GRATUITÀ E DONO FATTORI DELLO SVILUPPO ECONOMICO

Partecipano: Riccardo Bonacina, Presidente e Direttore Editoriale di Vita Non Profit; Marco Lucchini, Direttore Generale della Fondazione Banco Alimentare Onlus; Alejandro Marius, Presidente dell’Associazione Civile Trabajo y Persona, Caracas; Silvano Petrosino, Docente di Semiotica all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Introduce Monica Poletto, Presidente della Compagnia delle Opere – Opere Sociali.

 

GRATUITÀ E DONO FATTORI DELLO SVILUPPO ECONOMICO
Ore: 11.15 Sala C1 Siemens

MONICA POLETTO:
Buongiorno a tutti e bene arrivati. Grazie dell’applauso per i nostri ospiti. Tema dell’incontro è la gratuità e il dono come motori dell’economia. La recente crisi ha messo in luce la fragilità di certi modelli economici che prescindono dalla persona, l’abbiamo detto e visto in tanti modi: si è pensato che attraverso dei meccanismi si potesse arrivare ad una situazione almeno di sostenibilità, e abbiamo visto che non si è realizzato. Altresì, in questo Meeting abbiamo avuto modo di parlare in modo diverso di economia e abbiamo posto, proprio all’inizio del nostro stand della CdO, un’opera che in realtà rappresenta anche un modello economico diverso, il Duomo di Milano, dove la gratuità sentita come fattore sorgivo del popolo ha realizzato un’opera importante ma soprattutto ha portato un beneficio anche economico alla città di Milano. Abbiamo voluto affrontare il tema del rapporto tra gratuità, dono ed economia in un modo un po’ particolare, innanzitutto con un professore bravissimo e importante, che ha affrontato in modo estremamente interessante ed originale questo tema. Poi, attraverso tre esperienze: una parte da un punto di vista molto esteso. Riccardo Bonacina, direttore di Vita, nel suo lavoro vede esperienze di questo tipo e gli abbiamo chiesto di raccontarcele. Attraverso due esperienze di singole opere, una italiana e una internazionale, a nostro avviso la dimensione della gratuità e del dono come fattore dello sviluppo economico diventa emblematica. Perciò passo innanzitutto la parola al professor Petrosino, che sinteticamente descrivo come docente di Semiotica all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, perché il suo curriculum in realtà è lunghissimo. Ha fatto un’affermazione che forse avete modo di leggere sul Quotidiano Meeting: a mi è piaciuta molto. Dice: “Non abbiamo bisogno di una economia del dono, abbiamo bisogno di una economia all’altezza del suo nome”. Gli chiederei di approfondire questa affermazione. Grazie.

SILVANO PETROSINO:
Grazie. Si, devo dire che, come capita sempre, si sviluppa facilmente una retorica, e così si è sviluppata facilmente una retorica del dono e della gratuità. Se si dovesse dire di che cosa abbiamo bisogno, riconfermo l’affermazione dell’intervista: non abbiamo bisogno di un’economia del dono, non abbiamo bisogno di un’etica degli affari, sono tutti termini che adesso si stanno usando. Avremmo bisogno semplicemente di un’economia. Il problema, come sempre, è tentare di capire cosa è l’economia. Io dico – mi sembra una cosa non particolarmente geniale, mi sembra proprio banale – che l’economia non è il business. Negli Stati Uniti è scomparso il termine economia, economy, c’è il termine business: ma il business non è l’economia, perché ha come preoccupazione unica il tema del profitto. Il profitto non è il male, soltanto che, come in tutte le cose dell’uomo, quando vengono assolutizzate c’è quel fenomeno che, in termini biblici, si chiama idolatria: il profitto non è male ma facilmente lo diventa. E quando diventa male? Quando la ricerca del profitto diventa l’unico motore, l’elemento compulsivo. Un mio amico che lavora in Borsa – lo ripeto sempre e mi scuso con Riccardo che l’ha già sentita dieci volte – mi spiega: “Sai quando si fa un business? Sai quando si fa un affare? Quando al mattino si svegliano uno furbo e uno fesso e i due si incontrano”. Se fai un business, un affare, qualcuno lo subisce. Certo che le magliette nel Bangladesh costano meno, e per forza, si chiama sfruttamento. Perché se no, tu non fai un business, tu paghi il giusto: se ci mettiamo d’accordo che tu mi dipingi la stanza e io pago il giusto, non è un business. Se io guadagno molto, qualcuno perde molto. Sono cose che si sanno. Ora, il termine economia, che non è business, ha dentro l’elemento che dice questa cosa perché economia è una parola composta da nomos e olcos, legge della casa. Se pensiamo alla casa, potremmo dire cose bellissime: ma chi è che vuole fare un business col figlio, con la moglie? C’è la preoccupazione, certamente, una casa ha bisogno di profitto, di guadagnare il più possibile, ma se per guadagnare il più possibile – altro esempio che faccio a lezione -, tu lavori 16 ore al giorno, quando rientri a casa dopo 16 ore di lavoro, fai due cose: picchi tua moglie, perché bisogna pure sfogarsi, oppure passi il restante delle ore come uno scemo davanti al televisore. Uno che lavora 16 ore al giorno regolarmente, per guadagnare tanti soldi, distrugge di fatto la famiglia. Un’altra osservazione che si potrebbe fare: se si pensa bene al termine casa, in una casa non si divide mai in parti uguali, la bilancia è un simbolo della legge, non della giustizia. Se uno in casa ha due figli e uno sta male, tenderà a dare di più a quello che sta male. Se uno ha un nonno che vuole mangiare alle 6,30, cercherà di tenere conto di questa esigenza. La bilancia in una casa non è uno strumento al servizio della giustizia.
Noi abbiamo bisogno di un’economia all’altezza del suo nome, e l’altezza del suo nome è la complessità della scena del dramma in cui l’uomo si trova a vivere perché quel nomos che fa riferimento alla legge – dicono gli studiosi dell’etimologia -, ha a che fare con il dividere. Il nomos giustamente divide: siamo finiti e mortali, per questo siamo esseri economici, dobbiamo dividere. Uno non può studiare 20 ore al giorno, se no diventa scemo. Bisogna lavarsi, mangiare, fare la spesa, avere rapporti sessuali, bisogna fare una economia, bisogna dividere. Il problema è: in base a che cosa si divide? La risposta sarebbe: in base alla giustizia. E che cos’è la giustizia? Difficilissimo. Diciamo così: è una cosa che nelle nostre case noi facciamo quotidianamente, con il tentare di tenere conto dell’altro, il nonno che vuole mangiare alle 6,30, il papà che ritorna a casa alle 8,30. Bisogna fare un’economia, e l’uomo è capace di fare economia, solo che adesso la crisi è finanziaria: ma diciamo la verità, bisogna dirla. Uno che guadagna un milione di euro in un giorno giocando in Borsa, è una cosa legittima ma immorale. Mi sono portato una frase di Kurt Tucholsky, un intellettuale, il giornalista più pagato nel periodo della Repubblica di Weimer. Lui dice un po’ meglio quello che dice il mio amico: “Se fai un business, qualcuno lo subisce”. Siamo negli anni ’30, un brutto segno, fra l’altro, e lui diceva che la Borsa serve a un gruppo di signori molto irrequieti come sostitutiva del casinò e del ristorante. La Borsa emette a mezzogiorno il suo giudizio sulla situazione mondiale, la quale dipende massimamente dalla lungimiranza dei direttori di banca che però, il più delle volte, non vedono oltre il proprio naso, per quanto si tratti di nasi piuttosto lunghi. Riassumendo, si potrebbe dire che l’economia nazionale è la metafisica del giocatore di poker, definizione perfetta, che il business è la metafisica del giocatore di poker, un vero luogo di godimento, rispetto al quale il godimento del sesso è roba per il popolo. Noi abbiamo bisogno di un’economia che tenda, tra mille sforzi, di essere all’altezza del suo nome. Per esempio, ieri l’intervistatore mi chiedeva: “Sì, ma ‘sta roba, cosa vuol dire concretamente?”. Concretamente si può fare, cosa deve fare lo Stato? Lo Stato deve aiutare l’economia, non la finanza, deve aiutare gli imprenditori, non coloro che guadagnano semplicemente muovendo titoli. Non è una roba astratta da filosofi, si può aiutare chi assume uno a tempo indeterminato, ci possono essere delle agevolazioni, si può fare, non è vero che non si può fare.
Finisco questo veloce intervento, dicendo una parola sul tema del dono: perché ho detto che non abbiamo bisogno del dono ma di un’economia, che bisogna lavorare per una economia all’altezza del suo nome? Qual è il problema dell’economia? Che nel suo calcolare – perché ratio vuol dire misura e calcolo, canone vuol dire misura e ha a che fare con la canna, che era una roba che segnava i confini dei campi – l’economia rischia costantemente di dimenticarsi di avere a che fare con l’incalcolabile. Scusate l’unico vezzo filosofico che mi permetto, ma il vero calcolo economico, l’unico calcolo degno di questo nome, è il calcolo umano, quello che ha a che fare con l’incalcolabile. Se no, basta un computer. E che cos’è l’incalcolabile? Il nonno che vuole mangiare alle 6.30 e tu stai lì a spiegargli che no, guarda, è meglio più tardi così digerisci, così dormi, oppure la figlia che vuole avere quei jeans lì, e tu dici: “Ma guarda che quell’altro costa la metà!” e lei: “Ma non è lo stesso, perché quello ha quella marca lì”. Allora l’economista, nel suo calcolare, rischia costantemente di dimenticare l’incalcolabile. E qui interviene l’esperienza del dono che non può essere una norma, non può essere una legge, non può essere un dovere. Come l’innamoramento: ma chi decide al mattino? Chi lo decide, poi sa cosa succede. Uno si alza al mattino, esce e dice: “Adesso mi innamoro”, beh, succedono cose pericolosissime. Il dono accade, è una cosa enorme perché ci ricorda che c’è l’incalcolabile, il gratuito è l’incalcolabile. E’ la partita zoppa, come mi diceva un mio amico, che non è la partita doppia, dove le entrate e le uscite devono combaciare. La partita zoppa, che è quella del dono, non combacia perché c’è un’eccedenza: in questo senso abbiamo bisogno del dono, che non deve mai trasformarsi in un’ideologia, in una retorica. Non si deve donare, si deve tentare di essere giusti: per tentare di essere giusti, l’esperienza del dono è forse quella che ci può maggiormente aiutare a trovare questa parola impossibile che è la parola giustizia. Grazie.

MONICA POLETTO:
Grazie, lasciamo sfogare un po’ l’applauso. Ci ha dato tanti spunti veramente interessanti che gli interventi successivi potranno approfondire ed esemplificare. Mi piace moltissimo l’idea che il dono non è qualcosa a lato dell’economia ma, in qualche modo, entra nella definizione stessa di economia. Chiedo a Riccardo Bonacina, che sinteticamente descrivo come fondatore e direttore di Vita, il magazine del non profit più diffuso e famoso in Italia, di dirci, a questo proposito, che cosa vede.

RICCARDO BONACINA:
Si, intanto, riprendo anch’io una cosa che ha detto Silvano Petrosino: attenzione anche a questo incalcolabile, questa dimensione per cui ogni calcolo deve fare i conti con l’incalcolabile. Non è qualcosa al di fuori dalla realtà, sta nell’empireo dei valori ma dentro. Il fare, l’intraprendere ha a che fare con questo incalcolabile. Ha a che fare con la dimensione dell’altro, come diceva Petrosino. Allora, provo a fare da cronista – perché è un termine che amo più di giornalista – un piccolo quadro di come questo incalcolabile produca valore. Perché l’incalcolabile produce valore. Produce l’intraprendere, l’impresa. Molti di voi lo sanno, ma diciamo che in Italia ci sono 3 milioni di persone che danno tempo ed energie, per gli altri, per aiutare gli altri, per rispondere ai bisogni degli altri. Una ricerca del CREL, l’anno scorso, di questo periodo, ha detto che tutte queste persone donano 700 milioni di ore in Italia, nel nostro Paese, che corrispondono al lavoro di 400.000 individui che lavorino full time. E questo, se dovessimo entrare solo nel calcolabile, vorrebbe dire 8 miliardi di euro. Secondo l’Istat, ci sono 7 milioni di cittadini che trovano risposte ai propri bisogni educativi, culturali, sportivi, di assistenza, in questo mondo che è fatto di volontariato, di quasi 14.000 cooperative sociali che danno lavoro a 317.000 lavoratori dipendenti, che mettono al lavoro e tolgono dall’assistenza, dalla pura assistenza, i cosiddetti – con un brutto termine – lavoratori svantaggiati, quelli che non potrebbero trovare lavoro altrove, quelli che le imprese non riescono a mettere nella produzione di valore. Ma oltre ai comportamenti organizzati, ci sono i comportamenti individuali.
Ieri, qui, Italgruppo ha recitato il 5 per mille. Ci sono 15 milioni di cittadini italiani che liberamente – perché tutto questo è frutto della libertà, non di una norma – dicono: il 5°% delle mie tasse lo voglio donare a organizzazioni non profit, a chi fa ricerca. Nonostante la crisi economica, nel 2011, il 44% di italiani ha fatto una donazione. E 1 italiano su 3, quindi il 33%, l’ha fatta più volte l’anno, magari piccola, sms, € 2, però sono tutte accensioni di questa dimensione dell’altro, di questa dimensione della giustizia. Il 33% sono 16 milioni di italiani. Con l’adozione a distanza – ieri qui ha parlato AVSI -, gli italiani sostengono l’educazione di 1 milione di ragazzi nel mondo, che è una cosa enorme. Vuole dire che gli italiani donano 350 milioni di euro, all’incirca, che nessuno Stato è in grado di stanziare oggi, tanto meno l’Italia. Si potrebbe continuare a lungo nell’esplorare questo impressionante giacimento di gratuità che tra l’altro caratterizza molto il nostro Paese. Pensate al sistema delle emergenze, dove ci sono esperienze antiche come le Misericordie, alla ricerca scientifica, all’assistenza domiciliare. Insomma, trovate talmente tante esperienze di questo tipo, anche senza uscire da qui, nello stand della Compagnia delle Opere, e anche a questo tavolo. Ecco, non c’è uno Stato che possa prendere il posto di tutta questa energia o che possa produrre questa energia, perché è qualcosa che appartiene alla libertà delle persone, e penso che solo dei pazzi potrebbero prescindere da tutto questo giacimento di energia. Chi crea tutto questo, crea la società, crea percorsi dentro la società e questa dovrebbe essere la prima opera pubblica. Ecco perché bisognerebbe custodire, valorizzare, liberare dalla burocrazia, anche, chi produce tutto questo. La società bisogna custodirla e nutrirla, ma per farlo bisogna riconoscerla, vederla, non mortificarla, magari togliendo soldi senza neppure rispondere a quanti cittadini hanno dato col 5 per 1000.
La società è la prima grande opera infrastrutturale. Ho visto che gira la proposta, per i cantieri delle infrastrutture, di togliere l’IVA che ha un costo per lo Stato di 50 miliardi. Non so qua se qualcuno in questa sala sia impegnato, ma le onlus, non solo la pagano – e questo è un peso enorme per tutto questo mondo, per questo intraprendere – ma non possono scaricarla per l’acquisizione di beni strumentali. C’è un’esperienza che ho conosciuto molto bene quest’anno, che ho avuto modo di incontrare tante volte: è la Cometa, che ha lo stand proprio qua fuori. Quindi non sto a dire cosa sia la Cometa, a Como, come unità famigliari, i minori aiutati, la formazione professionale. Parlando con loro, una sera, mi sono reso conto di più della situazione paradossale in cui sono costretti tanti soggetti portatori di speranza e costruttori di socialità. E il paradosso è che, proprio là dove si costruiscono esperienze reali di bene e di relazioni buone, non si è liberi di farlo. Questa è una cosa pazzesca. Allora, la Cometa è nata dal gesto di gratitudine di due fratelli per un incontro che ha ridato senso ed energia alla loro vita, è diventato un’onda costruttiva, risposta a tanti bisogni. Per operare, per essere vista dallo Stato, dall’ente locale, la Cometa si è dovuta via via strutturare in sette, dico sette, soggetti giuridici: una associazione, una fondazione, una associazione sportiva, una scuola di formazione, due cooperative, l’associazione Amici Cometa, e quindi il volontariato. Ogni pezzo di questi sette – tanti di voi lo sanno, Monica lo sa benissimo – richiede di scalare montagne di burocrazia, di costi: è il prezzo per rendersi riconoscibili a chi governa, centralmente o localmente, ogni pezzo per rientrare in quella che chiamano legalità e che invece è il regno della procedura, non della legge ma della procedura. Un regno che è capace di succhiare l’anima anche più nobile: io lo vedo, raccontandolo da tanti anni.
Ecco, io credo che uno Stato serio e liberale dovrebbe lasciare liberi i costruttori di socialità limitandosi a regole chiare: c’è un superfetazione di regole. Ogni piccolo settore ha stratificazioni legislative che creano anche disparità. Quindi, regole chiare e controlli sull’operato dei soggetti.
Questa è una grande battaglia, e il compito della nostra società editoriale è anche di provare a cambiare questo assetto, che io credo malefico, nel senso letterale della parola. Voglio chiudere dopo questo racconto perché credo che occorra ripartire da questo giacimento e nutrirlo, riconoscerlo. Siamo a Rimini dove c’era un poeta esagerato, si chiamava Tonino Guerra, che ha lavorato tanto con Tarkovskij, che è stato ospite varie volte al Meeting. Insieme hanno fatto un film bello che si chiama Nostalgia, magari qualcuno di voi lo ha visto. Il protagonista di questo film a un certo punto dice: “La strada del nostro cuore è coperta d’ombra. Bisogna ascoltare le voci che sembrano inutili”. Non so se ha a che fare con l’incalcolabile: “Bisogna che dai cervelli occupati dalle lunghe tubature delle fogne e dai muri che tolgono visione allo sguardo, dagli asfalti e dalle pratiche assistenziali, entri un vento nuovo. Bisogna riempire le orecchie e gli occhi di tutti noi di cose che stanno, che stiano all’inizio di un grande sogno. Qualcuno deve gridare che costruiremo le Piramidi, non importa se poi non le costruiremo ma bisogna alimentare il desiderio. Dobbiamo tirare l’anima da tutte le parti come se fosse un lenzuolo dilatabile all’infinito. Se volete che il mondo vada avanti, dobbiamo tenerci per mano”. Questo è l’augurio che faccio a tutte le opere che ho visto, anche qua, in questi stand.

MONICA POLETTO:
Grazie per la descrizione molto lucida e anche per l’aiuto che, senza ombra di dubbio, con la rivista ci date sempre. Adesso passo la parola ad Alejandro che viene da Caracas. Ho avuto modo di vedere di recente la sua esperienza, tornandone profondamente colpita: in un contesto in cui la prima percezione nettissima che ho avuto è l’impossibilità di essere persone con una costruttività, ho visto veramente accadere l’impossibile. Per questa ragione chiedo ad Alejandro di raccontarci la sua storia. Grazie.

ALEJANDRO MARIUS:
Grazie a te per l’invito. Vengo dal Venezuela ma sono nato in Uruguay, perché mio nonno dal Friuli è arrivato in Uruguay. Vivo da 35 anni – ne ho 41 – in Venezuela, in questo meraviglioso Paese: il mio papà è dovuto scappare dalla dittatura militare perché era sindacalista. Io ho iniziato a lavorare molto giovane – grazie a lui avevamo costruito la casa, mio nonno era costruttore – e ho dovuto imparare fin da ragazzo vari mestieri manuali. Fin da quando ero nel liceo, ho dato lezioni ai miei compagni per pagarmi l’università dove ho fatto ingegneria elettronica, che non c’entra molto con l’economia e con il sociale, però è stata la mia esperienza. Quando ho visto che questa sala si chiama Siemens, mi sono detto: è un segno perché ho lavorato per 16 anni in un’azienda di telecomunicazioni a livello multinazionale. Sono sposato, ho quattro figlie, tutte femmine, meravigliose. A un certo momento della mia vita, ho cominciato veramente a domandarmi a che cosa mi chiamava Dio, che cosa significava avere un buon lavoro per il quale dovevo viaggiare fuori dal Paese venti volte all’anno, che cosa significa vivere il matrimonio, la paternità e l’amicizia, cosa significa stare lontano da casa e dal tuo Paese in modo sistematico. Perché io ho girato, ero responsabile d’azienda, ero dirigente e gestivo tutta l’America Latina, meno il Brasile, quella di lingua spagnola, dal Messico al Cile. Allo stesso tempo, mia moglie e i miei amici mi dicevano: “Quando riesci a chiudere degli affari, dei business – come diceva prima il professore – sei contento. Ma quando ti implichi in attività sociali, gli occhi ti brillano di più”. E così ho cominciato, insieme ad alcuni amici in Venezuela e in Italia – alcuni sono presenti qua -, a verificare la mia vocazione professionale. Ho deciso di rinunciare al mio lavoro, che era pagato molto bene, e, a39 anni, nel 2009, ho iniziato l’esperienza dell’associazione Trabajo e Persona, che vuol dire recuperare il valore della persona dentro l’ambito del lavoro. Per questo facciamo formazione al lavoro, soprattutto manuale, nella favelas di Caracas (noi le chiamiamo barrios) e anche nei settori rurali, dove un biondo non è benvenuto, quindi ho dovuto anche fare un po’ di fatica nel rapporto con questa gente. Voler recuperare il senso del lavoro e il senso della persona vale in qualsiasi parte del mondo ma, come spiegherò, in Venezuela ha un senso molto particolare. Per esempio, come diceva l’amico Bonacina, quattro anni fa il nostro Comandante Chavez ha detto che nessuna ONG poteva ricevere donazioni, perché sono tutte mosse dell’imperialismo occidentale.
Il tema che dà il titolo a questo incontro, per me è stato una vera provocazione: Gratuità e dono, fattori dello sviluppo economico. Io sono un ingegnere, non sono un esperto in economia, però proverò a dire qualcosa sul Venezuela, così si capisce di che cosa sto parlando. Innanzitutto, mi è sembrato molto strano che tutti i volontari avessero la maglietta rossa. Per noi, la maglietta rossa…, pensate che le mie figlie non vogliono utilizzarla perché è il colore della rivoluzione. Mi sono ritrovato circondato da tutti questi rossi, volontari, chavisti in Italia, per fare questo incontro! Grazie comunque del vostro lavoro, dobbiamo superare questo pregiudizio che il potere ha messo nella nostra società.
Il Venezuela è un Paese molto bello, con risorse naturali e umane immense. E’ conosciuto perché le donne sono bellissime e meravigliose le risorse naturali: è una delle riserve di petrolio e gas naturale più grandi del mondo, carbone, oro, nichel e perfino uranio. Per questo il nostro Comandante è molto amico di Ahmadinejād, perché c’è un volo giornaliero Teheran-Caracas. Però il nostro territorio è grande tre volte l’Italia e abbiamo solo trenta milioni di abitanti. Abbiamo 1700 chilometri di spiagge caraibiche, ma il turismo non è ancora sviluppato. Nonostante i prezzi fissi dei prodotti fondamentali, per mangiare e per vivere, bloccato dal Governo da sei anni, siamo leader a livello mondiale dell’inflazione, con più del 25% annuale di media durante gli ultimi cinque anni: seguono la Tanzania, la Mongolia e la Nigeria, che non superano il 20%. Questo significa 733% di inflazione accumulata negli ultimi dieci anni. Non vi racconto cosa vuol dire ogni giorno andare a fare la spesa. La bilancia commerciale è negativa, con l’aumento delle importazioni di prodotti lavorati: il 70% di alimenti che mangiamo vengono dall’estero. A livello delle case, abbiamo due milioni di case che mancano, cioè due milioni di famiglie senza la casa, il salario minimo è di 340 Euro, il paniere alimentare basico costa 360, mentre con i servizi arriva a 600 Euro: fate voi i conti. Di tutti i bambini che terminano le elementari, solo la metà continua gli studi con il liceo. Caracas ha 8 milioni di abitanti, è la capitale più pericolosa del mondo e si trova tra le cinque città più pericolose. Come diceva Monica, la maggior parte degli abitanti a Caracas abitano nelle favelas, dove si registra un assassinato ogni mezz’ora. Io vivo lì, con mia moglie e quattro figli. Negli ultimi dodici anni, proprio l’anno in cui sono nate le mie gemelle, le più grandi, ci troviamo in una rivoluzione che promette il bene per il popolo ma i cui risultati non si vedono: un clima di assistenzialismo totale, dove il Governo ha preso in mano la rete di distribuzione alimentare, espropriando le aziende. La faccio breve se no non finisco più. Risulta evidente, anche senza essere io un esperto in economia, che, anche avendo tutto il denaro del mondo, è un progetto – quello che dice di cercare il bene del popolo – che non genera uno sviluppo di nessun tipo, né sociale né economico. Quindi, io posso dire, sulla mia propria pelle, che progetti politici di questo tipo, che un’ideologia come questa, non riescono, e non riusciranno mai ad ottenere il bene comune. Questa è una certezza: dopo possiamo dialogare con il prof, ma vivendo lì capisco che questa rivoluzione non porta nessun bene a nessuno.
Gratuità è l’altra provocazione bella. Di questo posso parlare con più proprietà perché mi rendo conto che, in questi anni, io stesso sono stato oggetto di gratuità. E questa è la mia esperienza. Nel 2000, a meno di trent’anni, avevo ottenuto una crescita incredibile con la mia carriera, facendo business, e un giorno, lo ricordo bene – era il 24 giugno del 2000 -, mi ha colpito una sindrome molto rara che si chiama sindrome di Guillain-Barré. In quarantotto ore mi ha lasciato tetraplegico con conseguenze fino ad oggi. Le mie figlie maggiori sono gemelle, all’epoca avevano sei mesi. Potete immaginare il passaggio dall’autosufficienza di un dirigente di successo alla dipendenza totale 24 ore su 24. Non potevo fare niente, ero a letto, mia moglie mi curava tutti i giorni, gli amici mi facevano da mangiare, curavano le bimbe: per la prima volta ho dormito con un maschio, perché mia moglie doveva riposare e gli amici dormivano con me perché dovevano girarmi come una bistecca. L’incalcolabile è stato per me molto calcolabile, con volti concreti nella mia vita. Poi, nel 2003, c’è lo sciopero petrolifero in Venezuela: una crisi totale. Mentre aspettavamo la nostra terza figlia, vivevo grazie ai prestiti di mio padre e mio suocero, contando le fette di pane che mangiavamo. Mentre cercavo lavoro, in pieno sciopero, si presenta l’opportunità di iniziare una carriera che fino al 2009 non smetterà di crescere: nuovamente una grazia. La realtà che si manifesta come grazia, come dono per la mia vita. Guardando la mia vita, mi rendo conto che Dio, costantemente, mi si dona, si dà al mio essere e si manifesta in una delle circostanze che mi tocca vivere. Ogni volta che seguo, rischiando anche un po’, la modalità con la quale mi si dona, è evidente che cresco, che sono più uomo e più libero. La coscienza di essere oggetto di gratuità mi fa muovere, mi fa crescere.
Come accade questo? Racconto tre esempi di come oggi stia vivendo questo in Venezuela. Innanzitutto, voglio raccontarvi di Enri, un ragazzo di 17 anni che vive nella favela più grande dell’America Latina. L’ambiente in cui vive è un ambiente di morte: a diciassette anni, ha già due figli, e alla sua età riuscire ad essere ancora vivi è una sfida perché la maggior parte dei capi banda ha quindici, sedici anni. Nel suo profilo su Facebook si è fotografato con in braccia una mitraglietta russa. Insieme ad altri giovani, che anche Monica ha potuto conoscere, Enri ha partecipato ad un programma che abbiamo realizzato nella favela insieme al Centro don Bosco e che abbiamo chiamato “imprenditore dei mobili”, un percorso dove questi ragazzi imparano a disegnare e a installare mobili, insieme ad una proposta umana che permette loro, attraverso il lavoro, di recuperare il senso della vita ed avere un mestiere. Terminato il programma, li abbiamo portati anche all’università, così che hanno potuto conoscere la facoltà di architettura. Enri, Moses, Luis e gli altri ragazzi sono cambiati: è un gruppo piccolo, non sono il risultato di un megaprogetto di sviluppo economico del Governo, sono persone che sono cambiate, persone che hanno una prospettiva di vita invece di una prospettiva di morte. Una seconda storia impressionante è quella della signora Maria: anche lei vive in una favela molto povera, con un grande desiderio, imparare un lavoro per aiutare la sua famiglia che è in condizioni molto precarie. Ha partecipato con noi l’anno scorso ad un programma che chiamiamo “Imprenditrice del cioccolato”. Il Venezuela produce uno dei migliori cacao del mondo, però non produce un buon cioccolato. Con l’appoggio di imprese ed altre istituzioni venezuelane ed italiane, siamo riusciti a realizzare questo progetto. Maria impiegava due ore all’andata e due ore al ritorno, prendendo tre mezzi di trasporto, due dentro alla favelas, per poter partecipare. Non aveva spazio per fare i cioccolatini in casa, così le abbiamo procurato uno spazio e lei ha iniziato a partecipare aiutando Joel, il nostro maestro cioccolataio. Adesso ha vinto una borsa di studio per venire qui in Italia e continuare a professionalizzarsi.
E’ affascinante per me vedere come una persona, valorizzata da un maestro, riesca a tirare fuori il meglio di sé, anche nelle situazioni più complicate. Quindi tutto si gioca in una relazione personale. L’ultima breve storia che voglio raccontarvi è quella di un centro agricolo che si trova alla frontiera con la Colombia, nella Guaira venezuelana, a due ore da Maracaibo, una regione di aborigeni dove le tradizionali pesca e agricoltura sono state sostituite dal contrabbando di prodotti verso la frontiera e dalla violenza della guerriglia. Alle nove di sera, si iniziano a vedere i bachaqueros, i camion pieni di taniche che portano la benzina in Colombia. Un ragazzo, aiutando a fare questo lavoro, prende in una notte il salario minimo mensile, quindi immaginate che attrattiva a livello di soldi possa avere questo lavoro. In questo posto c’è un centro dove vivono 450 giovani aborigeni di cinque etnie differenti, che convivono pacificamente e si formano per il lavoro e l’agricoltura. Il mio amico padre Carlo, quando quest’anno sono andato a trovarlo due volte – è un luogo pericoloso, la mia famiglia nemmeno sapeva che andavo lì -, mi ha raccontato come nel 2010 abbia fatto l’esperienza di ricominciare da solo. A dicembre c’era stata una inondazione che aveva sommerso i loro 500 ettari, il terreno di tutto il Centro, sotto due metri di acqua, per il debordamento di una diga dovuto alla negligenza del Governo. Hanno perso tutto, sono dovuti ripartire da zero, ma con allegria, con la coscienza che il loro lavoro era lo stesso, anche se le circostanze erano più difficili. Non era il suo progetto che poteva dare felicità a questi giovani e a lui, era qualcosa di più.
E finisco. Vorrei dire che nella mia esperienza quello che genera la gratuità e il dono sono soggetti cambiati. Sono questi soggetti cambiati, come i professori che vedo lavorare con me, come quelli dei centri di formazione, e io stesso, che generano altri soggetti cambiati. All’origine di uno sviluppo, c’è una coscienza cambiata dalla gratuità, che è capace di giocare la propria libertà per essere protagonista della sua storia. La coscienza della gratuità genera una comunione, una fraternità fra chi si riconosce così: e questo a poco a poco cambia la vita delle persone, la coscienza che hanno di se stesse e quindi anche le loro condizioni di vita. Noi abbiamo bisogni di progetti economici, sociali e politici che valorizzino esperienze di questo tipo, che valorizzino l’uomo, dove la persona non sia ridotta a un numero o a un risultato da mostrare nella propaganda del Governo. Non abbiamo bisogno di più rivoluzioni né di sistemi perfetti dove lo Stato sia il padrone e signore di tutto o il miglior interprete del desiderio di un popolo senza volto. Abbiamo bisogno di uno sviluppo economico che si basi sulla persona, che tratti la persona, come dice il titolo di questo Meeting, come relazione con l’infinito. Nella mia esperienza, questo infinito l’ho incontrato, e pure il dono della gratuità: si chiama Gesù ed è capace – tra le altre cose – di generare uno sviluppo economico anche in Venezuela. Grazie.

MONICA POLETTO:
Grazie Ale. Adesso passo la parola a Marco Lucchini, che è il direttore della Fondazione Banco Farmaceutico. Tra l’altro, ci veniva da commentare, anche la Fondazione Banco alimentare distribuisce cibo. In cosa differisce dalla politica assistenziale di Chavez? E poi, ti chiedo di raccontarci, dal tuo punto di vista che per noi è importante, come vedi attuarsi questo titolo, soprattutto nel gesto che voi avete sempre voluto continuare a fare che è la colletta alimentare. Grazie.

MARCO LUCCHINI:
I tre interventi sono stati fonte di grande sollecitazione e provocazione: la prima cosa evidente è che l’esperienza gratuita e del dono è continuamente sperimentabile, non solo in momenti particolari della vita. Non abbiamo fatto questo incontro perché c’è la crisi, e quindi proviamo a vedere se la medicina “gratuità e dono” può risolverla. E’ un’esperienza che accade ora, nell’ascoltare loro, nel vedere voi, nell’esperienza di questa fantastica cattedrale che è il Meeting, che ciascuno di noi ha costruito e costruisce ora, perché la gratuità è qualcosa che non si accumula, un’esperienza continuamente nuova perché è un dono continuo. Entrando, stando qui, non è come cinque minuti prima di entrare. Ascoltare loro non è più uguale a prima. Soprattutto in questa settimana, avendo la possibilità di vedere più volte le due mostre – quella del Duomo di Milano e quella sui giovani -, mi sono posto due domande che avevano a che fare con l’incontro di oggi: questo imprevedibile istante, come faccio a capire quando accade? Oppure, come è possibile che oggi noi riconosciamo il Duomo in tutti i suoi elementi come fattore di esemplificazione di un’esperienza? Allora mi sono detto: “Io ho bisogno di una verifica, non di una misura”, come ricordava il professor Petrosino. Perché spesso si confonde la verifica con la misura: cioè, io ho bisogno di quella pietra, di quella guglia, ho bisogno di poter scoprire ora, in questo istante, che questa gratuità e questo dono si manifestano a me. Non posso sperare che un giorno lo riconoscerò se non lo riconosco ora. E qui accenno una risposta alla domanda sulla differenza con la gratuità e il dono di Chavez o di altri: di Chavez è pieno il mondo, anche l’Italia. Il primo elemento è che il dono genera libertà, creatività, un’evidenza che tu puoi riconoscere con i tuoi occhi e con la tua esperienza. Un bambino riconosce il dono della madre appena si attacca al seno, non ha bisogno dell’intelligenza o di una grande esperienza, e si acquieta. Molti mi dicono lo stupore nel vedere i bambini che fanno la Colletta. Speriamo che di questi tempi non ci impediscano di farlo, regolamentando anche il fatto che i bambini non possono fare la Colletta perché si rischierebbe il lavoro nero, come ogni tanto ci sentiamo dire. Però io rispondo che, certo, il bambino è un’esperienza bella da vedere, ma quanto è bella la coscienza di un adulto che vive quella gratuità!
La domanda che mi faceva Monica sul perché abbiamo continuato la Colletta: proprio perché tutti gli anni, pur essendo come molti di voi sanno un momento di fatica, quell’istante, come il Meeting, come altre cose, è una proposta libera e deve generare libertà. Come diceva una volta il mio amico Gianluigi Da Rold, è la festa il momento in cui ci si ritrova per riprendere in mano ciò che alimenta non solo il corpo, attraverso il dono del cibo, ma anche il cuore, perché lo stupore dell’altro, il dono dell’altro rigenera te. Infatti, uno dei motivi per cui noi continuiamo a insistere su questo gesto è perché non solo ha raccolto l’anno scorso 9000 tonnellate di alimenti, che sono fondamentali perché senza questa concretezza, ripeto, quella verifica dell’esperienza non sarebbe possibile, ma perché ha generato tantissime persone che, casualmente, magari, si sono impattate con la proposta della Colletta, hanno cominciato a generare – dove sono, tornando nel quotidiano, in famiglia – gratuità, perché per primi l’avevano ricevuta. Allora, passerei agli episodi perché mi sembra che facciano parte di quelle pietre del Duomo, delle guglie, mi rendono evidente che quello che ci stiamo raccontando, e che anche voi potreste venire a raccontare, non è un problema di esperti ma di esperienza. Vorrei dire brevemente come è nata l’esperienza del Banco alimentare, per capire come gratuità e dono portino a sviluppo economico: è un film di cinquant’anni ma in pochi secondi. Una donna, nel ’67, a Phoenix, Arizona – un posto, là, che in confronto a qua fa veramente caldo -, aveva 10 figli e non sapeva come portarli avanti perché il padre era in carcere. Scopre che nei ristoranti e nei supermercati veniva buttato via del cibo ancora ottimo ma non più vendibile. Lei, che come ogni madre avrebbe dato la vita per i suoi figli, non si fa tanti problemi a domandare ai direttori di questi supermercati, ai proprietari di questi ristoranti, di darle il cibo che avrebbero buttato. Questo è il primo episodio. Il secondo: un playboy fallito scappa da Los Angeles e viene accolto dai frati francescani di Phoenix. Per ringraziare, si mette a donare il suo tempo e dà una mano nei lavori. Qui incontra la donna e rimane stupito dal modo in cui lei ha risolto il suo problema e quello dei suoi figli. Si dice: ma se anch’io imparo a domandare, forse anche la mensa dei miei frati può avere un beneficio. E così inizia: è talmente deciso in questa domanda che anche la risposta è ridondante, così abbondante che raccoglie più del bisogno dei suoi frati. Comincia a donare questo cibo ad altre associazioni e da lì – faccio un salto di cinquanta, sessant’anni – arriva in Italia. L’anno scorso, l’atto di quella donna – di gratuità, di bene, di verifica immediata, perché i suoi figli mangiavano e quindi era un bene anche per la sua comunità – è diventato, solo in Italia, ma potrei moltiplicarlo per Europa, Stati Uniti, Sudamerica, un contributo a 8.700 strutture caritative che aiutano 1.700.000 persone povere: in tonnellate, sono quasi 70.000 e, se dovessimo trasformarle in euro, farebbe più di 200 milioni.
Allora, sono partito da quella donna che ha avuto il coraggio di domandare e poi, per testimonianza, per evidenza che era cosa buona, siamo arrivati fino a un dato che, ripeto, va moltiplicato per tutti gli altri Paesi dov’è presente il Banco alimentare e poi, se volete, per tutte le opere che sono qua al Meeting. Capite che cos’è quell’atto singolo di totale gratuità e come può diventare sviluppo economico? Perché ha generato la responsabilità di chi ha rischiato la propria faccia di fronte a questi direttori, e poi ha rischiato facendo l’organizzazione. Fino ad arrivare ad un esempio bellissimo, che è successo proprio l’anno scorso a Milano: un ragazzo arabo di 15, 16 anni, è stato invitato da alcuni suoi amici a fare la Colletta alimentare: era lì che metteva la roba nelle scatole in un quartiere in cui c’erano altri suoi, diciamo, concittadini. Ed era molto dispiaciuto – perché anche a questo porta la gratuità, al dispiacere che un altro non possa viverla. Era dispiaciuto perché vedeva passare molti suoi concittadini che non si fermavano. Poi ebbe un’intuizione: il volantino era in italiano, e quindi molti di loro non capivano. Allora ha chiesto di lasciare il lavoro di sistemazione della roba nelle scatole e ha cominciato a tradurre a tutti quelli che venivano, invitandoli a fare la Colletta. Da quel momento, anche molta gente del suo Paese ha iniziato a donare, e lui ha detto: “Mi sono sentito un uomo, ho sentito che lì il mio io si è giocato tutto”. E’ questo: non è rimasto lì a dire “che peccato, non capiscono”, ha rischiato di più e ha verificato che questo dono che lui aveva ricevuto con l’invito, questo talento, poteva ributtarlo agli altri, ha rischiato e questo dono è fruttificato.
Ma la gratuità fa scoprire anche il proprio cuore, fa capire che non siamo fessi: perdonami, professore, quando tu dicevi “la mattina, un fesso e un furbo”… Ecco, io direi che l’esperienza della gratuità è quando cominci a dire, una mattina, “sarò un po’ fesso, sarò un po’ furbo, a volte penso di essere furbo ma c’è qualcuno più furbo di me, quindi…”. Ma io sono solo questo? Devo vivere la mia vita combattendo tra fesso e furbo? Oppure, sono un po’ fesso e un po’ furbo, a volte non dipende da me, ma questo non mi basta? Ma io sono di più, io quando incontro un altro – sarò furbo, sarò fesso -, ma se lo vedo in difficoltà il mio fesso-furbo finisce e diventa invece uno che vuole essere abbracciato, com’è stata l’esperienza iniziale con Danilo Fossati, nell’abbraccio con don Giussani che gli ha detto: “Lei ha un cuore grande come sua madre”, che era quello che desiderava. Perché è vero che il business non basta: ho iniziato a vederlo nel 1988-’89, quando ho incontrato appunto Danilo Fossati, allora uno degli uomini più ricchi, più di successo italiani, fondatore della Star, che sentiva di avere tutto ma gli mancava questo cuore gratuito che vedeva in sua madre. E quando Giussani l’ha abbracciato e gli ha detto che, per quello che lo conosceva, capiva che aveva un cuore grande come la madre, di fronte alla gratuità, la risposta è una gratuità: “Farò tutto quello che mi chiederà”. Non c’è più limite, perché tu non sei fesso e furbo, ma sei fatto per un infinito, come dice il Meeting. E di fronte alla proposta che ti abbraccia gratuitamente, la tua risposta è gratuita. Poi hai bisogno – questo è l’altro fattore che ho scoperto nella gratuità, proprio perché ti senti, innanzitutto tu, bisognoso di dono e di gratuità, di qualcuno che continuamente te lo ricordi. Allora, la Colletta è un giorno ma poi diventa una quotidianità, in casa e al lavoro.
Vorrei raccontarvi quest’altro episodio – non a Milano, da un’altra parte -, di una donnina che va al supermercato, se qualcuno lo sa già, abbia pazienza. Era stata rapinata, la settimana prima, proprio nei dintorni del supermercato. Pensionata, pochi soldi, quindi, vede i ragazzi che la invitano e in particolare uno che le dice: “Guardi, signora”. E lei: “No, no, io di queste cose non voglio sapere, perché tu fai del bene e poi dopo ti fregano sempre”. Perché è anche questa l’esperienza del fesso, dopo quello che ho fatto, mi avete fregato. E così niente, incattivita. Non era un supermercato molto grande, questo ragazzo passa dall’entrata e va a dare una mano all’uscita. E vede questa signora, la stessa di prima, che esce con un sacchetto pieno di roba e lo dona. E dice: “Scusi, lei forse non si ricorda ma io mi ricordo che all’entrata mi ha quasi dato l’ombrello in testa, come nelle barzellette. Come mai poi ha deciso di donare?”. Lei sta lì un attimo, e gli dice: “E’ vero, sono arrivata così, poi sono entrata e ho visto una mamma che prendeva qualcosa da mettere nel sacchetto, poi, in un’altra corsia, un bambino che correva. Più vedevo questo, più mi dicevo: “Io non ho un cuore cattivo come quelli che mi hanno rubato il portafoglio. E a quel punto ho capito che era quello che desideravo, essere come loro. Così ho fatto la spesa”. Credo questo episodio confermi il fatto che hai bisogno di vedere, di verificare che questa gratuità non è un’idea, non è la promessa di un giorno, del sole che sorgerà – il sole socialista, intendo dire, della rivoluzione -, non è quello sperém che ogni tanto don Giussani ci diceva di non usare. E’ un fatto che tu puoi riconoscere, evidente, mentre sei lì che combatti tra il fatto che dici di essere in un modo e il tuo cuore che dice di essere in un altro. C’è un altro episodio che mi ha sconvolto. Dopo sei mesi, da una Colletta mi arriva una e-mail dove uno mi dice: “Gentilissimo direttore, proprio nell’ultima ora dell’ultima Colletta, mentre caricavo il furgone, purtroppo è successo un incidente e sono rimasto in ospedale, mi hanno operato e ne sono appena uscito”. Sei mesi. Mi sono detto: questo qua, uno che ti scrive così, chiederà un elenco danni. Vabbè che siamo assicurati ma non avevo il coraggio di andare avanti a leggere l’e-mail, perché chissà cosa ci chiede dopo sei mesi di ospedale. Vado avanti a leggere aspettandomi il peggio. A un certo punto, lui dice: “Essendo che l’assicurazione mi ha pagato, e mi ha pagato anche più di quello che mi aspettavo, ma quella giornata per me è impagabile, ho deciso di mandarvi una donazione di mille euro”. Vi giuro – scusate il termine – che mi sono sentito una merda. Non ho mai incontrato questa persona ma ho avuto la grazia, in questo Meeting, di incontrare casualmente la figlia, che faceva la hostess. E mentre raccontavo questa cosa a una persona, lei mi ha detto: “Scusi, vorrei solo dirle che io sono la figlia di quel signore”. Io ho detto: “No, non posso crederci”. Anche qua, la gratuità è evidente perché è un’abbondanza.
La cosa che mi ha sempre colpito è che il Banco alimentare nasce da un’abbondanza di cibo che viene condivisa. L’abbondanza è un segno dell’amore di Dio nei nostri confronti, in particolare per quel che riguarda il mondo alimentare, è sempre stato un fattore di feste, di momenti di condivisione. Oggi, spesso, l’abbondanza invece viene considerata un errore di programmazione perché non si sa chi ringraziare, non si vuole ringraziare chi dona quest’abbondanza. E nell’ultimo periodo, ci sono due esperienze che vorrei raccontarvi. Molte persone perdono il lavoro e, a un’età come la mia, è difficile ritrovarlo. E vivono tutta la difficoltà di un fallimento, di essere arrivati magari anche a livelli alti di responsabilità e, dalla sera alla mattina, trovarsi veramente con la scatoletta in mano a dire: ma allora non valgo più niente. E ad aver vergogna di queste storie di fronte ai propri figli, fare finta di andare a lavorare per non avere il coraggio di dirlo. Alcuni di loro accettano di venire da noi, presso i nostri magazzini, a lavorare gratuitamente, e pian piano riscoprono che il loro valore non era la qualifica, il grado che avevano o lo stipendio, ma che la loro persona, il loro io, è in grado di dare un contributo alla società, al mondo, che fa rigenerare e recuperare l’umano, ridotto dall’avere accettato un’economia di un certo tipo. L’altro aspetto della gratuità è l’accorgersi che, piano piano, i fattori, le cose non si riducono ma anzi abbondano. Perché la gratuità è un’alleanza tra la tua capacità e il buon Dio. Tutto quello che non sei capace di fare tu, te lo dona Lui. E quindi, è sempre uno stupore, un continuo dire: “Ma io pensavo di…”. E invece ti arriva un amico, ti arriva un dono, ti arriva qualcosa. E anche queste persone che, al massimo della difficoltà e dell’insuccesso personale, devono capire perché è toccata a loro, possono riscoprire nella compagnia di altri che magari hanno vissuto esperienze diverse o nel fare compagnia a persone – noi abbiamo anche dei ragazzi che hanno problemi psichici -, il loro valore, che non solo né fessi né furbi. Ma lo riscoprono tutte le mattine andando lì. E questo mi ha colpito.
Ecco che allora la gratuità e il dono possono portare sviluppo economico, come dicevo ad un Ministro che è passato da queste parti: “Tu preoccupati di fare posti di lavoro ma preoccupati anche di trovare uomini che desiderino lavorare”, perché non puoi fare solo il contenitore. E la gratuità porta a desiderare di lavorare, di contribuire. Fino al punto, ad esempio, che nel 2003 questo ci ha fatto desiderare di fare anche una legge, la legge del buon samaritano, perché in Italia, paradosso dei paradossi, il cibo fresco delle mense non si poteva raccogliere, col preconcetto del “non si sa mai come può andare a finire”. Anche questa volta abbiamo imparato dagli Stati Uniti: c’è stato un anno di lavoro a livello legislativo, e oggi questa legge è un patrimonio per tutti e tutti ne possono beneficiare. Perché la gratuità è, sì, un rapporto, un atto personale, la scoperta di essere voluti e di desiderare la gratuità, ma diventa anche una possibilità di condivisione con tutti: la Colletta ne è un esempio, la quotidianità del Banco alimentare ne è un esempio, ma anche una legge è un esempio. E concludo con questo, che mi è venuto in mente soprattutto ascoltando loro: sull’economia del dono mi alleo col professore, perché la sento nominare troppo, questa parola per cui sembra che il problema sia l’economia, e il dono sia come la cravatta, un accessorio che, a seconda delle mode, si mette, non si mette, si cambia di colore, ecc. Mi verrebbe da dire che il dono è il vestito, e l’economia, casomai, è l’accessorio. Ma invece, ascoltando e riflettendo un po’ sull’esperienza di questa settimana, mi viene da dire che il dono non è il vestito, per cui l’economia a questo punto diventa l’accessorio. L’uomo è dono. Non è qualcosa che è fuori, è continuamente dono. Stamattina siamo qua per un dono, è un’esperienza continua, il dono. E’ dono ma, nello stesso tempo, è bisogno. Come diceva Prades, è anima e corpo: è dono, è anima ma è corpo, è bisogno. E quindi, la domanda non si ferma mai e la gratuità non si ferma mai. Capisco quello che dice san Paolo, questo desiderio di riconoscere di essere anima e quindi dono, ma anche bisogno che qualcuno ti completi. Ecco che allora l’esperienza delle opere di carità, della gratuità, possibile ovunque per ciascuno, ora, è questa esperienza personale che per alcuni può diventare anche un bene comune, economico, sociale, chiamatelo come volete. Però io capisco che questo dilemma di bene, di dono e bisogno, è anche ciò che rende possibile creare 100mila posti di lavoro. Che ci siano anche 100mila uomini che, come nella storia del Duomo di Milano, possano costruire la cattedrale, per tutti. Grazie.

MONICA POLETTO:
Il professor Petrosino all’inizio ci ha detto: “Siamo finiti e mortali, per questo siamo esseri economici”. Io direi che finiamo l’incontro completando così l’affermazione: siamo rapporto con l’infinito, per questo ogni nostro gesto, se autenticamente umano, ha dentro un’incalcolabile che, abbiamo visto, è il fattore più concreto ed efficace anche di sviluppo economico. Grazie e buona giornata a tutti.

Data

25 Agosto 2012

Ora

11:15

Edizione

2012

Luogo

Sala C1 Siemens
Categoria
Incontri