CAMBIANO I RAGAZZI. Difficili, non impossibili: i nostri ragazzi tra virtuale e reale

CAMBIANO I RAGAZZI. Difficili, non impossibili: i nostri ragazzi tra virtuale e reale

Partecipano: Luisa Leoni Bassani, Neuropsichiatra dell’Età dell’Adolescenza; Luca Sommacal, Responsabile di Famiglie per l’Accoglienza di Milano. Introduce Adele Tellarini, Direttrice Fondazione Novella.

 

Ore: 19.00 Arena Cdo for Innovation A5/C5
CAMBIANO I RAGAZZI. Difficili, non impossibili: i nostri ragazzi tra virtuale e reale

Partecipano: Luisa Leoni Bassani, Neuropsichiatra dell’Età dell’Adolescenza; Luca Sommacal, Responsabile di Famiglie per l’Accoglienza di Milano. Introduce Adele Tellarini, Direttrice Fondazione Novella.

LUISA LEONI BASSANI:
Tisseron dice: «L’opposizione tra virtuale e reale non ha senso perché nella mente dell’uomo il cervello costruisce costantemente delle rappresentazioni virtuali che permettono simulazioni mentali e la possibilità di anticipare le azioni». Allora, lasciamo stare la citazione, però tutti noi viviamo stabilmente questa dinamica tra ciò che la nostra mente progetta, vede, e il suo desiderio. E questo è virtuale, ancora non c’è. È quello che la realtà ci rimanda. Io oggi sono venuta qui pensando che foste stati in cinquanta e mi ero preparata, comunque devo fare i conti con il dato reale di cui il mio corpo i miei occhi e le mie orecchie prendono atto. Siete molti di più, la responsabilità raddoppia. Questo gioco è stabile, quindi noi non dobbiamo avere paura di ciò che l’uomo pensa, progetta, prevede se rimane presente e il suo corpo, i suoi occhi, la sua mente, mantengono il contatto, perché ciò che io penso si intreccia, si modifica con il dato reale. Quando noi abbiamo paura del virtuale, per i nostri ragazzi, è perché temiamo che ciò che non è reale, materialmente vicino, toccabile, diventi per loro la realtà, cioè il fatto nel quale costruiscono se stessi e immaginano quindi la propria vita. Vedete ho tantissimi fogli, non li leggerò ovviamente tutti, però, se non ci fosse stato internet, non avrei tutto questo materiale. Non dobbiamo neanche avere paura del mondo digitale, il mondo digitale è una ricchezza infinita, una possibilità di conoscenza, perché l’uomo è limitato, la conoscenza dell’uomo è limitata, il desiderio di conoscenza invece è illimitato. La possibilità del digitale ti aiuta ad allargare l’orizzonte, non a diventare più stupido ma ad affrontare, cercare, trovare e paragonarti con tutto un pensiero che non è solo il tuo, che non è solo quello di casa tua. Quindi è paradossale che noi ci ritroviamo oggi a parlare di ragazzi che con tutta questa ricchezza a disposizione sono ritirati dal reale. Perché questa è la paura che vi ha portato qui in tanti, avere dei ragazzi a casa che non si alzano dal letto, vogliono solo stare davanti ai giochi, o si mettono stabilmente in contatto attraverso, non è neanche più Facebook, ormai è superatissimo, ci son ben altri nomi, ma io sono pochissimo esperta e quindi neanche li cito. Cambiano i ragazzi. Vi leggo una lettera che ho trovato su un mensile, una rivista mensile che si chiama Tracce. E dice questa ragazza, che si chiama Alessandra, così si firma: «È importante per me questo: seguire una persona che non ha pregiudizi su di me, su cui posso contare sempre, faccio fatica a fidarmi delle persone e a relazionarmi con esse. Ho capito però che, oltre a me, ci sono altri 5000 ragazzi che hanno i miei stessi problemi e per me è stupendo, perché capisci che non sei solo. Da tanto tempo dopo la separazione dei miei volevo riuscire a dire la vita è stupenda, e non ci riuscivo, e dicevo perché devo credere in Dio? Perché mi fa soffrire? Perché ha scelto me?». E poi racconta tutta la sua esperienza di incontro con qualcuno che l’ha guardata in faccia e le ha sorriso in un certo modo e dice: «Ho capito che questa cosa che mi aveva devastato», la separazione dei genitori e tutta la sofferenza, il rifiuto e la rabbia che ne erano derivati, «in realtà mi ha fatto crescere moltissimo». Questa ragazza è di oggi, è una adolescente di oggi, ha i problemi di tanti dei ragazzi che vengono in studio da me, di tanta sofferenza che li chiude. Mi ha scritto una lettera una ragazza che adesso ha 22 anni che io ho aiutato quando ne aveva 14 e che dalla Norvegia mi scrive: «Ti ringrazio, perché quando sono venuta da te, così piena di rabbia, di chiusura», non voleva più andare a scuola, il papà se ne era andato da casa e lei era furiosa contro questo padre e non voleva più nulla, «perché tu mi hai confortato e sostenuto dicendo che la rabbia non poteva essere l’ultima parola della mia vita, che il fatto che io soffrissi così tanto», mi diceva e dicevo io a lei, «era il segno che non era fatta solo di rabbia», che voleva che prima della rabbia ci fosse qualcosa che genera la rabbia, un bene per il quale temi, come la vostra paura non è l’ultima parola, c’è un bene che è la vita dei vostri figli che genera la paura. Dobbiamo smettere di puntare sulla paura per difenderci e difenderli e puntare invece sul bene presente che c’è. Mi scrive un altro ragazzino di 14 anni che ha un lavoro a scuola sull’amicizia, perché l’insegnante l’ha sollecitato come gli altri e scrive: «Essere amici, ormai lo sento dire molto spesso, anche con superficialità, quasi non pensando al suo vero significato. Certo anche io uso la parola amico in modo superficiale, tanto che per un anno e mezzo mi è sempre piaciuto essere l’amicone di tutti, ovvero stare antipatico a quasi nessuno, ridere e scherzare con tutti. Questa cosa mi piaceva molto, perché avevo sempre intorno persone felici. Ora non tutti erano conoscenti ma l’amicizia è un legame che unisce due persone che le porta ad essere unite». Parla come riesce. «Questo legame non è voluto, si viene a creare piano piano, come se anello dopo anello costruisce una catena indistruttibile. Però se uno risulta come coi conoscenti detti prima, questi anelli, fatti tutti di bugie, portano questa catena a rompersi oppure semplicemente arriva qualcosa come l’acqua che fa arrugginire il legame e lo porta a rompersi». Ma la conclusione è la cosa più interessante: «Penso che fino ad ora di catene indistruttibili io non ne abbia mai avute proprio per il fatto che non ho mai pensato a cosa voglia dire essere amici prima di oggi, ma prima o poi spero di creare un legame così anche io». Questo è un altro dei nostri ragazzi, con una storia tra l’altro familiare difficilissima. Il cuore dei nostri ragazzi non è cambiato, i nostri ragazzi desiderano «una persona che non ha pregiudizi su di me, su cui posso contare sempre, ma faccio fatica a relazionarmi e affidarmi». Questo nell’adolescente è normale. Normale non vuole dire senza sofferenza e senza fatica, tutt’altro. L’adolescente, il ragazzo si trova avere a che fare già con un corpo che gli da fastidio, si trova ad avere a che fare con un modo di sentire e delle pulsioni interne che lo spaventano e pensa di essere da solo. Scoprire che altri cinquemila soffrono come me, è importante, ma come fai a saperlo? Come fai? Ecco allora che questi ragazzi, che si rivolgono alla rete. Perché si rivolgono alla rete? La rete che è un modo di comunicare che non è finto. Cito ancora Turkle: «Non ha senso parlare di virtuale per definire gli spazi di interazione in internet, come gli scambi su Facebook o attraverso i videogiochi online, che appaiono non meno reali degli scambi vis-à-vis. Le tecnologie informatiche organizzano semplicemente nuove forme di presentarsi all’altro». E che cosa ha di affascinante questa nuova forma che prende così tanto questi ragazzi? «Le tecnologie digitali permettono di attualizzare una rappresentazione nell’immediato, una apparenza di realtà concreta e tangibile in cui non è possibile distinguere le immagine di oggetti virtuali che non esistono e le immagini di oggetti reali». Perché piace questo ai ragazzi? Perché la realtà non soddisfa. Perché la tensione enorme all’assoluto, al tutto, va a scontrarsi con una realtà che non risponde, non corrisponde. Si sentono soli e hanno paura. Questa è una situazione direi quasi fisiologica in questa crescita che, come voi sapete, è esponenziale e anche irregolare. Il cervello, le emozioni e il corpo vanno ognuno per conto proprio e non ti ritrovi più a camminare bene nelle gambe troppo lunghe. Il virtuale consente di mettersi in relazione proiettando un sé come io lo desidero. Io posso dire di essere quello che voglio senza tener conto di tutto quello che il mio sé reale mi pone come difficoltà: vergogna, incapacità, disadattamento, fatica nelle relazioni, errori, paura di sbagliare. Quindi io non ho un rapporto, ma cosa manca, cosa si perde in questa assenza di fisicità? Si perde l’emozione del corpo. Tanto è vero che per dire attraverso un Tweet quella che è la emozione che l’accompagna, il sentimento, io debbo scegliere una faccina, devo mentalizzare l’emozione, pensarla e tradurla in una immagine. Quindi la mia emozione non partecipa più del rapporto, rimane tutta implosa in me e non gestita e non incanalata. E nel rapporto virtuale non è neanche corretta. Perché l’altro non mi risponde in base all’emozione che vive, ma in base all’emozione che pensa che io mi aspetti di aver provocato in lui. Questo tipo di relazione non è che cambia il cervello, cerchiamo di stare tranquilli, sono stati fatti un sacco di studi. Cambia il cervello in internet? No. Per ora parlano dell’amigdala, non si modifica. Questo essere stabilmente connessi non altera il cervello, non è questo il punto, non risponde al bisogno reale della persona che si è messa in contatto, è solo questo il tema. Tu cerchi una cosa e non la trovi. E tra l’altro avviene un fenomeno particolare per cui esisto, ma questo è proprio dell’essere umano, come ci dice l’amico Galimberti: «L’identità non si costruisce per il semplice fatto che ci siamo e che ogni volta che parliamo diciamo io. L’identità si costruisce a partire dal riconoscimento dell’altro». Più è fragile, più è fragile, superficiale istantaneo il riconoscimento, più aumenta il mio bisogno di presenza, di essere ancora riconosciuto e rispondere e mandare. Questo che viene chiamato il narcisismo, legato al fatto di essere sempre presenti, in realtà risponde a una profonda insoddisfazione nella risposta. L’altro, che mi dovrebbe dare sicurezza di me, certezza del fatto che io sono, attraverso l’esperienza reale, emotiva di rapporto che vivo e che mi costruisce, invece non c’è e questa risposta non mi soddisfa e mi lascia drammaticamente solo. Ho presente molto bene un ragazzo di 17 anni, in studio da me, che non riusciva a mettere giù il suo cellulare neanche durante la seduta. Con gli adolescenti è inutile che tu stia lì a fare storie, metti via, non sono né la mamma, né la professoressa del compito in classe, se lo tiene lì, prendo atto che non gli basto, secondo lui è che la relazione, la sua possibilità di essere anche lì, passa attraverso il fatto che qualcuno lo rende vivo per il fatto che lo chiama. Abbiamo cominciato da lì, guardandoci in faccia, non ad attaccare il telefono, ma a cercare il bisogno di essere riconosciuto. Allora, i ragazzi hanno bisogno del gruppo, lo sanno tutti che gli adolescenti, nel momento in cui si staccano dalla famiglia e cercano una propria soggettività, hanno bisogno del riconoscimento dell’altro e lo cercano nel gruppo. In questo senso il mondo del web ti permette di appartenere, è un gruppo sempre aperto, ti prende sempre quando vuoi, ti puoi disconnettere quando vuoi, almeno così pensano per un po’, e poi possono arrivare anche ad esserne drogati ma non mi interessa tanto affrontare la patologia, quanto le condizioni. Questa mancanza di fisicità, li rende impreparati sempre di più alla relazione, ma, d’altra parte, noi ridevamo a scuola con la direttrice della mia scuola, perché è arrivato tra noi un manager che non saliva più due rampe di scale, ma mandava la mail per le sue comunicazioni e ci siamo trovati a rispondere con le mail, perché? Perché si fa prima, si fa più in fretta, più presto a rispondere. Il tempo incalza, la nevrosi stabile di questo bisogno incalza e tu hai sempre meno tempo, sempre meno tempo e sempre meno parole, perché, attraverso questa comunicazione, la cosa di cui questi ragazzi sono più privati è la parola. Ho avuto il piacere di partecipare a un lavoro che una prima superiore ha fatto. Una prima superiore di un tecnico. Ora, in questa prima superiore i ragazzi sono stati sfidati a leggere un testo, un testo difficile, contemporaneo e hanno impiegato diversi mesi e vedere come erano imbarazzati, incapaci a trattare la parola all’inizio e vedere come sono stati capaci di goderla questa parola alla fine del lavoro, mi ha profondamente commosso ed è stato questo che mi ha fatto dire: sono privi di parola. E lo sono perché sono privi di relazione, perché è attraverso la parola, lo sguardo, il gesto, che l’uomo realmente si relaziona e questi ragazzi senza parola, che costruzione di pensiero possono avere e fare? Se nel tempo non c’è nessuno che li provoca alla parola, cioè dà spazio all’ascolto, non solo automatico e meccanico per sciogliere le questioni, ma la parola, come dice il mio ragazzino, per accorgermi, per fare entrare e capire i bisogno che ho. Allora se non c’è qualcuno che provoca questo, l’esito più pesante che io ritengo ci sia nei nostri ragazzi è quello di non avere più domande. Non avendo più parola, non riescono a trovare le parole per esprimere la domanda che nasce dentro e la domanda si trasforma in pulsione, emozione transitoria, azione. A volte azione attraverso un messaggio: oggi nessuno non scrive più neanche i messaggi, gli sms, ma tutto attraverso WhatsApp, nessuno neanche più telefona, non c’è neanche più la parola attraverso lo strumento mediato del telefono: «Ma chiama, devi trovare il tuo amico, ti metti d’accordo, prendi la bicicletta, no? No. Io non chiamo. Chiama tu. Va beh. Allora». Invece, il bisogno interno di verità, di giustizia, di assoluto, c’è tutto, ed è avvertito come un disagio prepotente interno, che diventa azione fino a quello che psichiatricamente chiamiamo acting out. Gli adolescenti la loro emozione devono in qualche modo incanalarla, tradurla, perché non li distrugga, è e a volte incendiano, a volte tagliano, non la incanalano positivamente, a volte la incanalano in modo distruttivo. Questa esigenza che già nell’adolescente è fisiologica, diventa drammaticamente una azione distruttiva o autolesiva, che è quello che tantissime volte riscontriamo nei nostri ragazzi. Allora non entro neanche, perché penso di aver finito il tempo, nella questione della patologia, della dipendenza, del fatto che il virtuale prende il sopravvento e mi fa ritirare, ma non è il virtuale, sono io che sono già ritirato, perché il reale mi paralizza, nel reale non ho strumenti, allora mi fermo e devo pur trovare un oggetto nel quale identificarmi. La rete fa da sostituto temporaneo, ma nel tempo non solo giochi, stai in casa, ma, se a questo non si accompagna altro, dopo stai sdraiato nel letto, perdi la consapevolezza della importanza e della bellezza del tuo stesso esserci. Se nessuno ti aiuta a guardare quel disagio, non puoi capire che è una occasione per domandarti dove devo cercare, dove posso trovare risposta. Io, l’Adele e quanti facciamo questo lavoro di psicoterapeuti, finiamo per essere il punto a cui questi ragazzi chiedono di essere ciò che non puoi essere. Il punto che però ti rimette in moto, non attraverso la correzione, la condanna, ma attraverso l’ascolto e il riconoscimento di un bene che c’è non in base all’assenza di errori, alle giuste regole, al fatto che sei ben integrato. Noi troviamo dei ragazzi sofferentissimi anche ben integrati, paradossalmente, perché la domanda esistenziale di fondo non può trovare risposta se non attraverso una relazione affettiva, dove l’altro ti prende dentro con amore, cioè pensando che sei un bene a prescindere e che in te vede un bene. Come voi vedete, e vado a chiudere, il problema che rimane aperto è eminentemente educativo, di adulti che non abbiano paura di essere ciò che sono, di accorgersi di chi sono e abbiano il coraggio di comunicarlo. Allora, uno che io ritengo un grande amico, che è don Giussani, che è un prete, di fronte al passaggio della adolescenza, parlava del fatto che a questa età i ragazzi hanno un sacco sulle spalle e, arrivati all’adolescenza, lo mettono davanti a i propri occhi e guardano cosa c’è dentro e pescano e decidono questo è per me, questo non è per me. Perché questo accada, occorre che ci sia qualcosa nel sacchetto, fosse anche un serpente, perché anche nell’esperienza, davanti alla quale il ragazzo dice non è per me, dice qualcosa. Se questo è vuoto, perché io non ho il coraggio o non so chi sono e non ho messo dentro niente, sorgono i problemi. Nessuno di noi che ha o ha avuto figli o che ha degli alunni pensa di non insegnare ai propri figli. Tutti cerchiamo di insegnare il meglio, ma a cosa guarda il ragazzo quando tira fuori? Non alle idee, perché con le idee dialogare è facile, perché uno se le può sbattere dietro alle spalle e fregarsene, ma le persone, con la loro esperienza, con la vita che ci hanno comunicato perché la vivono. Questo è il punto. Se io non ho il coraggio di dire me stesso, il ragazzo non troverà niente dentro questo sacchetto e andrà a cercarlo da qualche altra parte. Ma io non sono per niente pessimista, perché questo che ho letto di questi due ragazzi, mi dice invece che il cuore c’è e il cuore è incontrabile e il tempo non è affatto corto, perché c’è tutta la vita per continuare a riallacciare relazioni con quelli che amiamo, se solo non fuggiamo, se solo abbiamo, come dire, la pazienza di accettare che, anche sbagliamo, se non siamo capaci, comunque siamo come siamo e continuiamo ad esserci. Dico e leggo come ultimissima cosa un’altra citazione, perché mi è piaciuta in modo particolare. È la parola di un giornalista che parlava presentando il film Isis tomorrow, da Milano, sull’Espresso del 19 agosto. Un atto di fiducia nel giornalismo, quindi non c’entra niente con gli adolescenti, non c’entra niente con internet. Lui parlava del fatto della verità. La scoperta che la verità si compone senza giudicare, ma ricostruendo con pazienza la tela di ogni volto e di ogni storia, creatura per creatura. La sofferenza, il dolore, la speranza di ogni singola persona che diventano sentimento universale, l’umanità di tutti. Quindi io sono assolutamente piena di fiducia che coi nostri ragazzi si può camminare, perché il loro cuore è il cuore umano e sono anche fiduciosa in internet perché, e qui chiudo con una battuta, l’ho fatto vedere alla nostra amica Adele: nel 370 a.C., nel Fedro, Platone fa disquisire Fedro e Socrate sul rischio della scrittura. La scrittura è quindi da rifiutare perché è pericolosa per la memoria. L’uso dell’alfabeto promuove inoltre una cultura ipocrita e superficiale perché non nasce da un lavoro personale di ricerca o attraverso l’insegnante, ma solo dalla raccolta sommaria di notizie e opinioni scritte da altri. Il parallelismo con l’attuale dibattito su internet è impressionante.

ADELE TELLARINI:
Grazie Luisa, passo la parola a Luca Sommacal di “Famiglie per l’accoglienza” che ci porta l’esperienza di un padre e di tante famiglie.

LUCA SOMMACAL:
Grazie, buonasera, non è facile intervenire dopo Luisa, abbiate pazienza, ci provo. Allora,, devo dire che il titolo dell’incontro innanzitutto mi ha fatto molto riflettere perché interpella immediatamente il ruolo di noi adulti e genitori verso i nostri ragazzi. Come stiamo di fronte a loro? Con quale consapevolezza di noi stessi e del loro diventare grandi? Come li accompagniamo in questo meraviglioso cammino che li porterà a diventare uomini?
Certo, cambiano i nostri ragazzi, come le circostanze esterne cambiano, non sono le stesse che ho vissuto io quando ero ragazzo e dico: «Meno male! Meno male, perché è il segno che si vive!». Se fosse tutto uguale, sempre, a parte che sarebbe una noia mortale, sarebbe il regno del già saputo, tutto sarebbe affrontabile attraverso degli schemi già collaudati, con conclusioni ovvie e catalogabili.
Invece i ragazzi cambiano sfidandoci, continuamente. Non solo in senso provocatorio e conflittuale, ma proprio perché nel rapporto con loro siamo obbligati noi stessi ad un passo di maturazione. Passo che spesso è un salto senza rete, perché non sai quella situazione lì, quella particolare vicenda dove ti porterà, ma è un passo di maturazione, perché ci obbliga a chiederci su cosa appoggiamo, per non essere travolti dalle vicende e spesso anche dalle provocazioni che i nostri figli ci portano. Allora il titolo: mondo virtuale e mondo reale, realtà o fantasia, io lo leggo un po’ così.
Questo non è il contesto che vivono i nostri ragazzi, è il mondo che viviamo anche noi genitori. I nostri figli sono molto attenti a come viviamo questa nuova era, a come l’affrontiamo, anche se spesso non ce lo danno a vedere. Sono molto più attenti al nostro esempio, al nostro comportamento, piuttosto che ai suggerimenti, alle raccomandazioni che senza tregua diamo loro.
Come diceva Luisa, ciò che è digitale non per forza è negativo, ma è uno strumento per introdurci, per capire meglio, per velocizzare certe cose, per affrontare meglio la realtà. Il problema è quando lo strumento diventa il fine. Abbiamo tutti in mente che devastazione può essere per i nostri ragazzi quando diventa il fine, ma è la stessa cosa – permettetemi – anche fra di noi adulti. Basta pensare a certe chat o certi gruppi di Whatsapp tra genitori delle nostre scuole.
Ciò che proverò a raccontare parte dal mio punto di osservazione di padre e di responsabile di una realtà di famiglie che si accompagnano nell’avventura dell’accoglienza familiare di figli in affido o in adozione, spesso segnati da grandi dolori e grandi contraddizioni.
Cambiano i ragazzi, ma cambiamo anche noi nel rapporto con loro. Siamo ricchi di esperienze vissute e giudicate e rapportarci con loro è come se facesse tornare a galla ciò che l’esperienza, nel tempo, a noi ha reso evidente. Abbiamo delle esperienze e ci si auspica che abbiamo imparato qualcosa da queste esperienze, ci hanno reso più consapevoli. Il problema è che tante volte queste esperienze le diamo per scontate, sono passi che ormai sono fatti, messi in cantina e via. Mentre il rapporto con i nostri ragazzi è come se facesse riemergere certe questioni, semplicemente mentre ci chiedono: «Perché?».
E allora, nello spiegare certe azioni, certi modi di vivere, certe cose che diciamo, ci obbligano a recuperare la coscienza di ciò che siamo e che facciamo. E di fronte anche a questioni abbastanza scomode. Ad esempio, la questione: «Fai il tuo dovere». Mentre lo dico a lui, a mio figlio, lo dico a me stesso. Cosa vuol dire per me «fare il mio dovere», cosa vuol dire per me «lavorare»? Come glielo spiego a mio figlio?
O l’uso del denaro, l’usarlo bene, oppure quanto lo bramiamo noi, quanto ci adoperiamo per arricchirci, vai a spiegare perché è sbagliato, perché c’è un altro modo per vivere queste cose! O come si vivono gli affetti, il possedere le cose, fino alle amicizie, all’uso della droga: «Perché tu non la usi?».
Allora la sfida è come noi adulti affrontiamo la realtà: stiamo di fronte alla realtà per comprenderla o per violentarla, per forzarla dentro a certi schemi nostri, oppure scappiamo dalla realtà? Queste cose i nostri figli le vedono. E come stiamo di fronte alla prima realtà che ci è posta davanti, che sono loro?
Quello che provo a lanciare come spunto, sono alcuni punti di riflessione nati da un lavoro che abbiamo fatto in questi anni con Adele e con Luisa sui nostri figli, che a me hanno aiutato a capire un po’ di più mio figlio, mia figlia, i loro amici, i figli dei nostri amici.
Il primo punto che mi sento di sollevare, di guardare è la questione dell’io in relazione. Pensiamo spesso che l’adolescenza sia il momento più critico e problematico nel diventar grandi e dell’essere giovani. Certo porta delle criticità e delle contraddizioni, eccome. Ma in realtà, secondo me, è un periodo meraviglioso, perché è meraviglioso veder crescere mio figlio, vedere crescere i nostri figli, vedere emergere a fatica, dentro drammi, cadute, riprese, violenze e tenerezze, contraddizioni, vedere pian piano un io che comincia a prendere coscienza di sé e che perciò comincia a delinearsi con dei tratti particolari, con una propria unicità.
Quello che è chiesto a noi adulti penso sia, per accompagnare i nostri figli, avere e mostrare questa stima immensa verso il loro tentativo di diventar grandi, nel maturare, nel prendere anche responsabilità. Mi viene in mente quando mio figlio ogni tanto mi dice: «A 18 anni vado a vivere da solo». Che sembra una boutade, penso che tanti nostri figli dicano queste cose. Ma, al di là della boutade, secondo me è un passaggio interessantissimo, perché è come dire: «Voglio cominciare ad essere responsabile come lo siete voi nella vita». Ovviamente questo va accompagnato, va seguito, perché non può essere lasciato all’istintività, però è un passaggio interessante.
Questa concezione di sé, però, non viene fuori perché i nostri figli si mettono a riflettere. Avviene all’interno di una relazione, di un rapporto, che è fatto di dialogo, di esempio, di immedesimazione, di condivisione, ma anche di tensione, di discussione, di errori. Un rapporto dove emerga che io, figlio, sono amato e voluto così come sono. E, così come sono, posso affrontare la vita.
Ne Il rischio educativo don Giussani parla della funzione dei genitori come originatrice, ovvero dice: «Essi, i genitori, rappresentano, nella vita dell’adolescente, la permanente coerenza dell’origine con se stessa, la dipendenza continua da un senso totale della realtà, ma la lealtà con l’origine occorre sia innanzitutto dei genitori, coincide con la lealtà con se stessi, dato che essi rappresentano l’origine dei figli. A nulla varrebbe aver dato la vita senza aiutare instancabilmente i figli a riconoscerne il senso».
In alcuni casi il digitale amplifica da un certo punto di vista questa trama del rapporto con l’origine, soprattutto nei nostri figli, accolti, questo dramma della necessità di un rapporto fisico con l’altro e della ricerca della propria identità. Pensiamo per esempio alla questione del rapporto e della ricerca dei genitori naturali per i figli adottati, cosa che internet facilita e ha facilitato. A come questo destabilizzi noi genitori e renda ancora più irrequieti i nostri figli, specialmente quando, alle volte, questa cosa succede improvvisamente, perché internet non è che lo puoi fermare o ne puoi definire tu i tempi.
Vi faccio l’esempio di un figlio di alcuni amici che, a scuola, un giorno, durante la ricreazione, riceve una chiamata via Skype. Erano i genitori naturali che l’avevano trovato e avevano organizzato questa chiamata, con padre, madre e altre persone. Potete immaginare lo shock per questo ragazzo, che è rimasto veramente imbarazzato e non era in grado di stare di fronte a quel che stava succedendo, ha chiesto a questi genitori di fermarsi un attimo, perché non ce la faceva.
E pensate anche ai genitori adottivi, quando hanno saputo questa cosa: in un primo istante, anziché sostenere il figlio, hanno detto: «Ma io denuncio questa gente, chiamo l’ambasciata (perché erano stranieri) e li denuncio, perché non esiste!». Avevano ragione.
Da quella vicenda, dopo una lunga progressione di cose che si sono succedute, la famiglia adottiva è arrivata ad accompagnare in Lituania il figlio per l’incontro con i genitori naturali. Il ragazzo poi torna più volte da solo ad incontrarli questi genitori, finché, durante una di queste visite, ha un incidente e viene ricoverato.
La madre naturale comincia ad accudirlo ed, essendo nato un rapporto in qualche modo anche con la famiglia adottiva, ad un certo punto scrive alla famiglia adottiva e dice: «Guardate, mi sono sorpresa nell’accudire mio figlio, nel metterlo a letto, nel tirargli su la coperta, nell’accarezzargli il viso». Sorpresa forse di sentirsi madre per la prima volta. I genitori adottivi vi assicuro che hanno fatto una grandissima fatica a star di fronte a questa vicenda. Ma che grande libertà hanno avuto, che grande libertà nel cambiare la posizione per il bene del figlio! Nell’accettarne la scelta, con tutto il distacco che questo ha comportato e comporta, con tutta la paura di poterlo perdere definitivamente.
Che importanza ha avuto la compagnia fatta da famiglie di amici, nel sostenerli! Tanto che hanno scritto: «Vi ringraziamo, perché senza il vostro accompagnamento non avremmo retto a questa sfida». E, dall’altra parte, che grande bene ha ricevuto questo ragazzo, perché, per poter guardare la sua origine in quel modo, con quella lucidità e lealtà che ha dimostrato, riscoprendo il valore enorme dell’essere stato accolto, introdotto alla vita dai propri genitori adottivi, doveva vivere una relazione talmente vera da permettergli di affrontare tutto.
Essere in relazione permette di approfondire la coscienza di sé, di affrontare la vita con una grande libertà, e questo vale per tutti, per i figli e per i genitori.
Può succedere anche a volte che la figura del genitore venga affiancata da figure terze e questo penso sia un bene per i nostri ragazzi, perché anche questo è un passo di maturazione: cercare dei riferimenti, dei punti solidi al di là della mamma e del papà, per poter affrontare la vita. E serve anche a noi, per poter imparare forse come stimare ancora di più i nostri figli.
Vi porto l’esempio di una famiglia adottiva che tempo fa contattò i nostri amici perché non ce la faceva più a stare col proprio figlio, che viveva un periodo di grande difficoltà. Il ragazzo era stato adottato da grande, quasi 17enne.
Dopo qualche anno era entrato in una crisi profonda, per cui non faceva più nulla, non aveva rapporti con altri coetanei, non voleva neanche cercare un lavoro (è l’età in cui o studi o lavori) e aveva addirittura anche dei problemi alla vista che non voleva farsi curare, neanche sotto la promessa dei genitori: «Guarda che se vai dall’oculista e metti gli occhiali, poi puoi fare la patente, puoi fare come tutti i tuoi amici che han la macchina, ti prendiamo la macchina, puoi guidare, puoi andare in giro». Niente. È come se ponesse un distacco dalla realtà: «Io la realtà non la voglio affrontare, non la voglio vedere». Allora i genitori hanno chiesto aiuto ad altri amici e il ragazzo è stato messo in contatto con una cooperativa, con un’associazione che aiuta giovani problematici nella ricerca del lavoro.
Questi amici hanno cominciato un rapporto con lui, lungo, fatto di grandissima pazienza, di tentativi anche sbagliati, di errori, di prove e riprove. Insomma, l’hanno aspettato. L’hanno aspettato stimandolo per quello che era, dicendo: «Vai bene così, mettiamoci insieme a lavorare, vediamo cosa riusciamo a tirar fuori». E lui, nel tempo, è venuto fuori, si è affezionato agli educatori, ha cominciato a trovare un lavoro, seppur provvisorio e si è fatto gli occhiali.
L’altro aspetto che penso sia importante è l’amore alla libertà dei nostri figli, perché la stima di cui parlavo prima si esprime in questo acuto e vertiginoso amore alla loro libertà. Perché l’io, dicevamo prima, attraverso dei rapporti che sono significativi, prende sempre più coscienza di sé e interviene nel mondo, vive, esprimendo e affermando la propria unicità, il proprio modo di rispondere alla vita e al proprio destino. Libero arbitrio incluso.
La stima nei riguardi dei nostri figli prende forma nell’amare il modo in cui decidono di camminare e di aderire a quello che percepiscono come vero, anche se spesso si esprime in modalità del tutto imprecise.
Amare la loro libertà, diceva don Giussani in Il miracolo dell’ospitalità, è plasmarsi aderendo alla presenza che accoglie, quindi ai figli, secondo tutti gli anfratti che quella presenza ha. E plasmarsi all’altro non è per nulla scontato, perché, soprattutto per le famiglie nostre che accolgono, uno dice: «Cosa vuoi di più? Sei tu che ti devi plasmare alle regole che metto in campo io, che dico io, perché ti accolgo, vedi tu!».
Questo viene da pensare; invece, accettare l’altro per quello che è, senza pretendere che cambi – poi certo a mio figlio dico che deve cambiare su questo – cioè uno deve desiderarlo e, se succede, è meglio, ma non pretenderlo, perché vanno benissimo così come sono, anche se vivono un’esperienza contraddittoria, perché il cuore e il tempo sono dati anche a loro, come diceva Luisa prima, ma lo riprenderò dopo. Amare la libertà dei nostri figli chiede a noi stessi di essere liberi, con quella punta acuta che è il perdono di sé e della propria miseria – diceva sempre don Giussani ne Il miracolo dell’ospitalità – ed è importante avere un luogo dove questa libertà possa essere vissuta. E dico che nell’esperienza che vivo in amicizia tra le nostre famiglie, io non ho ancora trovato un posto dove si viva la libertà in maniera così totale, proprio per la coscienza del nostro limite, per non avere niente da perdere, per cui si può mettere sul tavolo tutto quello che si è, certi che si è guardati non per quello che si riesce a fare e si riesce a fare molto poco alle volte. È solo con questo sguardo che possiamo guardare con tenerezza e anche ironia i tentativi anche maldestri dei nostri figli. E possiamo aspettarli nel tempo, anche il tempo e la pazienza hanno un valore fondamentale nel rapporto che c’è con loro e spesso pensiamo che i tempi dobbiamo dettarli noi e che tutto debba accadere e risolversi secondo dei tempi che decidiamo noi. Anche di fronte agli errori diciamo: «Okay, hai sbagliato. Hai capito questo errore? Sì». Quindi in fondo pensiamo che quell’errore non debba più accadere perché ormai chiarito. Invece ciascuno ha bisogno dei propri tempi e il tempo è fondamentale nel rapporto tra le nostre libertà: la mia libertà e quella di mio figlio, perché il rapporto non ha scadenza. Sembra normale questa affermazione, ma nei figli affidatari, affidati, nell’esperienza dell’affido questa cosa è veramente problematica, soprattutto quando si avvicina il momento del diciottesimo compleanno, perché, con il raggiungimento della maggiore età, il progetto di affido “scade” e un ragazzo, figlio di amici, a un certo punto, compiuti i 17 anni, ha cominciato a dare di matto e i genitori non riuscivano a trattenerlo e dopo ha detto: «Io facevo così perché avevo paura che mi cacciassero al compimento del diciottesimo anno. Piuttosto che sentirmi dire “non ti voglio”, mi faccio cacciare io». C’è un altro punto importante secondo me d è la paura del fallimento e la questione della performance, l’esasperazione della performance. Penso che questo sia l’eredità più devastante che rischiamo di trasmettere ai nostri figli, per lo meno la mia generazione. Spesso ci troviamo a guardare e giudicare noi stessi e gli altri secondo le categorie del successo e dell’insuccesso e così guardiamo e sproniamo i nostri figli. Quante volte mi è capitato di assistere a dialoghi tra genitori ma penso anche a molti di noi in cui venivano esibiti quasi in maniera surreale i risultati scolastici, sportivi dei propri figli, come delle medaglie al valore. Tu vali perché hai successo, ma questo non è nient’altro che lo specchio in cui ci guardiamo. Perché vali tu? Perché faccio carriera, faccio soldi, perché sono apprezzato. Fortunatamente i nostri ragazzi, quelli accolti dalle nostre famiglie, quindi con alle spalle storie di grandi fatiche e dolori, ci obbligano a mettere in discussione questa logica: non vado bene a scuola, faccio casino, ne combino di tutti i colori, e allora? Mi consideri anche tu un fallito? Tu, caro papà che sei un manager, che hai successo, stimato da tutti, quasi un superuomo, invece quanto è importante non nascondere i nostri limiti – diceva Luisa prima -, quanto è importante per la loro vita, ma anche per la nostra e non si tratta di esasperare chissà che cosa ma semplicemente di non vergognarci di quello che riusciamo a fare o non riusciamo a fare, perché è molto più importante che i nostri figli vedano degli uomini in cammino che sbagliano, che si rialzano, che si riprendono continuamente, sostenuti continuamente dagli amici, dalla moglie piuttosto che dei rigidi superman. Ricordo che solo così possono vedere che anche la loro vita contraddittoria, come la nostra vita contraddittoria, può essere degnamente vissuta. Ricordo un episodio in cui durante un incontro con i genitori, il direttore dell’istituto superiore di mio figlio esordì dicendo: «Certo, deve essere proprio difficile essere vostri figli! Siete così perfetti! Gente di successo. Lo spazio per l’errore non è minimante tollerato. Ricordate che i vostri figli hanno bisogno di vedere la vostra vulnerabilità, altrimenti cresceranno con l’idea che per loro così imperfetti non ci sarà spazio in casa e quindi neanche nel mondo». Allora come possiamo recuperare la facoltà di guardare con libertà i nostri limiti e perfino gli insuccessi, tanto da cancellare la parola fallimento dal vocabolario? A mio parere solo recuperando quello che abbiamo detto prima e cioè che siamo voluti e amati per quello che siamo. E il primo luogo dove questo accade è la casa.
Quarto punto, e ho quasi finito, è l’esperienza del dolore. Viviamo una trama di rapporti tra famiglie segnate tanto dall’esperienza del dolore, dolore di storie difficili, di abbandoni, ferite che aprono grandi e irrisolvibili interrogativi che spesso sfociano anche in atteggiamenti contraddittori, violenti o nella perdita nella stima di sé, atteggiamenti che possiamo tutti immaginare. E il dolore per i nostri figli nasce dall’accorgersi di quello che don Giussani – sempre ne Il miracolo dell’ospitalità – citava come incapacità di colmare l’abisso della diversità dell’altro. Noi non possiamo risolvere e spiegare il dramma che vivono i nostri figli e colmare l’ampiezza del desiderio che il loro cuore brama. Spesso il dolore è di non riuscire neanche a comunicare con loro. Ricordo alcuni amici che raccontavano del loro figlio che, durante la prima superiore, decide a un certo punto dell’anno di non andare più a scuola, passando le giornate a casa, non facendo nulla se non guardando film su internet, isolato da qualunque rapporto, perché si sentiva sbagliato, si sentiva cattivo e stando da solo non avrebbe potuto fare del male a nessuno. E qualsiasi tentativo di aiuto era un fallimento e non ascoltava nessuno. I genitori non han potuto fare altro che chiedere aiuto e star di fronte al suo dolore, semplicemente questo. Ed è un po’ come star di fronte al dolore innocente che la mostra di Giobbe qua al Meeting racconta. Mi è capitato di leggere recentemente l’intervento che il Papa ha fatto a Roma la settimana scorsa dove, a un certo punto, di fronte ad alcune domande, ha detto: «Non tutti i perché hanno una risposta. Perché soffrono i bambini? Chi mi può spiegare questo? Non abbiamo la risposta, soltanto troveremo qualcosa, guardando il crocifisso e sua madre. Lì troveremo la strada». A Manila, nel discorso che ha fatto ai giovani, fa un altro passaggio molto interessante sullo stesso tema. «Perché i bambini soffrono? Quando il cuore riesce a porsi la domanda e a piangere, possiamo capire qualcosa, il pianto è il vero elemento che permette la comprensione della sofferenza, ma anche la sua condivisione ovvero la compassione, quella vera. Certe realtà della vita si vedono soltanto con gli occhi puliti dalle lacrime e il pianto è come l’abbassamento totale delle nostre difese», cioè il riconoscere tutta la nostra incapacità di fronte al grido dei nostri figli che alle volte si esprime in maniera più acuta nei nostri ragazzi, ma è lo stesso di tanti altri ragazzi coetanei. E si può solo stare al loro fianco perché la vita è un grande mistero, e allora quando si percepisce che la vita è un grande mistero non posso fare altro che camminare insieme e cominciare un cammino insieme.
E l’ultimo punto che voglio citare è la questione del cuore, che citava Luisa prima. Il cuore pulsante per me è l’esperienza più affascinante, questo loro cuore, questo cuore dei nostri figli all’opera che è capace di intercettare tutto ciò che può essere uno spunto e un’ipotesi di risposta. Qualche mese fa, sono stato invitato nel liceo che ho fatto da ragazzo con la mamma e la sorella di un’amica, che era stata uccisa in una tragica situazione e che prima di morire aveva scritto una poesia. I ragazzi dell’istituto, ricorrendo il trentennale della morte e colpiti dal fatto, hanno recuperato questa poesia e allora ci hanno invitati in un momento di autogestione, omaggiandoci di una lettura di questa poesia tradotta nelle lingue di origine degli studenti (era un istituto statale dove c’erano studenti di varie etnie) e hanno tradotto questa poesia in arabo, in inglese, in cinese, l’hanno pure musicata e per me è stato bellissimo vedere la trasparenza con cui i ragazzi si sono approcciati a questo momento. La poesia si intitolava Il tempo dell’attesa, e recitava nella parte finale: «Perché Signore ogni tempo ha il suo dono, a ogni tempo hai dato la capacità di predisporci alla tua attesa». E questi ragazzi di 16/17 anni, sono stati uno spettacolo, perché hanno intercettato ciò che il loro cuore desiderava e ci hanno detto: «Abbiamo sentito la poesia vicina, tanto che abbiamo desiderato lavorare su quelle parole, ci siamo meravigliati di quanto fossero profonde e vere. L’ attesa dell’autrice è la stessa nostra. Desideriamo farvi questo regalo, segno della nostra partecipazione a qualcosa di misterioso a cui non sappiamo ancora dare il nome». Oppure il cuore del ragazzo di cui parlavo prima che a un certo punto non ce la faceva più a stare in casa a guardare film e si ridesta e decide di ritornare a scuola perché, dice, «le mura della sua casa gli cadono addosso». Allora l’ultima cosa che dico e che l’unica cosa che possiamo fare è quella di allearci al cuore dei nostri ragazzi, come ha fatto il Papa sempre al circo Massimo, quando diceva loro: «Avete nel cuore questi sogni, questi grandi sogni e sono la vostra responsabilità, sono il vostro tesoro. Non accontentatevi del passo prudente di chi si accoda in fondo alla fila. Ci vuole il coraggio di rischiare un salto in avanti, un balzo audace e temerario». Allora dico che il cuore pulsante dei nostri ragazzi possa incontrare il nostro, il nostro cuore vivo, perché possano diventare uomini, crescere nella coscienza di sé e, se ci accorgiamo che il cuore nostro è un po’ indurito, che il nostro cuore possa avere la semplicità e la libertà di farsi ridestare dall’incontro con loro e che noi possiamo vivere dei rapporti di amicizia veri e liberi, che ci aiutino a guardare fino in fondo i nostri ragazzi e continuamente stupirci di loro

LUISA LEONI BASSANI:
Mentre lui parlava, mi è venuto in mente quel preside a Londra, credo, che ha deciso che dall’inizio di settembre, i suoi alunni non possono portare il cellulare, lo smartphone in nessun modo a scuola. Sembra una sproporzione incolmabile tra l’attesa che lui ha suscitato della posizione dell’adulto e la piccolezza di questo atto. Ma io penso che ciascuno di noi non ha il compito di risolvere le difficoltà dei giovani con internet o con la loro adolescenza o con il loro dramma. Ciascun di noi insegnanti a scuola, preside, papà o mamma ha la storia del suo ragazzo. Quindi fa come può con la lealtà della verifica. Fa come può, non come si deve fare, perché io penso profondamente, dopo tanti anni di esperienza, che non so come si deve fare. Desidero che i miei figli abbiano una bella strada, posso, se credo, pregare per questo e posso guardare nel tempo sperando che accada, non costruirlo. Questo non è un’impotenza, è una grande possibilità reale. Guardo mio figlio. Guardo me e provo a camminare, certo che non tengo nelle mie mani il destino del mondo e il suo. Grazie

ADELE TELLARINI:
Grazie del prezioso contributo che ci hanno dato i nostri due amici, sicuramente per metterci al lavoro meno disorientati, meno timorosi, forse più attaccati alla realtà, ma soprattutto più consapevoli del potere che abbiamo, che è quello di poter guardare il cuore dei nostri ragazzi, di star loro più vicini, meno connessi, ma più vicini nel loro corpo, nel loro sguardo. Credo che questo sia la vera potenza perché – come diceva Luisa – i nostri giovani, ma credo ogni uomo, hanno bisogno di relazioni vere, da cui si sentano riconosciuti, guardati, amati. Quindi digitale o no, questa è la scommessa e il compito di ognuno di noi.

(trascrizione non rivista dai relatori)

Data

22 Agosto 2018

Ora

19:00

Edizione

2018
Categoria
Arene