EDUCARE AL LAVORO ATTRAVERSO IL LAVORO

Educare al lavoro attraverso il lavoro

Educare al lavoro attraverso il lavoro

Partecipano: Silvio Bartolotti, Amministratore Delegato Micoperi; Manuela Kron, Direttore Corporate Affairs Gruppo Nestlé in Italia; Stefano Sala, Amministratore Delegato Gruppo PER. Introduce Monica Poletto, Presidente Compagnia delle Opere Sociali.

 

MONICA POLETTO:
Iniziamo l’incontro dal titolo Educare al lavoro attraverso il lavoro, che ha tre ospiti importantissimi, per la loro funzione, perché sono dei nostri cari amici e perché hanno un tratto comune. Vedremo che rappresentano aziende molto diverse e hanno funzioni molto diverse all’interno delle aziende per cui lavorano, ma il loro tratto comune è che sono persone profondamente appassionate al proprio lavoro, alla propria azienda e, io direi, alla realtà tutta. Oggi vogliamo mettere a tema come questa passione si comunica, come i nostri ospiti educano a questa passione all’interno della loro azienda. Una riflessione che si faceva tra di noi è che sempre di più l’aspetto educativo si sta trasferendo anche all’interno del contesto lavorativo, che sempre di più diventa un contesto che educa o diseduca. Per questa ragione abbiamo iniziato a dialogare con loro. Innanzitutto, come trasmettete questa passione, come trasmettete questa responsabilità? Come educate persone adulte ad essere in grado di stare in piedi e affrontare le sfide che il mondo del lavoro pone? Come lo fate attraverso lo strumento del lavoro? Oggi vogliamo dialogare con Manuela Kron, responsabile Corporate di Nestlè in Italia; con Stefano Sala, amministratore delegato del gruppo PER; e con Silvio Bartolotti, amministratore delegato di Micoperi, un’azienda che forse ai più dice poco ma a cui dobbiamo il recupero della Concordia. Passo la parola a Manuela, che finito il suo intervento dovrà lasciarci perché le è caduto in testa un impegno istituzionale. Ti passo la parola, chiedendoti di entrare nel merito del tema che ho introdotto.

MANUELA KRON:
Grazie Monica. Quando mi hai proposto questo incontro, in un primo tempo ho pensato di venire a parlare di quello che, come azienda, facciamo nei confronti del lavoro soprattutto con i giovani. Poi però mi sono resa conto che in realtà non era esattamente questo il tema. Parlando di passione, da quel che ricordo, posso dire di essere sempre stata appassionata di quello che faccio, e ho pensato di essere nata così. Ma ci ho ripensato e ho capito che non era vero. Non sono nata così: ho avuto un capo fantastico che mi ha comunicato la sua passione. Il mio primo capo era un irlandese che parlava italiano come Stanlio e Olio; quando voleva, parlava bene l’italiano, ma quando voleva fare quello che era in difficoltà perché era straniero parlava con un accento più forte. È lui che mi ha trasmesso la passione per il lavoro, a tal punto che mi viene da pensare di esser nata con questa passione, mentre invece mi è stata trasmessa. La passione per quello che si fa non è necessariamente passione al lavoro; se la si ha, si può ribaltare sul lavoro perché quello che ho imparato da questo mio capo e da situazioni successive è che occorre trasmettere il senso del voler fare il bene comune. Se io lavoro e ti faccio vedere che quello a cui penso non è solo il bene mio, quello che interessa a me, se io riesco a farti vedere che facendo qualcosa che va bene per te, fa bene a tutti, fa bene a un’entità e a una catena di persone molto più ampie, questo dà molta soddisfazione. Soprattutto, occorre far vedere questo alle persone giovani che entrano nel mondo del lavoro. All’interno della nostra azienda abbiamo dei programmi di scambio di persone, in modo che lavorino con persone più mature che facciano vedere ai più giovani come funziona il lavoro a che cosa possono aspirare quando vengono da noi a fare degli stage curriculari. Viceversa, i giovani possono introdurre le persone mature a capire il nuovo modo di comunicare che ha il mondo. Su questo, abbiamo fatto un progetto che è piaciuto tantissimo a tutti: abbiamo preso alcuni giovani e li abbiamo messi a spiegare cos’è internet a quelli più maturi. Questo ha creato una grande passione sia in chi lo faceva, perché il ragazzo, magari l’ultimo arrivato, è stato investito di un ruolo importante nei confronti di persone più mature dal punto di vista professionale, e questo ha creato dei contatti molto forti. L’altra questione che ho imparato negli anni è che non puoi trasmettere la passione se non dai un grandissimo senso di disponibilità. Se vuoi trasmettere qualcosa devi essere disponibile sempre a seguire la squadra, o i gruppi di lavoro. Intendiamoci, il mio tipo di ruolo è sempre stato quello di essere al centro per aiutare altri, cioè quello che faccio io non è un lavoro fine a se stesso ma di servizio all’intera azienda. Anche in questo caso quello che devi motivare non è soltanto te stesso, non devi creare passione soltanto all’interno del gruppo, ma devi creare la passione di fare le cose per bene in tutti quanti. In questo senso vi racconto un episodio. Vi ricordate il baco del millennio, nel 2000? Io ero a lavorare in un’azienda americana a Roma, la Colgate, e ad un anno e mezzo dal possibile baco, mi viene affidato il team di lavoro che stava cercando di evitare il baco del millennio. E io ho detto che era un argomento di cui non capivo niente, e mi chiedevo perché mi mettevano a fare questo lavoro in cui dovevo coordinare i legali, i tecnici, le fabbriche. La risposta che mi hanno dato è stata: “Scegliamo te perché sai far lavorare insieme le persone”. All’epoca c’era un cosiddetto score card – gli americani sono tutti tecnicamente ben organizzati – e l’Italia era la penultima nel ranking di adeguatezza alle indicazioni per fronteggiare il fenomeno. Quando abbiamo chiuso il progetto, due anni dopo, l’Italia era la numero due. Un successo pazzesco; ci hanno battuto solo i francesi a livello internazionale. È stato un successo perché all’inizio le persone volevano fare il loro e non volevano vedere la complessità della vicenda. E quindi c’era un livello di litigiosità alto. Io non ho un carattere facile e davanti a liti non mi tiro mai indietro, ma la litigiosità eccessiva non aiuta ad ottenere il risultato. Solo collaborando si poteva ottenere una qualche forma di risultato. In tutto questo, ovviamente, io dovevo dare la massima disponibilità. Noi lo avevano visto subito che non sarebbe successo assolutamente nulla, ma dovevano comunque fare le verifiche che ci sono state chieste. Ricordo una delle richieste più assurde era di controllare gli ascensori. Ma i nostri ascensori erano tutti manuali! Glielo abbiamo dovuto scrivere quattro volte che i nostri ascensori, a meno di una mancanza di elettricità, non si sarebbero mai bloccati. Tutto questo ha fatto sì che un gruppo che era partito malissimo si sia man mano coagulato e agglomerato. Io ero probabilmente il manager più giovane, e donna, il che non rendeva le cose facilissime. Credo che la passione e l’educazione siano ovviamente esempio. C’è anche un’altra cosa che per me è fondamentale e che vedo a volte soprattutto per i giovani: se qualcuno fa bene una cosa è merito suo, ma se qualcuno fa un errore la colpa è di un altro. Cioè alla fine, se qualcuno fa un errore, la responsabilità di quello sbaglio la deve prendere il capo. Credo che quando tu riesci a dare alla persona che lavora con te il senso di una rete intorno a lui che, se fa un errore, si cercherò di recuperalo insieme, si crea un clima di lavoro molto più proficuo. Questo sistema diciamo funziona al 70-80%. È questo è importante: dare il senso ai giovani che cominciano a lavorare che non sono soli, che non devono aver paura di sbagliare, che le responsabilità sono condivise. Questo è uno dei punti fondamentali per qualsiasi tipo di lavoro. Soprattutto nelle nostre fabbriche, ho visto i nostri responsabili delle linee che, se hanno ricevuto il modo giusto per approcciare i giovani che lavorano con loro, lavorano in modo veramente straordinario. Per esempio, sul tema della sicurezza che per noi è fondamentale in stabilimento. Educare alla sicurezza è uno dei punti più difficili che si possano fare, ma con la passione di chi ci si mette, con la passione di chi i problemi li ha avuti, di chi ha veramente sfiorato le tragedie, è tutta un’altra cosa. Se non hai il senso che tu non stai facendo quella cosa per te, ma la stai facendo per qualcosa che è oltre a te, se non c’è questo c’è poca passione al lavoro e a quel punto diventa una cosa mortificante. Lavorando, passiamo la maggior parte delle ore della nostra giornata: se alla fine della giornata non hai il senso di dire “bene, ho raggiunto questo tipo di traguardo e domani potrò andare altrove, insieme, con un gruppo”, si fa fatica due volte.

MONICA POLETTO:
Grazie Manuela. Ci vuole un maestro che vuole il bene comune, che è disponibile sempre, che non criminalizza l’errore e che trasmetta la propria esperienza. Bellissimo. Grazie. La parola a Stefano.

STEFANO SALA:
Innanzitutto, vi ringrazio dell’invito a questo incontro interessante. Il titolo effettivamente è affascinante. Educare al lavoro attraverso il lavoro è un tema che, per chi fa, come me, l’imprenditore, cerca di elaborare sul serio, è un titolo che provoca. Noi abbiamo cominciato l’azienda pochi anni fa, solo otto anni fa, dopo essere usciti dall’esperienza di una multinazionale. Oggi, dopo otto anni, ci troviamo ad avere un’azienda che ha più di centocinquanta persone dipendenti, più altri collaboratori esterni, e che fattura venti milioni di euro. Siamo cresciuti in fretta. Evidentemente, se si cresce in fretta, il tema sono le persone che sono con noi. Mi sembra che il tema di educare lavorando non sia un optional ma sia un tema decisivo per la vita dell’azienda. A questo proposito mi viene in mente un episodio che mi è successo qualche mese fa. Facevo un colloquio ad una persona che voleva entrare da noi, una persona di cultura, che in qualche modo si presume sia avvezzo a questi temi. Le prime tre domande che mi ha fatto sono state: quanti soldi prendo, a che ora finisco la sera e se c’era tempo per andare tre volte alla settimana in palestra. Io a questo ragazzo ho chiesto che idea potevo farmi di una persona che non chiede nulla di ciò che fa l’azienda per cui vuole lavorare. Questo mi ha molto colpito. Sarà forse per la crisi di altri ambiti educativi come la scuola, piuttosto che in famiglia, ma il lavoro sta diventando sempre di più il luogo dove i ragazzi giovani imparano ad avere a che fare con la realtà normale. Alzarsi al mattina ad una certa ora, vestirsi in un certo modo, avere un rapporto con un capo, obbedire ad un capo, lavorare con delle persone e via dicendo. Mi sembra che la domanda di questo incontro, in qualche modo ci obbliga a chiedere a noi imprenditori se abbiamo solo l’obbligo di fare l’azienda o in qualche modo abbiamo dentro il nostro DNA il desiderio di far venir su degli uomini, delle persone che lavorano fino in fondo. Mi sembra che questa domanda sia capitale non soltanto per me come persona ma come azienda, perché tanto più l’azienda cresce, o le persone che lavorano con noi sono più brave di noi, più capaci di noi e quindi affrontano le sfide come le affronteremmo noi, oppure rimaniamo come il tipico male dell’Italia, per cui molte delle imprese che nascono con grandi prospettive finiscono nella sfera dell’imprenditore stesso che non è capace di trasferire il suo desiderio imprenditoriale. Rispetto alla provocazione di questo incontro mi vengono in mente tre temi che mi sembrano quelli che nell’esperienza di questi otto anni sono stati i più interessanti. Innanzitutto cosa faccio. Io lavoro in un’azienda che si occupa di assistere coloro che hanno avuto delle tragedie. Alcuni miei amici, prendendomi in giro, mi dicono che mentre nel Libro della Sapienza c’è scritto che Dio non gode della rovina dei viventi, io un pochino sì, perché lavoro sulle disgrazie altrui. In realtà non è vero, perché intanto le disgrazie non le mando io, ma le manda qualcun altro, e poi sono bisogni, sono esigenze che ci sono. Dare una mano a una persona a riprendere rapidamente la propria attività che altrimenti sarebbe in crisi, è un’esigenza a cui rispondere. Questo è il nostro mestiere. Il primo grande compito che io come imprenditore mi sento di avere è quello che chi lavora con noi metta il cuore in quello che fa. Penso che uno dei più grandi mali che noi viviamo è quello di vivere una vita parcellizzata. Un conto è il lavoro, un conto è lo svago, un conto è lo studio, un conto è lo sport, la famiglia. Da un certo punto di vista è anche vero, ogni persona ha tanti ambiti in cui vive e lavora. Però, mi accorgo che si lavora tanto meglio, quanto più non si mette solo le ore di lavoro e la propria competenza in quello che si fa, ma se si mette anche il proprio cuore, tutto di sé, il desiderio di rispondere a quelle mancanze di cui parla il titolo del Meeting. Chi lavora è chi non solo conosce il suo mestiere, ma chi mette se stesso nel lavoro. L’idea di lavoro per cui esso è un contratto tra l’impresa e la persona, per cui ti viene detto cosa devi fare e su questo ricevi una remunerazione, è quanto di più astratto esista nella vita normale di un’azienda. Lavorando uno mette se stesso, cerca di realizzare se stesso. Il primo grande passo è aiutare le persone che lavorano con noi a capire che il lavoro non è una condanna utile solo ad avere quattro soldi in tasca, ma è il modo più semplice con cui ognuno porta avanti il suo destino, realizza la sua vita, realizza se stesso. Io mi rendo conto che questo ha una implicazione anche dal punto di vista del come governiamo l’azienda. Per il lavoro che facciamo, per quasi tutti i nostri clienti abbiamo un obbligo di intervento entro pochissime ore in tutta Italia. Io penso che non ci sia nessuno nella mia azienda che non abbia dovuto rinunciare a delle ferie per andare a sistemare un incendio, un allagamento, un’alluvione o un terremoto. Evidentemente, tu non puoi lavorare in un’azienda dove i tuoi piani sono continuamente cambiati, se non percepisci una possibilità grande per te dal lavoro che fai. Questo è il primo tema che vediamo. Un’altra occasione in cui vedo che uno mette il cuore in quello che fa è che il nostro lavoro è pieno di interessi contrapposti. Quando noi andiamo a lavorare dopo un incendio, troviamo un’azienda danneggiata, in crisi, per cui sembra impossibile ripartire, che ha paura di non avere i soldi per ricominciare, e quindi ha il problema che l’assicurazione gli paghi i soldi che gli servono. Dall’altra parte c’è l’assicurazione che vuole pagare il giusto; e poi abbiamo tutti i vari professionisti. In una situazione del genere a noi non è richiesto soltanto di cercare di risolvere il problema tecnico, quindi di dare la possibilità all’azienda di ripartire, ma è chiesto di mettere d’accordo tutti questi soggetti. Chi può mettere d’accordo questi soggetti? Qualcuno che ha una maturità fuori dal comune. Solo chi è capace di immedesimarsi nei problemi di chi ha davanti riesce a trovare la soluzione in una situazione così complessa. Anche qui si vede che educare al lavoro è innanzitutto educare ad una professionalità, perché senza la professionalità non si va da nessuna parte. E ancora più difficile è educare a quell’aspetto della professionalità che è la propria maturità personale. Io vedo che la solidità delle persone, la loro stabilità, la loro capacità di guardare alla realtà secondo la sua complessità e non solo secondo il proprio punto di vista, è questo quello che fa emergere le persone. Il primo compito di noi imprenditori è quello, in azienda, di valorizzare questi fattori, la capacità di mettere il cuore al di là dello stato, la capacità di trovare una soluzione, e non il disfattismo. Trovare e mettere la fantasia per capire come si può fare. Noi facciamo un lavoro sempre al limite. Un mese fa un imprenditore aveva una commessa importantissima – ci aveva messo cinque anni per ottenerla – e mentre la stava producendo accade un incendio. L’imprenditore ci dice che se non avesse concluso la produzione avrebbe chiuso. Nel nostro lavoro è fondamentale che ci si immedesimi in questo problema, è fondamentale che il problema del cliente diventi il tuo problema. E questo lavoro non lo si fa perché sono molto competente, ma perché ho un’altra umanità. Questo è il tema, questo è un primo tema fondamentale. La seconda osservazione che voglio fare è questa. Nel nostro come in tutti gli altri lavori, facciamo un sacco di errori. In questi otto anni di attività imprenditoriale chissà quanti errori abbiamo fatto, e molti li conosciamo anche bene. Ma, osservando le persone che lavorano con me, non mi è mai successo di vedere qualcuno che pensa di andare in ufficio per fare un errore. Questo non succede mai. Ma in azienda, se vediamo un errore vogliamo immediatamente colpevolizzare chi ha commesso lo sbaglio. Le aziende sono diventate un po’ i nuovi moralisti e i manager i nuovi sacerdoti. Bisogna smettere di identificare l’errore con il colpevole. Questo è un problema. Invece mi sono accorto che molte volte quando c’è un errore, quando qualcuno sbaglia, il problema fondamentale è che si sbaglia perché non si capisce il rapporto che c’è tra il proprio lavoro e lo scopo generale dell’azienda. Lo scopo generale. Su questo vi racconto un esempio che mi è capitato un anno e mezzo fa. Noi abbiamo un ufficio, bello, vicino a Milano, dove spesso ospitiamo delle compagnie di assicurazione per poter fare degli accordi. Vogliamo che la sala riunioni dove facciamo questi incontri sia sempre a posto. C’è la macchinetta del caffè con le cialde, le tazzine pulite e tutto il resto. Più di una volta mi è successo di arrivare al mattino, dove tendenzialmente dovrebbe essere tutto a posto, perché le pulizie si sono fatte alla sera, e notare che non tutto era a posto; il caffè non c’era, le tazzine erano sporche. Queste sono cose che mi fanno imbestialire. La prima tentazione è stata quella di pensare che l’impresa di pulizie non andava bene e che dovevo cambiarla. Poi mi sono chiesto come mai fosse successo. Una sera mi sono fermato fino a tardi per aspettare la signora delle pulizie e le ho detto quanto fosse importante il suo lavoro, perché se la sala riunioni è a posto, i clienti si sentono a casa. La signora a quel punto mi ha detto che avevo ragione, che era un periodo che stava lavorando male, perché suo figlio aveva un problema. Io capisco che nasce una scintilla in chi lavora con noi, non perché li minaccio di non pagarli se non fanno il loro lavoro. Prima di arrivare a questa soluzione estrema, c’è il problema di aiutare a far capire il rapporto che c’è fra il mio lavoro e lo scopo finale. Penso che noi imprenditori abbiamo un compito: aiutare a dire alle persone che lavorano con noi qual è l’idea di azienda che abbiamo, qual è la nostra visione. Perché se noi non facciamo questo lavoro, chi lavora con noi o non sa cosa fare, quindi si limita a fare il minimo, oppure, peggio ancora, si fa un’idea dell’azienda che è diversa da quella che abbiamo in mente noi. E così abbiamo cento aziende dentro la stessa azienda. Questa è la seconda provocazione io ho colto da questo titolo: educare significa cercare di far capire il rapporto che c’è fra il lavoro che uno deve fare e lo scopo comune. In questo senso ogni lavoro è fondamentale, dall’amministratore delegato al portinaio. Io penso che la gente lavori molto meglio se lo scopo comune è espresso. Spesso abbiamo il problema di dire quello che non va – e questa è una critica che faccio prima di tutto a me – e poco la cura di affermare quale sia l’azienda che vogliamo. Ultima osservazione, frutto dell’ultimo periodo. Essendo cresciuti abbastanza in fretta, abbiamo cominciato ad essere nel mirino delle multinazionali, per cui siamo stati corteggiati per un anno da una grossa multinazionale che, avendo visto la nostra capacità, forse anche un po’ di bravura, voleva comprarci. Di fronte a questa provocazione si può anche pensare di andare avanti da solo perché si è bravi. Ma c’è una domanda più profonda, che nasce da questa sfida. Dentro la domanda sul perché non vendo l’azienda, c’è dentro un’altra domanda, e cioè che idea di azienda ho. Che cosa voglio comunicare alla gente che lavora con me? Vogliamo andare avanti e diventare noi una multinazionale presente in tutto il mondo. Allora capisco che noi come imprenditori abbiamo un aspetto veramente importante che è quello che definisce l’azienda. Noi oggi abbiamo l’idea dell’imprenditore come una persona che vive al di sopra degli altri, per poter guadagnare più soldi, per poter comprarsi più rapidamente una casa, una villa in montagna o al mare, per avere uno status diverso. Questo non c’entra niente con la vita da imprenditore. L’imprenditore ha la sua origine nel fatto che vede la possibilità di rispondere a un bisogno dei clienti in un modo nuovo e originale. Questo è il vero tema imprenditoriale. E per rispondere in modo nuovo occorre una pienezza. Io penso che la cosa che più caratterizza il nostro tentativo imprenditoriale è quello di voler comunicare che oggi, dentro la crisi, dentro la fatica, dentro gli errori, dentro i problemi che tutti noi abbiamo ben presente, c’è un modo nuovo di guardare le cose. Per cui penso di realizzare un modo di rispondere ai bisogni dei miei clienti in modo nuovo. Io penso che in fondo questa pienezza, questo desiderio di comunicare che la vita è positiva, che vale la pena essere affrontata, che si può lavorare, che si può sacrificarsi lavorando, sia interessante. Far fatica, andare a casa tardi, vedere un po’ meno la famiglia, sacrificare qualche weekend è un bene, è la possibilità di diventar più grandi, di conoscere di più. Questa positività ultima è l’aspetto più decisivo a cui noi dobbiamo educare. Finisco con una battuta. In questi ultimi due mesi nella mia azienda alcune ragazze mi hanno detto che erano incinta, quasi un po’ dispiaciute. Come tutti gli imprenditori quando capita questo si pensa subito che occorre cercare qualcun altro, trovare altre persone. Poi però mi sono anche detto che se nella nostra azienda capita che le donne facciano figli, vuol dire che in fondo viviamo in un tessuto in cui c’è speranza, in cui uno vede che la vita è interessante e che vale la pena essere vissuta. Io auguro alla mia azienda e a tutti voi che si possa avere la stessa positività della vita che riscontriamo oggi, anche quando l’azienda non sarà più di centocinquanta persone, ma di diecimila. Grazie.

MONICA POLETTO:
Grazie Stefano. Stiamo giungendo a fattori molto interessanti riguardo la nostra ipotesi. Riprendo alcune cose che hai detto tu. Per educare al lavoro attraverso il lavoro bisogna che i tuoi collaboratori siano più bravi di te e questo, tu hai detto, è una cosa assolutamente rivoluzionaria. Mi ha colpito anche l’idea che lo scopo dell’imprenditore non sia solo fare, ma identificare e rafforzare la visione dell’azienda e comunicarla. La visione è un fattore educativo e questa è una cosa chiara. Infine, la chiusura bellissima sulla trasmissione, cioè che questo impegno in realtà trasmette un’idea della vita che ha una positività ultima. Ora tocca a Silvio Bartolotti. Cosa mi ha colpito di lui quando lo abbiamo conosciuto? Tante cose. È diventato famoso per il recupero in mondovisione della Concordia, un’occasione in cui l’Italia, dopo una figuraccia, è uscita a testa alta. La cosa che mi ha colpito di lui, è che è grande imprenditore, un uomo di visione ma non un uomo solo al comando. Cosa non così semplice da trovare nelle nostre imprese italiane. Allora a lui rilancio la domanda che ho fatto agli altri. Raccontaci nella tua esperienza di imprenditore in Italia, come fai a trasmettere la tua passione, come guardi la tua squadra, qual è la tua preoccupazione nel fare impresa rispetto a tutto il territorio in cui agisci.

SILVIO BARTOLOTTI:
È un piacere e un onore essere qui con voi. In questa manifestazione trovo una grande solidarietà, una grande unione che non è facile da trovare in nessun’altra manifestazione in giro per il mondo. Io posso parlare della mia esperienza personale, quella di un uomo, di un bambino che è nato in campagna, figlio di contadini, che ha vissuto una vita normale. Ho fatto le mie prime esperienze lavorative a sedici anni, andando a lavorare a Bologna, in una città dove la gente parlava con dei vocaboli che io neanche conoscevo perché la mia cultura era quella di un bambino nato e cresciuto in campagna. E non ero neppure uno studente modello: ero un po’ somaro quando andavo a scuola. Quando ho deciso di provare a fare l’imprenditore – evidentemente ciascuno di noi nasce con una strada già tracciata, non penso di essere così bravo, di essere stato così bravo da aver fatto tutto da solo – ho iniziato con una piccola azienda di verniciature industriali, con due dipendenti, a cui poi si è aggiunta la segretaria. I dipendenti sono diventati dieci, venti, e l’azienda piano piano è cresciuta finché circa vent’anni fa, ho rilevato dal Ministero dell’Industria la Micoperi. Ho conosciuto quest’azienda andando a visitare la città di Ortona per andare a cercar lavoro. Ho visto la scritta Micoperi sulla riva del porto, e sono rimasto un po’ stupito, perché sapevo che questa società era a Milano. Mi sono informato, così per curiosare, e un signore mi ha preso per una mano emi ha invitato a prendere un caffè. Ero un po’ in imbarazzo. Visto che ero lì con due miei collaboratori gli ho detto che avrebbe dovuto pagare tre caffè. Ma non gli importava e quindi andammo. Così ho conosciuto l’ammiraglio Salvo Pecorona, un gran personaggio che mi ha raccontato la storia di questa azienda straordinaria, nata nel dopoguerra da gente che aveva combattuto nella marina militare italiana, gente che poi ha fatto le cose che ha fatto attraverso l’appartenenza alla Decima Mas. Sono andato via alla sera col nodo in gola perché pensavo che era assurdo che una nazione democratica lasci morire un’azienda del genere. L’azienda era passata da duemilaquattrocento dipendenti a trentacinque. Ho cominciato una battaglia con me stesso per cercare un imprenditore che rilevasse questa azienda e la potesse portare nuovamente agli albori. Avevo trovato un dialogo con Raul Gardini, la persona su cui avevo riposto le mie speranze, ma purtroppo poi è successo quello che tutti conoscete ed è sparita qualsiasi possibilità. Durante una notte insonne – se se ne passano tante facendo gli imprenditori – mi sono detto che volevo provarci io. Era come prendere una bicicletta per andare sulla luna, perché le difficoltà erano queste, servivano tanti soldi e le mie disponibilità finanziarie erano limitate. Oltretutto era successo qualcosa di straordinario: il mio più caro amico mi aveva fregato un miliardo, le banche che ero riuscito a mettere insieme per fare questa operazione erano sparite. È stata una scommessa col mondo intero. Poi i fatti della vita: il commissario straordinario dà le dimissioni perché l’han trovato con le mani nel barattolo della marmellata; ne nominano un altro che dice che l’azienda la voleva rilanciare da solo. Dopo due anni mi chiama e mi chiede se sono ancora interessato a rilevare questa azienda. Io dico di no, che non ho una lira e nemmeno le banche possono aiutarmi. E lui mi disse che erano costretti a fare un bando internazionale pubblico, e che se me la sentivo potevo fare una proposta. Doveva essere il periodo in cui era uscito il film Proposta indecente, per cui io ho pensato che nessuno mi vietava di farne una. Così ho fatto la mia proposta indecente. Ho fatto una proposta al Ministero dell’Industria che era titolare di questa azienda, per cui rilevavo un mezzo navale il primo anno, altri due il secondo anno, la base di Ortona il terzo anno, e il quarto anno rilevavo tutto il complesso dell’azienda. Avevo immaginato – parliamo del 1995, quindi più di vent’anni fa – che ci sarebbero voluti venti miliardi, una cifra indescrivibile che io neanche sapevo come si facesse a scrivere. Mi telefona un giorno il commissario straordinario e mi dice che avevo vinto. Come ho vinto? E adesso?. Ero l’unico che aveva risposto esattamente a quella che era la richiesta del bando, cioè di rilevare l’azienda complessivamente, i mezzi navali, e utilizzare la base operativa di Ortona. Nessuno continuava a volere quei dipendenti e, così facendo, servivano seicentocinquanta milioni, che comunque erano una montagna di soldi. I soldi me li ha dati la Cassa Rurale Artigiana di Ravenna-Russi – e come abbia fatto non lo so. Non so se me lo sono meritato ma secondo me hanno ecceduto nella fiducia, anche se glieli ho dati indietro tutti nel breve tempo. Poi dopo ci vuole anche un po’ di fortuna. Come vi dicevo prima, noi percorriamo sempre una strada che è stata tracciata. Il giorno dopo che sono andato a Roma a firmare per questa prima fase dell’azienda, mi ha chiamato un cliente, la Tecno Mare Venezia e mi dice che hanno un lavoro da fare in Libano, e che potevo andare a trovarli, se me la sentivo. Io, non solo sono andato a trovarli, ma sono letteralmente volato a Venezia a fare quell’incontro. Ho preso il mio primo lavoro per l’estero (non ero mai uscito dai confini nazionali), abbiamo fatto il primo lavoro e abbiamo guadagnato i primi soldi per pagarci la prima rata dell’acquisto dell’azienda. Il secondo anno è stato un altro istituto bancario che ci ha dato due miliardi e centocinquanta milioni, il terzo anno con gli utili abbiamo ripagato tutto. Nel frattempo, io mi ero messo a fare un mestiere che non conoscevo, che era completamente diverso da quello che avevo fatto fino ad allora. Per questo, mi sono avvalso di quel po’ di esperienza di quei trentacinque reduci; ho dovuto assumerne altre persone, che hanno imparato dai vecchi dipendenti a a svolgere un mestiere, per quello che era nelle loro conoscenze, chiaramente. Il segreto della nostra azienda è stato solamente uno. Noi lavoriamo solo in mare, siamo dei marittimi, galleggiamo coi nostri mezzi navali, abbiamo degli stabilimenti industriali, installiamo piattaforme petrolifere, valliamo pipelines sul fondo del mare. Il segreto è stato che ogni volta che c’era un lavoro, io svuotavo l’ufficio, impiegati compresi, e andavamo tutti in mare a vedere quello che succedeva. Perché tutti debbono essere consapevoli di cos’è l’organizzazione del lavoro! Questo è stato il modo col quale io ho fatto crescere questa azienda. Immaginate che lo scoglio maggiore è stato l’ultimo anno. Ve lo racconto perché la bravura a volte non è sufficiente: dovevo pagare dieci miliardi, l’ultima tranche di quei venti miliardi, e ne avevo solo due e mezzo, mancavano sette miliardi e mezzo. Sono arrivato all’ultimo giorno che mi mancavano sette miliardi e mezzo. Tutta l’operazione, quattro anni di sacrifici e impegni rischiavano di essere vanificati. Venne da me una signora che lavorava per Carimonte Fondiaria, una banca che penso che oggi non esista più, forse è stata incorporata da UniCredit. Un pomeriggio verso le tre si mette ad ascoltare dall’altra parte della mia scrivania tutto quello che avevo da dirle. È stata lì tre quarti d’ora ad ascoltarmi, poi mi ha dato la mano. Io ho pensato che fosse andata male. Invece mi ha trattenuto la mano e mi ha detto: “Bartolotti, lei domattina ha sette miliardi e mezzo sul conto corrente, li spenda come vuole”. Immaginate alla fine degli anni ’90, quanti erano sette miliardi e mezzo e la disponibilità che aveva questa persona! Sono stato bravo io a convincerla? Forse ci ha messo di più Qualcun Altro, perché io da solo non mi ritengo così bravo. La nostra azienda è cresciuta, lavoriamo in tutto il mondo, abbiamo normalmente tra i millecinquecento e i duemila dipendenti; l’azienda è tornata ad essere conosciuta a livello internazionale. C’è stato questo incidente di percorso che si chiama Concordia. Io lo chiamo incidente di percorso, credetemi, non per svilire chi fa un lavoro veramente onorevole, un amico sardo. Io mi tengo lontano dalle disgrazie! Noi facciamo un lavoro fatto di ingegneria, fatto di preparazione al lavoro, cioè tutti si prodigano per stabilire un manuale attraverso il quale andiamo poi in mare ed eseguiamo quei lavori. Non esiste un lavoro simile ad un altro, quando si lavora in mare ogni lavoro è diverso dal precedente. In quella circostanza un giorno mi ha chiamato un amico, che era in macchina con un membro sindacale della nostra azienda, e mi chiede se partecipiamo al lavoro di rigalleggiamento della Concordia. Io ho detto di no, che era una disgrazia e non mi interessa proprio. Non è superstizione, eh? Quando c’è una disgrazia, quando ci sono i morti, preferisco starci lontano. Non vi nascondo che recentemente mi hanno chiesto di tirar su i novecento morti del peschereccio affondato nel Canale di Sicilia. Io ho messo a disposizione gli ingegneri, le tecniche, tutto quello che volevano ma non potevano chiedermi di andare a tirar su novecento morti dal fondo del mare perché io ne ho già avuto abbastanza di quel che è successo. Comunque, questo amico mi dice che se non c’è un’azienda italiana che partecipa a questa iniziativa, rischiavamo di fare un’altra figuraccia di fronte al mondo intero. A lavori conclusi, vi debbo dire che è vero, ma vi spiego anche perché. Questa cosa mi è rimasta nel cuore, e mi sono chiesto se avevo sbagliato a dire di no a due imprese che mi si erano avvicinate per chiedermi se ero disposto a partecipare con loro. Di lì a dieci giorni il nostro broker di Genova mi chiama e mi dice che c’è un’azienda americana che cerca un partner con una base di appoggio in Italia per partecipare a questa gara. Gli ho detto che avrei dovuto dire di no come agli altri ma invece accettai di incontrarli e se fosse stata una cosa seria avrei preso una decisione. Son venuti questi signori dagli Stati Uniti, hanno fatto delle belle promesse – rispettate al 60-70% perché il nostro modo di esistere è completamente diverso dal loro. Lavorando due anni e mezzo, tre anni con questa azienda, mi sono convinto che in America forse ai bambini quando nascono gli stampano un dollaro sopra la culla, perché vivono tutta la loro esistenza solo sulla base del dollaro. Il sentimento nell’ambito del lavoro non esiste, esiste il dio denaro.
Le promesse sono state quelle di comportarci in maniera corretta, di aiutarci a fare bella figura davanti al mondo intero. Mi sono preso qualche giorno per decidere. Ho chiamato quello che poi è diventato il project manager di questo progetto, ho chiamato due persone che erano state assunte in Micoperi quando ancora avevano i pantaloni corti, quindi avevano la cultura dell’azienda, anche se erano usciti come consulenti esterni. Li ho chiamati tutti e tre e gli ho chiesto di partecipare con me a questa folle gara d’appalto. Gli ho dato ventiquattro ore di tempo per decidere. Mi hanno detto di sì e lì io ho capito che il problema non esisteva più. Abbiamo partecipato a questa gara d’appalto: eravamo tredici concorrenti, ridotti a sei, ridotti a tre. Poi ci sono state tutte le possibili alterazioni e modificazioni per cercare di lasciarci fuori da questa gara d’appalto. Alla fine lo Stato italiano che era l’organo supremo decisionale ci ha assegnato l’appalto. Credetemi, un’opera di ingegneria che è durata due anni e mezzo, e poteva durare di meno se fossimo stati solo noi a lavorare. Abbiamo avuto un sacco di interferenze durante l’esecuzione del lavoro, perché le compagnie incaricate assicurative avevano bisogno di una procedura che io non conoscevo e che ho dovuto, bene o male, subire. Ci siamo messi a lavorare di buona lena. Il progetto realizzato è stato fatto interamente in Micoperi; gli americani ne avevano presentati quattro che sono stati cancellati. Molti di voi avranno vissuto con una certa emozione quando abbiamo raddrizzato la nave e l’abbiamo poggiata su della piattaforme che oggi stiamo togliendo. L’ultima pagina della mia offerta conteneva una pagina scritta a caratteri grandi, dove c’erano elencate le nostre priorità: Primo. Da questo lavoro non vogliamo guadagnare una lira, perché il frutto di una disgrazia non porta bene. Secondo. Vogliamo che quando andiamo via dall’Isola del Giglio non si veda che lì c’è stata la nave”. La cosa più emozionante per me, ma forse anche per buona parte del mondo intero, è stato il giorno in cui la nave ha abbandonato l’isola, perché era dritta su delle piattaforme, si vedeva la struttura verticale, non era più in orizzontale. Nessuno si accorgeva, giorno per giorno, che qualcosa cambiava, perché tutte le attività sono state attività svolte dai sommozzatori. Immaginate che abbiamo fatto trentacinquemila immersioni subacquee per fare questo lavoro. Sul lato di sinistra abbiamo saldato i cassoni alla struttura della nave, ma sul lato di dritta non c’era assolutamente nessuna possibilità di saldarli, quindi c’era da inventare qualcosa di assolutamente innovativo. Un nostro perito ha avuto un’idea. Io fin dall’inizio ho detto che su quel lato serviva una soluzione semplice, perché il sommozzatore in acqua non può far fatica. Ha solamente le pinne come organo di propulsione e con quelle sposta ben poche forze. Immaginate sollevare delle catene che pesavano ventisei tonnellate! Per collegarle con quei cassoni che dovevano essere immersi, e dovevano rigalleggiare la nave, serviva un qualche cosa dove l’uomo non facesse nessuna fatica. Bene. Questo perito si è inventato un sistema, una specie di swiber che passava un maschio dentro una femmina. Il maschio era collegato con un cavo sottile di acciaio alla sommità della nave; si tirava il maschio perché penetrasse nella femmina, si richiudevano due ali di questa piastra d’acciaio in un incavo. Questo sistema non ha fatto solo il viaggio di trasferimento della nave, ma la nave ancora oggi grazie per mezzo di questi piccoli swiber. Il giorno in cui la nave ha abbandonato gli ormeggi all’Isola del Giglio, l’ultimo cavo, quello che teneva la poppa della nave, l’ha tagliato il figlio del più vecchio dei miei dipendenti, che sono 42 anni che lavora con me. Non è mai andato a scuola, perché in quel periodo, siciliano, orfano dei genitori non ha avuto la possibilità di andare a scuola. Io gli ho regalato una partecipazione in azienda e siede con me nel Consiglio di Amministrazione dell’azienda. Questa è la scuola che esiste dentro la nostra azienda e credetemi che nel momento in cui la nave ha abbandonato l’isola io ho visto tutti i miei ingegneri, che ho visto con le mani nella testa tutte le sere a ragionare come sviluppare il progetto il giorno dopo, in banchina a piangere. Hanno pianto gli abitanti di quell’isola. Ma la cosa ancora più straordinaria è stata sapere dell’emozione che siamo riusciti a dare al mondo intero. Questo è stato il risultato che la squadra che siamo riusciti a costruire dentro l’azienda è riuscita a dare a tutto il mondo. Perché, vedete, non ci sono delle regole che si possono scrivere per far crescere i dipendenti. Creare un posto di lavoro è uno sforzo sovrumano. Noi oggi stiamo cercando di partire con delle start-up, abbiamo due società di ricerca, una delle quali alleva micro alghe marine, una cosa assolutamente infinitesimale, da cui estrarre molecole che servono nel settore dell’agricoltura, per la difesa biologica, nel settore della farmaceutica e nel settore dell’alimentazione umana. Un altro centro di ricerca è per lo sviluppo delle energie alternative. Far crescere le aziende è una cosa faticosa. Noi non abbiamo regole scritte dentro l’azienda. Abbiamo le persone che frequentano gli uffici, quelli che normalmente risiedono negli uffici o quelli che ci stanno solo periodicamente e che vengono a lavorare quando vogliono, quando hanno tempo, se non hanno problemi familiari. La cosa importante è che ciascuno svolga la propria mansione in maniera corretta e non debba essere io ad arrabbiarmi con qualcuno se non fa completamente le parti del suo dovere. Sono i suoi compagni di lavoro che gli dicono di cambiare il suo atteggiamento nei confronti dell’azienda. A quelli nuovi che arrivano, io dico che non debbono rispondere a me del loro operato, ma devono rispondere a tutte le persone che son venute prima di loro e hanno contribuito a creare il loro posto di lavoro. Questa è la forza della nostra azienda. Ho però un problema. Io assumo degli ingegneri che non sanno una parola di inglese e questo è un grande dramma, perché lavorare nel mondo e non saper comunicare è una cosa drammatica. Quando andavo a scuola, le lingue estere quasi non si studiavano per niente – ho studiato un po’ di francese, ho imparato due bellissime poesie che raccontavo alle ragazze quando ero un po’ più giovane, ma non son servite ad altro, in francese. Non sono stato un ottimo scolaro. Io sono nato il 6 gennaio e quando tutti i miei compagni di giochi sono andati a scuola, a me non m’han voluto perché ero nato l’anno successivo. Questo è stato il primo grande dramma. Sul serio. Ho incominciato ad odiare la scuola ancor prima di andarci. Quando poi ci sono andato, mi han chiuso fra quattro pareti e pretendevano, ad esempio, che io imparassi che giorno era nato Giulio Cesare, o che giorno era morto; ma non me ne fregava niente, mi interessava la storia, ma le date non mi interessavano. Bene, io da imprenditore, dico: “Vale nella vita ciò che lasciamo quando ce ne andiamo”. Vale quello che lasciamo nell’ impronta del nostro passaggio per quel po’ che pensiamo sia servita. Io ho quattro nipoti: quando è nato il primo mi sono quasi arrabbiato, perché il titolo di nonno non è mica un titolo facile da sopportare. U giorno è venuta a casa mia nuora e mi ha detto che la scuola che frequentavano i miei nipoti, insieme ad altri centonovanta bambini, stava per chiudere. Allora mi sono detto: “perché non far finta di avere centonovantadue nipoti, invece che quattro? E sono andato a parlare col parroco che gestisce questa scuola e gli ho chiesto se potevo adottare la scuola. Lui non voleva, diceva che avrei buttato via i soldi. Ma visto che i soldi sono i miei, gli ho chiesto di farmi tentare. Ho parlato con una signora – che poi è diventata preside di quella scuola – che veniva dall’esperienza della scuola pubblica, una persona straordinaria. Abbiamo messo le regole dentro la scuola. Formazione dei docenti, perché senza formazione non c’è niente da fare. L’aggiornamento è una cosa basilare. Poi abbiamo messo la comunicazione. Immaginate una scuola dove ci sono i bambini dai due ai quattordici anni: cosa c’è di più bello per poter lavorare in una condizione di quel genere se non mettere le lingue straniere fin dai due anni come gioco. Abbiamo messo il primo anno l’inglese e lo spagnolo. Visto il risultato straordinario che abbiamo ottenuto, abbiamo messo l’anno scorso il russo. Abbiamo dei bambini di tre anni che parlano quattro lingue. A voi sembrerà impossibile, ma la capacità di apprendimento di questi bambini è una cosa straordinaria, che tutti capiscono e tutti si riconoscono. Per farsi amare, questa scuola di cosa ha bisogno? Abbiamo messo la musica. È un altro elemento di arricchimento incredibile nella vita di un uomo. Abbiamo messo pianoforte, chitarra, flauto e da quest’anno abbiamo aggiunto il violino. Infine, abbiamo messo gli sport, perché l’esuberanza fisica di questi bambini è una cosa estremamente importante. Abbiamo messo la palestra che non c’era, organizzato un pullman che va a prendere i bambini e li porta a scuola; abbiamo messo la vela, perché dà una sensibilità incredibile; e infine abbiamo messo equitazione, perché dà equilibrio e il rapporto con un animale. Voi non immaginate la fatica che ho fatto con i genitori a convincerli che i propri bambini potevano fare questi sport. Quest’anno abbiamo ventotto bambini che hanno fatto equitazione. I bambini sono una cosa straordinaria. Sapete quanto costa? Perché questo è lo spirito, la dimostrazione che lo stato può fare delle cose straordinarie spendendo di meno. Tutto questo costa quattromila euro l’anno per ogni bambino, quando lo Stato spende ottomila euro l’anno per ogni bambino di tutte le scuole italiane. Il mio sogno è un altro. Ho dieci ettari di area industriale a Ravenna che ho comprato ventotto anni fa. Non ho ancora le licenze edilizie. E l’ho comprato come area industriale. Dopo ventotto anni non ho ancora le licenze edilizie. Ma forse è stato un bene, perché se io avessi costruito un capannone industriale su quell’area, avrei destinato definitivamente quell’area. Oggi invece l’ho messa a disposizione della società, della comunità, per creare un campus scolastico-universitario, perché ci siano dei bambini che facciano un unico percorso scolastico da quando hanno quattro anni (in Svizzera già oggi hanno destinato che i bambini vadano a scuola a 4 anni) fino a vent’anni. A questa età, laureiamo i ragazzi con la stessa metodologia che vi ho detto prima. La comunicazione è la cosa essenziale nella vita. E con questa metodologia io penso che i bambini saranno i nuovi padroni del mondo e avranno una capacità ulteriormente diversa. Mi è capitato pochi giorni fa di andare a fare una fotografia con gli istituti dell’Accademia Douhet di Firenze e quando il Rettore dell’Accademia Douhet ha visto uscire dalla scuola i ragazzi di quattordici anni che tenevano per mano quelli di due mi ha chiesto come avevo fatto. Lo fanno perché tanto faranno la stessa strada, avranno gli stessi problemi e questo è il modo di creare la squadra e l’insegnamento che serve per il futuro. E poi, a lavorare bisogna mandarli già dalle scuole elementari, farli vivere in azienda fin dalle scuole elementari. Grazie.

MONICA POLETTO:
Noi ti ringraziamo tantissimo. Siamo sicuri di avere molte cose da imparare da te, veramente. Soprattutto questo sguardo curioso, positivo e responsabile che ci hai trasmesso oggi. Grazie.

SILVIO BARTOLOTTI:
Io ho fatto il programma di lavoro per i prossimi settant’anni per cui sono disponibile.

MONICA POLETTO:
Vi chiedo solo una cosa. Qui si potrà seguire l’incontro delle ore 13.00 che si intitola “L’Italia e la sfida del mondo”, però bisogna uscire perché le Forze dell’Ordine devono bonificare la sala. Grazie.

Data

25 Agosto 2015

Ora

11:15

Edizione

2015

Luogo

Sala Neri CONAI
Categoria
Incontri