aperta con Salvatore: “Quando mio padre è morto, sono stata in collegio per 14 mesi, avevo 8 anni ed ero piccolissima. Mio padre stava in sanatorio ed io sono stata l’unica, tra le sorelle, ad essere stata allontanata. Sono stata allontanata dalle mie sorelle. Io non riuscivo a capire perché dovessi essere allontanata da loro. Là stavo male perché era un orfanotrofio statale. Mi ricordo degli episodi bruttissimi, mi ricordo quella fila indiana di bambini”. Mi ha colpito questo pezzo. “Abbiamo avuto i pidocchi, ci tosavano come le pecore, io volevo tornare a casa da mia madre e non riuscivo”. Poi esce, ritorna a casa, il padre muore e comincia questa vita del fine settimana con le amiche. Va a lavorare in una azienda e per divertirsi, nel fine settimana, inizia a bere il Cointreau. E poi, via via, questa vita diviene sempre più disastrata. Lei viveva in mezzo alla strada, non facevano altro che prenderla e portarla nei reparti di psichiatria perché questa gente ha la cosiddetta “doppia diagnosi”: quando le persone hanno una depressione e assumono sostanze in maniera feroce, vivono questa decadenza che è terribile. E quindi, l’unico rimedio immediato è il Pronto Soccorso, dove si va con le crisi di panico, oppure la Psichiatria. A un certo punto, lei comincia a vivere l’esperienza della comunità e poi esce. Oggi fa l’estetista, un lavoro che a lei piace. E dice a un certo punto: “Io oggi non ho più paura. Ma non ho più paura perché la PARS”, cioè gli operatori, perché non è un ente astratto, parla della gente con cui ha vissuto, “mi ha tolto la paura”. Forse perché siamo stati così carnalmente feroci che le abbiamo messo una paura più grande. Non so, evidentemente qualcosa deve essere accaduto. Ma la cosa sorprendente è come questa vita che lei ha vissuto in comunità – sobria, essenziale, vita dura – oggi riesca a riproporla ai suoi due figli, alla mamma che poi è morta e alla quale lei è stata vicino, senza debordare. Come diceva don Pierino, in questo senso la comunità, anche per chi la attraversa per un secondo – non credo che don Pierino esageri -, segna la vita, perché è un altro modo di concepire l’esistenza. L’altro giorno viaggiavo in macchina, a un certo punto parte un quarto d’ora di Patty Smith. Per carità, io sono andato anche a Bologna a sentirla, ho sfondato, sono entrato, non ho pagato, come allora facevamo noi, però, insomma, un quarto d’ora per sentire che Patty Smith, nel Gloria scritto da Van Morrison, dice: “Gesù è morto per i peccati di qualcuno ma non per il mio”. Io credo che il potere abbia una grossa responsabilità, perché certi messaggi quasi subliminali o franchi almeno dovrebbero avere un contraltare. Questa Raffaella, se la si facesse parlare, o se addirittura Raffaella potesse conoscere quella rimbambita – no, anzi, qui ci becchiamo magari una denuncia -, ma se Patty Smith potesse guardarsi allo specchio e guardare le sue rughe, forse comprenderebbe anche lei che quella vecchiezza ha a che fare con il limite, ha a che fare con il peccato. Quindi anche per lei è possibile un qualche cambiamento. Per finire, mi ha colpito anche qui la testimonianza di una ragazza che è uscita da poco dalla comunità, da un anno e mezzo circa. Una ragazza giovane, anche lei ha perduto il babbo da piccola. Però, a differenza di Raffaella, Marta ha avuto un’esperienza di vita molto coccolata. Mentre Raffaella è stata allontanata, e quindi si è proprio quasi incattivita, è diventata rabbiosa, in Marta invece c’era questa fisionomia new age. Quando noi ci parlavamo, perché io e Giorgio facciamo sempre le riunioni educative con i ragazzi, la vedevamo, la inquadravamo in questa fisionomia un po’ new age, a letto con questo amante che si drogava con lei, con i sacchetti di eroina e cocaina, perché poi è stata arrestata per spaccio, ha tuttora un provvedimento in corso. Quindi, coccolata dalla nonna, coccolata dalla mamma, intelligente, liceo classico, poi università. Ma tutto vissuto dentro questo utero, diciamo così, drogastico. E a un certo punto, ovviamente, la realtà si fa terribile e lei è costretta a entrare in comunità. Lei dice che ciò che l’ha messa in gioco, ciò che l’ha fatta cambiare sono stati innanzitutto i ragazzi e un operatore. Perché veramente la prendevano in giro: lei non sapeva stare allo scherzo, non sapeva stare a nulla, viveva nel mondo del placebo e del vizio. Questo è importante perché tra noi, anche genitori, anche tra i cristiani, avviene questa diavoleria per cui bisogna sempre premiare. Invece, la cosa sorprendente, che a un certo punto ci ha smarcato, sia me che Giorgio che anche Salvatore che la cita, è che lei poi ritorna a casa, si laurea, fa anche un buon lavoro con la tesi e nel contempo inizia a guadagnarsi due lire nel bar dove era stata in passato. Ed è interessante la frase del datore di lavoro, quello che prima conosceva perché fregava i soldi, si drogava lì: “Sei sempre la stessa, ma sei diversa”. Ecco, penso che questo sia uno schiaffo anche professionale a coloro che pensano – Giorgio li ha citati ma bisogna essere precisi, perché in Italia e in Occidente si è consumato e si sta consumando un omicidio – che la tossicodipendenza, le dipendenze siano non curabili, la chiamano una malattia “cronica recidivante”. Durante un convegno – mi invitano poco, poi io non sono fatto tanto per i convegni, non ho neanche i titoli – mi sono sentito di dire che se l’essere drogati è una malattia cronica recidivante, la vita è una malattia cronica recidivante perché si muore, perché tutto decade, tutto di noi decade. E lì c’è stato un po’ di dibattito su tutto questo discorso della legalizzazione. Muore la ragazzina che dice una frase interessante: “Siamo nati per morire…” – aveva sedici anni – “…con un urlo dentro che nessuno può sentire”. Questa apparenza, questa mancanza, come dice Luzi, per noi è oggetto di lavoro. Lavoro che significa che già il fatto che tu senti che c’è qualcuno che non ti sente, già questo è un dato di fatto, un motivo di lavoro. Il potere che nega questa possibilità di lavoro e che diseduca in maniera analitica, precisa, scientifica, politica, con i farmaci, con tutto, soprattutto sulle masse giovanili, compie un omicidio di stato. La legalizzazione altro non è che l’affrancamento economico. Perché, come ha fatto il Colorado che in un anno ha incassato 50 milioni di dollari solo di tasse e 300 milioni nei negozietti che vengono caramelle, tortine, biscottini? Ecco, questo modo di far diventare il popolo una demenza continua fa comodo a qualcuno, la questione non è che fa bene o fa male. La scienza moderna ci dice che fa male, poi il potere utilizza anche qualche antico fricchettone nostalgico che fra un po’ crepa: e siccome ha paura di morire, fa la pubblicità a questi potenti che vogliono incassare i milioni di euro per sanare il nero che gira nelle mafie e che si vuole fare rientrare nelle casse dello Stato. Noi non faremo una battaglia, non ce la sentiamo, però i dati certi sono che la marijuana, l’hashish – dice l’OMS – sono causa di depressione grave e psicosi. Per cui, se lo Stato vuole farsi spacciatore e produrre ipoteticamente depressioni gravi e psicosi, canteremo il De profundis in maniera analitica con i nostri cantori al Villaggio.

GIORGIO VITTADINI:
Per completare l’incontro, facciamo un breve giro di domande su quello che avete detto, alla rovescia. Josè, al volo, qual è il primo inizio con cui voi entrate su questo urlo, qual è il fattore con cui si accende, con quelli che avete lì, la possibilità di una ripresa?

JOSE’ BERDINI:
Innanzitutto un ordine, anche semplicemente fisico. L’alzarsi al mattino, come diceva Salvatore, già pone le premesse perché il corpo risvegli l’animo, non è l’inverso. Gli psicologi a volte fanno queste peregrinazioni che fanno perdere forse anche se stessi. Noi tante volte incontriamo i genitori che ci dicono: “Mio figlio si fa le canne, si tira la cocaina, ha un problema psicologico”. Non è vero, anche mia zia, anche il cane hanno un problema psicologico. Il problema è che di fronte ad un’esperienza drogastica, o di fronte ad un’esperienza di abuso o di dipendenza dal cibo, tu devi lavorare su quel fatto. Devi tirare via la persona da questo, immergerla in una esperienza di presente ordinato, serio, molto snello, pratico, e quindi lavoro, affetti, sedersi in un certo modo. Io l’altro giorno ho ripreso una ragazzina che è da noi e che è qui presente, che aveva le gambe un po’ divaricate. Lei si è incazzata come una iena. Ma è per il suo bene, capisco che sono fuori moda e che in tv vediamo cadaveri ambulanti sessantenni. L’Italia diventa il Paese in cui siamo tutti giovani a sessant’anni, a settant’anni, siamo tutti un po’ prostituti. Il creato non ci fa per questo, quindi facciamo la lotta in maniera terribile, siamo anche un po’ cannibali, come Michele e Matteo che prima hanno suonato, si sono preparati, sono stati precisi. E questo rende le persone autonome. Il nostro compito è portare le persone ad un’autonomia. Noi abbiamo la testimonianza di Benedetto, lui l’ha chiamato Benedetto, un ragazzo di Roma che oggi è a capo del cantiere. Lui, dall’età di tredici anni fino ai trenta, si è drogato di eroina, cocaina; e lavorava come muratore a Roma. Quando è entrato in comunità, non voleva saperne di fare il muratore, quando ha visto che l’esperienza della comunità gli apriva un mondo sul lavoro che lui odiava fortemente, perché voleva rimettersi a studiare ed era quasi soffocato da questa ansia di lasciare il lavoro di muratore. Oggi è il capo di un’azienda che costruisce un luogo – come ha detto una famiglia nostra di Milano – più grande di un’abbazia benedettina. Noi siamo un’esperienza di cristianità presente e Benedetto costruisce questo.

GIORGIO VITTADINI:
A Salvatore voglio chiedere che differenza c’è, come studioso, tra lui e i sociologi che sono per l’impossibilità di una uscita, quindi per una morte inevitabile.

SALVATORE ABRUZZESE:
Come studioso, da un lato c’è sicuramente un recupero del soggetto, l’autonomia della persona che alla fine sceglie e compie delle scelte concrete, che può sempre reagire a qualsiasi tipo di condizionamento, ha sempre in mano l’ultima risposta. Una seconda posizione, ancora più potente, è la percezione che c’è qualcosa che mi sfugge. Come sociologo, io so che, dinnanzi a qualsiasi comunità umana, c’è qualcosa che eccede la struttura, le regole del gioco, i condizionamenti, anche le libertà delle persone. C’è qualcosa che eccede, che va al di là. Questa porta aperta sull’infinito, che io non so nemmeno veramente cosa sia ma c’è, in qualche maniera è un imprevisto, è un punto di fuga che devo ammettere.

GIORGIO VITTADINI:
Patrizia, qual è il fattore che si è riaperto con tua figlia dopo quest’avventura?

PATRIZIA RALLO:
Veramente la speranza. Io purtroppo non mi ero assolutamente resa conto della situazione di mia figlia, nonostante i segnali, come ho detto. La prima reazione che si ha è quella di pensare che la vita finisca, che il ragazzo possa essere in qualche modo marchiato. Difficile pensare ad una vita possibile, futura, al fatto che il ragazzo possa realmente uscirne. Invece, l’esperienza con la PARS è stata la possibilità per lei di ricominciare da capo e completamente in un altro modo. Per noi, è anche l’esperienza grande di un’amicizia con loro, di cui sono veramente grata. Oggi ho detto a Josè che facevo questa testimonianza per obbedienza e gratitudine, perché veramente mi costa un po’ parlare, però, insomma, sentivo la gratitudine che ho verso di loro, verso il movimento, perché la PARS l’ho incontrata qui nel 2009. È proprio una gratitudine grande che ho, noi genitori dobbiamo credere profondamente che i nostri figli possano farcela. Credo siano fondamentali tre cose: una è la preghiera, perché questa è proprio la cosa che cambia, cambia la vita, è capace di fare quello che noi non siamo capaci di fare. La seconda cosa è non mollare, la ferocia con cui, in qualche modo, bisogna agire. Quando abbiamo capito che la situazione di Maria era questa, non l’abbiamo lasciata sola un minuto. Lei era accompagnata da noi, dal papà, dalle sorelle, dagli zii, da chiunque si prestasse. Non l’abbiamo più lasciata un attimo, e forse era quello che lei voleva, che ci chiedeva. Per cui, non scoraggiarsi perché bisogna essere molto forti. Sicuramente la forza non viene da noi però bisogna averla: non sono situazioni facili da affrontare, soprattutto bisogna affrontarle di petto, non abbandonarsi, non pensare che si può fare dopo, che si può aspettare. Perché aspettando i ragazzi muoiono: io ne ho avuti diversi esempi molto dolorosi. La terza cosa è l’unità tra la famiglia e la comunità, fondamentale anche per il percorso di Maria, perché a volte ho riscontrato in tanti genitori questa difficoltà a comprendere le indicazioni della comunità, che invece sono sacre. Quando Maria mi chiedeva: “Mamma, che pensi di questo?”. Io dicevo: “La comunità, che cosa ti ha detto?”. Perché comunque questa è la cosa fondamentale, che ci sia l’unità tra di noi che operiamo per il loro bene. Poi voglio dire un’ultima cosa che mi ha ricordato la mia amica Marianna a tavola, un detto africano che ha pronunciato il Papa ad un incontro l’anno scorso con gli educatori. “Per crescere un figlio ci vuole un villaggio”: il Villaggio san Michele arcangelo è stata questa possibilità per me per mia figlia. Grazie.

GIORGIO VITTADINI:
Io spero che tutti noi possiamo andare a vedere questo Villaggio e leggere il libro di Salvatore, perché evidentemente la droga non tocca tutti ma quello che abbiamo sentito oggi tocca tutti. Perché il cuore di questa questione è, per parafrasare il titolo dell’anno scorso della comunità di Cattarina, “l’imprevisto”. Cioè, la vita può essere qualcosa di meccanico, di prevedibile. Per parlare di questo Meeting, può essere qualcosa che avviene prima della nascita di Abramo, che si riproduce all’infinito per cui uno è predestinato a morire, a non uscire dalla droga, a non superare i suoi antecedenti. Oppure può capitare l’imprevisto di un incontro. Per Abramo, l’incontro con un Dio che si fa presente nella storia, per ciascuno di noi, per uno che si droga o no, il fatto di qualcuno che gli testimonia che la vita non sono gli antecedenti ma un incontro possibile, visibile, più grande, come diceva Salvatore come categoria, di qualcosa di predestinato. La vita non è un ciclo che si riproduce, la vita è un percorso in cui ci si libera. Allora, questo interessa tutti noi perché anche chi non si droga pensa di essere a posto, di non essere in un ciclo, non incontra niente, non capita niente, mai. Invece può capitare qualcosa che ci svegli, perché ci si può rincoglionire anche senza droga, non ce n’è bisogno. “La televisiun, la t’endormenta cume un cuiun”, dice Iannacci. Oppure, per citare Gaber, “far finta di essere sani”. Noi pensiamo di essere sani, invece siamo rincoglioniti perché ci possiamo uccidere in un centro commerciale alla domenica pomeriggio o alla mattina, oppure, appunto, guardando la televisione. Oppure semplicemente rendendo una famiglia un meccanismo. Abbiamo bisogno di incontri che ci sveglino, abbiamo bisogno di incontri che ci facciano risentire la mancanza che siamo e per questo, come diceva Patrizia, riprendere a sperare. Spero che già in questo Meeting ne facciamo esperienza. Grazie.

Data

20 Agosto 2015

Ora

17:00

Edizione

2015

Luogo

Sala eni B1
Categoria
Incontri