ALEPPO: UN NOME E UN FUTURO

S. Ecc. Mons. George Abou Khazen, Vicario Apostolico di Aleppo; Binan Kayyali, Direttrice Franciscan Care Center di Aleppo; Firas Lutfi, Responsabile Terra Sancta College e Franciscan Care Center di Aleppo; Mahmoud Akkam, Muftì di Aleppo (intervento in video-collegamento). Introduce Andrea Avveduto, Giornalista, Responsabile Comunicazione Pro Terra Sancta.

 

 

Aleppo: un nome e un futuro

S. Ecc. Mons. George Abou Khazen, Vicario Apostolico di Aleppo; Binan Kayyali, Direttrice Franciscan Care Center di Aleppo; Firas Lutfi, Responsabile Terra Sancta College e Franciscan Care Center di Aleppo; Mahmoud Akkam, Muftì di Aleppo (intervento in video-collegamento). Introduce Andrea Avveduto, Giornalista, Responsabile Comunicazione Pro Terra Sancta.

ANDREA AVVEDUTO:

Buon pomeriggio a tutti, grazie di essere qui e di essere intervenuti così numerosi a questo incontro dedicato ad un argomento che per lo più è scomparso dalle cronache dei nostri telegiornali e dai giornali: la Siria. La vostra presenza è un segno che la Siria non è scomparsa dai cuori e dalle menti di tante persone che in questi anni hanno imparato ad amare questo Paese e la sua gente. Vorrei ricordare qualcosa che può sembrare scontato ma che in realtà non lo è: in Siria c’è ancora la guerra, anzi, si sta combattendo questa “terza guerra mondiale a pezzi”, come l’ha felicemente definita papa Francesco. Oggi, a fare più male dei missili che cadono sul territorio siriano, sono le sanzioni internazionali che in questi anni hanno danneggiato non tanto il regime di Bashar Assad ma la povera gente che ancora vive – ne sono testimone – con poche ore di acqua e di elettricità al giorno, sanzioni che sono state emesse anche con la connivenza di chi poi si riempie la bocca chiedendo di aiutare queste persone a casa loro. Tuttavia, l’incontro di oggi non vuole mettere a tema il male che ogni tanto fa ancora da cornice alle pagine degli esteri dei nostri giornali spesso distratti, ma qualcosa di straordinario che ad Aleppo in questi anni è accaduto: la storia di un progetto ma innanzitutto di un’amicizia che è nata tra gli ospiti che abbiamo il piacere di accogliere e ascoltare qui al Meeting di Rimini. Questo progetto si chiama “Un nome e un futuro”. E un nome e un futuro sono quelli che vorremmo cercare di dare alle migliaia di bambini nati già orfani nella città martire della Siria. Oggi in conferenza stampa i nostri ospiti ricordavano che, secondo un censimento, sono forse 30mila in tutta la Siria i bambini nati da abusi, da donne violentate, nati già orfani, ad Aleppo, in quella che una volta era considerata la Parigi del Medio Oriente e che oggi è ridotta per chilometri a cumuli di macerie. A parlare di quello che sta accadendo oggi sono gli ospiti che ringrazio innanzitutto per la fatica che hanno fatto per essere qui – sono state tante le difficoltà che hanno dovuto affrontare – e soprattutto per la loro amicizia e la loro testimonianza. Li vado a presentare. Alla mia destra, Sua Eccellenza Mons. George Abou Khazen, Vicario apostolico per la Siria ad Aleppo; fra Firas Lutfi, responsabile della Custodia di Terra Santa, direttore del Franciscan Care Center ad Aleppo; la dottoressa Binan Kayyali, psicologa che segue le storie di questi bambini. In collegamento, abbiamo il piacere di ascoltare anche il Gran muftì di Aleppo, il dottor Mahmoud Akkam, che purtroppo non ha potuto essere qui presente oggi ma segue l’incontro e ha ascoltato anche il vostro applauso. Prima di dare loro la parola, però, vorrei iniziare facendovi vedere un video che racconta un po’ il clima che si sta respirando ad Aleppo, nonostante tutto. Chiedo alla regia di mostrare le immagini che i nostri ospiti ci hanno portato.

 

VIDEO

 

Che cosa abbiamo visto in questo video? In fin dei conti, qualcosa di semplice eppure, nella sua semplicità, straordinario: un vescovo, un muftì, un frate francescano, delle donne con il velo, insieme. Eccellenza, non voglio rubarle altro tempo e le chiedo: che cosa rende possibile questo incontro nato nella città di Aleppo?

 

GEORGE ABOU KHAZEN:

La necessità del dialogo si sente ed è anche molto urgente. Il primo dicembre 1965, quando c’è stata la dichiarazione conciliare della chiesa cattolica con le altre religioni, non tutti sono rimasti entusiasti. Hanno detto: «Come mai, a che cosa serve?». Questa dichiarazione era stata fatta da un’assemblea tutta cattolica ma poi, con altri documenti della chiesa, si è vista la sua urgenza ed attualità nel mondo di oggi dove, in Europa, c’è l’afflusso di gente estranea all’Europa mentre si palesano molti gruppi intransigenti musulmani. Noi li chiamiamo “jihadisti”, hanno fatto il male a noi in quanto minoranze, ma ci hanno fatto male soprattutto come musulmani moderati. Come comportarsi con questa gente, come dialogare? E come rimanere fermi e conservare la nostra identità? Noi cristiani d’Oriente abbiamo una lunga storia di convivenza con l’islam che data da 1400 anni, dalla conquista islamica del Medio Oriente e di tutto il resto. Noi francescani abbiamo un carisma speciale preso da san Francesco. San Francesco, infatti, è stato il primo a mandare i suoi frati tra i saraceni e altri. I saraceni sono musulmani e lui dice: “Andate lì, come dice il Vangelo, come agnelli tra i lupi”. Ma il fatto più profetico fu l’incontro di san Francesco con il sultano nel 1219. Adesso festeggiamo 800 anni da questo avvenimento. Non è stato solo un atto profetico ma anche una prova inconfutabile che il dialogo è molto più forte della guerra. Infatti, san Francesco ha incontrato il sultano d’Egitto Al-Malik al-Kāmil: c’erano le crociate, la guerra dell’Europa contro i musulmani dell’Oriente. Gli eserciti europei si erano ritirati e non era rimasto nessuno, solo questo poverello, privo di tutto eccetto che dell’amore che nutriva per Dio e per il prossimo. I frati stanno là da otto secoli, servendo i luoghi santi e tutto il resto. Oggi abbiamo un altro Francesco, il papa Francesco che ha teso la mano anche al mondo musulmano nelle sue visite pastorali. Qualcuno ha detto: «Ma a che serve? Perché deve andare a visitare Paesi dove non ci sono cristiani?». Però queste visite hanno prodotto per noi una cosa molto importante, un fatto storico. Per esempio, nella sua visita a Dubai e a Abu Dhabi hanno firmato, insieme con il grande imam di Al-Azhar il documento della fratellanza umana, che per noi è molto importante perché dice: “Rifiutiamo il nome di minoranza per tutti i cittadini, tutti gli uomini che sono uguali davanti a Dio e uguali in diritti e anche in doveri”. Non considerarsi più una minoranza è una grande conquista per noi cristiani e per tutte le minoranze non cristiane; ci possiamo trovare a nostro agio in questo mare che è differente dal nostro. In Marocco, stanno togliendo dai libri scolastici e di storia tutti i versetti coranici che incitano alla violenza e all’odio dell’altro: anche questo è molto importante perché, facendolo in un Paese musulmano, incoraggia altri Paesi musulmani a farlo. E la forza del dialogo. Come viviamo il nostro dialogo ad Aleppo? Certo che questi gruppi jihadisti – Isis, Al-Qaeda – hanno fatto più male all’islam moderato che a noi cristiani, hanno fatto male a tutti quanti: ci siamo trovati nella stessa trincea a difenderci e a combattere questo cancro che è l’intransigenza, la violenza e tutto il resto. Ci siamo trovati tutti un po’ insieme: la necessità ci ha riunito. San Francesco dice a proposito del dialogo ecumenico: “State facendo l’ecumenismo del sangue”. Con i musulmani, stiamo facendo proprio il dialogo della necessità, del bisogno dell’uomo, dell’uomo povero, dell’uomo abbandonato, dell’uomo violentato e riflettendo su come servire quest’uomo. Tutto è cominciato nel 2013 o forse nel 2012: i musulmani avevano una grande istituzione dove c’erano anziani, handicappati e anche orfanotrofi. Sono arrivati questi gruppi e hanno cominciato a bombardare il luogo. Questa gente non sapeva dove andare. Quando qualcuno me lo ha comunicato – avevamo un immobile al vicariato -, ho detto: «Che vengano qui!». Sono venuti subito perché dovevano evacuare. Mentre evacuavano, due autisti sono stati feriti al collo. Sono arrivati in 150. Qualche giorno dopo, hanno dovuto allontanare i bambini. Mi hanno chiesto: «Che condizioni vuoi per l’affitto?». Io ho risposto: «No, voi state facendo un atto di carità, lo facciamo anche noi. Veniamo incontro ai vostri bisogni». L’unica condizione che ho posto è stata questa: non dovevano rimuovere nessun segno che abbiamo. In quella casa, prima c’erano le suore, quindi c’erano le croci nelle stanze, immagini, quadri e tutto il resto. Lo hanno rispettato. Lì è incominciata un’amicizia e i nostri incontri e i nostri rapporti hanno superato il protocollo: cioè, da visite di protocollo tra vicini, come accadeva durante le feste, siamo diventati anche un po’ amici. Si discuteva con questi responsabili, anche con il muftì, di tante cose: per noi, era l’occasione di parlare del Vangelo, della Sacra Scrittura, dell’insegnamento della Chiesa. E loro facevano lo stesso con noi. Finita la guerra, un grosso problema è venuto a galla. Abbiamo avuto tanti giovani, tantissimi ragazzi senza nome e senza tetto. Non erano registrati, quindi esistevano e non esistevano. Senza una registrazione, senza un nome, non potevano accedere né a scuola né a tutto il resto. Abbiamo cercato di fare qualche cosa insieme, cristiani e musulmani. Siccome sono soprattutto i quartieri dell’Est, quelli più distrutti, dove c’è grande miseria e non ci sono cristiani, abbiamo voluto lavorare con l’autorità musulmana, soprattutto per non venire sospettati di proselitismo. Da lì è nata l’idea di questo nome, futuro. Nell’islam non c’è l’adozione. Allora, una volta, scherzando con il muftì, gli ho detto: «Perché non ne parli al tuo Consiglio?». E lui, sorridendo: «Perché?». «Per trovare una soluzione per questi poveri bambini» ho risposto. Lui ha scosso la testa ma dopo due mesi mi presenta uno studio che ha fatto, una specie di adozione e affidamento per cui le famiglie potevano prendere questi bambini, adottare uno e dichiarare che non era loro figlio ma che gli davano il nome della famiglia anche se non avrebbe potuto ereditare e a 18 anni avrebbe dovuto lasciare la casa. Molte famiglie lo stanno già facendo. Noi certo non vogliamo fare proselitismo ma vogliamo dare una testimonianza veramente cristiana. Lì, molti hanno scoperto chi siamo e ci hanno detto: «Adesso che vi conosciamo da vicino, vediamo che ci sono tante cose in comune tra noi e voi». Perché dal punto di vista dogmatico è impossibile discutere, è inutile dialogare con loro: siamo come due linee parallele che non si incontrano. Però abbiamo cento cose che ci uniscono, soprattutto sull’uomo, sul servizio all’umanità, alla pace e alla famiglia. E là, anche loro si sono aperti e ci hanno detto: «Non ci lasciate, non partite, state con noi». Questa è una bellissima cosa che incoraggia un po’ tutti i cristiani a rimanere. Uno di loro, nella lettera che mi ha mandato in un messaggio di condoglianze per un prete che è morto, cita san Paolo dicendo: “Sia che viviamo, sia che moriamo, viviamo per il Signore e moriamo per il Signore”. Cose che mai uno si sarebbe sognato di vedere, di sentire. Il muftì, in una cena del Ramadan cui eravamo stati invitati dal governatore – c’erano i civili, i militari, i capi religiosi musulmani e cristiani – si alza e dice davanti a tutti: «Fratelli miei, siamo nel mese di digiuno, ma vedete che anche i nostri fratelli cristiani digiunano come noi, pregano più di noi e fanno la carità più di noi. La loro presenza rende tutto l’ambiente molto più gentile e molto più favorevole all’altro». Noi vogliamo che questa pasta fermenti un pochino con dei valori, non dico cristiani ma veramente umani, aperti anche all’altro. Solo questo dialogo è il grande aiuto che si porta alla vera pace e alla vera riconciliazione, altrimenti  noi rimaniamo in guerra e non la finiremo più. Di bambini abbandonati, secondo la signora ministro degli Affari sociali, ce ne sono più di cinquemila in Aleppo, 30mila in tutta la Siria e ancora la guerra non è finita. Dopo lascerò la parola a padre Firas, che è responsabile diretto di questo progetto, “Un nome e un futuro”, poi seguirà la dottoressa Binan. Grazie della pazienza e grazie del vostro ascolto.

 

ANDREA AVVEDUTO:

Grazie, Eccellenza. Di questi gruppi terroristici che hanno fatto più male all’islam moderato ci aveva parlato anche il dottor Akkam, l’ultima volta che ci siamo visti ad Aleppo, qualche mese fa. Ci diceva che questi gruppi terroristici non hanno rovinato solo i rapporti tra cristiani e musulmani ma anche i rapporti tra musulmani e musulmani, tra padri e figli. E allora, chiedo al muftì di Aleppo, Mahmoud Akkam, che ci sta ascoltando in diretta: ma se la guerra ha rovinato in tutti questi anni i rapporti tra tutti, come è possibile tornare a ricostruire i rapporti, a sognare, a sperare in questa pace, che non significa solo assenza di guerra ma dialogo e incontro? È la domanda che vorrei porle, ascoltiamo.

 

MAHMOUD AKKAM:

Nel nome di Dio clemente e misericordioso, nella vostra presenza umana, pubblico di persone generose, cari presenti, riuniti qui per diventare persone migliori che lavorano con giustizia, saluto il mio grande amico George Abou Khazen, e il fratello Firas Lutfi. Il mio intervento tratta di tre argomenti: il primo è l’estremismo come malattia continua, non solo a livello islamico ma anche religioso, umanitario e umano. Prima di spiegare che cos’è l’estremismo, devo spiegare il termine contrario, cioè la moderazione: cercare seriamente. La moderazione è il tentativo serio di realizzare la giustizia e la giustizia è dare tutto e dare a ogni uomo il suo diritto, imparare le religioni celesti, imparare ad usare la ragione in maniera giusta. La moderazione è il tentativo serio di realizzare la giustizia e la giustizia è dare a tutti il loro diritto, dopo avere compreso il diritto di cui tutti hanno bisogno, attraverso l’uso della ragione in maniera sana. Quando parlo di giustizia e moderazione, che è la via per realizzare la giustizia, parlo dell’estremismo che si oppone alla giustizia. L’estremismo è dare qualcosa più di ciò a cui hai diritto, dare a un uomo più di ciò a cui ha diritto. Significa che davanti a me ho due parti: quando do a una parte il suo diritto e quando riconosco il diritto dell’altro a scapito del primo, io così sto violando il diritto della seconda parte. É quindi un concetto di giustizia distorto. L’islam ci obbliga a riconoscere il diritto dell’altro. Quindi, l’estremismo non è solo un pericolo per l’islam, per tutte le religioni, per tutte le scuole di pensiero. L’estremismo è un pericolo per tutta l’umanità, perché è qualcosa che cancella, che annichilisce l’equilibrio con cui l’uomo interagisce con l’uomo. L’uomo deve agire con equilibrio, deve riconoscere il diritto di tutti. Dà al suo corpo ciò a cui ha diritto, dà al suo spirito ciò a cui ha diritto: se noi riconosciamo i diritti della ragione e dimentichiamo i diritti del corpo e dello spirito, siamo estremisti. Racconterò una storia di Omar ibn al-Khattab, il califfo dell’islam. Era un giudice, vennero da lui due contendenti: uno di loro era l’imam Alì ibn Abì Ṭālib, che è diventato il principe dei credenti dopo Omar ibn al-Khattab. Era in litigio con un ebreo e Omar ibn al-Khattab fu chiamato a risolvere questa lite. Disse all’ebreo: «Vieni, siediti davanti a me perché dobbiamo sistemare la vostra vicenda, dobbiamo giudicarla in maniera giusta». Poi disse a Alì: «Vieni e siediti davanti a me, dobbiamo regolare questa vicenda». Il giudice deve fare giustizia tra due contendenti con la parola, con lo sguardo, con tutti i suoi mezzi. Quando disse ad Alì: «Siediti davanti a me», già faceva uso della sua giustizia. Alì cambiò espressione. E la giuria chiese ad Alì perché il suo volto fosse cambiato. E lui rispose: «Principe dei credenti, Omar, Califfo, noi siamo venuti da te come avversari per una questione, siamo venuti da te perché tu possa regolare la nostra lite. Devi essere giusto nella parola e nello sguardo. Hai detto all’ebreo di sedersi davanti a te, e mi hai chiamato con il mio nome in arabo che noi usiamo per onorare la persona seduta davanti a noi. Omar, principe dei profeti, dovevi invitarmi a sedere chiamandomi Alì». L’estremismo è opposto alla moderazione. La moderazione è un tentativo di realizzare la giustizia, l’estremismo è oppressore, perché dà qualcosa ad un uomo, ad un’idea, ad un nemico, che non ne avrebbe diritto. Quindi, riconosce il diritto di qualcuno a scapito di un altro, riconosce il diritto di un nemico a scapito di un altro. É contro questo che cerchiamo di combattere, aiutando l’uomo a guardare l’altro in maniera giusta perché sulla giustizia sono nati la terra e i cieli e con la giustizia domineranno il bene e la virtù, perché la giustizia è fede e perché l’ingiustizia è rappresentazione dei vizi. Ho sentito la moderazione dei miei fratelli che sono con voi oggi, George e Firas Lutfi, rivolta verso i cittadini siriani, perché è basata sul diritto di cittadinanza. Si rivolgono ai siriani come cittadini perché la cittadinanza è ciò che ci lega: con questo possiamo lavorare con le persone senza guardare alla loro religione, alla loro parentela, al loro credo. La cittadinanza è ciò che ci lega tutti, musulmani, cristiani, sunniti, sciiti, drusi, arabi. Tutti in Siria siamo cittadini della stessa nazione e abbiamo gli stessi diritti e gli stessi doveri. La cittadinanza è ciò che ci lega, siamo tutti cittadini, nessuno di noi è suddito. Tutti dobbiamo rispettare gli stessi doveri e abbiamo gli stessi diritti. Attraverso le istituzioni religiose, noi interagivamo con i cittadini siriani con questo concetto di cittadinanza. Vogliamo consolidarlo come qualcosa che ci lega, dobbiamo dare a ogni cittadino il suo diritto, al di là del fatto che sia musulmano o sunnita o sciita o cristiano, come viene prescritto dalla Costituzione, senza guardare alla sua etnìa. Per questo io dico: abbiamo collaborato per il diritto di cittadinanza. E qui io invito George Abou Khazen, il nunzio: ero con lui in una visita per il progetto “Un nome e un futuro”. Tutti operavamo insieme per affermare insieme il concetto di cittadinanza che si basa su due idee: aiutare il cittadino indenne,  perché il cittadino è indenne, tutta la sua proprietà è indenne e cooperare. Io coopero con l’altro per realizzare la giustizia sociale che ci rende tutti uguali e per vivere insieme in maniera dignitosa. Non c’è nessun dubbio sulla necessità di questo. Il terzo argomento di cui vorrei parlare, rivolgendomi ai cittadini europei e a tutti i cittadini che vivono in un Paese diverso dal loro Paese d’origine. Mi rivolgo ai musulmani che sono cittadini in Svizzera, ho detto loro: «La Svizzera è diventata per voi una patria, dovete vivere qui  come cittadini fedeli, dovete essere fedeli alla vostra nuova patria svizzera». Musulmani in Italia, musulmani che vivono in Italia, musulmani che risiedono o che sono in visita in un Paese, dico a voi, ai cittadini che hanno ottenuto la nazionalità italiana o francese, ai musulmani che l’hanno ottenuta: «Siete diventati cittadini di questo Paese e dovete essere fedeli alla patria della quale siete diventati cittadini. Dovete rispettare questo Paese, come dice anche l’islam, dovete proteggere questa patria da tutto ciò che è male, dovete proteggerla perché sia una patria cara, stabile, indipendente, che si sviluppi, perché sia unita e felice». Ricordo la parola dell’imam Alì che si collega a questa idea che ho appena menzionato. L’imam Alì dice che in qualsiasi Paese tu vivi, che tu viva in Svizzera, in Francia o in Britannia, sarà il Paese più caro che hai, il Paese che ti ospita è il Paese che devi rispettare, questo Paese che ti porta come una madre, ti sostiene come una madre e quindi devi proteggerlo, devi essere ubbidiente a questo Paese, devi rispettare le sue leggi, devi essere fedele alla sua Costituzione, devi vivere in sicurezza e devi essere giusto in questo Paese e moderato come sei moderato nel tuo Paese. Spero che questa conferenza sia l’anello di una catena umanitaria che cerca di ricostruire l’umanità alla luce della giustizia, della pietà, della passione, dei valori che ci sono stati trasmessi dai profeti e dal cielo in tutta la terra. Grazie, grazie alla conferenza e a tutti coloro che l’hanno organizzata, spero che questo incontro abbia successo e che ci siano altre iniziative come questa. A tutti coloro che sono riusciti a venire, auguro la pietà e la benedizione di Dio.

 

ANDREA AVVEDUTO:

Grazie, dottor Akkam, speriamo di averla presto come ospite qui a Rimini. Faccio un inciso, il muftì non interveniva dal suo ufficio ma dal convento francescano di Aleppo, come avete notato dal Crocifisso dietro. Vale la pena specificarlo, va bene il dialogo ma ognuno ha una sua identità. Parole importanti, quelle che ci ha rivolto il muftì di Aleppo. Guardare l’altro sulla base della giustizia che, in fin dei conti, è questa esigenza irriducibile che ha l’uomo, che ti permette di costruire, che diventa un terreno fertile per costruire quei ponti e non i muri, che Giovanni Paolo II auspicava per la Terra Santa e non solo. Entriamo ora nel merito di questo progetto, “Un nome e un futuro”. Chiederei a Fra’ Firas Lutfi di raccontarci come è nato, in che cosa consiste, chi sono questi bambini e che cosa fate per loro. Un’accoglienza che è più di un’accoglienza, è un’educazione a sperare, a desiderare una vita nuova nonostante le contraddizioni che popolano ancora quella terra martoriata.

 

FIRAS LUTFI:

Pace e bene a tutti, grazie di cuore per l’invito che è il secondo al Meeting di Rimini: ne sono molto, molto grato. Intanto, prima che faccia il mio breve intervento, chiederei di proiettare un breve video che contestualizza un po’ questo progetto, “Un nome e un futuro”.  Grazie.

 

VIDEO

 

Parto con l’idea del perché questo progetto, “Un nome e un futuro”. Il perché è nato un po’ dal contesto che avete avuto modo di vedere in queste immagini, girate direttamente ad Aleppo. Oggi non si sente parlare molto di questa città ma pochi mesi fa era la città più pericolosa al mondo, secondo le Nazioni Unite, non c’era neanche un punto geografico in questa città considerato sicuro al 100 per cento. È una città accanto al grande, antico patrimonio culturale e storico che purtroppo è andato disfatto. C’è tutta un’umanità che soffre, una popolazione che vive proprio nelle periferie che è stata colpita. Avete visto quelle case crollate a causa della guerra: eppure, dentro questo mucchio di rovine abitano delle persone in carne ed ossa, la maggioranza sono bambini e donne. Dunque, è nata l’idea di venire incontro ad un bisogno, una necessità, una emergenza del nostro tempo. Soltanto che quella parte è molto trascurata e non ci sono organizzazioni. Durante la guerra, tante Ong vi hanno lavorato, però, quando è cessato il fuoco delle armi – e sono cominciati i veri problemi -, quelle organizzazioni non c’erano più. Cosa fare? Come francescani, come chiesa, avevamo due scelte: la prima è rinchiuderci nel nostro piccolo mondo, dire che quella realtà non ci toccava perché sono tutti musulmani, perché crea un sacco di guai e che cosa posso fare nel bel mezzo di questo mucchio di problemi? Ma poi c’è un’altra scelta che è quella che abbiamo intrapreso: rischiare, andare incontro. La strategia che ci ha aiutato a compiere questo percorso era quella del Buon Samaritano. Nel Vangelo di Luca, 10, abbiamo questa bellissima parabola di Gesù che spiega a un fariseo chi è il suo prossimo e gli dice che c’è un ferito mezzo morto, abbandonato nelle periferie di una città, cui passano davanti tante persone. Un samaritano, che è propriamente diverso dalla sua razza, dal suo credo, lo vide, ne ebbe compassione e cominciò a trattarlo con carità. È stato questo il moto che ci ha fatto partire dal nostro mondo, dal convento, dalle realtà religiose del mondo cristiano cattolico, verso un’altra realtà. Però, a dirvi il vero, ho sentito che ho alle spalle un grande patrimonio che mi ha incoraggiato. Il primo, come ha accennato Sua Eccellenza monsignor George: ci sono 800 anni di storia tra un cristiano cattolico chiamato Francesco e un musulmano chiamato Malik Al-Kamil a Damietta. Questo incontro l’ho considerato una pietra angolare della nostra pastorale e del nostro operare lì, in questa periferia abbandonata della città. Ma poi, ho avuto un’altra spinta, un altro incoraggiamento, una pietra angolare ugualmente bella e incoraggiante, quella dell’incontro tra il vescovo George e il Gran Muftì di Aleppo, Mahmoud Akkam, che abbiamo appena avuto la possibilità di sentire e vedere dal vivo, proprio in un convento francescano. Cosa stiamo facendo lì? Uno dei problemi del dramma eclatante della Siria è quello di avere tanti bambini senza una registrazione ufficiale, bambini nati da questi matrimoni ad hoc, tra foreign fighters e donne siriane. I bambini si contano tra ottomila e 30mila. C’è un problema con questi bambini: esistono ma non risultano tali per l’anagrafe. È una sfida, come accennava il vescovo: dare un nome e accanto al nome tutto quanto occorre per una vita dignitosa. Accanto al nome, bisogna dare anche un’istruzione. Lungo tutto quel periodo di quattro o cinque anni, non hanno mai frequentato la scuola. I jihadisti glielo proibivano, o meglio, l’unica fonte di istruzione erano quei versetti che i jihadisti ritenevano parola di Dio. ma quei versetti erano semplicemente incitazione all’odio, a escludere l’altro, ad ammazzarlo, addirittura. Quindi, bisogna recuperare quel vuoto che hanno di istruzione e di educazione. Un altro bisogno assai importante è quello di venire incontro a traumi causati dalla paura, dallo stress dell’abbandono, dalla morte, dalla mancanza dei loro genitori, del babbo o della mamma e a volte di tutti e due. Quindi come fare, come aiutarli a recuperare quel pezzo di umanità? Se non vogliamo dargli una mano, rischiamo di avere tra qualche anno un altro terrorista, un altro jihadista. Ma se interveniamo in tempo giusto, forse avremo un altro genio, chi lo sa? A proposito, quando abbiamo cominciato a lavorare con questi bimbi, abbiamo scoperto che tanti di loro hanno meravigliosi talenti: chi canta, chi suona, chi gioca. Ecco la motivazione di questo progetto, “Un nome e un futuro”: in primis è dare una registrazione ufficiale affinché questi bambini risultino tali nella società. Con questo nome, si augura loro anche di avere un futuro migliore rispetto a quel che hanno avuto in passato. E poi, dall’altro lato ci sono le mamme: le mamme che sono veramente molto addolorate, hanno subito tanta violenza, molte di esse sono state violentate e abbandonate alla loro sorte. Quindi, il progetto, accanto al bambino che vogliamo accogliere, aiutare e sostenere, supportare psicologicamente, vuole dare una mano alla mamma che vorrebbe davvero lavorare e guadagnare il pane con dignità, con il proprio sudore. Fortunatamente, avevamo alle spalle una prima esperienza nel nostro convento, in un grande centro chiamato Franciscan Care Center. Si trattava di un progetto intitolato “arte terapeutica”, per aiutare i bambini traumatizzati di Aleppo mediante l’arte, la musica, il teatro, lo sport, il nuoto: diverse attività che, da un lato, fanno divertire il bambino che, per quattro o cinque anni non ha avuto la possibilità di giocare né a scuola né nei campi da gioco, era tutto pericoloso. Oggi, possono farlo grazie alla bellissima realtà del nostro convento ad Aleppo Terra Sancta, perché questo collegio è un po’ un’oasi, una possibilità di accoglienza per tutti i cristiani. Partendo da questa esperienza molto bella e molto interessante, abbiamo semplicemente allargato lo sguardo. Abbiamo visto non solo il nostro piccolo mondo cristiano-cattolico, che pure è colpito dalla crisi, ma abbiamo abbracciato anche quell’altra parte, come vi ho detto, la parte più fragile, più vulnerabile della società di Aleppo. Ad Aleppo Est, sono tutti musulmani, erano tutti sotto il dominio, il controllo, la violenza dei terroristi, con le conseguenze che ne derivano. Se ho avuto una fortuna, è stata quella di conoscere la dottoressa Binan Kayyali: la sua esperienza professionale come psicologa, ma soprattutto la sua umanità, il suo saper stare sempre in mezzo alla gente, in particolare in mezzo alle persone che soffrono, sono stati veramente un dono. Quando il vescovo George ci ha chiesto di dare una mano a questo progetto, abbiamo detto: partiamo subito, abbiamo già l’esperienza, basta studiare quel contesto e fare degli adattamenti, ma il nostro team di lavoro è veramente pronto. Sono passati dei mesi da quando è iniziato il progetto “Un nome un futuro”. Vi racconto soltanto la prima esperienza, quella delle donne che avete visto nel filmato: la prima volta che entro in quel quartiere, trovo donne semplicemente velate, tutte vestite di nero. Nessuna comunicazione, non vedo gli occhi, non vedo il volto. Torno dopo tre mesi e trovo una finestra aperta, trovo degli occhi, un bel viso, un sorriso. Quelle donne, a prima vista, avevano paura di me: «Ma chi è questo? Cosa viene a fare da noi? Chi glielo fa fare a venire qua?». E invece, vi assicuro che, dopo un lavoro costante, dopo che abbiamo fatto amicizia, dopo che si sono assicurate che noi eravamo lì per il loro bene, per servirle e servire i loro bimbi, è nato un altro rapporto, un rapporto veramente di fiducia e di tranquillità. Comunque, per dirla in breve, più di quello che io ho dato, più di quello che noi diamo a quella realtà, è ciò che riceviamo: tanta umanità, umanità ferita che richiede assolutamente un intervento. Riceviamo anche il senso della sopportazione e della pazienza, perché queste persone hanno resistito a tanta paura, al tanto male che hanno subito. Per ultimo, ho ricevuto il messaggio che tutti siamo fratelli, a prescindere dall’esperienza di male, anzi, il male è qualcosa che ci unisce, è qualche cosa che ci dà il senso di essere veramente fratelli e sorelle, nonostante le differenze etniche, religiose, di confessione. Bene, adesso concludo e invito la dottoressa Binan a parlare in modo più specifico della sua esperienza. Lei ha composto tecnicamente questo progetto e lo sta seguendo in modo molto professionale: la inviterei a parlare in specifico di com’è diviso questo progetto, quale  risultato ha avuto, come un’esperienza diventa una storia di successo. E poi, sicuramente giudicherete voi se vale la pena o no rischiare nella vita, se per me è meglio rimanere rinchiuso nel mio piccolo mondo oppure rischiare per crescere, per maturare in umanità e serenità. Grazie del vostro paziente ascolto.

 

ANDREA AVVEDUTO:

Grazie, padre Firas. Allora, sentiamo da ultimo che cosa ci può dire questa psicologa musulmana che si è trovata a lavorare in un centro francescano e a curarsi di questi bambini che hanno innanzitutto bisogno di sperare. Un’altra protagonista di questo ecumenismo di sangue, come ci ha ricordato Mons. George Abou Khazen all’inizio. Prego.

 

BINAN KAYYALI:

Sono contentissima di essere qui, in questa grande sala, sono contenta di avere questo pubblico e questa opportunità per parlare della mia esperienza di guerra. La guerra di cui abbiamo sentito parlare o che abbiamo visto solo nei mass media, la guerra che ha provocato tanto dolore e distruzione: purtroppo nessuna telecamera ha potuto trasmettere fino a che punto, in che maniera, la vera immagine della distruzione che hanno subito le persone che si sono trovate lì, soprattutto i bambini. Nessuno ha potuto trasmettere il dolore psicologico che hanno vissuto a livello quotidiano in ogni attimo, nessuno ha potuto rappresentare la perdita che vivevano, la grandezza della perdita che hanno vissuto a livello materiale e spirituale. La guerra ha distrutto molti alberi ma ha distrutto anche anni e anni di statura psicologica delle persone, ha distrutto il modo di pensare delle persone, ha distrutto la personalità, anche per quanto riguarda le ambizioni e le speranze. Ogni bambino, invece di avere il sogno di imparare e svilupparsi, ha dovuto adattarsi al bisogno principale, che è diventato mangiare e sopravvivere. Molte persone in questa guerra, soprattutto una grande percentuale di donne, sono rimaste senza mariti; bambini che erano andati a curarsi nei centri si sono trovati senza nome a causa della guerra, della crisi che abbiamo vissuto. Purtroppo, i bambini si sono trovati costretti a lavorare, è aumentato lo sfruttamento minorile e molti di loro hanno abbandonato gli studi, la scuola. La violenza si è manifestata in varie forme, soprattutto la violenza sessuale. Purtroppo, tutte le violenze che vengono praticate, anche a livello familiare, influenzano fortemente il bambino. Il dolore di cui soffrivano i bambini non era dunque solo un dolore corporale per avere perso pezzi del proprio corpo, per avere subìto una mutilazione, per avere perso un piede o una gamba; c’era anche un dolore psicologico, che si è diffuso in maniera chiara. Si sono diffuse depressione infantile, ansia e malattie psicologiche, incontinenza e problemi di espressione linguistica, anche manie suicide. Abbiamo avuto infatti molti casi di suicidio infantile. Questa situazione ci ha spinto a prendere posizione contro questi casi. Eravamo convinti, noi specialisti, di non riuscire a curare questi bambini durante la guerra. La nostra cura doveva essere più forte e più efficace dopo la guerra, perché gli shock psicologici e gli effetti degli shock sarebbero emersi dopo i bombardamenti. Così abbiamo iniziato a pensare al progetto “Un nome un futuro”. Questo progetto nasce da un bisogno sociale e dal centro di cura francescano, diretto dai monaci francescani di Aleppo, che persegue un obiettivo molto importante: ricostruire l’uomo e incoraggiare la coesistenza pacifica. Sono molto contenta di poter rivolgere a loro il mio ringraziamento da questo palco, soprattutto a George Abou Khazen, il cardinale e il padre Firas Lutfi. Grazie. Il progetto è partito per realizzare gli scopi di cui abbiamo parlato e ha incluso due regioni di Aleppo Est. In ogni centro, ci sono vari dipartimenti: il dipartimento di istruzione, che accoglie bambini dai tre ai sei anni, e poi dai sei ai diciotto anni, e le donne analfabete, che devono imparare a leggere e a scrivere. Il secondo dipartimento è un dipartimento artistico che svolge attività per incoraggiare il talento, per sviluppare le capacità. Il terzo è il dipartimento di lingue dove si insegnano il francese e l’inglese ai bambini che hanno dovuto abbandonare la scuola. Poi, c’è il dipartimento fisico per i bambini che sono stati danneggiati dalla guerra e sono rimasti disabili. Infine, il dipartimento di sostegno legale che segue le fasi di registrazione del bambino con un nome e un’identità legale. Ultimamente abbiamo aperto una specie di dipartimento medico in cui offriamo cure gratuite ai bambini. L’ultimo dipartimento è quello di sostegno psicologico, che offre terapie, sessioni gratuite e cure psicologiche individuali e collettive. Possiamo parlare dei numeri di persone presenti attualmente: in ogni dipartimento, in ogni centro, ci sono circa 400 donne e 250 bambini dai tre ai sei anni, 800 bambini tra i sei e i 18 anni e 800 disabili. Poi, ci sono anche altri bambini disabili e 25 uomini: le persone che al momento sono in cura presso l’ospedale sono 230. Per quanto riguarda il dipartimento di aiuto psicologico, ci sono circa 450 donne e bambini. Adesso vediamo alcuni disegni di bambini che mostrano molta negatività: sono stati curati, vediamo come, attraverso i disegni.

 

PROIEZIONE SLIDES

 

Questo disegno è di una bambina che aveva una paura costante dei bombardamenti e che cercava di proteggere i suoi fratelli e i suoi giocattoli sotto ad un tavolo. Anche qui, questa bambina ha preso il libro e la penna per proteggerli sotto i tavoli, perché nonostante tutto lei aveva tanto desiderio di continuare a studiare. Era una bambina che aveva dovuto abbandonare la scuola. Qui, vediamo un’immagine del presente e del futuro. A destra, vediamo la tenda in cui vivevano e la mamma malata sul cui viso la bambina ha disegnato un sorriso: dopo un po’ la madre è morta. Lei aveva lasciato questo sorriso sul volto della madre proprio perché voleva ricordarla così. Quando le abbiamo chiesto di disegnare il presente, ha scritto la data del 2018 e ha disegnato un sole che piange e un cuore rotto. Questo bambino aveva il sogno di diventare violinista ma nel futuro ha disegnato semplicemente il leggio perché pensava che sarebbe morto prima di esaudire il suo sogno. Questa è l’immagine di un bambino che ha disegnato tutte le armi che aveva provato, ha disegnato anche l’ambulanza, l’elicottero rosso e le armi che possiamo vedere nell’estremità del disegno. Ha anche disegnato se stesso mentre impugna un’arma, l’unico mezzo che aveva per difendersi. Qua, un altro disegno. Gli abbiamo chiesto di disegnare cosa sogna per il futuro: ha disegnato il suo sogno di diventare un pilota militare per poter mettere il suo aereo in una scatola e chiuderlo per sempre, così che non possa fare alcun danno. Questo bambino ha subìto molti traumi. Li chiamiamo traumi composti. È stato soggetto di molte forme di minaccia e purtroppo è stato anche abusato sessualmente. Questo disegno, da un punto di vista artistico, è molto creativo, però è stato fatto da un bambino di quattordici anni che ha perso il padre e, nel momento in cui disegnava, aveva problemi di stabilità della personalità. Abbiamo chiesto: qual è il posto che ti piace di più della tua casa? Gli piaceva dormire sul divano con l’arma appesa sopra di lui, perché pensava di dovere sempre essere in allerta contro qualsiasi minaccia. Quando abbiamo chiesto la stessa cosa ad un altro bambino, ha disegnato il bagno, che può essere il water ma anche il bidet. Era molto timido, questo bambino, ed era all’inizio di una depressione. Adesso vediamo insieme alcuni disegni di bambini, vediamo come erano prima della cura e come sono diventati i disegni dopo la cura. Possiamo vedere i disegni adesso, possiamo proiettarli. Dietro ad ogni disegno, c’è una storia. Questo è un disegno, non una stampa colorata. Possiamo vedere come i colori sono scuri, come il modo di impugnare la matita fosse violento, come scavasse sul foglio. Anche il modo di colorare manifesta i danni psicologici. Dopo un anno, vediamo gli sviluppi. Questa è una proiezione semplice. Le storie di successo che abbiamo avuto sono molte. Abbiamo vissuto con loro una grande esperienza di successo. Adesso vediamo la storia di una signora con un figlio, come è iniziata la sua sofferenza e come l’abbiamo aiutata. Possiamo vedere la proiezione.

 

VIDEO TESTIMONIANZE

Il mio nome è Adawiya Sakkal, figlia di Yassin, ho 49 anni, vivo a Karm Al-Katerji da quando ero piccola: abbiamo comprato una casa nel centro della città e poi siamo tornati a Karm Al-Katerji per nove anni. Poi è iniziata la guerra, dopo l’assedio siamo rimasti, nonostante avessimo perso tutto. Avevo sette figli, uno di loro è morto: ho un bambino di undici anni che ancora vive con me. Quando ho saputo di questo progetto, “Un nome un futuro”, da mio zio che ha una pasticceria, stavo chiedendo informazioni per progetti di alfabetizzazione, per rinforzare le mie conoscenze e prendere lezioni. Quando ho cominciato a seguire le lezioni ero devastata, piangevo, la mia vita era un inferno. Ho sofferto molto ma ho continuato a seguire le lezioni nel centro, il mio stato psicologico è migliorato, ho seguito il mio sogno di imparare e proseguire la mia istruzione, nonostante sia adulta. Anche mio figlio di undici anni, che lavora per sostenerci, ha imparato a non chiedere l’elemosina a nessuno. Adesso io lavoro come infermiera e studio. Abbiamo sopportato una crisi molto difficile, i miei bambini hanno sofferto. Adesso vivo con i bambini più piccoli e lavoro; soffro di pressione ma riesco a trovare un po’ di tranquillità, la mia vita è cambiata. Avevo un sogno, continuare a studiare, ho incoraggiato anche mio figlio a studiare. Quando camminiamo per strada, gli dico che, anche se non abbiamo avuto chi ci educava, chi ci istruiva, adesso abbiamo la possibilità di imparare. Dobbiamo continuare a farlo, dobbiamo essere grati per il sostegno educativo e psicologico che abbiamo trovato, dobbiamo essere grati per le opportunità che abbiamo avuto.

Mi chiamo Amr, ho undici anni, lavoro e studio. Ero al quarto anno e poi sono andato al quinto. Lavoro e vado al centro: quando guadagno qualcosa, lo do sempre a mia madre. Mia madre compra il cibo, compra le cose che servono. Mi sveglio alle sette per andare al lavoro, comincio a lavorare alle otto, poi torno a casa alle dodici e vado a studiare. Sogno di diventare un avvocato, un ingegnere, di aiutare i poveri.

 

Come vi ho detto, le storie sono molte ma il tempo non basta. Vi ringrazio tutti per la vostra presenza, per la vostra umanità.

 

ANDREA AVVEDUTO:

Dopo l’incontro di oggi, davvero credo che l’opportunità per la Siria sia ricostruire il tempio più importante che è andato distrutto in questi otto anni di guerra: l’uomo. È qualcosa che i tavoli della politica internazionale non ci potranno mai dare. I militari potranno vincere la guerra ma costruire la pace – lo abbiamo ascoltato oggi – è un’altra cosa. Implica un lavoro quotidiano, l’educazione, l’incontro. Quello che abbiamo sentito oggi è possibile: davvero sono commosso, posso dire che per me è stato bello ascoltare delle persone, cristiani e musulmani ma inizialmente uomini, che si sono messi assieme per portare questa goccia nell’oceano dei bisogni siriani. Ma è una goccia, quella che stiamo cercando di dare alla Siria, che, se non ci fosse, all’oceano probabilmente mancherebbe. Sulle sedie avete trovato un volantino che spiega, sicuramente non meglio di quanto abbiano fatto oggi i nostri ospiti, ma se non altro riassume quello che abbiamo detto: trovate i numeri e anche le modalità per sostenere il progetto. Al termine di questo incontro, ringrazio tutti i relatori che sono intervenuti, monsignor George Abou Khazen, fra’ Firas Lutfi, la dottoressa Binan Kayyali, il muftì di Aleppo, Mahmoud Akkam, che speriamo di avere qui. Grazie davvero per essere intervenuti così numerosi a questo appuntamento dedicato ad Aleppo, segno che l’argomento è ancora di grande interesse, suscita ancora la passione di tanti. Grazie ancora, una buona serata e buon Meeting.

Trascrizione non rivista dai relatori

 

Data

22 Agosto 2019

Ora

15:00

Edizione

2019

Luogo

Auditorium Intesa Sanpaolo B3
Categoria
Incontri