I BENI DELL’ITALIA: CULTURA E TRADIZIONE

I beni dell'Italia: cultura e tradizione

Partecipano: Davide Rondoni, Poeta e Scrittore; Francesco Rutelli, Senatore della Repubblica Italiana. Introduce Franco Bechis, Vice Direttore di Libero.

 

FRANCO BECHIS:
Buonasera a tutti e scusate questo brevissimo ritardo con cui iniziamo. Devo dirvi che il Ministro dei Beni Culturali, Sandro Bondi, non è potuto essere qui per ragioni familiari: suo papà stava male e veniva operato proprio oggi, quindi è dovuto rimanere a Roma. Il tema dell’incontro resta quello che avete trovato in programma, sulla cultura e i beni culturali: lo allargheremo un po’, essendo anche gli ospiti diversi, parleremo di beni culturali e di cultura, e anche un po’ di politica, visto che Francesco Rutelli, per la situazione di oggi, è un po’ al centro di quello che sta avvenendo nel mondo della politica. Però partiremo sicuramente dalla cultura, anche perché il rapporto tra politica e cultura è stato fondamentale in questi anni in Italia. Si può vederla in un modo o in un altro, io credo che ci sia stato un eccesso di ingerenza della politica nella cultura, che ha reso poco possibile la libertà di cultura in Italia, dal dopoguerra fino a un tempo molto recente. Oggi, più che di eccesso della politica sulla cultura, c’è scarsità di finanze pubbliche e risorse per la cultura, che rende altrettanto difficile, anche se in modo diverso, la libertà di cultura in Italia. Parleremo di questo, ma innanzitutto io cedo subito la parola a Davide Rondoni, che voi conoscete bene, essendo uno dei protagonisti del Meeting, che introdurrà questo dibattito che poi svolgeremo subito con la risposta di Rutelli, un po’ a botta e risposta, parlando anche di molti temi di attualità. A te, Davide.

DAVIDE RONDONI:
Grazie. Buonasera, io toccherò alcuni argomenti che riguardano il tema che ci siamo dati, in modo che poi l’Onorevole Rutelli possa confrontarsi con essi. Ho una certa stima dell’Onorevole Rutelli, lo dico subito, perché molti gli imputano il difetto di aver cambiato idea ma, a parte il fatto che, come sapete, Oscar Wilde diceva che solo i cretini non cambiano mai idea, poi c’è che, secondo me, sta cambiando idea andando dalla parte giusta, quindi, tanto meglio! Il problema è anche come si cambia idea! Io quindi ho la funzione di sottoporre a lui, anche per la responsabilità pubblica che ha, non solo per il momento politico che viviamo, alcune provocazioni, alcune esigenze, e anche un nocciolo di proposta su cui mi piacerebbe sentire la sua idea.
La prima cosa: cosa vuol dire che un bene è un bene culturale? Cosa vuol dire che l’Italia è un bene culturale, fatto di tradizione? Perché bisogna intendersi: voi sapete che tutto il mondo ci guarda perché siamo questo. Io ho la fortuna, l’avventura di girare parecchio, e quando vado in un posto non è che mi dicono: “Cosa succede nel Parlamento italiano?”. Sì, magari lo chiedono, così, per divertimento, ma l’Italia non interessa per la lotta politica, interessa perché c’è Firenze, c’è Venezia, c’è Roma, perché c’è stato Michelangelo, perché c’è la Ferrari, ci sono le bellezze dell’Italia. L’Italia interessa per questo, questo è il bene dell’Italia. Non siamo mai stati, a parte i presenti, molto forti in politica, l’Italia è un caos politico non dalla settimana scorsa, per la casa di Montecarlo, l’Italia è un caos politico da circa settecento, ottocento anni: basta sapere un po’ le storie di queste zone, i Malatesta, gli Sforza, come si trattavano, si invitavano a cena e si accoppavano mentre mangiavano.
La politica in Italia è sempre stata una cosa un po’ confusa. Però succedeva che, anche sotto questo modo un po’ confuso di fare politica, anche un po’ teatrale (per questo ci piace lo scontro tra leader, perché è un po’ come andare a teatro), sotto questa apparenza, questa vita politica spesso convulsa, e a volte anche molto crudele, è sempre cresciuto un grande bene culturale, quello appunto per cui tutto il mondo ci guarda. Tutto il mondo ci guarda per questo, non c’è nessuno al mondo che, quando pensa all’Italia, non pensi a un bene culturale, cioè a un bene, incontrando il quale, puoi aumentare il senso critico sulla tua vita. Un bene culturale non è solo una cosa bella da mettere in un museo, un bene culturale è tale perché, incontrando questo bene, in qualche modo la tua esperienza umana viene arricchita, viene provocata: per questo è un bene e non è solamente una cosa da museo, una cosa da conservare. E vengo subito al primo problema: dire che l’Italia è un bene culturale significa porci immediatamente il problema del perché valga la pena vivere questo Paese come bene culturale, perché ci debba interessare un bene culturale. Non è scontato, lo sappiamo benissimo: io ho appena pubblicato un libro sull’insegnamento della letteratura a scuola, molto violento e molto critico sul modo attuale dell’insegnamento della letteratura, perché, soprattutto verso i nostri giovani, stiamo facendo un po’ come se fossimo gli egiziani che, invece di far vedere le piramidi, le seppelliamo nella sabbia, per cui tutti i nostri giovani escono da scuola pensando che Manzoni sia noioso, che Leopardi sia un gobbo un po’ sfigato che scrive poesie, e che Dante sia uno che scrive cose oscure.
E’ un piccolo esempio per dire che noi, oggi, abbiamo una grande responsabilità di trasmissione del bene culturale ai nostri giovani e a tutto il mondo. Ma per trasmettere un bene culturale, occorre una cosa che non ti viene data né dalla politica né dalla erudizione, cioè dalla cultura a sé stante. Per interessare a un bene culturale un tuo figlio, un ragazzo, il tuo Paese o anche un altro, ci vuole una certa autorevolezza, ci vuole che tu sappia solleticare nella persona dell’altro un motivo di interesse a quella cosa. Detto più poveramente, non ti può interessare Dante se non sei solleticato da qualcuno a un problema umano per cui Dante diventa interessante. Tant’è vero che il fallimento, nella tradizione dei beni culturali, è che noi diciamo alla gente: “Ti deve interessare Dante, perché ti deve interessare. Ti deve interessare Leopardi, perché ti deve interessare”. Ma se non c’è un motivo umano, che la mia autorevolezza suscita in te, di confronto col bene culturale, il bene culturale muore, diventa una cosa da museo o diventa retorica: e infatti in Italia si fa molta retorica sui beni culturali.
Il rischio, e lo pongo come problema – molto viene fatto, e non sto criticando solamente, so bene che tante cose sono state fatte sia dal Ministero di Rutelli che dal Ministero di Bondi – che stiamo correndo è che magari si conservino, si salvino, si lucidino, a volte, quando ci si riesce, i beni culturali: ma qual è il motivo per affrontarli, per viverli, per gustarli, per incontrarli? C’è un problema di autorevolezza che riguarda sempre la cultura, da cui non si può evadere. E faccio un piccolo accenno a quello che diceva prima Franco: in Italia, si è stati dominati per molto tempo dal fatto che la cultura doveva interessare per motivi ideologici. Cioè, la cultura era interessante ma non per la cultura in quanto tale o per il senso critico in quanto tale; era interessante perché supportava un’ideologia politica, con la conseguenza già accennata prima, che ciò che non supportava questa ideologia politica, semplicemente, non doveva esistere. Pavese, secondo Calvino, non sarebbe dovuto esistere, e questo succedeva dentro la Einaudi, ma se leggete anche il libro del mio vecchio amico Piero Buscaroli sul Novecento in Italia, vi renderete conto di tante cose. C’è stata una riduzione della cultura a ideologia, e anche in senso inverso, che molte volte ha censurato la cultura in Italia, perché, o c’è l’autorevolezza o c’è l’autoritarismo: o c’è l’autorevolezza, per cui ti convinco che avere a che fare con un bene culturale è umanamente interessante e importante, oppure c’è l’autoritarismo di tipo ideologico, che ti fa vedere solo quello che vuole e pretende che la cultura serva a una certa ideologia.
Uno dei miei grandi maestri di poesia, che è Charles Baudelaire, diceva che diffidava sempre degli autori premiati per motivi morali: questa pippa infinita che sta andando avanti in Italia sul povero Saviano, è la dimostrazione che in Italia i libri sembrano importanti solo se si occupano di società. Siccome si parla di camorra, diventa un libro importante. Questa è una riduzione dell’arte, ed è un peccato. Quindi, ci vuole un’autorevolezza per interessarsi ai beni culturali, per interessare ai beni culturali, se no, museifichiamo, salviamo per salvare, per addobbare la casa. Secondo aspetto: una mia amica che si chiama Elena Ugolini lavora all’Invalsi. L’Invalsi è questo istituto di valutazione della scuola, dell’andamento della scuola. I dati usciti recentemente, per quanto riguarda l’apprendimento della matematica e dell’italiano dei ragazzini nel passaggio elementari- medie, mostra che in Italia, con buona pace di tutti, la secessione c’è già, perché il ragazzino siciliano, al passaggio della prima media, è anni luce lontano dal ragazzino lombardo. E’ vero, può essere per una caratteristica territoriale. Ero in vacanza in Sicilia qualche giorno fa, e una signora molto simpatica ci dice: “Qua, dopo quattro mesi di vacanze, questi poveri ragazzi iniziano improvvisamente la scuola”. Come, improvvisamente? O insegniamo che lo standard è diverso, che calcoliamo diversamente le cose, oppure, se un ragazzino di quinta elementare o di prima media è già così lontano dal suo concittadino nell’apprendimento dell’italiano e della matematica – non sto parlando di esercizi di ginnastica ritmica o di altre cose strane -, vuol dire che la crisi culturale in questo Paese c’è già. Questo è un problema, che bisogna affrontare senza far finta di non vedere.
Terzo passaggio, l’Italia è un bene culturale ed ha una grande tradizione. Ci sono infinite polemiche sul fatto che in Italia si restaura solo, invece di fare grande innovazione. Però la tradizione, come suggeriva un altro grande poeta che è Thomas Eliot, è sempre da reinventare: infatti, è autorevole colui che ti aiuta a reinventare la tradizione, a capire perché oggi sia interessante per te confrontarsi, come abbiamo fatto questa mattina, col mondo classico, con Seneca piuttosto che con Michelangelo, con Leopardi e con gli altri. L’autorevolezza di uno che ti rende presente oggi un motivo di interesse per rapportarti col passato. La tradizione è sempre da reinventare, non è appena da conservare. Se la si conserva e basta, il rischio è che non vada avanti una storia: e noi in Italia corriamo spesso questo rischio, un po’ per paura, un po’ per certe strane bizzarìe che appartengono anche alla politica.
Voi sapete che si sta facendo la riforma della scuola: non si insegnava musica, a scuola, storia dell’arte, forse un’ora: che senso ha, in un Paese come l’Italia, che l’educazione di base non passi dalla musica e dall’arte, cosa vogliamo diventare? Un altro mio maestro poeta, scusate se cito poeti ma mi stanno simpatici, Mario Luzi, in un discorso fatto una volta sulla bandiera italiana – sapete che festeggiano la bandiera italiana, a Reggio Emilia, perché è stata fatta lì – usò questa espressione: “L’Italia è una aspirazione”. L’ha ripetuto anche quando è stato eletto Senatore a vita: dire che l’Italia è una aspirazione, vuol dire da una parte, che è vero, l’Italia nella cultura è sempre stata un’aspirazione, molti di voi conoscono queste cose, Petrarca ne parla così, Leopardi ne parla così, Dante già ne parlava così. L’Italia, più che una cosa che già sappiamo cosa sia, è una cosa che – con buona pace di tutte le ricorrenze del centocinquantenario – non sappiamo ancora bene cosa sia.
E’ sempre stato l’oggetto di un’aspirazione, fino dai tempi di Enea. Se smettiamo di pensare l’Italia così, come qualcosa a cui aspiriamo, come un bene a cui aspiriamo e che quindi siamo disposti a servire, il rischio inevitabile è di dividerci sulle divisioni socio- politiche, e la suddivisione geometrica è inevitabile. Che l’Italia sia un’aspirazione, è un pegno, vuol dire che in qualche modo c’è qualcosa che ci riguarda tutti, che dobbiamo servire. E cosa, ci riguarda tutti? Che cosa è che fa essere orgoglioso allo stesso modo un friulano o un pugliese? Il fatto di essere concittadini di Michelangelo, il fatto di essere concittadini di Dante, il fatto di avere una magnifica cosa artistica a Otranto come ad Aquileia, che da tutto il mondo vengono a vedere. Questo rende orgogliosi allo stesso modo questi due cittadini: se non puntiamo su questa cosa, tutto il resto divide, ma divide in senso amaro, non in senso comodo.
Poi, possiamo anche dividerci, ma bisogna puntare sempre su ciò che è unitario, anche nei momenti in cui ci si divide. L’Italia è un Paese di Signorie, è sempre stato un Paese di Comuni, un po’ incasinato, effettivamente, non è mai stato molto unitario. Quindi, non mi scandalizza se Mari, fra vent’anni, mia figlia, vivrà in un Paese che si chiama Italia del Nord, e magari il suo moroso verrà dall’Italia del Sud, South Italia: può anche succedere, non me ne frega niente, da un certo punto di vista, scusate. Mi interessa che i due ragazzi che si incontrano siano entrambi innamorati della bellezza che c’è ad Otranto, della bellezza che c’è ad Aquileia, la bellezza che c’è a Bologna, la bellezza che c’è a Firenze, e che sentano questa loro cosa come patrimonio comune, come un bene comune.
Due proposte e finisco, scusate se mi sono dilungato troppo. La prima è che siamo in un’epoca di tagli, avete visto le polemiche, i tagli sulla cultura, ecc. La realtà è questa, è inutile che ci giriamo intorno. Francesco Rutelli sa meglio di me i problemi con cui si ha a che fare, quando si devono amministrare i beni, i soldi per la cultura. Però questo ci impone di incominciare a ragionare diversamente, non è più problema di cosa tagliare e cosa no, perché non ce la si fa. Se il problema è cosa tagliare e cosa no, si può assistere solamente, come abbiamo assistito in Italia, in questo periodo, ad uno spettacolo un po’ indecoroso, di che cosa deve essere tagliato e cosa no. La Scala che sciopera, l’Arena che non sciopera, la solita rivendicazione di che cosa, chi è più bello, chi è migliore, chi è più culturale, che fa anche un po’ ridere, che diventa un po’ una specie di esibizionismo. Bisogna invece a ragionare in modo diverso. E io chiedo a Rutelli come politico, e anche agli altri che sono in sala, di schieramenti diversi, di cominciare ad impegnarsi, come si è fatto su altri campi, perché il principio di sussidiarietà valga anche per la cultura e le politiche culturali.
Scusate, è un po’ assurdo che in Italia, il Paese dei beni culturali, settanta per cento dei beni mondiali, non si stia lavorando seriamente sulla sussidiarietà nei beni culturali. Si sta lavorando un po’ a spot, un po’ sul cinema, un po’ su quello che fa proprio notizia, pero è un paradosso. Io chiederei ai politici che sono qui di impegnarsi su questa cosa, perché è chiaro che bisogna intervenire con delle leve fiscali, non più come un problema di tagli. Abbiamo fatto un 5 per mille sull’assistenza che, come sapete, ha avuto un successo enorme tra gli italiani. Quando abbiamo chiesto agli italiani: dite voi quali enti di assistenza volete premiare con la detrazione fiscale, gli italiani lo hanno fatto, lo hanno fatto in tanti, più di quelli che si pensava, il problema, dopo, è di trovare i soldi.
Facciamolo anche sulla cultura, perché no? Perché non si può fare a livello locale o centrale? Questi sono leggi che si possono fare, anche a partire da schieramenti diversi, è un segno di responsabilità per l’Italia: credo che lavorare sulla sussidiarietà, arrivare ad un 5 per mille per la cultura, o comunque ad una detrazione fiscale, può far bene. Scusate, non c’è Bondi e io non voglio fare polemiche con chi non c’è, però quando il ministro Bondi, qualche tempo fa, ha fatto la polemica col cinema, non andando a Cannes per non rappresentare il cinema italiano. E’ vero che il cinema italiano molto spesso è ideologicamente orientato, che in Italia è prodotto e distribuito da due grandi società, la Rai, i cui capi sono scelti dalla maggioranza, e la Medusa, i cui uomini sono dell’uomo del Governo, diciamo così. Ma certe polemiche fanno anche un po’ ridere. Occorrerebbe un’azione di grande respiro sulla cultura, bipartisan in senso trasversale: secondo me, sulla sussidiarietà si può fare molto, sulla leva fiscale si può fare molto, non per forza sul cinema, anche sul cinema.
Oggi un amico – forse è qua, Davide Donati – mi raccontava a pranzo che è stato a Pompei ed è rimasto sbalordito per il fatto che la cartina con cui si gira a Pompei sia praticamente incomprensibile, ci vuole una laurea in lettere classiche, per interpretarla. Gli americani – diceva – avrebbero messo nomi normali alle strade. E’ un piccolo esempio per dire che, a volte, anche la furia conservativa, la furia degli archeologi, la furia degli accademici, non aiuta a fruire la bellezza dei beni che abbiamo. Solo per dire che il lavoro dei politici che si occupano di cultura è molto difficile: ci sono molti nemici, ma ci può essere anche molto onore. Grazie.

FRANCO BECHIS:
Sentendo Rondoni mi veniva in mente un vecchio film dei Taviani, non so se l’avete visto, Good Morning Babilonia, la storia di due italiani, artigiani, emigrati, che andarono a costruire i grandi elefanti di cartapesta che c’erano in uno dei primissimi film del muto, Intolerance di Griffith. Tu dici: noi siamo i figli dei figli dei figli di Michelangelo, di Donatello, di Raffaello, di Leonardo. Quello scatto di orgoglio era il segno dell’identità di una nazione. Poi, è vero che i beni culturali sono anche un’azienda, come sa Rutelli, e non è una delle aziende che meglio funzionino in Italia. Emerge da dati molto semplici: il numero di visitatori del Louvre, in un anno, è uguale alla somma dei visitatori di tutti i musei italiani. Il Louvre ha 8 milioni e mezzo di visitatori all’anno, gli Uffizi di Firenze ne hanno 1 milione e quattro. Questa grande ricchezza, insomma, l’Italia la sfrutta poco.
Visto che abbiamo allargato anche ad altri temi di cultura, volevo lanciare una provocazione a Rutelli, che è un politico molto libero, sui generis, nel senso che non viene fuori da quella storia che ha dominato la cultura in Italia, dal dopoguerra in poi, che obbiettivamente è la storia marxista: in parte ha dominato la cultura radical-azionista, ma in gran parte la cultura era in mano a chi veniva della cultura marxista, dal partito comunista che ha avuto in mano le case editrici, i luoghi dove si faceva cultura. Lo citava prima Rondoni, è stato impossibile in Italia, fino agli anni ’90, pubblicare i Taccuini di Pavese: fino a che non è morto Italo Calvino, è stato impossibile pubblicarli perché c’erano cose che non si potevano dire, si vergognava di quello che era stata la storia dell’Italia, aveva dei dubbi, delle tentazioni sul fascismo, che aveva scritto nei suoi Taccuini e che sono stati semplicemente cancellati. Il Dottor Zivago poté essere pubblicato soltanto grazie a una persona che non c’è più oggi, Valerio Riva, che lo portò in Italia, e a Gian Giacomo Feltrinelli, che veniva fuori da quella cultura, ma era un po’ matto, e lo ha reso possibile. L’Einaudi e tutte le grandi case editrici italiane avevano rifiutato di pubblicarlo perché si trattava di un dissidente, in un’epoca che oggi non c’è più: però di quell’epoca è rimasta traccia nella matrice della cultura italiana. La cultura italiana è consistita soprattutto nel finanziare un sistema di potere. Quando parliamo di finanziamenti dello Stato alla cultura, sono stati finanziamenti a una parte d’Italia, a certe scuole di pensiero. Pensate a che cosa è stato il Gruppo ’63, scuole di questo genere, che oggi, in maniera giornalistica, semplice, definiremmo cricche culturali, non libertà di cultura che, quasi sempre, viene dalla genialità degli individui. Anche per questo, era giusto ripensare il sistema di finanziamento alle iniziative culturali. Non so se poi la provocazione di Rondoni sulla sussidiarietà, su altre formule di finanziamento che facciano nascere nuovi Leonardo, Michelangelo e grandi individualità, sia la soluzione. Lascio a Rutelli.

FRANCESCO RUTELLI:
Bene, grazie. Intanto, grazie a voi, sono lieto di essere qui, partecipo volentieri ad un dibattito, per me rarissimo, sulla cultura: non capita quasi mai, ci voleva forse anche l’esca del Ministro in carica con il suo predecessore. Poi ho capito che parleremo anche di politica, quindi faremo un secondo round più di attualità. Sono contento di essere qui, anche perché, come ha scritto Vittadini nel libro che introduce il Meeting di questo anno, è un posto di gente critica che ricerca la sua verità, lo cito grossolanamente, che cerca incessantemente la verità con il dialogo, con il confronto, mettendo idee anche differenti dentro un contenitore al quale tutti possono accedere, cercare di comprendere, dire la propria. Sono contento di parlare brevemente delle questioni importanti che sono state poste a proposito della cultura. Perché è vero ciò che diceva Rondoni all’inizio: se noi italiani siamo uniti da qualcosa, questo è la forza della nostra tradizione culturale, del nostro patrimonio. E l’identità della nostra patria, certamente con le sue straordinarie differenze, è legata a questo svolgersi immenso, straordinario, unico di pluralismo e ricchezza culturale. Anche legato ai conflitti: tu hai citato i Malatesta. Venendo a Rimini, ho fatto una scappata al Tempio Malatestiano, Alberti, Agostino Di Duccio, Piero della Francesca. Ho fatto un viaggio lento, mi sono fermato anche a San Sepolcro a vedere il museo civico e la cattedrale: devo dire che è impensabile presentare l’Italia come il Louvre, ecco un punto di dissenso.
L’Italia non è un grande museo centralizzato napoleonico, e non può esserlo. Anche i nostri grandi musei, come gli Uffizi, i musei Vaticani, i musei Capitolini che sono, come sapete, una collezione creata da Sisto IV, una donazione del signore di Roma alla città, un piccolo museo anche se preziosissimo, straordinario: la visione centralizzata del Louvre non si addice alla ricchezza, al pluralismo. Qui raccolgo la suggestione sulla sussidiarietà: l’Italia c’è l’ha già, bisogna organizzarla anche dal punto di vista della cultura e delle politiche pubbliche della cultura. Se andate in giro per il mondo, i giapponesi, i cinesi, gli indiani, i popoli emergenti – non stiamo parlando solo degli americani, che hanno due soli secoli di storia – sono ammirati dalle opportunità infinite della storia, della bellezza italiana, dell’integrazione tra storia, cultura, architettura, paesaggio, natura, talento e creatività: ecco la ricchezza di domani. L’Italia viene guardata come una superpotenza solo in un campo: noi siamo una media potenza, tendiamo a volerci diminuire ulteriormente, ma siamo sicuramente una superpotenza in quanto al patrimonio culturale. Allora, il patrimonio va attualizzato perché non venga vissuto soltanto come una cosa da spolverare sugli scaffali di casa: deve diventare un’occasione di lavoro, di ricchezza, di benessere e di rinnovata identità nazionale, da Otranto, dal barocco di Lecce alla meraviglia di Aquileia, per citare due luoghi che tu hai citato prima.
Quando ho fatto il Ministro dei Beni Culturali, abbiamo raccolto una rassegna stampa mondiale gigantesca, e anche molto positiva, per la battaglia che ho fatto per riportare in patria il patrimonio trafugato. Ho riportato in Italia, grazie a bravi avvocati dello Stato, a bravi tecnici, a bravi negoziatori e a una forte volontà politica, decine di capolavori che erano stati rubati dalla mafia, dal crimine legato a furti delle opere d’arte, alla loro commercializzazione. Non l’abbiamo fatto in chiave nazionalistica, siamo stati assistiti da un incredibile favore della stampa internazionale, molto meno da quella italiana, perché in Italia, in fondo, si pensa che i musei sono già pieni. Se Rutelli riporta la Venere di Morgantina, che adesso arriverà in Sicilia, o la moglie di Adriano, che abbiamo riportato a Tivoli, a Villa Adriana, la Vibia Sabina che era al museo di Boston, rubata dalla nostra terra, dal nostro suolo, alla fine abbiamo tanti musei, chi se ne importa! E’ tornato il Cratere di Eufronio, uno dei più grandi pittori della storia dell’umanità? E pazienza, ci sono già tanti di quei vasi! Mentre nel mondo si comprendeva che questa battaglia non era una battaglia nazionalistica contro le opere rubate, ma era per togliere l’impoverimento del contesto e riportare ad Ascoli Satriano, un posto spettacolare, dove c’è una civiltà antichissima, meravigliose opere che erano state strappate con la violenza.
Adesso si parla della politica, i costi della politica: considerate che solo il valore assicurativo di quel recupero che abbiamo fatto in quei due anni, delle opere archeologiche rientrate, è pari a 500 milioni di euro, solo il valore assicurativo, una crescita del patrimonio nazionale. E però, la cosa che mi ha colpito straordinariamente, quando ho fatto la battaglia, è stata che alcuni si opponessero a mandare L’Annunciazione di Leonardo a Tokyo. Tema controverso: è stata la mostra più vista nel mondo nel 2007, e ci ha portato lavoro, turismo, clamorosa pubblicità. Al seguito di Leonardo da Vinci, sono venute migliaia di imprese italiane che hanno fatto una spettacolare manifestazione che si chiamava Primavera Italiana, dove centinaia di migliaia di cittadini giapponesi sarebbero poi venuti in Italia a fare – se accolti bene – l’esperienza della bellezza italiana, ad attraversarla e viverla. Ecco, questo breve discorso sulla identità e sulla percezione dell’Italia nel mondo, attraverso la cultura, rischia di rimanere retorica, naturalmente, rischia di essere impoverito, a meno che non lo trasformiamo in politica. E anche qui, voglio raccogliere molte delle suggestioni che sono state tradotte in politica buona, positiva, condivisa. Penso che il nostro Paese si trovi di fronte al rischio grande, l’anno prossimo, con i 150 anni dell’Unità d’Italia, di vivere questo compleanno come una occasione retorica, noiosa, imposta, lontana. Oppure, come capita nella vita di ciascuno di noi, come una scadenza: uno compie 50 anni, o 18, o 20, o celebra le Nozze d’Oro.
Una scadenza potrebbe essere l’occasione per un esame di coscienza nazionale, per ragionare su chi siamo e cosa vogliamo. Questo introduce la parte più politica, perché non c’è dubbio che il patrimonio culturale, usato in positivo, sia la più potente modalità espressiva che abbiamo nel mondo: dobbiamo evitare che la retorica accompagni la scadenza del Risorgimento, della Comunità nazionale, che l’unità del Paese soffochi la capacità di leggere criticamente la nostra storia. E dico a Bechis: è evidente che la cultura sia contro. Se i finanziamenti sono usati per creare un filone di potere a favore degli uni e contro gli altri, è sbagliato, da sempre la cultura è contro il potere, a meno che non sia semplicemente organizzata e ammaestrata. Anche Caravaggio, con la sua espressione, diceva qualcosa che era sgradito ai suoi, ai Papi, ai committenti. Anche i grandi artisti, i grandi scrittori trovavano i codici, la cifra per poter dire ciò che veniva fuori dai loro sentimenti, dalle loro convinzioni, non necessariamente per compiacere il potente. Penso che in certo modo sia fisiologico che la capacità della cultura di andare contro il potere prevalga.
Allora, il punto di equilibrio tra le forme culturali di oggi e la capacità di arricchire il bene comune è la grande ricerca della cultura contemporanea. Però deve essere libera. Non deve essere di Governo e, sono d’accordo con te, non deve essere di una opposizione pre-organizzata e pre-colorata. Quando mi è stato chiesto quale sia stato l’errore principale che ho fatto come Sindaco di Roma, ho detto che è stato il proposito di dedicare all’ex – Ministro Bottai una strada, per un motivo fondamentale: Bottai aveva firmato le leggi razziali, ed è stato uno sbaglio, e giustamente la comunità ebraica si è ribellata ed io le ho dato atto di questo. A parte che Bottai, come sapete, votò contro Mussolini, andò addirittura a combattere nella Legione Straniera contro i nazisti, riscattò la sua collaborazione con il fascismo, e come Ministro della Cultura creò Cinecittà, l’Istituto del Restauro, quasi tutte le istituzioni che ancora oggi vivono: tutti i grandi artisti di sinistra del dopoguerra sono nati alla scuola di Bottai. Da Sindaco, in quel gesto, che aveva il limite che ho detto, vidi il senso di una apertura e anche la ricucitura di una ferita, di uno strappo che era stato molto grande. Tra l’altro, ad un altro Governatore di Roma era stata dedicata una strada, nessuno se ne era accorto: e io feci quel gesto, sbagliato, non so se generoso, non so se illusorio, il cui significato era proprio ritrovare il valore del pluralismo nelle nostre culture.
Amo molto di un ospite che viene di frequente al Meeting, Rémi Brague, che ha scritto un libro meraviglioso dedicato all’Europa, che si chiama Europe, la voie romaine, la via romana. Cosa dice Brague? Brague è un cattolico che insegna alla Sorbona, ed è anche un grande studioso dell’Islam contemporaneo, del rapporto tra le religioni: tende a demistificare, in modo molto incisivo, le tre religioni del Libro. Molto interessanti anche i suoi ultimi saggi. In questo Europe, la voie romaine, spiega cos’è l’Italia, secondo me, in un modo eccezionale: l’Italia è cresciuta lasciandosi attraversare dalle culture altrui. L’Italia è diventata una grande nazione, come i romani, ovviamente, che dicevano che la Grecia conquistata catturò il feroce conquistatore attraverso la sua cultura. Ma i romani la assorbirono, la fecero propria, la strutturarono: questa è la bellezza infinita dell’Italia, quella portata dai Normanni, da tutti coloro che, nei secoli, ci hanno attraversati, e che noi abbiamo avuto la capacità di trattenere un po’, per arricchircene. E per essere, noi, migliori, certo, attraverso le tragedie, le spaccature.
Se scendete cento chilometri a Sud di Rimini, andate a Senigallia e scoprite che, quando i Guelfi e i Ghibellini si sono combattuti, ci sono stati migliaia di morti. Se andate a vedere Senigallia, vi chiedete: com’è possibile, migliaia? Non ricordo se tremila o cinquemila morti, nelle lotte tra Guelfi e Ghibellini, solo in quel piccolo, importante borgo. Perché? Perché noi italiani amiamo molto dividerci o, come ha detto Rondoni, scannarci, tra cultura e politica. E forse, arrivati all’inizio del ventunesimo Secolo, varrebbe la pena di riflettere – e lo dico per primo, avendovi in parte concorso, contribuito – sul nostro bipolarismo politico. Questo bipolarismo che oggi purtroppo dà, sia a sinistra che a destra, prove molto critiche, molto difficili, segna un tempo che corrisponde alla peggiore tradizione della cultura nel nostro Paese, quella della partigianeria estrema. I momenti migliori, quelli in cui il nostro Paese si è espresso volando più alto, sono quelli che hanno saputo usare l’espressione forte, aspra, coraggiosa e controversa, dei facitori di cultura per unire, per crescere. E per rispettare l’opinione altrui.
Ecco perché oggi, traducendo questa riflessione in attualità, penso che il bene della nostra cultura possa diventare anche lavoro, posti di lavoro. Considerate che oggi la cultura nel nostro Paese si calcola faccia circa 40 miliardi di PIL. Vi cito solo due esempi, perché i politici devono essere misurati anche per le cose che hanno fatto, non solo per quelle che hanno detto, giuste o sbagliate. Qualcuno di voi avrà visitato la mostra di Caravaggio a Roma, alle Scuderie del Quirinale: ha avuto seicentomila visitatori paganti. Quel Museo l’ho costruito io, da Sindaco, in occasione del Giubileo. Era un posto abbandonato. Solo nel primo mese, il nuovo Museo dell’Arte Contemporanea a Roma ha fatto settantaquattromila biglietti paganti. E quel museo l’ho fatto non da solo, con il concorso di tanti Ministri che mi sono succeduti, però ho iniziato quando ero Sindaco, mettendoci poi tutti i soldi necessari nei miei venti mesi di esperienza. Perché dico questo? Perché ha assolutamente ragione, Rondoni: noi dobbiamo uscire dall’idea che la cultura sia soltanto la fotografia del nostro passato: la cultura è il più fertile terreno delle trasformazioni. Se non vogliamo usare la parola fotografia, usiamo film: è uno scorrere, un incontrarsi di eventi. Talvolta, uno scontrarsi di eventi. Ed è un’occasione di ricchezza enorme.
Ecco perché noi dobbiamo investire risorse pubbliche nella cultura, più di quelle che versiamo, per il semplice motivo che abbiamo in Italia quattrocento musei e aree archeologiche statali. Pensate, abbiamo in Italia più di trecento aree archeologiche sottomarine, che vanno in qualche modo protette, difese. Abbiamo però più di quattromila musei civici. Uno l’ho visitato oggi, quello di San Sepolcro, che è comunale. Ma ci sono quelli religiosi, quelli diocesani, ci sono quelli privati: un patrimonio immenso, che può dare lavoro a decine di migliaia di persone, e lo dà anche indirettamente. Si dice: “In America fanno tutto i privati”. Ma non è vero, che fanno tutto i privati! In America hanno delle detrazioni tali per cui una grande Fondazione, che ha messo da parte cento miliardi di dollari, ha un beneficio incessante nell’investire in cultura. E paga meno tasse, quindi lo Stato incassa di meno, sia la California o lo Stato di New York, sia a livello federale. Quindi non è vero quello che spesso diciamo: “Ma in Italia, abbiamo la spesa pubblica!”. La spesa è pubblica anche laddove è fatta di incentivi ai privati.
Noi dobbiamo fare incontrare qui la sussidiarietà. Lo Stato deve assolvere a un compito immenso: “Non ha neppure i soldi per la benzina per fare un sopralluogo, il Sovrintendente al piccolo museo di Locri”, diciamo. Oppure: “Non ha i soldi per fare un controllo”. Li dobbiamo dare, questi soldi, ma devono essere spesi bene. E dobbiamo aiutare i privati, con sponsorizzazioni, con finanziamenti, con altre opportunità, a concorrere a questa grande occasione. Perché, scusatemi, ma i seicentomila che hanno staccato un biglietto per vedere la mostra di Caravaggio a Roma, non hanno dato da lavorare a alberghi, ristoranti, guide, tassisti, le Ferrovie dello Stato? Non hanno pagato l’IVA, che è tornata allo Stato italiano per molti, molti milioni di euro? Vogliamo considerare che, se vogliamo essere orgogliosi nel mondo, dobbiamo dimostrare di aver capito quello che vale? Ecco, scusatemi se mi sono appassionato, mi sono dilungato, ma la cultura è vita e per l’Italia è più che mai il futuro.

FRANCO BECHIS:
Io faccio parte di una casta che è quella dei giornalisti, che normalmente entra gratis nei musei: solo per i giornalisti, ci saranno state 70 cerimonie di inaugurazione della mostra di Caravaggio, quindi immagino che su quelle abbiano fatturato poco.

FRANCESCO RUTELLI:
Hai ragione su questo. Infatti, quando sono entrato al museo di San Sepolcro, e ho pagato il biglietto, come sempre, e l’ha pagato anche mia moglie, la gentilissima custode ci ha riportato indietro i soldi: “Scusi, lei è venuto qua…”. “No, guardi” dico “ho sempre pagato”. E mia moglie, che è giornalista: “Ma io non sono mica qui per lavorare, sono qui come turista”. Sono 6 euro, è giusto darli al museo civico di San Sepolcro.

FRANCO BECHIS:
Certo, e purtroppo di ricevimenti con categorie che entrano a vedere le mostre e ovviamente poi non andranno più a vederle a pagamento, ce ne sono tanti. Una breve provocazione, poi ritorniamo sulla politica, su quello che sarà sicuramente uno dei temi del prossimo anno, i centocinquant’anni dell’unità d’Italia. Forse una delle provocazioni che fa capire anche quello che ci siamo detti è la discussione se quell’unità sia stata fatta sulla base dell’unità culturale di un popolo, o contro un popolo. Faccio questa domanda a Rondoni.

DAVIDE RONDONI:
Beh, io non sono uno storico, non posso dare una risposta precisa ed esatta. Però volevo partire da una cosa che ha detto prima Francesco Rutelli, citando Remi Brague, l’Italia come via romana, cioè come un posto che, facendosi attraversare, ha continuato ad arricchirsi culturalmente, tranne la Sardegna, che non l’attraversava nessuno perché non si andava da nessuna parte. È vero che noi ci siamo fatti attraversare, e per questo siamo stati sempre più ricchi, ma anche una gentile signora può farsi attraversare da tanti – per usare una metafora un po’ leggera -, però, o la signora lascia un segno oppure si considera da poco. Andate a vedere la Croce di Re Desiderio a Brescia. I barbari che sono arrivati in Italia hanno trovato qualcosa che non hanno più dimenticato, la cultura cristiana. Perché è grazie alla cultura cristiana che l’Italia, facendosi attraversare, è diventata ricca. Perché, se non hai qualcosa di talmente originale che chi ti attraversa si ricorda di te, sei solo una landa desolata. L’Italia non è stata una landa desolata perché, oltre ad essere un posto che si è fatto attraversare, è un posto che offriva una grande questione, in particolare è stata la terra di certi signori che si chiamano san Francesco, san Benedetto. Era la terra dei Papi, era la terra dove la grande arte cristiana ha influenzato tutte le arti che sono venute qua.
Perché lo dico? Perché, come giustamente sottolineava Rutelli, questo valore che ci è riconosciuto in tutto il mondo non è un valore generico ma è un valore alla cultura che ha dentro di sé un tratto dove l’elemento religioso e l’elemento umanistico – perché religioso e laico non vogliono dire niente – hanno trovato forme di sintesi straordinarie. Citavo prima la Croce di Desiderio, che potete vedere a Brescia, una delle cose più commoventi del mondo. O si può vedere Michelangelo come il grande incontro tra la cultura classica e la grande ipotesi della incarnazione cristiana. Perché quando parliamo di cultura, la cultura italiana, non parliamo di cultura in generale, parliamo di una cultura che ha certe caratteristiche, senza le quali, o se si va contro le quali, non si parla più di cultura italiana ma si fa un discorso generale. Faccio un piccolo esempio per arrivare alla polemica spicciola che piace a Bechis: se un signore che si chiama Umberto Eco, portato da tutti i Ministeri della Cultura, da tutti gli studi della cultura italiana, in giro per il mondo come se fosse la Madonna Pellegrina, scrive che Dante Alighieri è un retrogrado di destra – non l’ha scritto oggi, è dagli anni Settanta che lo scrive -, vuol dire che dobbiamo intenderci sulla cultura di cui stiamo parlando. Per questo, vengo anche alla cosa che diceva prima Bechis: sì, possiamo dire che è vero che una certa cultura legata all’ideologia ha avuto più campo in Italia. Però mi ricorda una cosa che diceva giustamente don Giussani, che era uno che non perdeva tempo a lamentarsi, perché lamentarsi non serve a niente. Diceva una cosa molto interessante: “I parroci hanno fatto i cinema nelle parrocchie, ma i film li facevano gli altri”. Qui c’è la patria di Fellini: quella che poteva essere una grande chance della cultura, anche in campo cattolico, è stata completamente lasciata ad altri. I parroci facevano le sale, ma i film li facevano i comunisti e li proiettavano nelle sale parrocchiali. Scherzo, è solo una battuta! Però quello che ha detto Bechis è storicamente avverato, finalmente se ne comincia a parlare liberamente.
È vero che c’è stata un cappa culturale e ideologica molto forte, certe cose non sono uscite, ancora ne devono uscire tante, soprattutto in campo storico. E qui torno alla domanda che mi hai fatto. Ma è anche vero che c’è stata una grande pigrizia, una grande inedia, una grande mancanza di passione, che io imputo in maniera enorme al mondo cattolico. Scusate, che a Rai Uno il capo della cultura sia Marzullo, non è colpa dei comunisti, detta in maniera molto diretta. Perché, e qui vengo al tema, dobbiamo occuparci dell’Unità d’Italia, e la televisione è uno dei grandi modi con cui si può fare la cultura in Italia, il grande editore è la Rai. Bene, in Italia, a Rai Uno, che è la vedetta, la rete ammiraglia, la cultura è in mano a Gigi Marzullo. Questa non è colpa dei comunisti. Ci possiamo lamentare, però vuol dire che c’è molto da fare. Alla tua domanda, rispondo che ormai è accertato che l’Unità d’Italia, costruita grazie all’idea di Cavour e non solo, del mondo risorgimentale, e all’azione, nel suo aspetto più limitato, di Garibaldi, che forse ha fatto più scena che altro, è una cosa che è andata contro un certo costituirsi del potere. Mi raccontavano che a Napoli ci sono le lettere del Re Borbone che veniva cacciato e diceva: “Ma come, lo straniero? Io sono nato a Napoli, parlo napoletano! Lo straniero sono io?”.
Si è fatta un po’ di confusione da questo punto di vista, sono d’accordo. Perché l’Italia è stata molto attraversata e molto governata dagli altri. Quindi, quando attraversavano, se si trovavano bene, si fermavano; e poi sono arrivati altri che hanno cacciato invasori che hanno cacciato invasori. Bastava vedere dove abitava Garibaldi, a un isolato da Buckingham Palace, per capire da dove veniva il Risorgimento italiano. Detto questo, però, insisto: sarebbe una perdita di tempo, in occasione dei centocinquant’anni dell’Unità d’Italia, soffermarsi sull’aspetto geopolitico. Non solo perché sono convinto che l’Italia possa cambiare i suoi confini, interni ed esterni, essendo una terra di attraversamenti e di confini. Il Governatore del Friuli Venezia Giulia, l’altro giorno, mi diceva: “Io non ho il problema dell’unità d’Italia in termini teorici. Ho il problema che il fabbro che abita sul confine, se sta dalla parte italiana paga il 50% di tasse, se sta dalla parte slovena paga il 20%. Il mio problema, come Governatore del Friuli, è stabilire un contatto, un rapporto per cui la fiscalità sia uguale, se no lavorano soltanto i fabbri dall’altra parte. Noi possiamo parlare dell’Unità d’Italia, ma gli altri lavorano”. Questo è un problema che l’Italia ha sui vari confini, non solo con il Friuli Venezia Giulia. Per dire, appunto, che incistarci e arrovellarci su una discussione che abbia a che fare con il problema geopolitco-storico, è sbagliato.
Affrontiamo invece la matrice culturale dell’Unità d’Italia. Qui si può anche discutere animatamente. Il Risorgimento ha portato a una nuova identità culturale, di cui il fascismo fu il primo grande interprete – il fascismo si presentò come il nuovo Risorgimento -, oppure al primo fallimento è succeduto un altro fallimento? E allora, bisogna ricomprendere la storia d’Italia, ma non solo il Risorgimento, bisogna ricomprendere il fascismo. Come sapete, all’inizio era un movimento di sinistra. Quindi, se vogliamo fare un lavoro sull’Unità d’Italia, bisogna ricomprendere fenomeni culturali che hanno radici profonde, che non sono successe appena centocinquant’anni fa. Se no, la discussione sull’Unità d’Italia rischia di diventare pretesto per parlare d’altro. Insisto, negli stessi giorni in cui, su tutti i giornali italiani, c’era la polemica sulla casa a Montecarlo, tre pagine dopo, ma non in prima pagina, si faceva vedere che in Italia la secessione c’è già. Citavo prima i dati dell’Invalsi sulla scuola: allora, di cosa stiamo parlando? Parliamo di divisioni del signor Bocchino con il signor Granata – già, è un nome con poca fortuna – e con quell’altro e con quell’altro ancora, oppure parliamo della divisione tra il ragazzino di undici anni, siciliano, e quello di Milano? Se vogliamo parlare di Italia, parliamo di questa seconda cosa, se vogliamo parlare di qualcos’altro, vedete voi.

FRANCO BECHIS:
Devo dare una spiegazione anche su Gigi Marzullo, so perché è ancora così potente in Rai: è semplicemente perché lui sta all’una e mezza, due di notte. Quando arrivano i nuovi Consiglieri di Amministrazione in Rai, cambiano i Direttori dei Tg, i Direttori dei programmi, e cominciano da quelli più importanti. Quando arrivano a quello dell’una, due di notte, saltano i Consigli di Amministrazione, i Governi e le maggioranze, e resiste Marzullo, che è uno dei più antichi professionisti della Rai, ha la cultura da decenni. Siamo finalmente arrivati a quello che sta accadendo in politica, a chi trova riparo in un appartamento a Montecarlo per sfuggire alla secessione italiana, a tutto quello che si è messo in moto, che a dir la verità si è messo in moto in una maniera un po’ curiosa, perché si è mosso nel centrodestra. E’ stato Giancarlo Fini, che si è staccato, segnando una diversità su temi che appartenevano alla tradizione cristiana: fecondazione assistita, ecc. Da lì è iniziato lo strappo di Fini dal centrodestra: lo stesso motivo, ma esattamente opposto, della diversità di Rutelli, la sua difesa di una tradizione diversa ha provocato lo strappo dal centrosinistra, dove non riconosceva più il rispetto di un’ identità che aveva vissuto prima con la Margherita. Curiosamente, queste cose che hanno rimesso in moto il bipolarismo, in fondo, una contro l’altra dal punto di vista culturale, avvengono per motivi diametralmente opposti: la novità è che si mettono insieme, queste due cose che sembrano il giorno e la notte. Rutelli, Fini, Casini: quelli che hanno fatto lo stappo anticristiano contro quelli, come Rutelli e Casini, che sono un po’ il simbolo di quel che resta dei politici cristiani, l’eredità della DC, insomma, quella che c’era nella Margherita e nell’UDC. E’ una cosa ben strana, che il nuovo nasca da questa unione degli opposti. Come fate poi a stare assieme, sempre che abbiate intenzione di farlo, è incomprensibile.

FRANCESCO RUTELLI:
Intanto, la rottura tra Fini e Berlusconi non ha propriamente questa origine, anche se è stata accompagnata da alcune differenze su temi che avevano segnato tradizionalmente la destra italiana, come l’immigrazione. Il punto riguarda, ovviamente, il rapporto tra queste due personalità, e non tocca a me fare analisi puntuali perché tutti voi che siete qui, oggi, avete ben chiaro da dove nasca questa difficoltà e perché. Forse, posso dire di averla prevista in anticipo quando abbiamo deciso, con altre amiche e amici, di lasciare il partito democratico, con rammarico, con dispiacere, e dunque di dare una lettura critica del cammino del PD. In quell’occasione, abbiamo anche dato una lettura sulla previsione della ineluttabilità di una frattura tra Berlusconi e Fini. Terza mia valutazione, allo stesso modo politicamente riconosciuta, una previsione sulla enorme crescita di influenza della Lega, che avrebbe determinato uno squilibrio profondo. Questo per quanto riguarda il vero elemento della rottura tra i due, poi vengo anche al tema cattolico.
Il centrodestra in Italia è nato anche con delle suggestioni interessanti, stimolanti, nel ’93, ’94, proponendo una rivoluzione liberale, proponendo un forte antagonismo nei confronti della sinistra, dei magistrati di sinistra, delle tasse. Tra le caratteristiche fondanti, molto forte era il carattere contro, così come, dall’altra parte, è venuto formandosi un antagonismo a Berlusconi come elemento identificativo e di unità, contro Berlusconi. La rottura, secondo me, sta nella crisi dell’equilibrio del centrodestra che è nato con quattro leader che, in fondo, esemplificavano questo pluralismo: Berlusconi, Fini, Casini e la Lega, quando la Lega era un movimento regionale. E’ evidente che avere oggi il centrodestra italiano ridotto a Berlusconi e Bossi, è un cambiamento radicale, è un cambiamento profondo: questo è l’elemento politico. Così come, per me, nel centrosinistra, non è riuscita l’idea di dare vita, nel partito democratico, ad un nuovo pensiero, ad una nuova elaborazione, ad una nuova lettura, più vera, della società italiana. E dunque abbiamo iniziato in maniera ardimentosa, forse anche troppo sconsiderata rispetto ai poteri reali di cui disponevamo, un cammino che per altro ha accomunato persone molto diverse. Mi permetto di dirlo perché qui, in prima fila, c’è Elvio Ubaldi, che è stato Sindaco di Parma e fa parte del nostro movimento: è andato con una posizione centrista e ha sconfitto la sinistra a Parma, ha governato molto bene la città per due mandati, si ritrova in questa nostra riflessione critica verso un bipolarismo radicalizzato, esasperato, che alla fine, i risultati, ragazzi, non li porta a casa, perché si trovano scontenti al centrodestra e al centrosinistra, centristi, cattolici liberali, ognuno ci metterà la sua definizione. Forse ci siamo resi conto che quella che doveva essere, in Italia, l’idea di avere un centrodestra europeo e un centro sinistra moderno, non è riuscita, anzi, ha teso a formare due partitoni, all’interno dei quali non vanno d’accordo: la sinistra è diventato come il PDS, contro cui, di per sé, non ho niente, ma non è il progetto dal quale siamo partiti; e a destra, il partito di Berlusconi, nel quale evidentemente Fini si trova con qualche difficoltà che certamente sta argomentando.
Il tema cattolico è molto importante e, siccome siamo al Meeting, lo voglio affrontare come uno degli argomenti sui quali dovremo riuscire a mantenere, come sulla cultura, qualcosa di grande e profondo. Come sulla cultura, diceva Rondoni, dovremo riuscire ad avere una comprensione e alcuni momenti di convergenza, assolutamente di tutti, anche sulle procedure, sulle norme, sugli incentivi, sulle cose materiali, e non solo sulle grandi idee e sulle grandi visioni. Insomma, noi ci troviamo qui, in uno dei pochi posti nei quali vengono a parlare esponenti politici dei diversi schieramenti. Penso che, dopo una stagione nella quale una parte importante di elettori ha scelto di andare a destra perché non voleva la sinistra, forse la stagione delle cambiali firmate in bianco potrebbe essere finita. Vedo come un aspetto piuttosto interessante la posizione di CL in quest’ultimo periodo, alcune osservazioni giustamente critiche e aperte, o meglio, fautrici di quel pluralismo che si dovrebbe respirare a pieni polmoni e di cui i cattolici italiani, i laici credenti, dovrebbero essere i primi alfieri, coloro che cercano punti di convergenza per il bene comune e, dunque, contribuiscono a svelenire questo terrificante antagonismo di due poli armati, che definiscono la propria identità l’uno contro l’altro, e la propria esistenza in quanto c’è l’altro da combattere.
E’ la richiesta, credo, che ci è venuta da un Cardinale che oggi è Papa, se non ricordo male, nel 2002, quando ha detto che i cattolici non possono abdicare alla politica: questo vuole dire che bisogna cercare di testimoniare alcune convinzioni senza retorica. Fatemi dire una cosa: io mi confronto laicamente con Fini, con Casini, vediamo quali sono i punti di convergenza ed eventualmente di differenza, ma facciamolo laicamente. Affrontiamo i temi che interessano i cristiani che vivono nella società: e fatemi dire che uno dei temi che oggi viene vissuto in modo distorto è la famiglia. La famiglia è presentata nel nostro Paese come una problematica di deduzioni, detrazioni, complicati quozienti familiari. Il problema della famiglia in Italia è che la famiglia non c’e la fa più. Chi è credente ha una motivazione in più, se posso permettermi, ha un motivo di orgoglio in più, e una ispirazione da tenere in campo quando si parla di questi argomenti: lo fa con sobrietà, senza salire sul pulpito, possibilmente portando qualche testimonianza. La famiglia: vogliamo mettere alla prova schieramenti, coalizioni, su qualcosa di più che due lire di detrazioni, che poi, come vediamo, non fanno differenza sull’inquietudine delle nostre famiglie oggi. Chi ha dei figli – io ne ho 4 – sa bene che il problema delle famiglie è un modello culturale che è cambiato spettacolarmente. Chi ha figli di 11, 13, 14 anni, sa che è molto difficile parlare loro come si parlava a noi, quando avevamo la loro età, non solo per i mezzi della comunicazione di oggi, ma per la modalità, il contenuto della comunicazione. In che consistono i problemi della famiglia? Nella droga, nell’alcool, nelle pasticche, in una confusione che oggi i genitori non sono in grado di affrontare da soli, nella possibilità del lavoro che non c’è, nella dimensione di una famiglia che si allunga negli anni, nei decenni, per cui ci sono i nonni che, finché hanno la pensione, pagano loro per i nipoti che non hanno lavoro. E quando poi diventano non autosufficienti, perché arriva una malattia degenerativa, arriva l’Alzheimer, il Parkinson, arrivano problemi seri e gravi, non hanno nessuno, salvo poche situazioni, ad assisterli.
Questo è il tema della famiglia, di chi fa figli oggi nel nostro Paese. C’è una celebre frase di un grande scrittore cattolico di un secolo fa: “Il vero avventuriero del mondo moderno è il padre di famiglia”. Péguy lo diceva cent’anni fa, ma oggi la madre di famiglia, il padre di famiglia, come possono rispondere del fatto che si spacciano pasticche distruttive nel cortile di una scuola, a bambini di 11, 13 anni? Chi ha la forza di farlo, qual è l’alleanza tra famiglia, scuola e istituzioni che permetta di affrontare questi temi? Chi si deve occupare di questo, se non i cattolici italiani che lo fanno? E chi dovrebbe interpellare, sfidare la politica, le coalizioni, i partiti, i Governi, i Ministeri, i leader o i Rappresentanti territoriali, per dire politica invece che poli, ricomposizioni, coalizioni? Invece di parlare del divorzio tra Fini e Berlusconi, che adesso magari Fini, dopo aver divorziato da Berlusconi, si fidanza con Rutelli e Casini? Occupiamoci dei problemi di cui la politica, oggi, fatica tanto ad occuparsi, lavoro, reddito, piccola impresa, noi: qualche argomento in più lo dobbiamo mettere in campo ogni giorno, perché abbiamo questa occasione questo evento che, come ricorda sempre don Giussani, attraversa la nostra esistenza e la cambia.
Io penso che oggi noi dovremmo, perdonatemi, voi dovreste interpellare, voi Meeting, voi CL, voi realtà nel territorio, voi volontariato sociale, voi organizzazioni del terzo settore, voi mondi attivi della società italiana, tutti, per spostare il dibattito da alleanze basate sul litigio tra i leader, all’agenda che interessa e tocca la vita delle famiglie italiane. Penso che, se uscisse questo dal Meeting, dareste un bello schiaffo, non a Berlusconi, al Governo, a Fini, a Rutelli, a Tizio e Caio, ma a una politica autoreferenziale, debole perché inconcludente.

FRANCO BECHIS:
Sarebbe un’ottima chiosa ma volevo chiedere ancora qualcosa.

FRANCESCO RUTELLI:
Vai, vai, se vuoi ti do risposte rapide a domande rapide.

FRANCO BECHIS:
Rapide, rapide, perché comunque fa un certo effetto. Come dire, l’Italia sarà stata fatta nei secoli da Guelfi e Ghibellini, ma il bipolarismo come lo conosciamo noi è stato fatto da Francesco Rutelli e Gianfranco Fini nel 1993, perché nasce su quello, su quello scontro tra i due candidati a Sindaco di Roma. Ce n’era uno che veniva dalla storia radicale e l’altro dalla storia, diciamo, fascista, ma anche cattolico-tradizionalista, perché quelli erano i valori del Movimento Sociale. Ci ritroviamo, dopo dieci anni, non voglio dire che Rutelli è diventato fascista e Fini radicale, la seconda sì, ma quasi. Per di più, ci hanno insegnato che bisognava scontrarsi con botte da orbi, perché quella campagna elettorale fu una delle più vivaci. Hanno fondato il metodo Seconda Repubblica, e ci dicono pure che devono stare insieme sui problemi. Magari, qualche perplessità su questo tema ci sta, visti i protagonisti.

FRANCESCO RUTELLI:
Hai ragione, è ultralegittimo, però ti dico una cosa che può sembrare strana: nei Comuni, è ovvio che tu devi avere un Sindaco, uno che vince, uno che perde, dei candidati, perché è l’amministrazione, non è la politica, fondamentalmente ci si misura sulle cose da fare. E’ chiaro come un orientamento ci possa essere, però anche questo sta molto cambiando. Ho citato, ripeto, il caso di Ubaldi, una tradizione di buon Governo parmigiano. Si chiamava Civiltà Parmigiana, la sua coalizione, ed è giusto e vero, e in fondo, chapeau. Quando andavo a Parma, dicevo: “Questa è una città bene amministrata”. Poi, quelli che stanno con me sono stati sconfitti e lui, in fondo, si è trovato poi a disagio di fronte ad una trasformazione che si è venuta radicalizzando dal lato della destra, visto che aveva voluto sconfiggere una certa sinistra vecchia e chiusa. Quindi, il cambiamento è enorme. Scusami, guardate il Regno Unito, per dire un tema politico: sono arrivati due ragazzi, perché sono giovani, Cameron e Clegg, hanno 45 anni. Clegg è un mio buon amico, il leader dei liberal-democratici inglesi, l’Inghilterra ha due secoli di bipartitismo, non di bipolarismo: per due secoli, solo quello, laburisti e conservatori. Negli ultimi anni, sono venuti fuori i liberal-democratici, molto vivaci su una serie di temi, e in 24 ore sono passati dall’ideologia del bipolarismo, addirittura del bipartitismo, a un Governo di coalizione che, per ora, sta funzionando bene e sta mettendo in campo anche delle ricette molto coraggiose sull’economia.
E guardate, che l’Inghilterra non sta mica bene, eh? L’Italia ha avuto un deficit intorno al 5, l’anno scorso, il Regno Unito un deficit sopra l’11: ha problemi molto seri, stanno danno un taglio drammatico alla spesa pubblica. Su che cosa si devono unire, oggi, quelli che magari hanno litigato ieri? Secondo me, dobbiamo ridurre il perimetro della spesa pubblica, c’è poco da fare, dobbiamo dare più spazio alla sussidiarietà, più spazio alla società, dobbiamo dare più capacità di creare ricchezza e lavoro e dobbiamo, naturalmente, investire sulle cose che contano. Perché, scusatemi, sapete che l’Italia ogni anno spende 70, 80 miliardi di euro: è come se si corresse la finale delle Olimpiadi. Nei 100 metri, l’Italia parte 7 metri indietro: può sperare di arrivare non troppo distaccata, ma ultima. L’Italia spende ogni anno 70, 80 miliardi di euro di interesse sul debito. E’ chiaro che dobbiamo uscire, è chiaro che dobbiamo adottare ricette coraggiose, perché altrimenti oramai, a livello finanziario, si scommette, come sulle partite di calcio, sul fallimento degli Stati. La crisi della Grecia è partita perché è partito un grande treno di scommessa sul fallimento della Grecia. E tutti noi abbiamo dovuto metterci fior di soldi: l’Europa, adesso non ricordo, credo ci abbia dovuto mettere 700 miliardi come impegno pluriennale, per evitare questo fallimento.
E allora, vogliamo accettare che si scommetta sul fallimento dell’Italia? Siamo ancora a discutere di Guelfi e Ghibellini, o vogliamo capire se in Italia ci sia la possibilità di concorrere alla crescita, anziché continuare a lucrare su coalizioni che vincono, conquistano il potere, ma alla fine non ce la fanno a risolvere i problemi? Guardate, io ho votato, lo ricordavamo con Bechis prima, convintamente, la Riforma dell’Università. Intanto, il Governo si è impegnato a metterci i soldi: o li mette, oppure ci avranno preso in giro, perché è evidente che si finanzia la Riforma, ovvero più merito nell’Università, più efficienza, meno sprechi. E’ giusto, era ora, ma posso dire che questa è la prima Riforma che mi è stata data l’occasione di votare. Ditemi voi quali sono state le altre Riforme importanti: mica l’etilometro? Contenere l’immigrazione clandestina? Sono favorevole, tra l’altro al Provvedimento di accordo con la Libia, che partiva da uno che aveva fatto il Governo precedente. Ho votato, ovviamente, la politica estera, le missioni dei nostri militari, una serie di misure: è giusto votarle, è repubblicano votarle, ma mi dite quali sono le Riforme vere che si sono fatte in Italia? Se qualcuno viene in Parlamento e mi dice, finalmente, Riforma della giustizia, non quelle piccoline, settoriali, che interessano la risoluzione del problema di qualcuno, che poi, tra l’altro, non viene mai risolto. Io credo che, veramente, il problema principale di Berlusconi sia che si deve scegliere dei bravi consulenti dal punto di vista delle attività, della normativa in campo legale, perché siamo inchiodati da una quindicina di anni a fare tutte leggi che dovrebbero allontanare l’attacco giudiziario, e poi, queste spese qua, non si approvano mai, però, chiusa la parentesi.
E’ giusto separare, è giusto spersonalizzare il ruolo del Pubblico Ministero. Io vorrei dei Pubblici Ministeri più sobri, non vorrei conoscerli, non vorrei vederli intervistati in televisione, li vorrei che fanno il loro lavoro, sobriamente, seriamente, professionalmente, che non siano leggibili come figure politiche. E penso che tutti gli italiani sarebbero molto contenti di questo, però li vogliamo liberi, che possano prendersela con il Presidente del Consiglio, Bechis, con il Presidente del Consiglio, Rondoni, con il Presidente del Consiglio, Elena Torri, Vicky, ecc. E se sbagliano, rispondono. Addirittura, si fece un referendum in Italia che non è stato poi applicato: separazione, bene; maggiore chiarezza, bene; riforma del processo civile, ma autostrade spianate, davanti a questo Governo, se fa davvero la Riforma della giustizia. È un esempio, il più scomodo di tutti. E’ stata approvata la legge per la banca dati del DNA, quella che serve per identificare eventuali colpevoli dai dati biometrici. È una legge anche mia, è una legge impastata di 5, 6 proposte di legge, la parte di Riforma del Codice è presa dal mio disegno di legge, ne sono orgoglioso. E’ merito del Governo, ben venga, è utile per il Paese. Ci sono misure di contrasto alla mafia, che fa il Ministro dell’Interno? Pieno, totale sostegno. Vogliamo fare le Riforme della giustizia per evitare che un processo duri 15 anni? Perché non si sono fatte fino ad ora, perché non si è migliorata la giustizia civile? Perché la priorità è stata messa su altre cose.
Bechis, noi siamo pronti ad andare in Parlamento a sostenere le Riforme come quella dell’Università, le riforme che servono a migliorare l’economia, il funzionamento delle istituzioni nel nostro Paese. Se la maggioranza ci dà l’occasione di votarle, noi siamo pronti a votarle, restando all’opposizione. Perché qualcuno ha vinto le elezioni, e io sono d’accordo con quelli che dicono che c’è una maggioranza che ha vinto le elezioni e deve governare, e l’opposizione deve avere un ruolo di preparazione di un’alternativa, di responsabilità e di proposte: questa è la linearità democratica. È chiaro che oggi, scusami, e concludo, noi abbiamo l’idea che non se ne esce da questo “io esisto perché ti combatto”. E la nostra idea che si possa creare uno spazio centrale nuovo, propositivo, secondo me, l’hanno molti milioni di italiani, che si sono astenuti nelle ultime elezioni proprio perché non ne potevano più, di questo. Tutti quelli che hanno delle idee, le mettano in campo: un nuovo polo, secondo me, può avere in Italia un grande successo, poi si faranno le alleanze che saranno presentate lealmente davanti agli elettori.

FRANCO BECHIS:
Grazie, Rutelli. Giusto per concretizzare rispetto a quello che accade oggi in Italia, Rutelli ha fondato un nuovo partito, è uscito dal suo, si è dimesso anche dagli incarichi, era Presidente del Copasi e ha lasciato l’incarico: tipo, non so, uno fa il Presidente della Camera, fonda un nuovo partito e si dimette dalla Presidente della Camera. Cose che non accadono in Italia, invece con Rutelli questo è accaduto: ma detto questo, oggi la maggioranza non c’è più, e quindi tutto questo sforzo che sta raccontando… Bisognerà aspettare una settimana, ma se Fini si è staccato i numeri non ci sono più, almeno in una Camera.

FRANCESCO RUTELLI:
Sì, ma non è mica colpa mia.

FRANCO BECHIS:
No, non è colpa sua, ma tutto il lodevole intento di andare ad approvare Riforme, è un po’ irrealistico perché, in queste condizioni, un Governo, grandi Riforme non le può portare davanti al Parlamento.

FRANCESCO RUTELLI:
Però, scusa, loro hanno detto 5 punti, vediamoli, se questi 5 punti siano ragionevoli. Il punto 1 è la crescita economica: se l’Italia sta inchiodata qui, a 0,1, 0,9 di crescita, dovendo pagare 80 miliardi l’anno di interessi sul debito, è chiaro che avremo scuole più povere, meno infrastrutture, meno investimenti, meno ricerca, meno cultura. E ogni anno andiamo indietro, abbiamo bruciato ricchezza, come si ricrea la ricchezza? Dando lavoro alle piccole imprese italiane. Qua in Italia, stiamo continuando a discutere: oggi si discute di Melfi, giustamente, è un tema, per carità, io penso che la legge debba essere rispettata e applicata. Però, se andate cercando un tema su cui in Italia c’è la secessione, Rondoni, è questo: un’Italia nella quale c’è il mondo della fabbrica e del sindacato, in cui si pone il problema del reintegro di 3 dipendenti, mentre abbiamo milioni di nostri figli, di ragazzi, di giovani che non avranno un lavoro a tempo indeterminato. La secessione tra l’Italia, tra le Italia diverse: è stato uno dei problemi grandi della sinistra, la sinistra è andata nel Nord per parlare al popolo del Nord, come se ci fosse ancora la Mirafiori, la vecchia fabbrica e il vecchio sindacato. E invece, i vecchi operai erano diventati tutti Partite IVA e piccoli imprenditori, si sono messi in proprio e hanno votato PDL e Lega. Questo è stato il punto drammatico della crisi della sinistra del Nord. Vogliamo parlare delle Riforme da fare? Io la accetto, questa sfida.

FRANCO BECHIS:
Voterebbe i 5 punti, se fossero convincenti?

FRANCESCO RUTELLI:
No, voterei contro la fiducia perché sono all’opposizione, però, se tra questi punti c’è, per esempio, la ricetta di Draghi per il Mezzogiorno, io la voterei. Se ci fosse la ricetta sulle liberalizzazioni dell’Antitrust, la voterei volentieri. E voglio trovare uno dei miei elettori che mi dice: “Hai sbagliato, perché siccome la Riforma è giusta, tu sei contro Berlusconi e devi votare contro”. Non ne troverei, tra i nostri elettori. Ci direbbero: “Hai fatto bene, perché è una cosa che fa il bene del Paese”.

FRANCO BECHIS:
Grazie a Francesco Rutelli e grazie a tutti voi, perché l’abbiamo tirata un po’ in lungo. E buon appetito, perché dovete correre a trovare da mangiare.

(Trascrizione non rivista dai relatori)

Data

23 Agosto 2010

Ora

19:00

Edizione

2010

Luogo

Sala Neri
Categoria
Incontri