GIOVANI E CRISI: FINE DI UN MONDO O INIZIO DI UN ALTRO?

Giovani e la crisi: fine di un mondo o inizio di un altro?

Partecipa Alessandro Benetton, Presidente di Benetton Group. Introduce Bernhard Scholz, Presidente della Compagnia delle Opere.

 

GIOVANI E CRISI: FINE DI UN MONDO O INIZIO DI UN ALTRO?
Ore: 15.00 Sala Tiglio A6

BERNHARD SCHOLZ:
Buongiorno a tutti e un benvenuto particolare ad Alessandro Benetton. Normalmente non inizio con le scuse ma questa volta sì. Noi avevamo previsto di fare un incontro fra Alessandro Benetton e i giovani. Adesso tutti hanno capito durante questo Meeting che sono giovani e quindi siamo andati oltre, compensiamo con la tecnologia quanto possiamo, perché questo incontro viene spedito in video dovunque possibile, chiedo pazienza, chiedo perdono, ma ho già concordato con Alessandro che lui tornerà l’anno prossimo e lì faremo l’incontro anche per gli adulti. Bene. L’incontro di questo pomeriggio comincia con una mia domanda alla quale si aggiungeranno poi altre domande dei giovani studenti universitari che si sono incontrati, hanno cercato di capire qual è l’esperienza, la conoscenza, che una persona come Alessandro può comunicare e gli faranno delle domande. Alessandro Benetton è uno degli imprenditori più conosciuti di questo Paese, non solo in questo Paese ma anche a livello internazionale, ha fatto ciò che si chiama nel gergo una bellissima carriera, però tutti sappiamo che il momento delle carriere facili non c’è più, e quindi la mia prima domanda che rivolgo subito a Alessandro è questa: qual è stato il suo percorso personale e professionale che lo ha portato a guidare oggi uno dei più importanti gruppi industriali italiani.

ALESSANDRO BENETTON:
Buongiorno a tutti, questa è una di quelle occasioni in cui è abbastanza impegnativo parlare, come deve fare per definizione un imprenditore, di ottimismo, parlare di futuro, parlare di giovani, perché si ha la sensazione che i mercati finanziari, le cui regole forse nessuno di noi sa più capire, si ha l’impressione che la congiuntura, si ha l’impressione che il mondo stia andando in una direzione per la quale quasi ci sembra che non ci sia più futuro. Ecco, vorrei incominciare dicendo che questo è sbagliato. Il futuro, crederci o non crederci, arriva implacabilmente, ma arriva. Il tema è: quale futuro dobbiamo aspettarci. L’uomo, l’individuo può fare la differenza. Ognuno di noi ha dei talenti. Diceva, penso Socrate, che non esiste la fortuna ma esiste il momento in cui il talento incontra l’opportunità, incontra l’occasione. Esiste il momento in cui tutti singolarmente possono fare la differenza. E dobbiamo tenere a mente che le pagine del futuro non sono ancora state scritte. Non è ancora successo. E i giovani soprattutto, questa nuova generazione che sembra avere un livello di consistenza, di coordinamento, anche intellettuale, i cosiddetti “millennials”, quelli che sono nati prima che cadesse il muro di Berlino, quelli che sono nati dopo i momenti, che abbiamo avuto, di certezze nelle grandi economie del mondo, possono fare la differenza se credono ancora, come dimostra la storia nel mondo, che le grandi scoperte, le grandi invenzioni sono avvenute nei momenti di discontinuità e sono sempre state articolate attraverso i giovani, quelli che avevano meno di trent’anni. Io vi racconterò la mia storia, la mia storia che probabilmente è una storia che – ne parlavamo prima con Scholz e con Vittadini – nasce dal basso. Io ho chiesto, rimanendo a bocca aperta dopo questo grande impatto, arrivando qui: come è nata questa cosa? E lui mi ha spiegato, mi ha risposto: è nata dal basso, tutte le cose nascono dal basso. Ormai ci siamo tutti assuefatti a un mondo in cui passano dei concetti facili da capire, dei concetti immediati, per cui non è un segreto: qui si vede il figlio di un imprenditore che fa l’imprenditore nella stessa azienda che ha fatto suo padre. In realtà non è andata proprio così. Io vi racconterò la mia storia e ve la racconto, forse non l’ho mai fatto in maniera così esplicita e diretta, ma penso che possa essere utile, non l’ho mai fatto perché pensavo che non avrebbe fatto differenza a nessuno, io alla fine conoscevo la verità. Penso però che oggi possa essere da stimolo, forse se vogliamo possa essere un’interpretazione pratica di quello che ho da dire, quello che Seneca diceva: l’unica cosa che non può fare un giovane è quella di lasciarsi scippare il proprio futuro; lui stesso, però, non lo deve fare per negligenza. Io sono una di quelle persone che è partita con un’infanzia abbastanza normale, aldilà di quello che si possa pensare, in una famiglia di un imprenditore. Ll’azienda nasce quando nasco io, praticamente un anno dopo, quindi non posso dire di averla fondata quando avevo un anno e per cui sono cresciuto, nonostante tutto, con quel tipo di cultura semplice in cui dovevi più o meno cavartela da solo: il mio primo lavoro è stato a undici anni, quando durante l’estate mio padre ha detto che due mesi di vacanza o tre mesi d’estate erano troppi, per cui per un mese sono andato a pulire le caldaie dell’azienda. Ma anche quando sono andato a fare la prima esperienza all’estero, a lavorare in un negozio Benetton, tutti mi chiedevano: che sensazione hai quando guardi al negozio e vedi il tuo nome scritto? E io dicevo: nessuna, io vedo un negozio, guardo se le vetrine sono pulite, se c’è gente alla cassa, questa è la mia vera preoccupazione. Per cui una cultura abbastanza semplice, un liceo di città, uno studente abbastanza mediocre, vispo sicuramente, però niente di che. Poi il fortunato incontro con un professore di filosofia, una di quelle persone che a tutti capita – a proposito di occasioni – di incontrare nella vita, quelle persone che ti fan venir voglia di essere una persona migliore, ti fan venir voglia di essere diverso. E da là in qualche maniera la mia vita è stata un’escalation di soddisfazioni, in cui mi rendevo conto che mentre stupivo gli altri stavo stupendo me stesso alla fine, perché non pensavo di avere quelle potenzialità. Tutti quei momenti sono arrivati attraverso la discontinuità, sono arrivati prima di tutto attraverso la scelta di andare a studiare negli Stati Uniti. Oggi sarebbe considerata una cosa assai normale, ma questo non faceva parte del bagaglio culturale della mia famiglia, per cui in qualche maniera fu una nuova esplorazione. L’università, gli ottimi risultati, l’esperienza di una grande banca d’affari americana, la Goldman Sachs – allora un timbro di qualità ineccepibile, oggi magari essere un alunno della Goldman Sachs potrebbe essere meno di moda – furono tutti passaggi che mi lasciavano stupito, erano delle cose dove non pensavo di avere la capacità di fare, la forza, il coraggio, l’individualità. Man mano che affrontavo il tema mi mettevo un’asticella più alta, trovavo giusto che, pur venendo da una situazione – e questo non può essere negato – molto fortunata, dovessi fare un avanzamento anche per la mia famiglia, anche per la mia cultura e la cultura del gruppo che rappresentavo. La Goldman Sachs è stato il primo grande passaggio: ho imparato cos’era l’organizzazione. Ne parlavamo oggi sempre con Vittadini: la cultura dell’organizzazione è forse un po’ quello che manca al nostro Paese, a noi manca la capacità di dare un valore all’organizzazione. Noi pensiamo tante volte che sia burocrazia, che sia una sorta di menomazione, ma forse è la nostra interpretazione che questo provoca e con la Goldman Sachs tu impari. La Goldman Sachs, solo per ricordare ai non addetti ai lavori, allora apriva i primi uffici in Inghilterra, oggi è diventata una delle grandi potenze, per cui ha concretamente conquistato il mercato europeo assieme ad altre majors. E quella è stata la prima esperienza. Poi c’è stato il miracolo, l’ammissione ad Harvard, per cui anche là un passaggio molto prestigioso, incontri fortunati, c’è stata la parentesi, anche quella fortunata, dell’incontro con Michael Porter. Michael Porter è questo grande professore americano, adviser di Clinton, con il quale io ho la fortuna di fare la tesi e questo forse è un momento di svolta molto importante della mia vita. Allora la mia famiglia, il nostro gruppo, aveva diversificato nel mondo dello sport, penso che non sia un segreto la mia passione per lo sport in tutti i sensi, per cui sembrava quasi un percorso abbastanza normale. Avevamo comprato la Nordica, la Roller Blade, la Prince per chi si intende o frequenta il mondo dello sport, insomma dei marchi importanti. Faccio la mia tesi con Michael Porter, questo grande professore che a quel punto stava sviluppando dei nuovi teoremi, delle nuove teorie sulla gestione di diverse attività all’interno dello stesso ombrello, e insomma torno a casa con sotto al braccio questa tesi, con questa idea, in qualche maniera potevo portare il mio valore aggiunto, avevo identificato quella che poteva essere una strada nel dare il mio contributo a mettere assieme questa attività. Diversamente da come pensavo, invece, a quel punto era già incominciata la fase del nostro gruppo in cui la famiglia aveva deciso di mettere nelle mani del management la società, per cui, diciamo, il primo incontro con il management non è andato bene. Mi hanno guardato, m’hanno detto: bello, complimenti, complimenti per la laurea, complimenti per la bella faccia, però insomma noi vediamo un’altra cosa qui. Giustamente mio padre è uno serio, per cui mi ha detto: guarda, tra te e il management scelgo il management di sicuro, però ti apprezzo per il grande coraggio, anche io l’ho avuto qualche anno anche prima di te, per cui insomma apprezzo quelli che hanno il coraggio di dire la penso diversamente; adesso l’unico problema che hai è che ti devi trovare un lavoro, poi per il resto va tutto benissimo. Allora a quel punto ho rispolverato un’idea che mi era venuta prima. Sono sempre stato appassionato di economia, di impresa, ho sempre respirato la cosa nell’aria di casa, anche se in realtà nessuno mi ha mai detto né quello che avrei dovuto fare, né quello che dovevo fare; era così, un’inclinazione personale. Allora mi è tornato in mente il fatto che molte volte avevo osservato che l’Italia aveva un’economia al 90% basata sulla piccola, media impresa, in cui non c’era un vero e proprio interlocutore di finanza industriale che aiutava queste imprese a crescere. Allora c’erano solo due, tre grandi banche commerciali, una banca d’affari, che era appunto Mediobanca, per cui ho detto: magari c’è qualche cosa da fare. Quindi la fortuna di avere un prestito dalla famiglia, per cui qui qualche vantaggio c’è stato, però allo stesso tempo anche tanta responsabilità: ti metti gioco – questo io lo voglio sottolineare – per questo io credo che i giovani possono fare la differenza prima dei trent’anni. Io quando ho fatto tutte queste cose avevo ventisei anni e ho avuto la grande fortuna di avere una situazione in cui se vogliamo, paradossalmente, diversamente da quello che uno oggi può pensare, mio padre non si è preoccupato, lui non sapeva quello che facevo, non sapeva che avrei fondato una società che si chiama 21 Investimenti, che si sarebbe occupata dei finanziamenti e degli aiuti industriali alla piccola impresa. Partiva molto piccola, una cosa basata su poche attività, poche persone e che ha avuto fortuna. C’era questa nuova idea, questa nuova idea in Italia, un mercato che non si era ancora sviluppato, ma io già avevo voglia di andare all’estero, per cui gli incontri in Francia con della gente che faceva lo stesso mestiere, con la quale poi abbiamo finito per fidanzarci e sposarci dal punto di vista gestionale e imprenditoriale; in Inghilterra allo stesso tempo, tutti mercati che mi permettevano di vedere in anticipo quello che poi sarebbe successo anche da noi. Non voglio andare oltre, la storia è stata una storia di successo, ed è stata la mia storia imprenditoriale. Quindi il centro della mia esperienza è stato proprio questo passaggio: non seguire quella che sembrava la strada ovvia per me e diventare imprenditore da solo, prendermi dei rischi, perché a ventisei anni con un curriculum di grande prestigio sembrava la scelta più naturale quella di stare in un percorso che in qualche maniera sembrava già disegnato per te e sarebbe sembrato anche logico, fino a un certo punto e invece questo momento di discontinuità è quello che mi ha permesso di essere una persona diversa, lasciando spazio alla mia inclinazione personale, che è quella di essere una persona curiosa, di voler sapere quello che fanno gli altri, di volere conoscere tanti settori, quello di voler sperimentare un po’ di ‘ego’, ‘ego’ inteso come la volontà di essere autoaffermato, di avere una propria personalità, una propria visione, di avere una propria credibilità. Ecco, io penso che se non avessi fatto questi passaggi sicuramente come crescita dal punto di vista imprenditoriale, dal punto di vista tecnico, sicuramente come credibilità, che poi mi ha permesso di arrivare dove sono oggi, alla carica che ricopro oggi, ma soprattutto come uomo, se io non avessi fatto questi passaggi, se io non fossi arrivato al momento in cui mi sentivo tranquillo di quello che avevo fatto, mi sentivo autorizzato, mi sentivo soprattutto preparato, e soprattutto sentivo che gli altri potevano fidarsi di qualcuno che aveva fatto un percorso da solo, ecco forse non me la sarei mai sentita di prendere questa carica che ricopro oggi e che sicuramente è una carica molto prestigiosa, una carica importante. Tutti hanno in mente un’azienda con un brand conosciuto in centoventi Paesi al mondo, cosa che è assolutamente vera, un punto di forza, direi, invidiabile, perché tutto il mondo conosce il nostro marchio; c’è una percezione del brand nella comunicazione come di gente che condivide una filosofia con gli altri, non solo gente che vuole vendere un prodotto, però, allo stesso tempo, l’azienda, nel frattempo, è un po’ invecchiata: 45 anni di storia, un modello di business vincente che oggi si deve confrontare con un mercato molto complicato. Allora qual è l’agenda? L’agenda è quella di partire dai punti di forza, l’agenda è quella di non scoraggiarsi nonostante il momento del mercato sia non dei più favorevoli e soprattutto l’agenda è quella di continuare a essere stimolati e a stimolare gli altri, come diceva don Giussani e questa è una raccomandazione, un suggerimento che do a tutti i giovani, un augurio a non sentirsi mai tranquilli. Ecco questa è la mia storia.

BERNHARD SCHOLZ:
Grazie, io ho preso già appunti per l’incontro dell’anno prossimo, però adesso abbiamo previsto alcune domande di un gruppo di studenti che si è radunato. Cominciamo con la domanda di Matteo.

DOMANDA:
Buongiorno, volevo chiederle, anche rispetto al passaggio che ha fatto prima con 21 Investimenti, perché immagino che ricoprire questa carica adesso sia da un certo punto di vista un grande onore, dall’altra anche che porti con sé una grande responsabilità. Io ho iniziato a lavorare da poco, da pochi mesi ho terminato l’università e lavoro anch’io nell’ambito degli investimenti, diciamo e quello di cui mi sono accorto, anche nel rapporto con le imprese, è che una delle più grandi responsabilità dell’imprenditore è quella nei confronti dei propri dipendenti, dei propri collaboratori e dei propri lavoratori. Volevo chiederle quindi, soprattutto in un momento come quello di adesso oppure in un momento come quello di una persona che ha finito l’università, che può iniziare un’azienda, o che inizia un’azienda e quindi che ha una responsabilità nei confronti propri, della propria famiglia e delle persone che collaborano con lui, che cosa permette che non siano solamente i risultati economici o quello che apparentemente è il mercato a orientare le proprie scelte e a fare anche scelte che non siano delle scorciatoie, diciamo.

ALESSANDRO BENETTON:
Io penso che ci siano parecchi spunti nella tua domanda, Matteo. Il primo riguarda una cosa di cui sono particolarmente orgoglioso. Durante il passaggio dalla Benetton alla 21 Investimenti, ho capito che avevo fatto un lavoro – a proposito di quando uno sorprende se stesso – avevo fatto un lavoro migliore di quello che pensavo. Cioè la squadra che si era messa in piedi, questi ragazzi che avevano incominciato con me, potevano effettivamente portare avanti le attività in maniera molto completa. Per cui ho scoperto, ancora una volta, il valore dell’organizzazione, il valore di fare squadra, che il valore di stare con gli altri è un arricchimento impagabile, anche durante i momenti di grande cambiamento. Per quanto riguarda i giovani, l’impresa, io ho in mente quando qualche giovane mi chiede cosa fare, quando mi danno un consiglio, io ho in mente quelle che nel gergo moderno vengono chiamate killer application. Penso a tre cose sostanzialmente: l’internazionalizzazione, per cui essere predisposti a conoscere gli altri, a viaggiare, a cogliere qualsiasi opportunità e le nuove tecnologie questo lo permettono con una certa facilità. Il coraggio, il coraggio è proprio della giovinezza, il coraggio è fondamentale. C’è un bellissimo discorso di Bill Gates in cui lui parla della propria storia e la maggior parte dei suoi elementi sono inerenti alla sconfitta, al momento in cui le cose non hanno funzionato come lui si aspettava. Ma lì è scattata la sua capacità di reagire e reinterpretare, alcune volte cambiare strada e altre volte invece insistere, perché succede che gli altri non ti abbiano capito. Io penso che, arrivando all’ultimo spunto che mi sembra fosse intrinseco alla domanda, per quanto riguarda il confronto con il mercato, ci siano tante considerazioni da fare. Il fatto economico è sempre una cartina al tornasole importante, cioè il confronto con il mercato è qualcosa di obbligatorio, è qualcosa da cui non si può prescindere. Però nello stesso tempo va considerato che tante volte le curve di apprendimento dello stesso mercato possono essere più veloci o più lente. Quando si parla di PIL, arrivando agli obblighi nei confronti degli altri, francamente è stato un elemento di valutazione molto importante quando ho scelto di accettare questa proposta di aiutare l’azienda. Ci tengo a sottolineare che abbiamo messo assieme una squadra manageriale molto forte. Io credo nel valore del gruppo, ma uno dei grandi punti interrogativi è stato soprattutto di tipo morale per me: dare continuità ad una impresa che occupa diecimila persone è stato qualche cosa che io ho valutato con molta attenzione, perché alla fine la tua scelta, il tuo comportamento, le tue decisioni, ma anche la tua volontà di accettare, diventa una responsabilità, così come non accettare sarebbe stata una responsabilità, sarebbe stata una responsabilità più grande. Non mi sono fatto soverchiare dal peso della responsabilità, perché non è il caso, si corre il rischio di essere poco lucidi. Ecco, penso che questo tipo di responsabilità, penso che la parte integrante del mio lavoro sia trasferire il senso della responsabilità a tutti quelli che lavorano con me. In conclusione, direi che oggi non ci possiamo più immaginare un mondo del lavoro, ma forse anche sociale che è così meccanico, codificato. A me piace il titolo di questo incontro, l’infinito, perché mi dà la sensazione di un mondo senza barriere geografiche, culturali. Un mondo che ha capito che siamo in una fase in cui dalla storia forse possiamo solo ritrovare il pensiero degli antichi greci, che è quello di provare a risolvere i problemi piuttosto che non aspettarci che nella nostra storia troviamo delle regole che ci dicano quale debba essere il nostro futuro. Non dobbiamo neanche incattivirci troppo, secondo me, come giovani. I giovani non si devono incattivire troppo nei confronti delle generazioni precedenti che non sono state abbastanza lungimiranti rispetto a quello che sarebbe stato necessario. Però allo stesso tempo bisogna avere il coraggio di voltare pagina e di dire che le regole scritte nel passato non funzionano più. Avevamo tutti tante certezze. Chi non aveva certezza nel mondo delle banche, in queste analisi precise, economiche, nel mondo anglosassone che ci dava delle certezze? Poi abbiamo scoperto che invece non era così, ma questa non può che essere una occasione e quindi chi fa impresa, chi ci prova, deve avere in mente che è tutto fluido in questo momento. E’ uno svantaggio? Può darsi, perché forse è più difficile convincere una banca a darti fiducia, ma dal punto di vista progettuale è un grande vantaggio. Ricordiamoci che chi ha inventato facebook, ai tempi in cui Microsoft aveva una posizione dominante – soldi a palate, capacità intellettuali infinite – il fondatore non era ancora alle scuole medie. Quindi, si può sempre fare la differenza.

BERNHARD SCHOLZ:
Grazie. Adesso la domanda di Lorenzo.

DOMANDA:
Io studio Medicina a Milano. Lei ha dichiarato recentemente che Benetton commissiona dei progetti di design a tre università estere di chiara fama. E’ possibile una cosa del genere anche in Italia ed è da auspicarsi che questo rapporto stretto fra aziende e società aumenti sempre di più o diventi la norma?

ALESSANDRO BENETTON:
Questo è un tema molto interessante. Noi collaboriamo con tutti. Per chi non ne è a conoscenza, abbiamo un centro di ricerca sulla comunicazione che ha fondato l’azienda più di vent’anni fa, che si chiama Fabbrica. Inizialmente è iniziata come una scuola dove non ci sono i professori, una serie di borse di studio e cinquanta alunni provenienti da tutto il mondo che trovavano lo spazio per esprimersi liberamente nella loro forma d’arte, che fosse la musica, la grafica, che fosse il film, che fossero le campagne pubblicitarie. Una sorta di circuito protetto, in cui i giovani potessero esprimersi e dare qualche nuova idea alla azienda, ma anche al mondo, completamente liberi, finanziati e liberi. Penso che la nuova stagione, sempre in continuità, che io ho in mente, è quella di prendere questo centro di ricerca e farlo ancora più aperto alle altre università, ai giovani, a chiunque abbia qualche cosa da dire. Sicuramente le università straniere, ma sicuramente anche le università italiane. Io penso che una delle grandi difficoltà che affronta il nostro Paese – ne ho citata una dal punto di vista antropologico – culturale, ho citato quella della mancanza della cultura dell’organizzazione, del dare valore all’organizzazione – sia quella della mancanza di un dialogo serio e profondo tra il modo accademico e il modo dell’impresa, delle attività. Si sono fatte tante ipotesi sul perché questo è accaduto, potrebbe essere accaduto per varie ragioni, io trovo che probabilmente c’è sempre stata una volontà di autoaffermazione delle proprie libertà da ambo i lati, che ha fatto sì che non ci fosse il dialogo, che non è solo auspicabile ma è obbligatorio, perché i cambiamenti in futuro sono degli elementi contigui tra chi ha il potere, tra chi fa le cose e tra chi sta crescendo. I giovani hanno un futuro per definizione, perché sono giovani, hanno dalla loro parte il tempo e secondo me questo è un altro tema culturale sul quale noi dobbiamo lavorare. Dobbiamo cogliere questo momento della crisi, guardiamo al positivo, questo fatto che i giovani hanno il diritto di scendere in campo e di far sapere che qualcuno non ha pensato a loro, ma soprattutto di fare delle proposte. E’ qualcosa che è diventato di opinione pubblica e questo è un passo in avanti. Io penso che il mondo delle università deve rendersi coerente con queste cose che accadono. La nostra impresa sicuramente sarà di fianco a questo dialogo con il massimo delle proprie capacità.

DOMANDA:
Io ho appena finito il liceo e sto per iniziare il mio percorso universitario. A partire dalla sua esperienza e da quello a cui ha appena risposto, cosa potrebbe consigliarmi personalmente per la mia carriera universitaria, per il mio futuro universitario? E considerando il fatto che lei comunque ha studiato all’estero, si rende necessario un percorso di studi che prevede esperienze che vadano al di fuori dell’università italiana e quest’ultima è ancora competitiva a livello europeo e mondiale?

ALESSANDRO BENETTON:
Questa è una domanda che mi viene posta molto spesso e devo dirti con franchezza, Enrico, che ho sempre un po’ di imbarazzo nel rispondere a questa domanda, perché vengo un po’ meno ai miei principi quando provo ad indicare una strada preconfezionata. Perché la mia esperienza, come ho detto all’inizio, è stata esattamente l’opposto. Il consiglio filosofico più forte che posso dare è quello di cogliere qualsiasi tipo di occasione in senso costruttivo, amicizie, conoscenze; ma non in senso nepotistico o in senso di favoreggiamenti ma proprio in termini di occasione di conoscere gli altri. Fare esperienze all’estero, io sono stato sempre uno che il concetto di fuga di cervelli, da una parte ho trovato condivisibile – ci si chiede come mai tanti di noi sono costretti a mettere a frutto le nostre competenze da qualche altra parte al mondo – nello stesso tempo è qualche cosa su cui io trovo non sia più tanto moderno soffermasi. Nel senso che il modo è diventato globale in tutti i sensi dal punto di vista delle comunicazione. Conoscere gli altri mondi, conoscere gli ambienti internazionali ed in generale avere esperienze multiple dà anche più occasioni per scoprire i propri talenti. A me è capitato per caso, non lo so se me lo ricordo così, quando racconto mentre stupivo gli altri stavo stupendo me stesso, ma in realtà è facendo le cose che tu scopri i tuoi talenti. Per cui il fatto di far le cose non è solo un fatto meccanico di quello che fai o quello che non fai, è che è un momento dove – se tu sei serio – scopri quali sono le tue attitudini, scopri quello che puoi fare o dove tu puoi essere diverso da qualcun altro. Ecco, non c’è una ricetta precisa se non quella del fare, del provare e di frequentare soprattutto situazioni dove gli altri ti incoraggiano a provarci.

BERNHARD SCHOLZ:
Adesso mi permetto io di far una domanda nel mio cuore giovane. Mi ha molto impressionato la modalità con la quale hai raccontato che la tua storia personale è stata arricchita di una cultura imprenditoriale che adesso vediamo nel gruppo e mi spiego. Normalmente il concetto di creatività viene vissuto in opposizione a organizzazione, questo è uno dei problemi più grandi che hanno le imprese italiane. Il concetto di responsabilità viene giocato in contrapposizione al gioco di squadra. Allora responsabilità diventa accentramento e gioco di squadra diventa deresponsabilizzazione. La creatività diventa libero arbitrio e l’organizzazione diventa oppressione e soppressione di creatività. Vediamo che nel gruppo Benetton queste cose sono congiunte, ci sono anche altri esempi, ma vediamo soprattutto nel gruppo Benetton che la creatività, che giorno per giorno vi riposiziona sul mercato – in un gioco evidentemente molto difficile – viene coltivata dentro una organizzazione. Questa polarità come rimane insieme, è una virtù personale di qualche leader, è una scuola, è una cultura che con gli anni è cresciuta, come funziona tutto questo?

ALESSANDRO BENETTON:
Forse la risposta stava in quell’augurio con il quale ho concluso la mia presentazione, la mia premessa, che è l’augurio di non stare mai tranquilli. Penso che non c’è una risposta ferma a questa domanda, il fatto che le due cose non siano in contrapposizione è vero perché qualcuno fa sì che non siano in contrapposizione. E’ vero perché qualcuno non è mai tranquillo. E’ un fatto dinamico, sono come le monadi di Leibniz, che sono un continuo appetire la differenza ma che non sono in uno status quo fermo. Quello che fa l’individuo è proprio questo, fa la differenza, lui ci mette del suo perché capisce che ogni giorno qualcosa deve cambiare, che non vuole dire distruggere il passato ma vuol dire migliorarsi. Per cui scatta questo gioco continuo tra l’organizzazione e l’individuo, tra l’intuizione del singolo e la messa a punto della conoscenza di tutti quanti sullo stesso tema. Ecco, per me questo vuol dire fare il gioco di squadra, vuol dire riconoscere che non ci sono tutti che fanno lo stesso mestiere: a qualcuno, ai leader, viene dato questo tipo di responsabilità, non stare tranquilli e trasmetterlo agli altri; che non è una instabilità necessariamente o non è neanche una incoerenza, ma è la volontà ogni giorno di dire: “Ehi, forse si può fare meglio”.

BERNHARD SCHOLZ:
Un’altra domanda che si aggiunge è che noi vediamo un momento dove il lavoro manuale viene completamente misconosciuto. Siamo ad un livello dove qualsiasi lavoro manuale viene considerato di serie b. Essendo lei, e tutte le parole che lei usa lo dimostrano, molto segnato dall’incontro con questo professore di filosofia, quindi avendo una cultura molto elevata che è arrivata fino ad Harvard, sul lavoro manuale che pensiero ha?

ALESSANDRO BENETTON:
Tutte le piante nascono piccole, per cui non si può prescindere da una conoscenza o un approfondimento del lavoro manuale. Io come italiano mi sento veramente orgoglioso quando giro il mondo e scopro che alcuni nostri artigiani fanno delle cose straordinarie, delle cose uniche, delle cose che lasciano a bocca aperta. Io penso che il problema sia quello delle capacità organizzative, industriali e dei gruppi a sfruttare meglio queste capacità manuali, non a sottovalutarle.

BERNHARD SCHOLZ:
Bene, c’è qualcuno qua presente che vuole fare una domanda sulla vita e sulla storia di Benetton?

DOMANDA:
Lei prima citava la passione e l’amore per lo sport, che è stato testimoniato da un grosso intervento di Benetton nel corso degli anni in molti sport, però negli ultimi tempi questo intervento si è molto ridotto: l’ultimo è il basket, che tra l’altro è una delle mie passioni, e mi è anche dispiaciuto per la fine che ha fatto questa società gloriosa: è solo un problema di crisi o c’è un ripensamento invece nel posizionamento dell’azienda nell’ambito dello sport, e in generale della comunicazione?

ALESSANDRO BENETTON:
Per noi il mondo dello sport ha sempre avuto due grandi filoni di pensiero: il primo quello commerciale e mediatico, del quale mi sono occupato io, che è stato quello della Formula 1, che è stata una parentesi dalle emozioni fortissime, che ha dato un contributo fenomenale allo sviluppo del nostro marchio. Ecco, in quegli anni io ero Presidente della Formula 1, e vi assicuro che immaginare che un gruppo industriale entrava in quel mondo, acquisiva un team, e si sarebbe messo a fare concorrenza alla Ferrari, alla Williams e che avrebbe anche vinto dei mondiali, non era sicuramente un fattore immediato, non era qualche cosa che le grandi agenzie di consulenza ti avrebbero consigliato in quel momento. Però, invece, è stato di una valenza incredibile, perché non solo è stato molto efficace perché avevamo bisogno di uno strumento mondiale che comunicasse il nostro brand in maniera coerente e consistente, perché è l’unico evento con 15 appuntamenti ogni anno in tutto il mondo; ma soprattutto perché ha regalato al nostro gruppo la credibilità di poter fare delle altre cose, oltre alle maglie: quindi l’inizio di tutta la fase della diversificazione. Quella, ahimè, è stata una parentesi che si è chiusa, perché, a un certo punto, a piè pari sono entrati tutti i produttori di automobili, e ciò ha fatto sì che diventasse un mondo per specialisti, per cui, insomma, non c’erano delle altre alternative.
L’altro grande filone è stato sempre quello dello sport sociale, come lo chiamiamo, in cui il grande pensiero era quello di ridare a un territorio che ci aveva regalato molto un giusto tributo, una giusta attenzione. E da là sono nate sicuramente le sponsorizzazioni del basket, ma soprattutto è nato lo sport sociale, quello che è il baricentro di tutto il pensiero, che è La Ghirada, questo centro dedicato ai giovani e aperto a tutta la città, fatta di tanti campi da pallacanestro, tanti campi da rugby, tanti campi da pallavolo, delle squadre minori, insomma qualche cosa per la città. Attorno a questo si articolava anche il basket. Semplicemente, è successo che mio zio – che se ne occupava perché nutriva, e nutre penso, una grande passione per tutti gli sport, in particolare si sentiva molto vicino al mondo del basket – a un certo punto, ha avuto la sensazione che era un po’ solo, perché alla fine, insomma, non c’era più il seguito e non c’erano più le dovute attenzioni nei confronti della città, nei confronti del pubblico, per cui uno fa una cosa quando viene anche seguito, se non è seguito un po’ deve ripensarsi. E allora, a quel punto, la considerazione è stata di questo tipo: se noi vogliamo continuare – cosa che faremo assolutamente – ad essere attivi nell’aiuto allo sport per il senso sociale che questo rappresenta, è quella la cosa più moderna che possiamo fare? Ecco, forse la risposta è che ci sono delle altre cose che abbiamo in cantiere, in termini di sport per i giovani, che sono più in linea con quelle che sono le esigenze di un mondo moderno. Sa, io in fin dei conti penso che lo sport, quando guardo i miei figli, quando guardo alla mia storia, abbia soprattutto il valore di tipo formativo per i giovani. Il fatto mediatico, il fatto delle sponsorizzazioni, il fatto delle squadre, funziona alla fine se c’è anche un equilibrio con un riscontro economico, noi non è che abbiamo bisogno di far conoscere il nostro mercato nei palazzetti del basket italiano, quindi deve avere una valenza per i giovani. Ecco, io penso che noi dobbiamo ritornare a concentrarci – e lo faremo, e lo stiamo già facendo – nelle attività che riguardano proprio il sociale, lo sport per i giovani, e questa valenza di tipo formativo – educativo, che io penso sia qualche cosa di molto importante.

DOMANDA:
Per quanto riguarda il rapporto tra persone con la pubblica amministrazione, uno dei grandi problemi che hanno le imprese, e di cui si lamentano gli imprenditori, è il rapporto con la burocrazia, con i burocrati. Ora è sempre e comunque un rapporto tra persone, e quindi volevo sapere il suo pensiero: se ha trovato nella sua vita personale e imprenditoriale degli interlocutori, difficili o facili, ma sempre degli interlocutori che fossero persone, e che si ponessero, diciamo, come tali nella sua interlocuzione.

ALESSANDRO BENETTON:
Grazie per la domanda. Io, per fortuna, non mi occupo nel nostro settore delle infrastrutture, o di quei temi che, industrialmente o progettualmente, sono più vicini al mondo della politica. Però, chiaramente, mi è capitato nel corso della mia carriera, anche più di qualche volta, di incontrare persone della pubblica amministrazione. Rispetto al mondo anche della politica, ecco io ne esco sempre sicuramente con la convinzione che c’è tanta gente per bene, più forse di quello che noi ci immaginiamo. Penso che, da questo punto di vista, la consapevolezza pubblica anche del lavoro che sta facendo questo Governo, nonostante tutte le difficoltà, nonostante tutti gli errori che uno può commettere quando è costretto a lavorare su difetti accumulati da trent’anni, è già una dimostrazione di questa qualità che di fondo abbiamo. Ho trovato anche situazioni che ti lasciano un po’ inorridito, però quasi sempre – devo dire con franchezza – ho avuto l’impressione che fossero le regole del gioco che facevano le persone cattive, più che le persone cattive che facevano delle brutte regole di gioco.

DOMANDA:
Mi permetto di fare una domanda velocissima, almeno ha anche una voce femminile. Intanto complimenti per il suo percorso personale. Ecco, un tema secondo me molto delicato è il passaggio generazionale all’interno delle aziende. Io vengo da Bologna, quindi una regione dove ci sono delle aziende molto importanti, soprattutto nel settore del packaging, della meccanica, lei avrà presente il gruppo I.M.A., quindi la famiglia Vacchi, oppure la famiglia Fava, di Cento di Ferrara. Ecco, quali sono, secondo lei, dal suo punto di vista, non dico le regole, ma, insomma, i suggerimenti o segreti affinché il passaggio generazionale possa essere un passaggio generazionale di successo, come quello, per esempio, che è il suo, o anche quello per esempio della famiglia Vacchi, che conosco bene personalmente. Grazie.

ALESSANDRO BENETTON:
Grazie per la domanda, penso che sia una domanda che è molto pertinente. E’, paradossalmente, più che pertinente in casi come il nostro, dove c’è stata un po’ una storia anomala: io, alla fine, una delle grandi decisioni che ho preso quando sono tornato da Harvard, è quella che non avrei voluto lavorare all’interno del gruppo; per cui insomma io ero convinto che non l’avrei fatto, perché il mio stimolo era quello di autoaffermarmi imprenditorialmente ed era quello il mio obiettivo, la mia asticella. E poi le cose sono andate diversamente. Sono andate diversamente perché quello che ho fatto ha funzionato, e sono andate diversamente perché è arrivato il momento di maturazione adeguato, in cui gli azionisti hanno deciso di fare anche sull’attività di famiglia il passaggio manageriale, per cui chi più indicato di uno che veniva dal mondo degli investimenti e del private equity, dove questi passaggi li fa di mestiere? Chi viene dal mestiere che fa la 21 Investimenti sa che il primo grande obiettivo è quella di managerializzare l’azienda, e renderla indipendente dalle personalità, dai singoli, dai fondatori, e così via. Per cui è stata proprio una scelta naturale da tutti i punti di vista, perché conoscevo la famiglia, conoscevo il business. Non era parte della mia ambizione quando ero giovane, ma soprattutto c’era un’esperienza di tipo personale, in una formazione personale che era proprio perfetta. Vale però la sua considerazione, che è quella di dire – e ritorno a un’affermazione che ho fatto in precedenza – che il 90% del Prodotto Nazionale Lordo italiano è basato sulle piccole-medie imprese. E qui il tema si fa un po’ più complesso, perché è più difficile far intervenire manager esterni, tante volte, non ci sono le masse critiche per avere i consulenti, per farsi aiutare da altri. Ecco, io posso rispondere in questa maniera: a me è capitato con la 21 Investimenti di investire in dei settori e managerializzare delle aziende, in cui chi ci aveva lavorato per vent’anni giurava che non era possibile fare diversamente da come loro avevano fatto; e tante volte, invece, un occhio esterno in qualche maniera ti aiuta ad avere una prospettiva diversa. Ecco, io apro una parentesi: non dimentichiamoci che il valore della famiglia, all’interno di un’organizzazione, è un valore molto importante: non è qualche cosa che va solo a detrimento. Quanti luoghi comuni, quando si parla del nepotismo: è vero, può degenerare in brutte cose, però il valore di avere un senso comune delle cose, non dimentichiamoci che è qualcosa che ci distingue, e che non dobbiamo perdere. Certo, man mano che le masse critiche cambiano e man mano che le nuove generazioni, o delle generazioni che vengono dopo di te, intervengono, tu devi riconsiderare il tutto, ed essere flessibile.
Io dico tutto questo perché la mia conclusione alla fine è quella di far tesoro della mia esperienza, cioè quella di aver fatto qualche cos’altro. Io penso che la grande prova, che in qualche maniera io ho affrontato, e quella che alla fine, tra tanti anni, i miei figli dovranno affrontare se vorranno essere degli imprenditori, o se vorranno essere qualche cos’altro, è quella, prima di tutto, di fare bene quello che vorranno fare, qualsiasi sia il loro talento: quindi prima di tutto capire qual è il loro talento, e questo uno lo deve fare da solo. Allo stesso tempo, però, penso che è importante e fondamentale che se uno è imprenditore, e viene da una famiglia imprenditrice, gli venga data la chance di essere imprenditore e quindi di incominciare nel piccolo a fare delle cose in proprio, di mettersi alla prova, non di provare a cercare un percorso già preconfezionato, perché potrebbe non valer la pena né per lui né per l’azienda, perché – come diceva mi sembra Flaiano – corre il rischio che quando lui trova tutte le risposte son cambiate le domande.

BERNHARD SCHOLZ:
Statisticamente il 90% degli imprenditori italiani pensano che nessuno in famiglia e nessuno in azienda sia in grado di succedergli, quindi, se le cose vanno poi in una certa direzione, è perché loro hanno capito che qualcosa comunque vale.

DOMANDA:
Buongiorno, sono Sinopoli del mensile Business People, volevo chiederle questo: con che criterio voi scegliete le aziende dove andate a investire con la 21 Investimenti? Qual è lo sguardo sulla realtà che vi permette di distinguere un potenziale business in un’azienda? Io ho notato, non so se sono le ultime due, ma penso certamente tra le ultime operazioni che avete fatto con The Space, acquistando Warner Village, Medusa, facendo le multisale; e poi l’operazione Pittarello Calzature, quindi, in un mercato, quello delle calzature, oggi molto competitivo. Quindi, mi piacerebbe comprendere meglio quali sono i criteri, grazie.

ALESSANDRO BENETTON:
Grazie per la domanda perché questo mi porta ancor di più a casa. Penso che l’operazione, dico due parole magari per chi non ha avuto modo di conoscere. Noi come 21 Investimenti abbiamo acquisito una buona quota di mercato nel settore dei cinema, nei multiplex e l’abbiamo fatto mettendo assieme due grandi player, Medusa e Warner Village. Questo sembrava assolutamente un settore che non poteva dare dei margini, un settore che non poteva dare soddisfazione, un settore che non aveva futuro. Questo detto anche da chi ci operava, da chi lo conosceva da venti anni magari. E noi, invece, abbiamo ritenuto che non fosse vero, che ci fossero delle possibilità in un mondo che cambiava e questo era dovuto a tanti fattori, una congiuntura che tende a favorire quel tipo di consumo perché durante i momenti di crisi in ogni caso il cinema tiene, per cui in qualche maniera anticiclica rispetto all’economia, la cultura dell’aver scoperto che i giovani invece, soprattutto i molto giovani, ritengono che è un modo di divertirsi socialmente piacevole e poi soprattutto il fatto che, creando delle masse critiche, cosa che era già stata fatta in tutti gli altri Paesi europei, si potesse discutere coi fornitori dei prodotti in maniera diversa. E tutte queste tre cose sono successe. Il tutto con un buon management, perché avevamo anche qualcuno che aveva questo senso di visione assieme a noi come azionisti. Come manager, è venuta fuori una storia che ci da soddisfazione. E anche qui va sottolineata la discontinuità, cioè è avvenuto in un settore e in un mondo che non avrebbe mai voluto scommettere su se stesso. E guarda caso però l’ha fatto qualcuno che veniva fuori da quel mondo. Nel caso di Pittarello, invece, una catena di distribuzione nelle scarpe, lì c’è un’altra considerazione. E’ vero, il mercato è molto competitivo ma, crederci o non crederci anche nelle calzature di posizionamento medio, l’Italia è un grande produttore, ed è ancora competitivo. Sicuramente è ancora una forza dominante: la maggior parte di prodotti di Pittarello, ben al di sopra del 60%, sono prodotti italiani. Allora noi abbiamo pensato che un progetto nella distribuzione, perché quello è un progetto non di produzione ma di distribuzione, dedicato a una fascia media ma che può diventare una fascia A, anche più alta, una sorta di marchio, così, accessibile ma di qualità per le famiglie, potesse essere qualche cosa di cui il Paese aveva bisogno, soprattutto nel Nord Italia. Così è stato. Le prime indicazioni che abbiamo sono molto convincenti.

BERNHARD SCHOLZ:
Bene, allora ancora una domanda lì in fondo. La priorità ai giovani, mi spiace. Le signore sono giovani per definizione, quindi.

DOMANDA:
Volevo fare una domanda. Lavoro in uno studio legale e nel nostro mestiere, quello degli avvocati, è imprescindibile il rapporto con un maestro. Nella sua storia, è emersa la figura del professore di filosofia ma poi nell’ambito lavorativo, volevo chiederle, chi sono stati i suoi maestri e come gli errori fatti durante la sua carriera si sono in realtà dimostrati essere delle energie, magari, per operazioni future?

ALESSANDRO BENETTON:
Questa è una bella domanda, perché corri sempre il rischio di essere immodesto o corri il rischio, in maniera opposta, di dare delle indicazioni quasi ci fosse un segreto, come se qualcuno ti indicasse la strada, tu la percorresse e questo fosse indice di sicuro successo. Cosa che non è assolutamente. Ho in mente un momento particolare della mia vita, quando mi sono laureato ad Harvard, quando il rettore ha detto come frase conclusiva: “Adesso vi consiglio di fare una cosa. Voi siete giovani, ispirate ancora simpatia, potete per 2/3 anni sfruttare questa simpatia e andare da chiunque di potente, di conoscente, di speciale, chiunque sappia le cose e farvi raccontare la verità. Dopo di che, ad un certo punto, verrete visti, invece, come dei concorrenti, e lui non vi racconterà più la verità”. Ecco, intuitivamente, io penso che questa è stata la mia esperienza. Di persone che sono state un’ispirazione, ne ho avute più di qualcuna. Penso sicuramente a mio padre, penso sicuramente a Michael Porter, questo professore di economia di cui ho parlato e con il quale ho fatto la tesi ad Harvard. Più recentemente, penso, ad Henry Kissinger, con il quale mi consulto qualche volta all’anno. Però fondamentalmente ho sempre guardato a queste figure, a questi momenti con una grande forza ispirazionale, una grande forza di chi guarda qualche cosa e rimane sicuramente a bocca aperta, però senza spirito di emulazione, cioè senza mai rifiutarmi di accettare me stesso, con le mie debolezze o con le mie caratteristiche. Ecco, io penso che così vadano visti gli altri, vadano viste le persone che uno guarda sul giornale, che tende a mitizzare, che tende a guardare con ammirazione. Assolutamente, sì, ma guardarle per trarne la motivazione, per trarre l’ispirazione, per trarre uno spirito di interesse, di curiosità, ma non sicuramente per provare ad essere chi non si è. Io ho incontrato tante persone che mi hanno ispirato ma nessuna che ho mai voluto emulare.

BERNHARD SCHOLZ:
Io ringrazio Alessandro Benetton perché, senza volerlo emulare, ha dato una serie di suggerimenti che meritano veramente un confronto serio, un paragone serio. Penso che alcuni suggerimenti siano stati anche di grande aiuto per affrontare con maggiore serenità la vita lavorativa e il futuro di ognuno di noi. Ci siamo detti che ci vediamo l’anno prossimo e ci consiglieremo con lei sul futuro dell’Italia e quindi grazie a voi tutti che siete intervenuti e buon pomeriggio.

Data

23 Agosto 2012

Ora

15:00

Edizione

2012

Luogo

Sala Tiglio A6
Categoria
Incontri