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Crisi o ripresa: quali le chiavi dello sviluppo?
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In collaborazione con Fondazione per la Sussidiarietà.
Giancarlo Blangiardo, Presidente ISTAT; Marco Ceresa, Group Chief Executive Officer Randstad Italia; Roberto Giacchi, Amministratore Delegato Italiaonline; Giancarlo Giorgetti, Ministro dello Sviluppo Economico; Bernardo Mattarella, Amministratore Delegato Invitalia. Introduce Giorgio Vittadini, Presidente Fondazione per la Sussidiarietà.
Pandemia, guerra, inflazione, scarsa produttività, grande debito pubblico, instabilità politica, crollo della popolazione: sono tanti i problemi che incombono sull’Italia e pongono domande inquietanti sul suo sviluppo presente e futuro. Ce la farà il nostro Paese ad affrontarli e risolverli? Quali le chiavi economiche, sociali, umane per un domani positivo per tutti e per ciascuno?
Con il sostegno di Intesa Sanpaolo, Philip Morris Italia, Italian Exhibition Group, Terna.
CRISI O RIPRESA: QUALI LE CHIAVI DELLO SVILUPPO?
Giorgio Vittadini: Crisi o ripresa? Quali le chiavi dello sviluppo? È una domanda che è stata sottesa a tutti gli incontri di tipo economico e politico del Meeting, perché anche ieri l’intervento del Premier Draghi, il dialogo con i leader di partito, l’incontro con Gentiloni, moltissimi incontri con Ministri, tutto il talk sul PNRR, la domanda che sta è: ma dove andiamo a finire? cosa sta succedendo? Abbiamo avuto dei trimestri positivi, di crescita del PIL, però si addensano grandi nubi, di cui la più grande di tutti è senz’altro l’aumento del prezzo dell’energia che abbiamo sentito in molti incontri, mette in discussione gli utili e addirittura l’esistenza di molte imprese piccole e medie. Allora questa domanda alla fine del Meeting diventa interessante anche in prospettiva e ancora più interessante perché abbiamo un panel di relatori che completano proprio il quadro, possono essere qualcuno che ci risponde sul breve e sul medio periodo e anche sul lungo. Innanzi tutto Giancarlo Blangiardo Presidente dell’ISTAT che ha in mano i conti degli Italiani, poi Marco Ceresa, Group Chief Executive Officer Randstad Italia, una delle più grandi imprese di intermediazione, Roberto Giacchi, Amministratore Delegato Italiaonline che lavora sul campo pubblicitario e quindi ha il quadro di cosa sta succedendo nel mercato e un ospite ormai da tanti anni del Meeting, Giancarlo Giorgetti, oggi Ministro dello Sviluppo Economico, e Bernardo Mattarella, Amministratore Delegato Invitalia, che è uno strumento di investimento pubblico e quindi ci può dire cosa può succedere su questo campo.
Allora, il dibattito si svolgerà in due ordini di interventi. Un primo intervento di 8 minuti, il secondo di 7, e che saranno diversificati per ognuno dei nostri interlocutori in funzione del loro ruolo. Cominciamo col Ministro, un Ministro che però non è solo il Ministro dello Sviluppo Economico, ha una lunga esperienza di governo e politica, allora vorremmo che rispondesse a una domanda da mille punti, la prima parte, crisi o ripresa? Cosa sta succedendo e come può essere possibile, se è una crisi, superarla?
Giancarlo Giorgetti: Allora, innanzi tutto buona sera a tutti. Grazie per l’invito. Vengo sempre volentieri al Meeting, anche se poi quello che dico qui mi lascia strascichi sui social per anni, e vengo accusato di cose incredibili, tipo quella che non voglio i medici di base, queste cose qua, evidentemente chi non segue tutto il dibattito. Io però in tutti i miei interventi parto sempre dal titolo. Allora, chi ha immaginato questo momento ha detto: crisi o ripresa? Va bè, qui la domanda è da mille punti, perché non c’è risposta. O meglio la crisi derivante dalla pandemia l’abbiamo in qualche modo assorbita, la ripresa c’è stata, basta vedere i dati del PIL certificati anche da Blangiardo e dall’ISTAT, però il vero tema è quello che c’è stato aggiunto dopo, evidentemente: quali le chiavi per lo sviluppo? E che si congiungono secondo me, inevitabilmente, al titolo del Meeting “Una passione per l’uomo. perché questo? Perché io quando sono arrivato al Ministero dello Sviluppo Economico la prima cosa che ho detto e di cui sono assolutamente convinto e ancora più convinto adesso dopo un anno e mezzo, è che lo sviluppo economico non dipende dal Ministero dello Sviluppo Economico, ma è strettamente legato a quella figura misteriosa che prende il nome di imprenditore, cioè quell’uomo che per passione, con grande coraggio, di fronte a tante difficoltà, in qualche modo le affronta e le supera. Certo, qualcuno ce la fa, qualcuno non ce la fa, però è questa la vera chiave dello sviluppo economico e infatti ho concluso, una delle ultime riflessioni che mi son fatto nel momento di lasciare le stanze, di preparare a lasciare le stanze, mi sono detto, bisogna passare dal Ministero dello sviluppo economico al mistero dello sviluppo economico, come lo sviluppo economico in qualche modo si concretizza, e si concretizza in tempi come questi in cui effettivamente siamo di fronte ad una grande discontinuità della storia e della storia economica, perché tanti dei paradigmi che davamo per scontati, soltanto pochi anni fa, sono venuti a cadere, uno dietro l’altro, a cominciare da quello della globalizzazione, che sicuramente, in qualche modo rimarrà, ma non nelle forme che abbiamo conosciuto negli anni scorsi. Ad esempio il WTO sembrava una creatura, un mostro che gestiva tutta una serie di decisioni che poi impattavano duramente sulla vita delle imprese, adesso è quasi scomparso, non ne parla più nessuno, non so se si riuniscano ancora, faccio delle battute, però questa è la realtà, è la realtà che ha capovolto i paradigmi di chi in questa sala magari studiava sui testi che ho studiato io all’università macroeconomia, e che gli riempivano la testa di tutta la teoria della domanda. Invece io dall’anno scorso ho cominciato a picchiare sul tema che oggi abbiamo un problema di offerta, non di domanda, che va riscritta completamente, va riscritta completamente proprio nei suoi fattori elementari della produzione, a cominciare dal fattore umano, cioè esattamente dall’uomo di cui parla il titolo del Meeting quest’anno. Se io dovessi fare un’analisi oggettiva della situazione, partendo appunto da quello che è, secondo me, il dato incontrovertibile, cioè che lo sviluppo economico lo fanno questi spiriti animali ma nel senso di imprenditori, non di consumatori, oggi questi imprenditori hanno di fronte delle montagne da scalare e le montagne da scalare in qualche modo sono dettate da tutto quello che ci ha lasciato in eredità la pandemia, ma soprattutto da tutto quello che ha generato il conflitto in Ucraina. Questo tema che ha messo in crisi, questo fatto, questo conflitto ha messo in crisi veramente tutti i postulati, con maggior forza ancora rispetto alla pandemia, rispetto ai temi dei prezzi delle materie prime, della disponibilità di materie prime, di prezzi dell’energia ed eventualmente disponibilità dell’energia. E in qualche modo è venuta a incrociarsi con altre decisioni che invece abbiamo in qualche modo, se volete, inevitabilmente assecondato, uso questo termine inevitabilmente assecondato, che sono la rivoluzione digitale, la rivoluzione ambientale e la transizione energetica, che sono decisioni assunte, lo ricordo, prima dello scoppio del conflitto e che, unite allo scoppio del conflitto e alle conseguenze in tema di energia, rendono la dimensione del problema effettivamente esistenziale per la sopravvivenza delle imprese. Su questo io vorrei spendere un attimino di tempo, un minuto, perché nel momento in cui uscendo dalla pandemia affrontavamo una ripresa che sembrava impetuosa, estremamente positiva, poi quello che è successo oggi rischia veramente di mettere in difficoltà tutto il sistema, non soltanto sociale delle famiglie, ma delle imprese. Quello che io ho detto dall’inizio è che a me sembrava inevitabile, lo ribadisco qui, che noi entravamo in una fase di guerra, non di guerra militare, ma di guerra economica con la Russia. Noi abbiamo dichiarato guerra economica alla Russia con le sanzioni, e non potevamo in qualche modo non valutare, lo dico alla cara vecchia Europa, non poteva non valutare quelle che sarebbero state le conseguenze nel nostro sistema economico di alcune regole che ci siamo dati nel passato, e che magari nel passato avevano senso, e che oggi in realtà oggi sono controproducenti perché sono le principali alleate esattamente della guerra commerciale sul gas da parte di Putin e parto dalle regole europee che in qualche modo l’Italia ha messo in discussione e cioè la nostra richiesta del price cap e quella di disaccoppiare il prezzo dell’energia rispetto al prezzo massimo del gas. Se l’Europa non capisce che deve cambiare quelle due regole in qualche modo fa esattamente il gioco della Russia in questo tipo di guerra. In secondo luogo se proprio queste regole non si possono cambiare perché qualche grande paese europeo si oppone, non possiamo in qualche modo evitare di porre un tema del cosiddetto scostamento di bilancio; di come noi in qualche modo possiamo aiutare famiglie e imprese a superare quella che rischia di essere nel prossimo settembre, nel prossimo ottobre, un passaggio veramente mortale. E per fare questo l’Europa in qualche modo deve considerare, come ha già fatto peraltro nell’epoca del lockdown e della pandemia, in modo leggermente diverso quello che è eventualmente lo scostamento di bilancio, rispetto a quello che prevedono le regole europee. Se non riusciamo a fare questo, credo che ai nostri poveri eroi civili, cioè gli imprenditori, che si sono in qualche modo cimentati, con l’aiuto dello stato e grazie alle risorse del PNRR sono pronti e stanno affrontando questa sfida della rivoluzione ambientale, della rivoluzione digitale, non sarà per loro oggettivamente possibile farlo. Per questo motivo io penso che, rispondendo a questo tipo di sollecitazione che mi avete fatto, l’unica risposta che posso dare è che io ho grande fiducia, grande confidenza nella capacità del sistema economico e imprenditoriale italiano nel superare questa crisi, però noi dobbiamo in qualche modo creare le condizioni affinché queste capacità, queste potenzialità, possano essere dispiegate. Se invece in qualche modo non riusciamo come politici a creare le condizioni affinché questo possa avvenire, dovremmo essere tutti molto preoccupati. Finito il mio tempo, mi fermo qua. Grazie.
Giorgio Vittadini: E per rendere ancora più preoccupati, aggiungiamo una variabile di lungo periodo. Giancarlo Blangiardo, che è il Presidente dell’ISTAT e di professione demografo, e da tempo parla del tema demografico come un tema fondamentale, non solo in sé, ma anche sullo sviluppo economico italiano di breve, di medio e di lungo periodo. Quindi a te la parola, Giancarlo. Per illustrarci questo tema.
Giancarlo Blangiardo: Grazie. Intanto grazie per l’invito. È sempre un piacere venire a raccontarvi i miei numeri e spero non spaventarvi coi miei numeri. Ne ho qui un po’. Cosa succede, cosa sta succedendo, cosa succederà dal punto di vista demografico? Vi do qualche informazione. Al primo giugno di quest’anno noi residenti in Italia: 58 milioni 870 mila persone. Fra 10 anni, 1 gennaio 2032, 57 milioni 628 mila, cioè abbiamo perso 1 milione e duecento mila persone. Tenete presente che dal 2014 ad oggi, quindi mi riferisco al passato, ne abbiamo già persi 1,3 milioni. Se andiamo al ‘52, cioè fra 30 anni, perdiamo, rispetto ad oggi, 5 milioni di persone. Se andiamo al ‘70, 50 anni, è tanto, però perdiamo 11 milioni abbondanti di persone. Ora un grande paese, noi vogliamo essere un grande paese, un grande paese deve avere anche una popolazione numerosa. Il Lussemburgo è un paese ricco, ma non è un grande paese. Ora noi oggi siamo a livello mondiale, me lo sono segnato, al ventiquattresimo posto nella graduatoria dei paesi del mondo. Bene, fra 30 anni noi saremo scesi al trentottesimo posto. Ora questa è la dinamica, questa è la dimensione di un paese. Ma la popolazione, le persone beh le persone sono ovviamente anche produttori, consumatori, alimentano anche ovviamente il sistema economico. Dice, ma perché succede tutto ciò? Quale è la causa? Diciamo che una delle cause fondamentali è il saldo naturale negativo, cioè più morti che nati, ma non solo per la pandemia. 219 mila morti in più rispetto ai nati li avevamo anche nel 2019 e non c’era la pandemia. Vi do qualche numero sulle nascite. Parliamo dei primi 5 mesi, perché abbiamo i dati dei primi 5 mesi del ‘22 quindi possiamo confrontarli. Bene nei primi 5 mesi del 2008 nascevano in Italia 232 mila bambini. Nei primi 5 mesi del ‘22 sono nati in Italia 149 mila bambini. Ne sono spariti 100 mila. La variazione è del 36%. Ora quindi son dati reali. Dice, ma è la pandemia? Non è solo la pandemia. Poi magari ci ritorniamo in seguito, cercare di capire come mai tutta questa roba succede. Certo, diminuiscono anche le donne in età feconda, perché ? perché scontiamo gli effetti degli anni in cui nascevano pochi bambini e quindi questi pochi bambini sono poche potenziali mamme e sono anche pochi potenziali lavoratori. Oggi abbiamo nella classe di età dai 20 ai 66 anni, abbiamo 36 milioni di persone, potenzialmente attivabili. Fra 10 anni ne avremo 34 milioni, cioè 2 milioni in meno. Fra 30 anni ne avremo 27 milioni cioè 8 milioni in meno. Allora qui il discorso è: bisogna rimescolare le carte. Perché ci sono delle conseguenze. Parliamo del PIL ma giustamente ricordava prima il Ministro, il PIL abbiamo preso una bella botta nel ‘20 però dalla bella botta abbiamo in qualche modo rialzato la testa, stiamo anche rialzando la testa, quindi abbiamo dimostrato di essere un paese reattivo, e questo è sicuramente un elemento a favore che va sottolineato. Io dico spesso: guardiamo anche il mezzo bicchiere pieno, non solo quello vuoto. Ora gli effetti sul PIL di queste dinamiche demografiche – a parità di altre condizioni, quindi partecipazione al mercato del lavoro, tasso di occupazione, produttività, eccetera, immaginiamo che tutto quello resti l’attuale, no – cosa succede per via del cambiamento nel numero di abitanti e nel cambiamento nella struttura per età della popolazione? Ebbene, vi do qualche numero. Allora il PIL di oggi siamo sul 1800 circa miliardi, nel ’70 avremo 1240 miliardi, 560 miliardi in meno, cioè un 32% di PIL in meno solo per il cambiamento di carattere demografico. Intendiamoci, lo si può compensare in tanti modi. Potrebbe aumentare la produttività, la partecipazione, le donne che non partecipano, partecipano poco al mercato del lavoro in Italia. Quindi ci sono tante possibilità per cercare di venirne fuori, però certamente questo è un elemento importante, da mettere in conto, sapendolo per tempo, magari riusciamo a trovare una qualche forma di soluzione. L’altro elemento importante è la domanda. È chiaro che se mi cambia la popolazione, magari cambia anche in termini di struttura, quindi una persona anziana compra certe cose che magari non compra un giovane e viceversa, e poi anche il numero, ovviamente, ha il suo rilievo, ora noi abbiamo fatto dei giochini, degli esercizi, quindi nulla di particolarmente significativo sul piano scientifico, però per dare un’idea. Bene, io ho provato a prendere la struttura della popolazione, il numero di famiglie e applicare dei parametri che si usano nell’OCSE, cioè si dice il primo adulto in famiglia vale 1, poi il secondo adulto vale 0,5, tutti gli altri adulti valgono 0,5 e poi i bambini valgono 0,3 per definire un po’ l’intensità delle potenzialità di consumo della famiglia. Allora se uno fa questo gioco determina le unità di consumo della popolazione nel suo complesso. Ebbene, siamo passati da 41 milioni 143 mila unità, nella prospettiva al 2040, quindi fra 20 anni, dietro l’angolo, a 40 milioni 228, cioè perdiamo il 2,2% a livello nazionale del potenziale di consumo, semplicemente per il cambiamento demografico. E la cosa diventa drammatica, perché 2,2 in meno dice, beh, non è la fine del mondo, se andiamo a vederla in termini territoriali. perché vi do qualche numero: nelle isole questa variazione di potenziale di consumo è meno 7%, 7 e mezzo, nel Sud meno 6, al centro meno 0,5, al Nord Ovest meno 0,2, al Nordest più 0,5. Cioè la vivacità rimane in Italia, tutto sommato in provincia di Bolzano, soprattutto nel Nordest. Ci sono Regioni italiane, la Basilicata perde l’11% di potenziale produttivo, il Molise l’11% anche lui, la Sardegna il 9, la Sicilia l’8, la Puglia il 7. Quindi vedete come, dietro al cambiamento demografico, si vanno a prospettare tutta una serie di elementi che sono tutt’altro che marginali. Pensate al discorso PIL di prima, il rapporto debito/PIL con la variazione dei numeri che in qualche modo abbiamo prospettato se in il debito rimane quello ovviamente, poi il debito nell’arco di un po’ di anni potrebbe anche modificarsi. Quindi per concludere. Noi abbiamo davanti degli scenari che non sono fantascienza, sono realtà. Io vi ho fatto vedere, vi ho detto il 4 e mezzo % di variazione dei nati nei primi 5 mesi del ‘22. Nel ‘21 abbiamo avuto 399 mila nati, il solito valore più basso di sempre, 399 mila. Se ci fosse questa variazione del 4 e mezzo anche nel ‘22, completo dato annuo, rispetto ai 400 mila dell’anno scorso noi arriveremo ad avere 385 mila nati, cioè continuiamo a scendere, a stabilire i record al ribasso. Ora è evidente che qualcosa va fatta perché l’alternativa è quella di non riuscire più a sollevare la testa. Sul piano economico, ricordava il Ministro, abbiamo fatto qualcosa, sul piano demografico non ancora. Ecco, c’è molto da fare. Ecco l’auspicio è che, con una serie di interventi, di cui magari se è il caso parleremo in seguito, con una serie di interventi qualcosa a mio parere si può fare. Bisogna crederci e rimboccarsi le maniche. Grazie per l’attenzione.
Giorgio Vittadini: Allora, il mercato del lavoro, aiuta? Ostacola? Come può incidere sulla crescita generale? Anche perché la crescita riguarda le persone.
Marco Ceresa: Certo, beh, prima di tutto grazie mille perché ogni volta che vengo qua, ascoltando imparo tante cose e mi serve poi per ragionare e ragionare all’interno dell’azienda sul da farsi. Il mercato del lavoro, fino ad oggi il PIL cresce, ma il PIL cresce anche perché , diciamo, le persone lavorano ed è un dato di fatto che il numero delle persone che noi abbiamo messo al lavoro, non solo come Randstad ma in generale è aumentato. La difficoltà era forse diciamo quella di trovare le persone che avessero le competenze per poter svolgere quei lavori che le aziende stavano cercando. Non è un segreto che per ogni due ordini che riceviamo riusciamo a fornire ai nostri clienti solo una persona, perché le altre mancano. Per cui grande sforzo è quello di ricercare le persone e poi formarle e questo è quello che abbiamo fatto nell’ultimo anno e mezzo. Allora, cosa c’è di fronte non lo sappiamo. Se vogliamo guardare il breve, lo stesso mese di agosto, vediamo che c’è una crescita delle richieste rispetto all’agosto dell’anno scorso, per cui sembra che non ci sia davanti a noi questa grande crisi dal punto di vista lavorativo. Però è vero che le cose possono cambiare molto velocemente, per cui non sappiamo quello che succederà da settembre in avanti. Quello che è importante è che le persone devono rimanere molto attente e non pensare che la continuità lavorativa, o meglio la continuità dei loro stipendi, del loro “income”, dipenda dai contratti, perché è un mondo molto variabile, molto flessibile. Lo vediamo ad esempio nel mondo dell’automobile. Adesso ci sono delle fabbriche che producono pezzi per motori diesel, il motore diesel il consumatore non lo sta cercando più, stanno cercando piuttosto le macchine con motori elettrici e tu puoi avere qualsiasi contratto che vuoi che devi riuscire a fare in modo di essere comunque interessante, la tua competenza deve essere interessante, ma oltre ad essere interessante la tua competenza, ci deve essere un sistema paese che rende interessante per le multinazionali investire in Italia, perché è il compito del nostro paese rimanere un paese che riesce ad attrarre investimenti, perché è vero che sono gli imprenditori, ma sono anche le aziende, le multinazionali che decidono dove andare a investire e dove invece non investire. Quello che stanno cercando le persone, però, è una stabilità lavorativa, ma anche una certa dignità lavorativa. Perché è vero che la percentuale ad esempio di contratti non a tempo indeterminato sta crescendo, ma rimane ancora abbastanza bassa. Ma quello che le persone stanno appunto cercando è anche una dignità. Quello che abbiamo visto in questo ultimo anno, anno e mezzo, è che gli stipendi in Italia non sono aumentati come sono aumentati negli altri paesi europei e questo ha dato una grande competitività alle nostre aziende. Difatti la crescita della domanda che noi vediamo in Italia è superiore alla crescita della domanda di persone negli altri paesi, ma bisogna vedere fin quando noi riusciamo a mantenere questa competitività e riusciamo a tenere questi stipendi con l’inflazione che c’è, anche perché una delle cose che abbiamo visto è che se si aumentano gli stipendi, si perde competitività per cui si vanno a diminuire poi le persone che lavorano, mentre se si riesce a rimanere competitivi gli investimenti restano alti e perciò si può continuare a offrire tanto lavoro alle persone. Ora, cosa possiamo fare? Quello che noi possiamo fare, ad esempio come agenzia per il lavoro, come aziende, è fare una grande attività di orientamento perché è solo mettendo il massimo numero delle persone al lavoro che si riesce a sostenere il PIL. Gli aspetti demografici sono lì. Quello che abbiamo visto, l’abbiamo visto all’interno della nostra azienda, dando più soldi alle persone che hanno figli si incentiva la nascita dei bambini. Però non è sufficiente. Dobbiamo andare a capire ancora che cosa permette, al di là dei soldi, di far nascere più bambini in Italia. Noi come Randstad paghiamo gli asili nido ai figli dei nostri dipendenti, per 6 anni diamo un contributo significativo di 1000 euro per ogni bambino che nasce per i primi 6 anni della loro vita per cui stiamo tentando di fare il tutto possibile affinché le nostre persone – noi abbiamo l’82% di donne che fanno parte di Randstad – per cui facciamo tutto il possibile, abbiamo visto un piccolo aumento della natalità nelle persone di Randstad, ma non è ancora una cosa così forte ed importante. Perciò dovremo andare ad analizzare che cosa si può fare per non dico risolvere il problema demografico, ma dare una mano alla nascita. Anche perché una cosa che a me fa sempre pensare è che, come diceva prima il professore, circa il 50% dei nati sono bambini e fino ad oggi son solo le bambine che possono fare dei figli, per cui fra 30 anni, quando saranno in età per fare i figli, ci saranno 200 mila bambine che potranno fare dei figli, per cui un paese con 200 mila e sempre più, per cui qui si apre anche il grande tema dell’immigrazione, e il tema di riuscire a trattenere le persone migliori all’interno del nostro paese. La cosa che ci dà grande fiducia è il PNRR, che ci dà anche la direzione degli investimenti formativi su cui noi dovremo andare a continuare ad investire. Uno fra tutti è tutto il mondo del digitale e dell’informatica. perché se oggi il digitale e l’informatica è visto come una branca a sé all’interno del lavoro di ognuno di noi, sempre di più farà invece parte integrante del lavoro che noi dovremo fare. I controller SAP dovranno saper creare i loro programmi, ma anche chi lavora sulle macchine utensili dovrà riuscire a creare i suoi programmi, perciò riuscire nella scuola a inserire dei momenti formativi su tutto il mondo digitale informatico secondo noi è un aspetto estremamente importante. Ecco.
Giorgio Vittadini: Allora, il punto in cui si capisce come va è la pubblicità, perché la pubblicità è, diciamo, lo specchio di come vanno le imprese. Allora la parola a Roberto Giacchi che lavora in questo campo. Come vede la situazione?
Roberto Giacchi: Grazie, e buona sera anche da parte mia. Parto anch’io dal titolo come ha fatto il Ministro e concordo che alla domanda la risposta non c’è o meglio c’è una risposta diversa. Cioè che crisi e sviluppo convivono, quindi oggi sono due termini che probabilmente, diversamente dal passato, vanno a braccetto. Però questa domanda ha anche un’appendice importante che non dobbiamo dimenticare e cioè, visto che c’è dello sviluppo, dobbiamo anche vedere chi quello sviluppo lo sta prendendo, chi sta beneficiando effettivamente dello sviluppo che stiamo avendo. E credo che il settore della pubblicità sia un settore molto esemplificativo da questo punto di vista, perché negli ultimi due anni e mezzo, da quando è partita la prima emergenza, quella sanitaria, per poi arrivare alla seconda, quella legata all’invasione dell’Ucraina, sono successe tantissime cose in questo settore. Ovviamente abbiamo avuto due crisi, e due crisi per un settore fortemente legato all’andamento macroeconomico come quello della pubblicità sono importanti, tuttavia non è accaduto solo questo. Abbiamo avuto un continuo percorso di digitalizzazione, che non è stato così intenso e così dirompente come in altri paesi, ma comunque è stato molto presente, molto presente anche da noi. E abbiamo avuto anche un terzo fenomeno, non favorevole, e cioè il fatto che si sono consolidate, si è consolidata la forza competitiva, il posizionamento competitivo delle grandi piattaforme internazionali, delle grandi piattaforme globali, che tipicamente non sono italiane, non sono neanche europee e nella maggior parte dei casi sono americane. Allora questi tre fenomeni che cosa hanno fatto accadere nella pubblicità? Hanno fatto accadere che il 2020, il primo anno di pandemia, ha colpito duramente gli investimenti pubblicitari nei media tradizionali, quindi televisione, cinema, radio, carta stampata. Il mercato è significativamente diminuito. Nonostante questo però nel 2020 gli investimenti sui media digitali si sono mantenuti sostanzialmente stabili, anzi sono riusciti a chiudere l’anno, seppur con un numero piccolo, ma con un eroico più davanti. Il 2021 è stato l’anno della ripresa. È stato un anno in cui entrambi, sia gli investimenti pubblicitari nei media tradizionali che gli investimenti pubblicitari nei media digitali, sono significativamente cresciuti. È stata una crescita che ha rafforzato enormemente il settore degli investimenti digitali, che veniva comunque da un anno di tenuta, e, pur robusta, ha fatto sì che il calo avuto nel 2020 degli investimenti pubblicitari sui settori tradizionali, non sia stato pienamente compensato. Quindi noi abbiamo chiuso un 2021 con un mercato tradizionale in diminuzione rispetto al periodo pre-pandemia e un mercato digitale in aumento. Complessivamente il mercato è ritornato ai valori pre-pandemia. Ora, tutto bene? No, non sicuramente tutto bene, tutt’altro. perché questo è sicuramente un mercato profondamente diverso. È un mercato dove gli investimenti pubblicitari nel digitale oggi sono enormi, rispetto a quelli che erano prima, e la quota crescente di questi investimenti oggi va a finanziare imprese, a pagare stipendi, e a pagare tasse di conseguenza, di paesi che non sono il nostro paese. Quindi c’è stata comunque, anche in un ambito di sviluppo come il nostro, un enorme trasferimento di ricchezza da imprese e imprenditori italiani a imprese, aziende di altri paesi. Il 2022 come sta andando? Il 2022 è un anno che complessivamente è partito bene, abbiamo avuto gennaio e febbraio che sono stati due mesi effettivamente di grande ripresa, dopo di che, inevitabilmente, per l’effetto dell’incertezza legata allo scoppio della guerra, per l’aumento della pressione inflattiva che ha colpito innanzi tutto la piccola e media impresa, che è finanziariamente più debole rispetto alla grande impresa, per l’ulteriore difficoltà legate all’approvvigionamento di alcune industrie come per esempio quella dell’automobile, piuttosto che quella del food, gli investimenti hanno cominciato a rallentare. È un anno che stiamo vivendo, è un anno che stiamo costruendo, è difficile prevedere quello che sarà il numero finale, se sarà un più, in ogni caso molto piccolo, o se sarà addirittura un meno, questo dipenderà da come evolveranno questi tre aspetti, quindi l’incertezza, l’inflazione, gli approvvigionamenti, la supply chain a livello internazionale. Tuttavia non dobbiamo dimenticare che anche in un settore come quello della pubblicità che comunque riesce a tenere un percorso di crescita, in particolar modo nel settore digitale, ci sono situazioni di crisi perché parte di questa ricchezza, parte del benessere che viene costruito, oggi non è più qui, non è più da noi, ma si sta trasferendo in altre imprese e in altri paesi. Grazie.
Giorgio Vittadini: Allora, abbiamo detto molte volte in questo Meeting che veniamo da anni di neoliberismo selvaggio, tutti ormai pensavano che l’economia fosse la capacità di autoregolarsi di un mercato senza più bisogno di interventi di tipo Keynesiano dello stato, ecco invece Bernardo Mattarella dirige uno di questi strumenti, Invitalia, che dovrebbe proprio intervenire per supportare, guidare, aiutare l’economia secondo un metodo tradizionale. Allora la domanda che gli faccio è: ma rispetto al quadro che abbiamo sentito, come l’agenzia che lui guida sta lavorando e può influire su quello che sta succedendo?
Bernardo Mattarella: Grazie, grazie dell’invito, grazie della vostra presenza. Grazie anche della domanda, perché è molto interessante innanzi tutto sottolineare che anche per favorire l’iniziativa privata, e quindi l’economia che si genera, l’intervento pubblico che crea un ecosistema favorevole è sempre necessario. La cosa che importa soprattutto nella nostra visione in questo momento, è con quale spirito, con quali valori si affronta questo tema. Gli shock degli ultimi due anni tra la pandemia e la guerra in Ucraina ci impone di vedere tutto e di svolgere la nostra azione assolutamente in un framework totalmente incentrato sulla sostenibilità, che deve essere sostenibilità economica, sociale e ambientale. È già da tempo che lo facciamo, almeno all’interno della nostra organizzazione. Da Amministratore Delegato, prima di questa esperienza del Mediocredito Centrale, noi abbiamo nel 2019 emesso un prestito obbligazionario, un social bond, proprio per essere costretti a utilizzare queste risorse per il sostegno di iniziative che avessero ricadute positive in termini sociali e quindi in termini di sostenibilità sociale. Un altro tema molto interessante, che richiama un concetto che ha espresso prima il Ministro, è come dicevamo l’ambiente in cui opera l’imprenditore che è poi il centro della nostra attenzione, perché se non ci fosse l’imprenditore non ci saremmo neanche noi. Un ambiente in cui un imprenditore non può assolutamente lavorare è un ambiente informato alla paura e mi ha colpito molto l’intervento che ha fatto il cardinale Zuppi qualche giorno fa, parlando delle paure che nascono dall’individualismo e quindi esprimendo il concetto che abbiamo tante paure e ci sentiamo sempre più fragili, ecco in situazione di fragilità l’impresa difficilmente riesce ad operare. Tra l’altro spesso non si tratta di individualismo, ma di isolamento. Pensate alla contraddizione che c’è nel termine social versus sociale. Quanto più una cosa è social, spesso e volentieri, tanto più è alienante e porta all’isolamento dell’individuo che opera. In quell’ambito, spesso e volentieri addirittura protetti dall’anonimato, con un linguaggio volgare, denigratorio, che il più delle volte crea l’opinione pubblica e quindi ha un impatto sulla qualità della nostra democrazia. Ecco tutti gli shock che abbiamo vissuto ci devono portare a pensare, ad affrontare queste cose in maniera più sociale e meno social probabilmente, anche per evitare quella che sempre don Matteo chiamava la desertificazione spirituale, che poi diventa desertificazione reale, sociale ed economica. Per superare questo dobbiamo rimettere (e qui il titolo, il tema di questo Meeting è fondamentale) dobbiamo rimettere al centro l’uomo, quindi ritrovare la passione per l’uomo che dal nostro punto di vista professionale è l’imprenditore e il lavoratore, oltre a essere l’essere umano che vive tutti i giorni nelle nostre società. Un’attenzione particolare che noi abbiamo sempre avuto, anche perché i nostri strumenti ci portano a questo, è lo sviluppo dei giovani, lo sviluppo imprenditoriale nell’ambito giovanile. Noi abbiamo anche un’età media abbastanza giovane all’interno dell’universo di Invitalia, siamo intorno ai 40-42 anni. Abbiamo tra l’altro il 50% di… siamo esattamente divisi al 50% tra generi, noi siamo consapevoli che le nuove generazioni ci chiedono sempre più soluzioni non tanto… sicuramente che possano gestire il presente ma che ci consentano di costruire il futuro. perché mi piace sempre anche citare una bella frase di Simone Weil che diceva che il futuro non ci dà niente e non ci porta niente; siamo noi che per costruirlo dobbiamo dargli tutto. Quindi il futuro dobbiamo farlo noi. Questo ci porta anche ad avere un’attenzione particolare per tutti i soggetti che operano nel terzo settore. Da qualche giorno è stato firmato un Decreto direttoriale proprio da parte del Ministero dello Sviluppo Economico che stanzia 200 milioni di euro per iniziative, tra 100 mila e 10 milioni di euro singolarmente, attuate da imprese sociali creative e culturali che possano avere impatti sociali di un certo livello. Tutto questo viene fatto dal gruppo Invitalia che, soltanto per citare qualche numero, nell’ultimo anno ha sostenuto investimenti pubblici e privati per quasi 25 miliardi di euro, ha sostenuto più di 630 mila aziende, ha immesso, sia attraverso strumenti di intervento diretto sia attraverso le garanzie che sono gestite da Mediocredito Centrale, ha immesso, ha consentito l’immissione nel sistema economico di liquidità per oltre 96 miliardi di euro, e che con gli strumenti come i Contratti di sviluppo, che sono quelli che sostengono i grandi investimenti nel corso degli anni, ha salvaguardato o creato oltre 117 mila posti di lavoro e che con gli strumenti finalizzati alla nascita di nuove imprese soprattutto giovanili, penso a “Resto al Sud”, “nuove imprese a tasso zero”, “smart e start”, ha contribuito a creare oltre 60 mila posti di lavoro, soprattutto come dicevo in ambito giovanile. Ripeto però tutto questo deve essere fatto e saremo obbligati a farlo in un framework assolutamente ispirato alla sostenibilità economica, sociale e ambientale.
Giorgio Vittadini: Allora con una encomiabile precisione di tempi abbiamo avuto un quadro della situazione sintetico, ma esauriente. Allora la seconda domanda evidentemente è: cosa si può fare? Come si può far sì che non sia crisi, ma sia sviluppo nel prossimo periodo e comincerei da Giacchi che ha parlato del passaggio di reddito e ricchezza da imprese italiane ad estere. Cosa devono fare le imprese italiane per essere motore di sviluppo ed evitare questo trasferimento di ricchezza e reddito?
Roberto Giacchi: Allora, viviamo in uno dei paesi occidentali con il contesto più avverso a fare impresa. Però per un attimo dimentichiamocelo questo, per un attimo immaginiamo che siamo come tutti gli altri paesi e che quindi non c’è uno svantaggio competitivo. La parola magica per un imprenditore è crescita. Non esiste in un’impresa una stagnazione felice o peggio ancora una decrescita felice. Un’impresa sana cresce, un’impresa che non cresce non è un’impresa sana. Ci sono effetti poi indotti ovviamente della crescita di un’impresa, questo significa maggiore produttività, stipendi più elevati, stabilizzazione di lavori precari, quindi c’è un beneficio che si può diffondere rispetto all’ottenere questo risultato. Ecco togliamo un’altra cosa dal tavolo, non parliamo del contesto e non parliamo neanche del fatto che bisogna lavorare di più per crescere, perché non è vero, perché noi siamo già uno dei paesi con il numero di ore lavorate per addetto tra i più alti dell’Occidente. Lavoriamo di più di quanto si lavora in Germania, che è un po’ un punto di riferimento. Però cresciamo di meno, cresciamo, siamo cresciuti se guardiamo ovviamente in un orizzonte temporale distante nel passato, siamo cresciuti molto di meno come produttività, come valore della produzione. Quindi il problema non è quanto lavoriamo, il problema è come lavoriamo. Quindi evidentemente ci sono dei modelli di lavoro, c’è un modo con cui le imprese fanno lavorare i propri dipendenti in altri paesi che è più efficace di quello che riusciamo a fare in Italia. In altre parole in Italia si lavora peggio di come si lavora in altri paesi, perché con un numero di ore lavorate maggiore si ottiene di meno. Allora cosa serve? sempre immaginando un contesto che non abbia gap competitivi rispetto ad altri paesi. Io credo che la risposta vada su due elementi fondamentali. Uno: sono le idee, la capacità di innovazione. Noi non è che non sappiamo innovare però noi siamo bravi, complessivamente come paese, ovviamente perdonate la generalizzazione, ci sono sicuramente delle eccezioni, però complessivamente come paese noi siamo bravi a fare un’innovazione incrementale rispetto a quello che già facciamo, facciamo più fatica a generare discontinuità nell’innovazione che facciamo. E un esempio è proprio il settore della pubblicità, ed è una delle cause per cui noi, pur avendo un’offerta digitale, noi come sistema di editori italiani, pur avendo un’offerta digitale sul mercato, prendiamo una quota degli investimenti dei clienti inferiore a quella di altre aziende. perché noi siamo entrati nel digitale, ma nella stragrande maggioranza dei casi, noi siamo entrati nel digitale facendo più o meno le stesse cose che facevamo prima nel mondo fisico. Facevamo gli editori nel mondo fisico e siamo diventati editori digitali con modelli molto simili. Oggi gli investimenti in questo settore vengono attratti da chi ha generato un’innovazione in grande discontinuità con quello che veniva fatto prima. Aziende come Google, come Facebook, come Instagram, come TikTok, hanno creato modelli, hanno creato prodotti, hanno creato un’offerta che prima non c’era. Quindi il primo punto che io mi sento, anche come responsabilità, come primo attore, e prima persona chiamata in causa rispetto a questa esigenza di crescere di più è: dobbiamo migliorare la nostra capacità di generare un’innovazione discontinua rispetto a quello che facciamo. Il secondo aspetto è l’aspetto delle competenze. Io sento spesso la frase: “la tecnologia distrugge posti di lavoro”. Ecco io sono profondamente in disaccordo con questa frase La tecnologia non distrugge posti di lavoro, la tecnologia distrugge le competenze o rende inutili delle competenze, e di conseguenza rende inutili delle attività legate a quelle competenze. Ma la stessa tecnologia richiede e genera competenze che prima non esistevano e di cui oggi c’è un grandissimo bisogno e quelle competenze magari vengono trasferite, quelle attività, quei posti di lavoro magari vengono trasferiti da un’altra parte. Quindi il secondo aspetto che io mi sento di sottolineare per crescere è quello della lotta sulle competenze. Noi abbiamo bisogno di avere quelle competenze che oggi servono, le competenze che sono a prova di futuro e che ci possono consentire, in prospettiva, di andare noi a prendere quella ricchezza che si genererà con lo sviluppo. perché lo sviluppo ci sarà, sicuramente, anche in un periodo come gli ultimi 20 anni in cui abbiamo gestito innanzi tutto una crisi terroristica, poi una crisi finanziaria, poi una crisi dell’immigrazione, poi una crisi climatica, poi una crisi sanitaria e adesso una crisi bellica, comunque si è creata ricchezza, comunque c’è stata crescita. Ecco, quella crescita, quella ricchezza oggi la prendono quelli che hanno idee e innovazione in discontinuità con lo status quo, e possono contare su competenze che sono più scarse da altre parti. Ecco lo status quo, anche se ci vede vincitori temporaneamente, anche se ci vede numeri 1 in un determinato momento, deve essere vissuto come una gabbia, una gabbia dalla quale cercare continuamente di evadere per andar a prendere l’opportunità che sta nascendo. Ecco questo credo che sia la responsabilità delle imprese.
Giorgio Vittadini: E allora inevitabili le politiche del lavoro, perché abbiamo sentito come è il mercato del lavoro, ma cosa auspica Marco Ceresa per il prossimo futuro e avanti.
Marco Ceresa: Allora cosa auspico? La prima cosa che auspico è che dobbiamo ragionare sia su delle cose che servono adesso nei prossimi mesi e poi le cose che servono più a lungo respiro. Ma la prima cosa che auspico è che il nuovo governo non arrivi e rivoluzioni il nostro mercato, il mercato del lavoro è un mercato dove la legislazione è molto importante, dove influenza molto, e spero che non faccia delle grandi rivoluzioni, ma che vada a migliorare delle cose, a incrementare delle cose, che possono veramente essere utili per dare lavoro alle persone e dare persone alle aziende. Alcuni esempi. Si parlava prima che ci vuole maggior partecipazione di giovani, donne e persone del Sud nel mondo del lavoro, devono lavorare di più. Ecco, poter confermare le de-contribuzioni su (quelle del Sud sono state confermate) ma sui giovani e sulle donne sarebbe importante per riuscire a incentivare le aziende ad assumere queste persone. Poi credo che in una fase come questa sia importante fare come hanno fatto in Francia e in Spagna. Cioè rendere in qualche maniera obbligatorio quello che si chiama l’outplacement e la formazione delle persone che escono da aziende che sono in crisi, per cui riuscire a far sì che queste persone non si trovino da sole a doversi cercare un lavoro e essere nelle mani, ma parlo anche di Randstad, essere nelle mani di aziende che dicono: ok, ho questo ordine per cui ti offro questo lavoro”, che va bene, ma va ancor meglio dire: “ehi, sei rimasto senza lavoro, vieni che ti aiuto con della formazione, ti aiuto con dei suggerimenti, affinché tu possa trovare del lavoro”. Chiaramente queste sono delle cose abbastanza semplici, ma sono appunto incrementali rispetto alla situazione che c’è, non sono rivoluzionarie. Ci sono delle cose ancor più piccole, si parla qui ad esempio, rifacendosi al discorso demografico, una cosa che trovo incredibile è che il sistema bancario italiano non dà mutui a delle persone che hanno un contratto a tempo indeterminato tramite Agenzia, e questo veramente non riesco a capirlo. Ne abbiamo parlato con tantissime… anche con l’ABI e così via, ma dico: noi che ci sentiamo di assumere delle persone a tempo indeterminato, perché sappiamo che queste persone se non lavorano nell’azienda A possono lavorare nell’azienda B, e se ci sono dei momenti in cui queste persone non lavorano, possono comunque avere un reddito da parte nostra, ecco questo non lo capisco. Allora quello che auspico è che ci siano degli interventi a livello così micro che permettano di risolvere dei problemi e che diano al maggior numero di persone la possibilità di lavorare. Poi a livello invece di più lungo respiro, secondo me è importante guardare un attimino a tutto il sistema scolastico. Adesso sta avendo un grande successo l’ITS. Noi abbiamo fondato un ITS, siamo partecipi in diversi ITS e devo dire che è un’esperienza molto positiva, perché assieme alle Aziende riusciamo a creare nel giro di 2 anni delle persone che non devono fare i 4 – 5 anni di Università, ma subito dopo il diploma possono iniziare a lavorare. ITS che non si limita solo a formare delle persone giovani subito dopo il diploma, ma anche delle persone che devono apprendere determinate competenze, nel giro appunto di breve tempo tramite ITS. Ma poi bisogna andare a vedere anche la scuola, molto importante anche la scuola, parlavo con un’amica che ha vissuto a Dubai per tanti anni, è tornata in Italia, e i suoi figli dicono: “cavolo, noi spendiamo tantissimo tempo nell’imparare a memoria i Babilonesi, anche i re romani e così via e invece lì si inizia a parlare di storia dal 1900 in avanti”. Allora non dico che non si debbano studiare i babilonesi e così via. Però secondo noi, riuscire a avvicinare ancor di più il mondo della scuola, con anche l’alternanza scuola-lavoro, non tanto per insegnare delle competenze, ma per far capire alle persone, ai giovani che cosa vuol dire lavorare all’interno di un’azienda, che cosa vuol dire lavorare con altre persone, che cosa vuol dire trovare nel lavoro un motivo anche per riuscire a vivere serenamente, a far vivere serenamente la famiglia. Ecco io penso che ci siano queste cose sia nel breve che nel lungo, che debbano essere fatte. Ma soprattutto non grandi rivoluzioni. Un’ultima cosa: reddito di cittadinanza. Allora ci sono delle persone che quando vengono nelle nostre filiali dico: “mamma mia, dove lo metto questo?” Le proponiamo anche alle aziende e non riusciamo a farle assumere. Queste persone in effetti devono essere aiutate, perché se no non so dove vadano a sbattere. Però c’è anche da dire che ci sono tante persone che dicono: “ma chi me lo fa fare a me di lavorare quando io posso stare a casa”. Per cui credo anche qui che non ci voglia un colpo di spugna, non ci voglia una rivoluzione, ma bisogna lavorare per far sì che chi può lavorare lavori e chi invece proprio non ce la fa, insomma, in qualche maniera riesca a sbarcare il lunario. Grazie.
Giorgio Vittadini: Allora, andiamo avanti con Bernardo Mattarella, perché è interessante la sua apertura sull’intervento pubblico. Ma allora, dobbiamo rifare l’IRI o quale è la linea di medio-lungo periodo per Invitalia? L’IRI per chi non sapesse era l’istituto che nella prima repubblica interveniva direttamente nell’economia fino ad avere a un certo punto quasi il 50% dell’economia in suo possesso, delle imprese in suo possesso.
Bernardo Mattarella: Allora guardi, se servano nuove IRI o no, non sta a me dirlo. Quello che ho detto prima è che sicuramente serve un intervento pubblico nell’economia. L’importante è che abbia un approccio rigoroso, limpido e ordinato. Ripeto: rigoroso, limpido e ordinato. Questo intervento va declinato secondo poi le esigenze congiunturali che si hanno di fronte. In questo momento, anche per dire quello che farà Invitalia, oltre alla gestione ordinaria degli incentivi e delle sue partecipazioni, sia di core business sia industriali, quello che serve in questo momento è attuare il PNRR. È la cosa fondamentale, su cui tutti gli attori potenzialmente utili vanno coinvolti, perché il PNRR ricordiamoci che si tratta di investimenti non soltanto pubblici, ma di un booster anche per gli investimenti privati. In questo momento noi – dati al luglio del 2022 – stiamo dando supporto per iniziative che assommano a un totale di 65 miliardi di investimenti a valere sul PNRR. Quasi 22 miliardi e mezzo è il valore delle risorse che Invitalia gestisce direttamente. Come interviene Invitalia? Fondamentalmente facendo tre cose. Gestendo incentivi (sono già 19 gli incentivi messi in campo da Invitalia, per circa 4 miliardi e mezzo, 7 sono in attivazione, sono in pipeline), attraverso strumenti di sostegno ai grandi investimenti come i contratti di sviluppo, attraverso strumenti per favorire l’imprenditorialità femminile, attraverso il Fondo di garanzia gestito dal Mediocredito Centrale e gli accordi “Noi per l’innovazione”, sempre quelli gestiti da Mediocredito Centrale. In più, attraverso la controllata Infratel, sta attuando investimenti infrastrutturali per la banda larga e ultra larga per circa 6 miliardi di euro e attraverso la funzione di supporto agli investimenti pubblici, diamo supporto tecnico-operativo a 14 amministrazioni centrali e locali che sono state già convenzionate e per le quali sono già stati pubblicati Bandi di gara dalla nostra Centrale di committenza di Invitalia per oltre 6 miliardi e mezzo. In questa attività noi appunto facciamo la centrale di committenza ma diamo anche supporto per la progettazione di strumenti agevolativi, facciamo il program management, l’assistenza alla progettazione, al monitoraggio, alla rendicontazione e controllo di investimenti pubblici e inoltre, su iniziativa del Ministero della Pubblica Amministrazione, da poco prima dell’estate è on line la piattaforma cosiddetta Capacity Italy che, insieme a Cassa Depositi e Prestiti e alla nostra controllata Mediocredito Centrale, dà un supporto on line soprattutto alle pubbliche amministrazioni locali che spesso non hanno avuto bisogno nel passato, e quindi non hanno, capacità per la progettazione di interventi straordinari sugli investimenti. Tutto questo ricade sempre però, come dicevo prima, nella gestione con un approccio sostenibile, finalizzata ad esempio, alla messa in atto e all’attuazione delle due transizioni che noi stiamo vivendo e che sono state… la cui accelerazione è stata resa necessaria dallo shock pandemico, quindi la transizione ecologica e la transizione digitale, che poi sono il cuore, il nucleo da cui parte il programma Next Generation UE.
Giorgio Vittadini: E allora, sempre per completare il nostro percorso, ma c’è speranza sul piano demografico? Come possiamo sperare?
Giancarlo Blangiardo: Adesso ve lo dico. Io credo che le leve siano attivabili da tre punti di vista: i nati; l’immigrazione – la mobilità chiamiamola così – poi vediamo come; e il discorso dell’invecchiamento, che non è detto che per forza di cose debba essere un elemento negativo. Allora, parto dai nati. Come rilanciare la natalità? La diagnosi è chiara. I motivi per cui non si fanno ‘sti figli è perché i figli costano, i figli vincolano, portano via tempo, rendono la mamma una tassista che deve portare il bambino ovunque, c’è incompatibilità spesso tra maternità e lavoro, ci sono difficoltà di vario genere. Ci sono anche degli aspetti tecnici. È stato ricordato prima. C’erano nel 2008 14 milioni di donne in età produttiva, oggi siamo arrivati a 11,7 milioni, fra 10 anni saranno 10,4 milioni, fra 30 anni saranno 8,9 – 9 milioni. Quindi mancano le mamme, tant’è che noi abbiamo fatto una simulazione in ISTAT. Il numero di figli per donna oggi è 1,24. Immaginiamo che nel tempo si salga a 1,5. Con 1,24 figli per donna in prospettiva faremo 250 mila nati, follia. Salendo a 1,5 nell’arco dei prossimi 50 anni faremo 350 mila nati, quindi 50 mila in meno di oggi pur aumentando la fecondità. Vogliamo arrivare a 2 figli per donna? Quindi progressivamente arriveremo a 2 figli per donna, ebbene: arriviamo a 500 mila nati. Quindi mancano le mamme, perché? perché scontiamo, come è stato ricordato, la bassa natalità del passato. Primo aspetto tecnico. Allora le cause sono note, c’è un elemento tecnico di fondo, diamoci da fare, non aspettiamo 50 anni a far aumentare la fecondità ai 2 figli per donna, se riusciamo a farlo in 10, in 15 anni forse, qualche pezza ce la possiamo anche mettere. E questo è un primo passaggio. Quindi rialziamo la natalità. Nessuno si illude di arrivare ai livelli francesi, però insomma qualcosina in più possiamo farla e le manovre, le attività, sono varie, si possono immaginare, sono ben note, non sto a ripetere cose che già conoscete. L’altro elemento, la mobilità. Sono due cose: da un lato c’è l’immigrazione e ne parliamo. C’è anche l’emigrazione. Ci sono anche un sacco di giovani, giovani formati, giovani in cui noi abbiamo investito dei soldi per farli arrivare al dottorato che prendono la valigia e dicono, “vabbè, voi non mi date quel che mi interessa, vado a prenderlo in Inghilterra o in Germania o negli Stati Uniti”. E noi abbiamo investito, abbiamo formato delle persone e poi vanno a lavorare per la concorrenza e questo non è bello. Sull’immigrazione, nessuno nega l’importanza dell’immigrazione, però le previsioni di cui parlavo prima avevano 130 mila immigrati netti all’anno, quando dico mancheranno 12 milioni di persone nei prossimi 50 anni, nonostante 130 mila immigrati netti ogni anno. Quindi non possiamo compensare i 12 milioni che mancano con l’immigrazione perché aggiungeremmo a 130 mila altri 240 mila. Allora 370 mila immigrati netti all’anno non sono facilmente integrabili, qualche problema nasce. Quindi un’immigrazione, importante ma ben regolamentata, secondo me può essere un elemento da tenere in considerazione. E veniamo all’invecchiamento. È chiaro che con quel che succede, la struttura per età della popolazione, la famosa piramide, non è più una piramide, un triangolo, la base larga, tanti giovani e via via sempre meno in alto, ma diventa un fungo. Tanti anziani e via. Oggi sono 800 mila le persone con almeno 90 anni, le persone con almeno 90 anni, ho detto almeno 90, fra 20 anni saranno 1,7 milioni e fra 50 anni saranno 2,2 milioni, gli ultranovantenni in un paese di 47 milioni di abitanti. Vedete voi cosa ne viene fuori. Allora è un problema. Però attenzione, non è solo qui. Allora cerchiamo di dare un messaggio di speranza, cioè l’invecchiamento della popolazione è ovviamente difficile da gestire, la famiglia è più debole, ci sarà un welfare familiare più debole perché il figlio unico insomma, poverino, si può dar da fare, ma più di tanto non può fare e quindi ci sarà bisogno anche di interventi esterni e questo è un elemento delicato. Però l’invecchiamento è anche silver economy, cioè non dimentichiamo che c’è tutta un’economia che lavora per la componente anziana, le pillolette integrative per essere più scattanti, per dire una sciocchezza, oltre che il viaggio in crociera nei mari del Sud e via andare, ma il deambulatore, tanto per prendere delle cose un po’ più concrete o altri ammennicoli simili, o gli apparecchi acustici, cioè capite che c’è un sistema, il nostro paese, noi e i giapponesi e un po’ i tedeschi, siamo stati i primi al mondo a sperimentare l’invecchiamento e abbiamo anche delle imprese che hanno capito come fare l’apparecchio acustico, allora io dico, sfruttiamola, perché anche gli altri invecchieranno, anche la Nigeria un giorno avrà gli anziani, anche la Cina, la Cina fra un po’ di tempo, quando si porterà avanti la caduta delle nascite, avrà una marea di anziani. Noi abbiamo l’esperienza, e le nostre aziende ce l’hanno, dell’avere dei prodotti che in qualche modo soddisfano questa nuova domanda. Allora valorizziamole. E in più, vado a chiudere negli ultimi 30 secondi, beh non buttiamoli via ‘sti benedetti anziani. C’è anche un discorso di anziano attivo. Oggi non c’è bisogno dei muscoli, basta avere il cervello che gira. E allora diamo una mano a valorizzare queste risorse, perché sarebbe altrettanto stupido come mandare i nostri giovani fuori, far sì che delle persone che sanno fare delle cose che potrebbero fare, che potrebbero dare un importante contributo, vanno a giocare a bocce. Io credo che sia importante – vedo che è stato approvato da persone che non sono giovanissime – dicevo è importante che questa cosa avvenga in maniera ovviamente volontaria, incentivata, tutto quello che volete voi, si può fare, io credo che si possa veramente fare e c’è anche la volontà di continuare a giocare, non solo nel volontariato ma anche nel settore produttivo. Ecco, è una leva sulla quale conviene agire. Grazie.
Giorgio Vittadini: Allora, al Ministro Giorgetti, cosa suggerisce al prossimo Ministro dello Sviluppo Economico, al prossimo governo? magari sarà ancora lui, quindi dopo tutto questo quadro, cinque anni davanti per investire per il nuovo sviluppo italiano.
Giancarlo Giorgetti: Innanzi tutto gli suggerisco di essere più bravo di me. Allora io credo che questo, bisogna partire da un dato e il dato è quello che ho detto prima. Cioè, l’Italia è un grande paese, dobbiamo smettere in qualche modo di commiserarci e pensare cioè… l’Italia è la seconda manifattura d’Europa. È un grande paese e girando e incontrando le imprese uno si rende conto della forza che queste emanano e che tiene in qualche modo in piedi tutta la struttura, diciamo così. Se noi partiamo da questa considerazione ed è vero quello che ho detto prima, cioè che lo sviluppo economico lo fa l’imprenditore, allora passiamo alla seconda valutazione, che è quella che oggi è un tempo di cambiamenti e i tempi di cambiamenti sono i tempi di investimenti. Il tempo del cambiamento è quello che richiede l’investimento, ma l’investimento chi lo fa? O lo fa il soggetto privato o lo fa il soggetto pubblico. La scelta che in qualche modo sottende, diciamo così anche la scelta se volete culturale, è che l’investimento lo deve fare l’imprenditore, imprenditore privato, aiutato evidentemente, in una situazione come questa di cambiamenti epocali, dallo stato, perché in certi casi, nei momenti di grande discontinuità, anche nei grandi paesi come gli Stati Uniti d’America, lo stato non è che si è sottratto a creare le infrastrutture su cui poi si è innescato lo sviluppo capitalistico. E allora questo è lo scopo su cui nasce il PNRR, è questa roba qua, individuando quelle che sono le direttrici dello sviluppo. Allora il governo, il futuro Ministro dello Sviluppo Economico, la politica deve interrogarsi esattamente su questo. Cosa fa il PNRR? Il PNRR mette ingenti risorse ad esempio sulla formazione per il riskillaggio, per in qualche modo far sì che i lavoratori che escono dai settori maturi, in qualche modo possano essere reimpiegati nei settori del futuro. Tante risorse, oltre 4 miliardi. Mette una mole di risorse che è superiore a tutta quella degli ultimi 20 anni nella ricerca, nell’università per promuovere innovazione, per tenere qui tutte quelle risorse intellettuali dei giovani che purtroppo negli ultimi anni sono emigrati e hanno depauperato il paese delle loro capacità. Mette tantissime risorse su quelle che sono le due direttrici più volte richiamate, che sono i cosiddetti pilastri del PNRR, la rivoluzione digitale e la rivoluzione ambientale. Ma facendo questo deve fare la politica esattamente il proprio mestiere e cioè capire poi cosa c’è dietro poi queste rivoluzioni, per non commettere gli errori che abbiamo fatto nel passato. Quando parliamo di rivoluzione digitale dobbiamo anche pensare in qualche modo chi avrà il controllo del cloud, perché dobbiamo rivendicare la sovranità quando questa si può esercitare e le scelte che faremo oggi sono scelte in qualche modo nel futuro e nei decenni a venire diranno della nostra indipendenza e della nostra autonomia. Quando discutiamo di rivoluzione ambientale, di transizione energetica, e questa è una battaglia che noi come Ministero abbiamo fatto e che rivendico, perché quando si parla ad esempio alla rivoluzione che è connessa all’automotive, non è questione di difendere il motore endotermico rispetto al motore elettrico, ma noi non possiamo ignorare che grande parte delle materie prime e di tutto quello che entra in una auto elettrica, come in tante industrie della transizione energetica dal fotovoltaico e quant’altro, arriva precisamente da un paese che avrà il controllo di queste materie prime e delle materie prime rare e se oggi ci lamentiamo che siamo in qualche modo dipendenti dalla Russia per quanto riguarda l’energia, non possiamo, io come politico non posso, non dire che se andiamo a occhi bendati in un’unica direzione, senza condividere il principio della neutralità tecnologica, tra 10 o 20 anni qualcuno si sveglierà e dirà: siamo dipendenti dalla Cina e se la Cina deciderà di fornire o non fornire determinati semilavorati o prodotti o materie prime, anche il fotovoltaico non lo potremo fare, anche l’idrogeno non lo potremo fare, ma vogliamo discutere anche di questo o non vogliamo discutere. Allora ho minuto ma quello che voglio dire è che forse più che le risorse economiche e finanziarie quello che deve fare la politica oggi è creare un valore inestimabile per l’investitore, per l’imprenditore che deve investire e che cioè è l’ottimismo, la fiducia, un clima che si proietta nel lungo periodo e che cementa le aspettative. Senza questo qualunque tipo di decisione di investimento in qualche modo viene preclusa. Allora proprio per finire, visto che siamo in campagna elettorale, giustamente, legittimamente tutti i politici, me compreso oggi hanno una visione di brevissimo termine, cioè 30 giorni, cioè il nostro obiettivo è portare a casa più voti possibile il 25 settembre. Il mio auspicio è che il 26 settembre si abbandoni tutta la politica del breve periodo e si ragioni e si decida e si governi guardando nel lungo periodo e per le future generazioni. Grazie.
Giorgio Vittadini: Allora ringrazio i nostri interlocutori che sono stati nei tempi e tiro solo due brevissime battute. Uno, che il PNRR è stato al centro del Meeting, protagonista del talk in cui l’ultima puntata sarà fra 40 minuti qui con Tinagli, Mario Mauro, Moavero Milanesi e Calenda, ma, secondo, che questo tema dell’ottimismo, della positività, del fatto che non c’è niente di deterministico è il filo rosso di questo Meeting. Draghi ne ha parlato ieri, è stato un punto interessante di tutti i leader di partito. È il filone di Zuppi, di tanti incontri. Noi siamo qua per dire che un popolo in azione è un popolo in cui l’intelligenza e la ragione può cambiare la storia. Quindi è nelle nostre mani il percorso di evitare che sia crisi e che sia sviluppo. L’Italia è sempre stata, come diceva prima il Ministro, un paese che quando è all’attacco perde, ma quando è in contropiede vince. Questo è un momento di questo tipo. Grazie.