’68 E OLTRE. IL MONDO CHIAMA. Tra ideologia e realtà

’68 E OLTRE. IL MONDO CHIAMA. Tra ideologia e realtà

Interviene Franco Bonisoli, Ex brigatista. Introducono: Marta Busani, Assegnista di Ricerca in Storia Contemporanea all’Università Cattolica di Milano e Annalisa Costanzo, Studentessa all’Università Cattolica di Milano.

 

Ore: 12.30 Arena della Storia A5
‘68 E OLTRE. IL MONDO CHIAMA. Tra ideologia e realtà

Interviene Franco Bonisoli, Ex brigatista. Introducono: Marta Busani, Assegnista di Ricerca in Storia Contemporanea all’Università Cattolica di Milano e Annalisa Costanzo, Studentessa all’Università Cattolica di Milano.

MARTA BUSANI
Vi ringrazio di essere così inaspettatamente numerosi per questo secondo incontro del ciclo “‘68 e oltre”, legato alla mostra “Vogliamo tutto. 1968-2018” che vi invito ovviamente ad andare a visitare. Questo secondo incontro che abbiamo intitolato “Il mondo chiama. Tra ideologia e realtà” sarà di fatto un dialogo tra Annalisa Costanzo, studentessa di Scienze politiche all’Università Cattolica di Milano, gli altri studenti che hanno costruito questo percorso della mostra e Franco Bonisoli, ex militante, in gioventù, delle Brigate Rosse: ha partecipato al sequestro Moro. Nasce e cresce a Reggio Emilia: quello di oggi, sarà un dialogo sulla sua vita, quindi non anticipo nulla, dico solo brevemente perché abbiamo invitato Franco, e perché proprio lui. Lo abbiamo incontrato sei mesi fa, mentre stavamo preparando la mostra “Vogliamo tutto” e abbiamo trovato una persona disposta a prendere sul serio il dialogo con noi, a fare un cammino insieme su quelle domande di fondo che hanno dato il via alla mostra, e cioè: cosa vuol dire partecipare al cambiamento del mondo oggi, cosa vuol dire costruire il mondo oggi? Non è scontato trovare persone che siano disposte a questo cammino insieme. Ha mostrato anche, come dire, il valore di un dialogo tra le generazioni. Franco racconta spesso, poi ci sarà modo di approfondire, che l’ideologia che lui ha seguito ad un certo punto della sua vita lo ha portato in fondo ad una disumanizzazione. Oggi viviamo in un mondo in cui queste grandi ideologie non esistono più, però vediamo ancora dei tentativi di spiegazione semplificata dell’uomo e della realtà. È più facile fermarsi a questi miti, a queste spiegazioni facili. Con Franco abbiamo iniziato questo cammino che magari è più faticoso, un cammino di conoscenza di tanti fattori anche complessi della realtà del mondo di oggi, a partire dalla realtà che lui ha vissuto e dall’esperienza che ha fatto, dal ‘68 fino ad oggi. Non tolgo altro tempo, volevo solo darvi le ragioni per cui siamo qui oggi. Buon dialogo.

ANNALISA COSTANZO
Per addentrarci in questo percorso, la prima domanda parte dall’inizio della tua storia. Volevamo chiederti di raccontarci quella che è stata la tua infanzia, conoscere i valori che hanno inciso nei primi anni che hai vissuto in casa a Reggio Emilia; poi, diventato grande, che tipo di rapporto c’era tra la vita di tutti i giorni e l’appartenenza al Partito.

FRANCO BONISOLI
Buongiorno a tutti e grazie di avermi invitato. Adesso devo fare i conti con il tempo che è limitato, e la domanda richiede un discorso un po’ più lungo, ci proviamo. Marta ha un po’ spiegato la storia per cui oggi sono conosciuto e ricordato ma, come diceva Annalisa, ho anche una storia molto normale. Vengo da Reggio Emilia come Marta, solo che ho con qualche anno in più, da una famiglia normale di operai, persone che sono passate attraverso la seconda guerra mondiale e che hanno ricostruito la società del boom economico, quella che noi abbiamo ereditato e trovato pronta. Ho avuto la possibilità di studiare e di avere una vita abbastanza normale. Nel ‘68 avevo tredici anni, però ho vissuto anche a quell’età l’aria, il clima che si respirava e che la mostra (che mi auguro abbiate visto, invito chi non l’ha vista ad andare) secondo me riesce a recuperare molto bene. C’era una grande irrequietezza, una società bloccata a livello politico, tra i partiti e la guerra fredda, bloccata anche nella vita quotidiana, in famiglia: tu avevi un ruolo, dovevi studiare, trovare un lavoro, diventare un buon consumatore, misurare la tua capacità di crescita umana sulla base della quantità di cose che riuscivi ad acquistare. Era la società del benessere, insomma. Ho vissuto tutta questa fase di disagio, il desiderio di modificare e rompere questi schemi e costruire un mondo migliore. Uno degli elementi che mi avevano colpito, come avevano colpito la generazione mia e di chi aveva qualche anno in più, era la guerra del Vietnam, una guerra di aggressione dello Stato americano, di una società avanzata, verso un popolo di contadini. La nostra idea era difendere questo piccolo popolo. Adesso, se apriamo la televisione, ci sono solo guerre, battaglie, morti, uccisi: ma noi continuiamo a fare una vita normale, abbiamo quasi metabolizzato questa situazione, ci scandalizziamo, ci indigniamo ma alla fine tutto funziona. Allora, invece, c’era questa forte tensione verso la giustizia, e questa guerra è l’esempio più alto di una grande ingiustizia. Io ho vissuto questo tipo di esperienza già quando andavo a scuola, nel Movimento studentesco: Annalisa voleva che raccontassi ancora un passo prima, quando andavo alle scuole medie. È rimasta colpita che già alle scuole medie ci fosse questo desiderio di rompere un momento di rigidità: infatti avevamo cominciato a chiedere l’assemblea. Che cosa significava questa parola? Era un modo per dire in modo ufficiale, diretto, quello che pensavamo. In realtà, di cose da dire non ne avevamo tantissime, però era importante sentirci protagonisti. Vi racconto un episodio. Alle scuole medie, l’ora di Religione fatta da un povero prete era un disastro: aeroplanini che volavano, di tutto, di più che succedeva. Lui non riusciva mai a fare lezione, fino a che gli forgiammo addirittura un ritratto che mandammo sul giornale di classe: «Pasini don Noè, alto un metro e trentatré, con lo sguardo da playboy e il cappello da cowboy». Fu un disastro, lui si offese terribilmente, consiglio dei docenti, ecc. Ma che cosa fece? Io ero in seconda media, un ragazzino, quando lui entrò in classe, un giorno, dicendo: «Bene, ragazzi, visto che non riesco a fare lezione, ditemi di che cosa volete parlare». Noi, subito: «Educazione sessuale, educazione sessuale!». Era una forma di trasgressione nonché il grande tabù. Lui disse: «Va bene». Divenne il nostro riferimento nella scuola perché si iniziò a parlare, non ricordo come: era importante il fatto di essere riconosciuti perché una delle cose che si sentiva forte era il non ascolto da parte degli adulti. «Ti ascolto finché stai dentro uno schema, fuori di quello, basta!». È una cosa che penso ci sia ancora oggi. Ho sentito, quando siamo andati a Roma all’incontro col Papa, che lui ha molto insistito sulla necessità di ascoltare i giovani. Noi sentivamo molto forte questa cosa. Da lì in poi, sono andato alle superiori, ho cominciato a partecipare al Movimento studentesco. Mi affascinavano le persone con gli eskimo, che cominciavano a parlare di contestazione. Tutti sognavano questo mondo migliore, questa guerra che ci attraversava tutti: si aveva questa dimensione un po’ internazionale, si guardava con attenzione a ciò che succedeva nel mondo, ai movimenti rivoluzionari in America Latina, a quelle che erano state le rivolte di Berkeley in America, i movimenti anche in Giappone, perché c’erano stati anche lì. Questa dimensione era come un vento che soffiava e che ti coinvolgeva. Aveva dentro il grande sogno di essere protagonisti, di costruire una società più giusta, senza guerre e senza sfruttamento, una fratellanza: quello che avete messo nella mostra e scritto in tanti punti. Quello, era. Come sono arrivato poi, più avanti, a fare la scelta della lotta armata? Chi ha la mia età, ricorda il contesto: le manifestazioni di protesta, fiumi interi di persone che gridavano slogan, le varie ideologie a cui si attingeva. C’era un po’ un vuoto culturale sul presente, così siamo andati ad attingere culture che appartenevano al passato. Io vengo da una famiglia di comunisti che hanno fatto la Resistenza partigiana, mio padre fu portato in un campo di lavoro in Germania. C’era un po’ questo mito della Resistenza, l’idea di portare a compimento quello che i nostri padri non erano riusciti a fare perché la democrazia che c’era, secondo noi, non bastava. L’unica democrazia, per noi di fede comunista, era avere uno Stato comunista sul modello sovietico. L’idea era questa: continuare questa esperienza dei padri e portarla a termine. I riferimenti erano la rivoluzione russa e quella cinese, modelli che ci proiettavano nel futuro senza considerare quello che capisco oggi, che quelle rivoluzioni portarono Stati feudali ad una forma di progresso maggiore, mentre noi eravamo una società già avanzata che stava per fare un grande balzo in avanti sul piano strutturale. Alla Fiat di Mirafiori allora c’erano 60 mila operai, oggi non so, ce ne sono 200, 2000: è cambiato strutturalmente tutto. Quella era la classe operaia che, secondo la nostra ideologia, doveva dirigere un processo di trasformazione rivoluzionaria della società: eravamo nel pieno di questo vortice, che a nostra volta alimentavamo.

ANNALISA COSTANZO
Riprenderei il punto in cui parlavi del fatto che si viveva una forte dimensione internazionale: i giovani di quegli anni si sentivano immersi in una causa globale. Mi colpisce, e immagino colpisca quelli un po’ più giovani, perché per me oggi è impensabile che una guerra dall’altra parte del mondo possa incidere così nelle scelte della mia vita qui. Mi piacerebbe che tu ci raccontassi meglio quali dinamiche si vivevano, immersi in un contesto così internazionale. Raccontavi che è stato fondamentale vivere questa dimensione per poi trovare quei grandi motivi che ti hanno portato a fare una scelta radicale come entrare in clandestinità.

MARCO BONISOLI
Sì, c’era questa dimensione per cui tutto si sentiva molto forte, queste ingiustizie che avvenivano da altre parti venivano condivise da noi, le sentivamo dentro. Mi ricordo che c’era il periodo del Biafra, ci facevano vedere queste foto dei bambini denutriti. E tu che eri in questa società in cui, tutto sommato, si mangiava tre volte al giorno, si studiava, dicevi: ma cosa posso fare per cambiare qualche cosa? La visione non era migliorare il proprio orticello, il nostro Paese, ma era una visione globale, tutto il mondo doveva cambiare e ognuno doveva fare la sua parte. Prendevamo i movimenti di riferimento, i movimenti rivoluzionari o i gruppi armati (Che Guevara, il Cile che si ribellava) come riferimenti di chi stava già facendo la propria parte. E abbiamo cominciato a pensare a come fare la nostra. In questo fiume di contestazione che c’era anche in Italia, tra gli slogan e la cultura di sinistra (una sinistra che faceva riferimento al marxismo-leninismo e anche ad una certa cultura cattolica che poi è diventata la Teologia della liberazione), le parole d’ordine erano fortissime: “Il potere nasce dalla canna del fucile”, “La rivoluzione è un pranzo di gala”, “Lo Stato borghese si abbatte e non si cambia” e via di questo passo, a seconda che i testi del marxismo-leninismo facessero riferimento alla rivoluzione sovietica, al maoismo, per non parlare della Scuola di Francoforte. Era la cultura della contestazione, i testi dei gruppi rivoluzionari armati dell’America Latina erano pubblicati dalla Jaca Book: io li trovavo alla libreria Nuova Terra del gruppo che si chiamava One Way, che lavorava insieme al gruppo dell’appartamento che poi diede origine alle Brigate Rosse. Quando ci fu la rottura, questi diventarono Gioventù studentesca e poi Comunione e liberazione: era un ceppo che poi si è separato. Ricordo che a sinistra della Federazione Giovanile Comunista di Reggio Emilia (che tra l’altro era la più a sinistra d’Italia, insieme a quella di Napoli) c’erano il gruppo dell’appartamento e One Way. Questo era il contesto. I testi dei rivoluzionari li stampava la Jaca Book, non lo facevano né Feltrinelli né Einaudi. E poi li trovavi nella libreria che in seguito ha dato vita alla vostra storia. A quel punto si poneva una domanda: «Come si riesce ad essere fino in fondo coerenti con quello che si dichiara?». Da un lato, c’era la politica, si andava in piazza a gridare alla rivoluzione, poi si tornava a casa e si faceva una vita normale. La discussione allora era molto forte sul piano della scelta esistenziale, della scelta di vita: l’ideologia stava sopra, era qualcosa che doveva dare il supporto, il vestito a quella che era la profondità della scelta esistenziale: se dare la propria vita per una causa o meno. Il discorso che ha fatto ieri qui il professor Capozzi sulla scelta di dare la propria vita ad una causa per me, allora, significò entrare nelle Brigate Rosse, le nascenti Brigate Rosse, un’organizzazione che esprimeva la vera coerenza tra quello che erano le parole e i fatti. Se si dice che la rivoluzione va fatta con l’uso delle armi, ci si arma, si diceva. Ricordo che molti miei compagni, allora, non fecero la scelta della lotta armata, come feci io, per paura, per timore, perché non riuscivano a concepire l’idea di dare la vita per quello, senza una via di ritorno. Invece io ho fatto questa scelta, ho cominciato a quindici anni a occuparmi attivamente di politica e a diciassette si parlava di classe operaia: ho lasciato la scuola per andare a lavorare in fabbrica con la classe operaia, non per parlare di classe operaia ma per vivere con la classe operaia. Poi ho studiato lo stesso per diplomarmi, per i miei genitori, perché fu un dramma la mia scelta di lasciare la scuola. Erano famiglie che uscivano dalla guerra, i figli che studiavano erano un riscatto anche per loro. Lasciare la scuola era tradire questo desiderio della mia famiglia: quella fu la prima scelta, la seconda fu di passare alle Brigate Rosse. Mi chiedevi prima del Partito comunista: in questo frangente lasciai i gruppi extraparlamentari e provai a fare un’esperienza nel Partito comunista. Quando fui nella fabbrica, mi iscrissi alla cellula del Partito comunista: ero giovane, brillante, diciamo così, mi mandarono subito a fare un corso di formazione di tre giorni, dove incontrai anche onorevoli, una cosa interessante. Poi entrai nella FIOM, e subito anche lì un altro corso di formazione di tre giorni: ero una promessa anche per loro. Mia madre fu quasi contenta, disse: «Vabbè, dai, non avrai studiato, però a Reggio, nel Partito, in qualche modo…». Era la sua idea, trovare comunque una collocazione nella società della sicurezza: purtroppo per lei e per tanti, tradii anche questo perché a diciannove anni feci la scelta della clandestinità ed entrai a tempo pieno nelle Brigate Rosse.

ANNALISA COSTANZO
Insomma, sei partito, facendo questa scelta così radicale, con il desiderio di costruire una società più autentica, seguendo però un’ideologia che definisci disumanizzante. Mi piacerebbe che tu spiegassi perché, per cambiare il mondo, ti sei ritrovato disumanizzato. L’altra domanda è: in che cosa ha fallito questa ideologia?

FRANCO BONISOLI
Quando iniziai ad occuparmi di politica, feci una scelta, incominciai a sposare la teoria marxista-leninista con tutte le risposte che questa ideologia dava all’analisi della società, alla possibilità di sognare un futuro più giusto, un Eden terreno, perché il comunismo poi era questo. Il sogno del comunismo era un Eden terreno che potevamo vivere subito, secondo quei criteri manichei: dividiamo il mondo in due, i buoni da una parte, i cattivi dall’altra. I buoni siamo noi, gli sfruttati, quelli che vogliono cambiare il mondo; i cattivi sono i padroni, chi ha il potere e tutti coloro che li difendono. Quindi, dividiamo il mondo in due, la rivoluzione deve abbattere il mondo cattivo che tiene il potere e instaurare una società di transizione, che si chiamava dittatura del proletariato. Doveva mantenere il potere, un nuovo potere, un potere giusto, per arrivare a una fase di transizione al comunismo dove, si diceva, «da ognuno secondo le sue possibilità a ognuno secondo le sue necessità». Un grande sogno. Il problema è che, in tutto questo, il presupposto era la scelta della lotta armata per abbattere lo Stato con la forza, con la violenza, con l’uso delle armi. Il presupposto, anche quando ancora non si sparava direttamente alle persone, era l’omicidio politico, l’uso della violenza in modo estremo. E questo è stato poi alla base della storia che tutti conosciamo, che qualcuno ha definito “anni di piombo”, un’altra definizione impropria ma non ci sarà tempo per parlarne. Tu hai parlato di disumanizzazione: sì, il problema era che in chi, come me, come tutti i miei compagni di allora, aveva fatto la scelta della lotta armata, non c’era un desiderio di potenza, di potere personale. Anzi. La scelta della clandestinità, nel ‘74, corrispondeva a dare prima di tutto la vita per la causa. Quindi, la vita che mettevo in discussione, prima di tutto era la mia. Non c’era l’idea di abbattere questo mondo di brutture, ci potevano volere cent’anni, il discorso era: «Do il mio contributo per le nuove generazioni». Dare questo contributo voleva dire per noi dare la vita. Sapevo che la mia vita non avrebbe avuto un futuro certo, ma pensavo che ne valesse la pena, perché l’alternativa era vivere in un mondo che rifiutavi, insieme all’ipocrisia, prima di tutto tua, di dire: «Questo mondo non va bene però, in fin dei conti, mi ritaglio qualcosa per sopravvivere, e magari ci riesco pure». Il problema è che il fatto di mettere in discussione la propria vita, e pensare poi che la vita degli altri, di quelli che ritenevamo nemici, potesse venire sacrificata, loro malgrado, per questa causa, non giustifica niente. Il problema è che, quando fai questa scelta e cominci a mettere in pratica queste teorie, di fatto metti in pratica l’omicidio di altre persone, cominci a perdere, a negare i valori che ti hanno portato all’inizio a fare queste scelte. Adesso dico la parola persona, ma allora non potevi pensare alla persona, pensavi a un ruolo, alla funzione che questo ricopriva, era necessario reificare, rendere la persona una cosa, vederne solo il ruolo, la funzione: il politico, che ha un ruolo importante nello Stato, il poliziotto, che è prima di tutto una divisa. Diventavamo giudici e processavamo le persone senza appello, senza neanche dare loro la possibilità di dire qualcosa. Disumanizzando senza nemmeno accorgertene la persona che vuoi colpire, disumanizzi te stesso, perdi il senso della tua umanità e reifichi anche la tua persona. Era un processo inconscio, necessario perché la causa, questa cosa sempre più astratta, sempre più piena di ideologia, continuasse ad essere quel cemento che teneva uniti, quella cosa che giustificava tutto. Il problema pericoloso, più tremendo è che, quando entri in una spirale di questo genere, invece dell’incontro inizi con lo scontro. E crescendo verticalmente lo scontro, il dialogo tende a scendere sempre di più: non c’è più possibilità, diventa una spirale della quale è difficile rendersi conto per pensare di uscirne. La soluzione è solo se uno riesce a sopprimere l’altro: poiché questo non è così facile, lo scontro si alza, si alza, si alza e tu disumanizzi te e l’altro disumanizza se stesso. Alla fine, non vai da nessuna parte. Non siamo andati proprio da nessuna parte, sono stati solo danni, è saltata l’idea e la violenza ha portato solo violenza e disumanità. Uscire da questa spirale è difficilissimo, io ho avuto la fortuna di uscirne e per questo oggi sono qui a parlarne.

ANNALISA COSTANZO
Partendo da qui, allora, ti chiederei di raccontarci che cosa è successo dopo, durante gli anni del carcere, quando ti sei accorto di tutto questo, quando sono accaduti fatti che sarebbe bello ci raccontassi, quando hai incontrato delle persone per cui hai capito che l’ideologia stava crollando, era fallita. Un’altra cosa che ci ha colpito è che c’è stato qualcosa che ti ha permesso di non morire schiacciato da questo fallimento che, come tu ci raccontavi, per molti è diventato inaccettabile. Allora, che cosa è servito, come hai potuto riconquistare tutta la tua umanità in quegli anni?

FRANCO BONISOLI
Se ho riconquistato tutta la mia umanità, non lo so, però diciamo che almeno sono riuscito ad uscire da questa disumanità. Ho vissuto quattro anni clandestino, ho svolto il mio ruolo di rivoluzionario, sono stato arrestato nel 1978 e sono finito in carcere. Allora c’era il circuito delle carceri speciali, delle carceri di massima sicurezza: sono finito lì. Una volta arrestato, non è che fosse cambiato qualcosa, per me, anzi. L’idea nostra era di continuare a fare i rivoluzionari all’interno del carcere, secondo i modelli dei partigiani, dei comunisti che venivano arrestati durante il fascismo. E si continuava all’interno del carcere a mantenere forte l’ideologia, si studiava, anzi, si coglieva l’occasione, il tempo disponibile per approfondire i sacri testi. Questo serviva a mantenere sempre il cemento, a crescere culturalmente secondo quello schema nostro per poi pensare di organizzarsi a mantenere vive le strutture e le nostre cellule organizzate, per puntare all’evasione dal carcere perché era un dovere di rivoluzionari uscire per poterci ricongiungere ai nostri compagni, per continuare la lotta. E addirittura lottare all’interno del carcere per mettere in discussione anche questo, uno dei cardini del potere dello Stato, il carcere stesso. E quindi il carcere era duro, durissimo, tra l’altro: lo posso dire oggi perché, a distanza di tempo, mi chiedo come siamo riusciti a sopravvivere in quelle condizioni, nel circuito delle carceri di massima sicurezza. Solo un esempio: nel sistema di detenzione che veniva utilizzato – Amnesty International l’aveva più volte dichiarato, denunciato – c’era la pratica della tortura. C’erano state molte denunce alla Corte internazionale dei Diritti dell’uomo. Però, più il carcere era duro, più mi giustificava: è uno Stato violento al quale ci si può opporre solo con la violenza. In questo contesto, quindi, il carcere duro giustificava le nostre idee. Prima non ho fatto un passaggio sulla nostra reazione al carcere, su come vedevamo lo Stato, le nostre aspirazioni. In Italia (a differenza che in Francia) la risposta che ricevemmo dallo Stato furono le bombe di piazza Fontana, le bombe di piazza Brescia, le bombe sui treni nel 1974, il tentato golpe di Junio Valerio Borghese negli anni Settanta. Il clima era pesantissimo, anche a livello europeo e internazionale: il regime dei Colonnelli in Grecia, il regime fascista in Spagna. Era un clima nel quale vedevamo un’unica possibilità di opporsi, soprattutto dopo il colpo di Stato in Cile, la lotta armata. Mentre Berlinguer scelse la strada del compromesso storico, noi dicemmo: «No, in quel modo non si va da nessuna parte, l’unico modo è armarci». Ritornando ancora sul discorso di come noi vedevamo l’altra parte, il carcere duro, durissimo, giustificava il fatto che dovevamo continuare la nostra rivoluzione armata contro lo Stato. É andata avanti così per diversi anni. Poi fui condannato: ebbi quattro condanne all’ergastolo e 105 anni in vari processi perché, avendo fatto parte della direzione dell’organizzazione, in ogni città subivo un processo. Di default si prendeva l’ergastolo come responsabili globali delle azioni armate che erano state fatte in quella città. Di contro, noi non ci difendevamo, anzi, diventava un punto d’orgoglio il fatto di essere in uno Stato repressivo. Cos’è cambiato? Ad un certo punto, si è cominciato a prendere coscienza che qualcosa non andava. All’esterno, il livello di potenza militare dell’organizzazione Brigate Rosse era altissimo; erano nati altri gruppi importanti come Prima Linea, tanti altri gruppi e gruppetti armati. Tutti che spingevano a fare la rivoluzione (ricordiamoci cos’è stato il movimento del ‘77, anche quello, un livello goliardico-creativo da una parte, ma dall’altra molto armato). L’idea sembrava giunta ad una fase pre-insurrezionale, però si vedeva che qualcosa non funzionava più. Cominciarono le fratture al nostro interno, cominciò quel fenomeno che fu definito pentitismo, persone che diventavano collaboratori di giustizia e collaboravano con lo Stato, senza bisogno di torture. Lì cominciò la fase implosiva, e fu una fase terrificante perché noi ci ritenevamo il corpo sano, fautore del cambiamento e della trasformazione: e chi cominciava a cedere al nostro interno, diventava la mela marcia da isolare e cacciare. Finché le mele marce cominciarono a diventare tante e iniziò la fase di implosione: si cominciò ad usare la violenza contro questi infami, queste persone che tradivano la giusta causa giusta, iniziammo ad ammazzarci tra di noi. Fu una fase tremenda, che in alcuni casi (questa è la spirale) lo Stato stesso favoriva. Nel clima di estrema violenza che ormai c’era, all’interno delle carceri speciali veniva mandata una persona che aveva collaborato con la giustizia, uno considerato un infame da uccidere. E lo mandavano apposta nel carcere dove c’erano quelli che l’avrebbero aggredito. E questo incentivava ulteriormente un clima di pazzia. Ora, io riesco a parlarne così, ma allora eri talmente coinvolto che non riuscivi neanche a renderti conto di dove si stesse andando. Poi, ad un certo punto, come una macchina che gira forte forte e improvvisamente crolla, ho cominciato ad avere un momento di crisi in cui non capivo più, sono arrivati i dubbi. Il dubbio, nella mia esperienza non aveva e non poteva avere spazio, voleva dire mettere in discussione qualcosa da cui era difficile tornare indietro. Tornare indietro poteva voler dire tradire, tradire voleva dire mettere in discussione una macchina perfetta, se rimaneva compatta, ma che si poteva distruggere se cominciava ad inserirsi qualche dubbio. I dubbi andavano cacciati, alle domande dovevo rispondere subito con delle “frasi”: citavo Il Capitale, citavo Lenin e mi davo risposte per cacciare questi dubbi. Ma dopo un po’, tutto questo cominciò a mostrare la sua fragilità, cominciai a non crederci più. Ricordo che il ministro Vassalli, su qualche giornale, parlò di una possibile amnistia. Mi trovai di fronte lo scenario della mia vita: avevo 28 anni e ne avevo fatti parecchi di carcere, ero stato nelle carceri peggiori, come l’isola dell’Asinara, Pianosa, Nuoro, eravamo il cosiddetto “circuito dei camosci”. Carceri con un livello di violenza, anche dei custodi, altissimo. C’è una mia foto al processo Moro dove arrivai con entrambe le mani ingessate: fu la prima foto di impatto, perché non si poteva non vedere che erano state tutte botte che avevo preso in carcere, in uno scontro impari, ma giustificato. Quando andai in crisi, cominciai a vedere, da un lato, che avevo sacrificato tutta la mia vita per una causa che ritenevo giusta ma a cui non credevo più tanto, dall’altro che avevo fatto un danno enorme alla mia famiglia, perché il primo dolore che ho provocato è stato quello agli affetti più cari. Poi c’erano tutte le persone a cui avevamo tolto la vita e i loro familiari, i feriti: cominciavo a pensarli come persone e non più come ruoli. Questo cominciava a pesarmi. Non vedevo la possibilità di un ritorno nella società e pensai che la mia vita probabilmente era arrivata ad un punto limite: avevo dato tanto per questa storia che si era dimostrata fallimentare, era come se la mia vita dovesse chiudersi così, come se non ci fossero altre possibilità. Una serie di fatti incise su questa crisi. Mentre ero al processo di Torino, inaugurammo il carcere delle Vallette: le carceri che oggi sono nuove, le gabbie che ora sono nei processi di mafia, le prime mega condanne di tanti ergastoli, le abbiamo inaugurate noi. A queste carceri speciali, che chiamavano “kampi”, campi di concentramento, arrivavamo belligeranti dopo i processi in cui ci incontravamo e che usavamo per fare una sorta di congresso del Partito: sfruttavamo ogni spazio e ogni momento per corroborare la nostra idea. Dicevamo: «Stabiliremo le linee, ritorneremo nei campi con grandi battaglie!». Al mio arrivo, il direttore mi chiama: «Facciamo una commissione di detenuti, vi mettete in tre o quattro di voi, raccogliete tutti i problemi che ci sono. Il carcere è nuovo, se le cose non vanno me lo dite e cercheremo di risolverle». Fummo scioccati perché non eravamo assolutamente abituati a questo linguaggio. Fino allora, l’idea era: «State lì, zitti e muti, chi parla va in isolamento o sono botte». Un’altra cosa che fece, fu favorire il rapporto con le nostre compagne. In carcere, maschi e femmine sono separati, l’unica l’occasione per incontrarsi era nelle gabbie, durante i processi. All’interno del carcere, il direttore fece mettere su un piano i maschi e su quello sotto le donne: venivano a chiederti chi era la tua compagna in modo da mettervi uno sotto l’altro per favorire il dialogo. Una cosa allucinante, che stravolgeva completamente gli schemi. In questo contesto, le donne, che come gli uomini delle Brigate Rosse avevano fatto la scelta della lotta armata, avevano già fatto un passo avanti. Nel momento della crisi dell’ideologia, loro avevano cominciato a stravolgere un po’ il linguaggio, ad inserire il linguaggio dei sentimenti. Le nostre lettere erano sempre enunciazioni strategiche, si doveva essere molto ideologizzati altrimenti risultavamo meno rivoluzionari, meno virili. E lo stesso da parte loro, con un crescendo che non portava da nessuna parte. Loro ruppero lo schema e cominciarono a parlare di amore, di sentimenti, di tenerezza. Le compagne cominciarono a regalarci braccialetti con le perline. In questo contesto, la nostra belligeranza se n’era andata, cominciarono a calare tante tensioni e provammo piacere per questo mondo che si andava a riscoprire. Quando presi la quarta condanna all’ergastolo – che non cambiava niente -, tornai al carcere di Nuoro da dove ero venuto. Ricordo che il brigadiere, durante la perquisizione, si arrabbiò enormemente non per l’ipotesi che potessi avere nascosto un coltello o un detonatore, ma per queste collanine e braccialetti che strappò via, quasi che con questa nota di colore avessimo rotto lo schema a cui anche l’altra parte si era uniformata. Mi resi conto anche del fatto che i miei compagni – che non avevano avuto la mia fortuna di andare in giro “per processi” e portarsi a casa le condanne, di incontrare altre persone, quindi di uscire da quel buco in cui ormai tu pensavi di controllare il mondo, di sapere tutto – erano fermi ad un anno prima, alle solite quattro parole e quattro cose. Capii che forse c’era qualcosa che non andava, che ormai eravamo arrivati ad un punto limite e che bisognava cambiare. Non capivo come uscire da questa crisi. Ebbi la fortuna che nel mio stesso carcere ci fosse Alberto Franceschini, co-fondatore delle Br, anche lui di Reggio Emilia come me. Riuscivamo qualche volta ad incontrarci al passeggio, anche lui viveva questa sensazione della morte vicina. Mi disse: «Prendiamoci un po’ di tempo, facciamo uno sciopero della fame». Così avevano fatto i compagni tedeschi di formazione analoga alla nostra, quelli della RAF che passavano sotto il nome di Baader Meinhof. Facemmo uno sciopero della fame che fu una forma di rottura esplicita con il nostro passato. Non vedevamo la possibilità di grandi soluzioni pacifiche, però dicemmo: «Se è la violenza che vogliamo esprimere, la esprimiamo verso noi stessi, non più verso altri». Una scelta che venne vista come deposizione delle armi, una scelta pacifica che rompeva uno schema nel quale anche lo Stato ormai era uniformato, tanto che, quando iniziammo questo sciopero della fame, il direttore ci chiamò. Era scioccato perché pensava che volessimo qualcosa in cambio. Rispondemmo che era la nostra unica possibilità di riprenderci in mano la vita in un carcere dove eravamo completamente spersonalizzati, svuotati di ogni cosa. La posta era censurata, tutto era sotto controllo, eri come una cavia di laboratorio: sapevi che saresti arrivato alla deprivazione sensoriale e che così ti avrebbero ucciso. Finché credevo che la rivoluzione potesse continuare, tutto aveva un senso, ma decadendo questo non capivo cosa ci stavo a fare. Questo mandò in crisi il meccanismo sul quale si era retta tutta la struttura. Ci dissero: «Perché non avete fatto una di quelle proteste forti, una rivolta, come facevate una volta?». Poi loro arrivavano e reprimevano con tutti i mezzi, naturalmente.
Noi siamo andati avanti e i nostri compagni criticarono questa scelta duramente, come una forma di tradimento, anche di quello che noi stessi prima credevamo, ma noi eravamo convinti. Eravamo in sei contro tutti, e pensavamo che dovevamo comunque avere il coraggio di rompere, perché non è facile quando sei dentro un’ideologia come la nostra decidere di uscirne, vuol dire ammettere la sconfitta. La responsabilità che ci eravamo assunti quando avevamo fatto la scelta della lotta armata, ci era richiesta oggi per la scelta di uscirne, anche a scapito della vita. Qui si è inserito un fatto particolare, devo dirlo perché è stato quello che poi mi ha permesso di essere qua, di essere vivo: in quei giorni ci fu un convegno dei cappellani in cui un certo cardinal Martini, all’epoca per me sconosciuto, parlò della necessità di difendere, anche nel carcere, la dignità umana dei detenuti. Erano parole che non si sentivano più. Noi eravamo criminali, terroristi, dovevamo stare dentro, chiusi, non uscire più e basta. Cercammo di capirne qualcosa, di parlarne con il cappellano del carcere, riuscimmo ad avere un colloquio. Erano cose difficili: bisognava fare la richiesta al direttore, andare dal maresciallo, poi ti chiamavano e tu andavi in questa stanza con una parete bianca, di vetro 50 x 50 cm. Il cappellano era in piedi di là, tu in piedi di qua, con i vetri antiproiettile che vi dividevano: questo era il livello di colloquio che potevi avere. Chiedemmo al cappellano qualche informazione in più, disse che ce le avrebbe procurate e intanto iniziammo questo sciopero della fame. Quando lo rivedemmo, il cappellano si dimostrò visibilmente preoccupato per noi. Considerate che io e Franceschini venivamo da Reggio Emilia, da famiglie mangiapreti come don Camillo, che non volevano sacerdoti neanche sulla porta di casa: in realtà, i miei mi avevano battezzato, cresimato e tutto, però sempre con questa forma di critica che era anche di rispetto. Il cappellano si comportò veramente come una persona che si preoccupava di noi: «Voi non vi rendete conto di dove siete, io li conosco. Questi vi lasciano morire» diceva. Mentre eravamo in una fase avanzata dello sciopero, dopo Natale, erano passati 20 giorni e si parlava di alimentazione forzata, avevamo tutti contro. Le guardie dicevano: «Faranno la fine della Baader Meinhof». Erano tutti morti: chi diceva che li avessero uccisi, chi diceva che si erano suicidati, morirono tutti in carcere. In questo clima, a un certo punto, a Santo Stefano si apre la cella ed entrano il giudice di sorveglianza, il direttore, il medico e altre persone. Mi ritrovo Marco Pannella seduto sul letto. Mi sono detto: «Sono al massimo delle visioni per lo sciopero della fame!». Ma era davvero Marco Pannella, in un carcere dove non entrava nessuno! Che cosa era successo? Questo cappellano, che si era visibilmente preoccupato per noi, scrisse una lettera dove dichiarò che non avrebbe celebrato la Messa in carcere a Natale, come aveva fatto sempre, perché «sei miei fratelli stanno morendo in carcere». Poi denunciò con una frase molto dura: «Se c’è stato un terrorismo nella società, oggi c’è un terrorismo di Stato che si esprime nelle carceri ed è inconcepibile e inaccettabile». Questa lettera fu un fatto clamoroso, fu mandata ai giornali locali, passò a quelli nazionali e tutti i politici si resero conto di ciò che stava succedendo nelle carceri, che veniva denunciato dai familiari, da Amnesty International e da altri, ma a cui nessuno dava ascolto: si accorsero di questo scandalo del regime delle carceri speciali. Iniziò una giravolta, mentre oramai eravamo nella sezione dell’ospedale per l’alimentazione forzata: cominciarono ad arrivare tutti i politici, più o meno di tutti i partiti, a chiedere che cosa stava succedendo. Tra Santo Stefano e l’ultimo dell’anno, quindi in pochissimi giorni, fu varato un Decreto Legge che tolse un articolo restrittivo per tutte le carceri speciali. E per noi che avevamo iniziato questa protesta, si aprì una fase di cambiamento inaspettata. Non c’eravamo posti nessun obiettivo. Il direttore chiedeva: «Volete essere trasferiti?» e noi rispondevamo: «Non vogliamo niente, vogliamo semplicemente non mangiare più». Il risultato invece fu che lo sciopero andò sui giornali, aderirono vari detenuti e divenne un fatto pubblico, cambiando le cose per tutti. Per me è stato un passaggio chiave, un po’ come uscire dagli inferni terreni, come dice Dante, attraversare «la natural burella» e trovarmi in purgatorio dov’era possibile, piano piano, una risalita. Ha voluto dire riprendere un dialogo più umano, innanzitutto con il direttore del carcere, che rappresentava l’ala dura del ministero. Ci disse poi – perché alla fine siamo diventati amici – che aveva deciso di farci scoppiare uno ad uno, era sicuro che ce l’avrebbe fatta e avrebbe ottenuto il nostro annientamento. Ricordo che veniva in cella, si sedeva sulla branda e chiacchierava con noi: ci si raccontava a che punto eravamo arrivati, come la realtà era stata stravolta. Per me, questa risalita, che è durata poi tanti anni, ha voluto dire usufruire di una legge sulla dissociazione, ammettere le mie responsabilità, che mai avevo negato, e assumermi anche il peso di tutte le azioni compiute dall’organizzazione cui ho appartenuto, anche quando ero in carcere. Quindi, l’assunzione morale, prima di tutto, che poi significava penale, ma questo era secondario. Poi ci fu la legge Gozzini di riforma penitenziaria: ci sarebbe da aprire un capitolo a parte, molto interessante anche per il presente, sul ruolo importante che hanno avuto il cardinal Martini, il pubblico ministero del processo Moro, che divenne il direttore delle carceri, Nicolò Amato e il volontariato che cominciammo a conoscere. In pochissimo tempo, il sistema penitenziario italiano, denunciato per la pratica della tortura, diventò il sistema penitenziario più moderno d’Europa. Tre anni dopo lo sciopero, nel 1986, fu varata questa legge, un cambiamento che dimostra come, quando si vogliono fare le cose nel nostro Paese, si fanno direttamente. Per me, tutto questo ha significato anche uscire dai circuiti: per una serie di calcoli matematici, tra legge sulla dissociazione e legge penitenziaria, sono riuscito a fare solo 22 anni e mezzo di carcere. Quindi, devo dire che mi è andata molto bene e adesso sono qui a raccontarlo.

MARTA BUSANI
Dobbiamo chiudere, abbiamo pochissimi minuti, però volevo che Franco ci raccontasse di questi ultimi anni: il cammino che stai facendo, in particolare l’amicizia con Agnese Moro.

FRANCO BONISOLI
Quando li ho incontrati, ho detto: «Ne parliamo un po’, ma io non vengo al Meeting». Ma loro hanno insistito tanto, sono addirittura venuti da Milano ad un incontro a Castelnuovo Monti, provincia di Reggia Emilia. Al che ho detto: «Va bene, dai, di fronte a tanta disponibilità, devo ricambiare». Poi c’è l’incontro con Agnese Moro e con altre vittime di questa nostra storia. Da anni sto facendo un percorso di testimonianza e soprattutto di incontro, con i miei compagni e i familiari o le vittime della nostra esperienza. É stato un percorso molto lungo, che è cominciato in carcere e che poi ho avuto la possibilità di sviluppare ulteriormente quando sono uscito. Adesso ho finito la pena, sono libero, ho anche il passaporto, l’unica cosa che mi manca è il diritto di voto, che però, in questi anni, mi ha tolto un sacco di impicci. Quando sono uscito, ho sentito ancora di più la necessità di avviare un percorso di comprensione umana con le persone che avevano subito i nostri danni terribili. Ho pensato ci fosse la possibilità che si potesse contribuire ad alleviare, anche minimamente, le sofferenze che avevamo inferto. Non certo restituendo le persone uccise, che non si può più fare. Ma ho sempre desiderato questa apertura. Sono stati anni di lavoro, grazie anche all’aiuto di alcune persone; una serie di incontri durata molto tempo. Ad un certo punto, è uscito un libro che raccontava questa esperienza, Il libro dell’incontro, edito da Il Saggiatore, a cura di padre Guido Bertagna, gesuita, Claudia Mazzuccato, docente di Diritto penale della Cattolica di Milano, Adolfo Ceretti, criminologo. Hanno svolto una funzione di mediazione nel rapporto tra quella che poteva essere una nostra componente e le vittime, per cominciare a ritrovarci come persone singole che si incontravano, che si comunicavano il loro dolore, le difficoltà e la voglia di continuare a credere in quelli che erano i rispettivi valori di una società più giusta, in cui le persone si possano parlare e incontrare. É stata un’esperienza di cui varrebbe la pena parlare in questo momento, una cosa che mi impegna moltissimo, anche perché, da quando abbiamo reso pubblica questa serie di incontri, prima clandestini, partecipano persone giovani come voi, che studiano, e qualcuno meno giovane che ha deciso di aderire. Incontri non facili, vi assicuro. Alcune vittime ci criticano e dicono che tutto è finito a tarallucci e vino: assolutamente no! Dovrete poi ascoltare quello che dicono Agnese Moro o Giovanni Ricci dell’incontro con il Papa alla chiesa del Gesù a Roma. È stato un percorso dove è emersa la possibilità di credere ancora in una società migliore. Ci siamo trovati a mettere insieme il nostro dolore, le nostre difficoltà, anche i nostri sogni o gli ideali da cui io sono partito e che mi hanno portato a prendere la lotta armata. Gli ideali di fondo per me sono ancora quelli: una società più giusta, più libera, dove la gente si parla, dove non ci sia la prevaricazione di uno sull’altro. Ho trovato nei familiari dei testimoni credibili. Io sono stato condannato anche per l’omicidio dell’onorevole Aldo Moro e per la strage di via Fani. Ho mandato una lettera all’ultima commissione Moro, dove ero stato sollecitato ad andare, per dichiarare i motivi per cui non andavo. Non mi sono messo a tirare troppi giudizi su di loro, ma le ritenevo persone troppo interessate ai fini del gruppo, del partito, con nessuna volontà di ricerca della verità. Mentre con questi testimoni – Agnese Moro, che sapete chi è, Giovanni Ricci, figlio dell’autista della scorta dell’on. Aldo Moro – mi sono resto totalmente disponibile, perché sono veramente credibili su tutto. Insieme, abbiamo solo da raccontare l’esperienza del nostro incontro. Come dice Agnese, «Mah, cosa facciamo, dove andiamo: intanto qui ci siamo, siamo un fatto, poi, se qualcuno lo vuole cogliere, ben venga». Vi cito un incontro che abbiamo avuto a Milano, organizzato dalle suore del Centro Asteria, c’erano 1.200 giovani. Raccontavamo la nostra esperienza e mia moglie era lì, in prima fila. E sente due giovani dietro che parlano. Uno dice all’altro: «Va bene ma allora adesso dovrei andare da quello stronzo del mio vicino di casa, parlargli e magari chiedergli pure scusa». E la ragazza dice: «Se ci sono riusciti loro, non ci vuoi riuscire tu?». Questo mi sembra un messaggio molto chiaro che può uscire da questa storia.

MARTA BUSANI
Grazie mille, anche di avere fatto la fatica di essere qui e di raccontarci tutta questa storia. Non dico nulla perché credo che non ci sia bisogno di particolari conclusioni.

Trascrizione non rivista dai relatori

Data

20 Agosto 2018

Ora

12:30

Edizione

2018
Categoria
Arene