400 ANNI DALLA MORTE DI SHAKESPEARE: IL SENSO DELL’ALTRO IN AMLETO

400 ANNI DELLA MORTE DI SHAKESPEARE: IL SENSO DELL’ALTRO IN AMLETO

Dialogo e percorso di letture e immagini con Piero Boitani, Docente di Letterature Comparate all’Università La Sapienza di Roma. Introduce Davide Rondoni, Poeta e scrittore.

 

DAVIDE RONDONI:
Buonasera, ben trovati, l’incontro di oggi ha come titolo: “400 anni dalla morte di Shakespeare: il senso dell’altro in Amleto”. Prima di venire qui, con il professore Boitani abbiamo ragionato a lungo su Dante perché con lui è così: puoi ragionare su Dante, un’ora dopo parlare di Amleto, di Shakespeare, perché lui è uno dei grandi esperti della letteratura. Non sto a leggervi il curriculum, le onorificenze, le magnificenze di Piero che è un amico ma è sicuramente una delle persone più esperte o, come diceva il mio maestro Ezio Raimondi, uno dei grandi lettori che ci possono guidare sulle tracce dei capolavori della letteratura. Lo abbiamo invitato perché un Meeting che mette a tema un “tu” come un bene implica il fatto che chi pronuncia questa frase, “tu sei un bene per me”, come mostrava anche prima l’amico Doninelli nella sua relazione, non può essere un uomo di carta, un uomo di paglia, un uomo di fumo, un uomo solamente di buoni sentimenti. Sennò, questa frase sta appesa un attimo alle buone intenzioni e poi cade, cade nella vita. Bisogna che l’io che pronuncia questa frase, “tu sei un bene per me”, abbia una coscienza critica del proprio io, o meglio, del tessuto, della stoffa del proprio io, dell’essere un dono. E quindi, possa riconoscere anche nell’altro le tracce di questo dono. Questa operazione, questo senso critico per cui tu riconosci la tua stoffa, il fatto di essere un dono a te stesso, per cui anche l’altro può essere un bene per te, questo senso critico si chiama cultura. Non nel senso di libri o biblioteche, ma nel senso critico che la tua vita, la civiltà a cui appartieni, la cultura che fa la civiltà a cui appartieni, porta come risultato, porta come frutto. Se perdiamo questo frutto, la frase “tu sei un bene per me” è una frase da allocchi, è una frase da stupidi, è una frase da beoti. Se il soggetto che pronuncia questa frase non ha una coscienza critica della propria stoffa, questa frase cade. E la letteratura, nella nostra civiltà e non solo nella nostra, è sempre stato il punto con cui dei geni – grandi, piccoli, medi, dei geni e dei mezzi geni, quelli così così – si sono interrogati su cos’è la stoffa dell’io, qual è la stoffa della vita. La letteratura fondamentalmente è questo: è una grande riflessione dell’uomo su se stesso attraverso l’invenzione di storie, l’invenzione di teatro, attraverso la tessitura di poesie. Perché il volto che è al fondo di noi possa emergere sempre più chiaro. Il personaggio di cui parliamo – anzi, di cui parlerà lui tra poco – è uno dei grandi personaggi che è nato in questa storia; non nasce dal nulla perché Amleto, come sa chi studia queste cose, non nasce dal niente dalla testa di Shakespeare, di questo figuro strano che è Shakespeare, di cui non sappiamo bene neanche chi era esattamente. Quindi, non è una operazione che nasce dal nulla; ci sono saghe nordiche alle spalle, ci sono tante cose. Però, di fatto, questo personaggio che è Amleto è tra l’altro uno di quelli che più direttamente è usato per cercare di comprendere cos’è io. Tanto è vero che molto spesso – è il caso di Amleto – questi personaggi diventano addirittura degli aggettivi per descrivere l’io. “Amletico”, “hai un dubbio amletico”: quando i personaggi della letteratura diventano aggettivi – pensate a pirandelliano o altro -, vuole dire che hanno detto qualche cosa alla nostra identità, alla nostra identità generale. E tutti siamo un po’ Amleto. Leggendo queste pagine meravigliose, non ci si non riconoscere un po’. Ecco, questo è ciò che fa la letteratura: ci fa riconoscere, e questo riconoscimento è infinito. Non è che avviene una volta per tutte, tutte le volte che leggi Amleto ti riconosci di più. Allora siamo qui con un grande lettore come Piero Boitani per vedere come Amleto dice qualcosa di noi in modo che pronunciare questa frase che abbiamo messo a titolo, che il Meeting ha messo a titolo, “Tu sei un bene per me”, non sia un “flatus vocis”, non sia una buona intenzione, non sia una tenerezza passeggera. Don Giussani diceva che la nostra epoca sarebbe stata tiranneggiata dall’idea di tenerezza, come se la tenerezza risolvesse. Ma la tenerezza non risolve niente. La tenerezza è un sentimento passeggero, quello che conta è il giudizio e l’affectus, la volontà, il legame. Non la tenerezza: la tenerezza è una cosa sacrosanta e bella ma sulla tenerezza non si costruisce niente. Occorrono il giudizio e l’affectus, la ragione e la volontà, l’attaccamento. La tenerezza semmai è un fiore che spunta ad un certo punto e che non si può neanche prevedere. Ma appunto perché non sia una specie di tenerezza, quella frase “Tu sei un bene per me”, occorre che l’io che la pronuncia sappia ciò che è, ciò che lo distingue. Per questo siamo contenti di avere con noi Piero Boitani, che è un maestro in queste cose, e lo ringrazio personalmente di aver accettato l’invito e sono curioso di sentire cosa ci racconta adesso di Amleto.

PIERO BOITANI:
Cosa vi dovrei raccontare di Amleto? È uno dei drammi più celebri e complicati che la storia del teatro abbia mai inventato. Certo, il più complicato che Shakespeare abbia scritto,. Voi conoscete la storia, presumo. Detta in brevissimo: la fonte principale dell’Amleto di Shakespeare è Sàssone il Grammatico, che ha scritto i Gesta danorum, le gesta dei danesi. Quindi, è ambientato in Danimarca, nel castello di Elsinore che ancora oggi si può visitare. Solo che noi immaginiamo il Castello di Elsinore come una cosa cupa e medievale, mentre invece è un meraviglioso castello rinascimentale, spazioso e arioso. In ogni caso, il dramma inizia come nessun dramma era mai iniziato prima: “Chi va là”. Inizia così: “Chi va là”. Siamo sugli spalti del castello e succede che il corpo di guardia è turbato perché ha visto qualcosa, ha sentito e visto qualcosa che proprio non torna, diciamo, all’esperienza normale. Viene convocato anche un personaggio che si chiama Orazio, che è amico di Amleto, che è stato all’università con Amleto, perché questo è un altro dei punti interessanti del dramma: che Amleto è uno studente, un ex-studente universitario. Non sappiamo se ha preso la laurea ma non ha importanza! Studente universitario, guarda caso, dell’Università di Wittenberg, in Germania, cioè quella dove all’epoca operava Lutero, ma dove lui non è diventato protestante ma ha imparato la logica aristotelica. Dunque, viene detto a Orazio che c’è “qualcosa”, viene proprio chiamata così, una “cosa” che è apparsa e che loro non sanno: ma sono turbati e quindi bisogna convocare Amleto. Amleto è il principe ereditario di Danimarca. Quindi Amleto viene convocato e questa cosa, che è poi un fantasma, se lo porta un po’ lontano da Orazio e dagli altri, dalle guardie, dalle sentinelle, e gli dice: “Io sono lo spettro di tuo padre” – anche lui si chiamava Amleto. Amleto senior, per così dire, “condannato a purgarmi nei fuochi”: già questa frase è curiosa perché purgarsi richiama il purgatorio, appunto. Ma il purgatorio nell’Inghilterra della fine ’500 non esisteva più perché erano diventati protestanti e per i protestanti il purgatorio non esiste. Quindi, cosa sta facendo questo signore William Shakespeare? C’è stato un libro recente, di qualche anno fa, intitolato Amleto in purgatorio per l’appunto, di uno studioso famosissimo, Stephen Greenblatt. Allora, cosa succede? Lo spettro rivela ad Amleto che lui non è semplicemente morto come tutti credevano ma è stato ammazzato dal fratello il quale, mentre lui faceva un pisolino dopo pranzo, gli ha versato del veleno nell’ orecchio. Poi questo fratello, che si chiama Claudio, ha fatto la corte alla vedova del re e l’ha sposata: Gertrude. Ora, lo spettro non accusa la moglie di nulla ma invece accusa il fratello di assassinio, sì. E quindi chiede vendetta. Come il figlio era tenuto a fare, come sapete, secondo l’etica antica, tradizionale: il figlio di un padre assassinato deve vendicare la morte del padre e uccidere l’assassino. Tra l’altro, questo assassino gli ha portato anche via il trono, perché alla morte del padre sarebbe dovuto salire lui al trono, non lo zio. Ma lo zio lo ha, come dire, imbrogliato perché ha sposato la vedova del re precedente e quindi si è anche assiso sul trono. Questa sarebbe l’etica tradizionale, quella di Oreste. Sapete che Oreste, nell’Oresteia di Eschilo, deve vendicare l’assassinio di Agamennone, compiuto dalla moglie Clitemnestra e da Egisto, uccidendo i due. Poi viene a sua volta perseguitato dalle Erinni, dalle furie perché ha ucciso la madre e quindi la cosa andrebbe avanti per sempre fino a quando Atena non convoca l’areopago, cioè un tribunale terreno, per così dire, e viene stabilito un processo. Cioè, l’assassinio non viene più punito con la vendetta dei familiari ma invece con il processo. Allora, lo spettro impone ad Amleto di compiere la vendetta. Più facile a dirsi che a farsi perché Amleto, appunto, è amletico, cioè non si decide mai a compiere questa vendetta. C’è un primo monologo, che vi leggerò poi, quando sono arrivati degli attori itineranti che hanno recitato la “presa di Troia” e l’uccisone di Priamo ed Ecuba. Poi se ne vanno. Amleto ha in mente qualcosa, rimane però solo sulla scena e pronuncia un monologo, il primo grande monologo di Amleto nel dramma. Ve lo leggo, prima in Italiano e senza particolare enfasi, poi invece ve lo leggo in inglese cercando di fare un po’ l’attore. Io faccio il professore, non sono un attore, quindi abbiate comprensione ma insomma… Eccolo qui. Allora, adesso è solo e dice: dovrei essere in piedi, sugli spalti d’Elsinore, magro – mentre non lo sono! -, vestito di nero come Amleto quasi sempre è, ma insomma… E’ estate, siamo a Rimini e c’è un microfono orrendo per di più, che non mi posso portare appresso. Ma non importa! Allora, dice così, Amleto.

“Son solo adesso, vigliacco e malfattore sono! Non è mostruoso che un attore, in una mera finzione, in un sogno di passione, possa tanto forzare la sua anima a un concetto che per il suo operare tutto il suo volto è impallidito? Lacrime nei suoi occhi, disperazione nel suo aspetto, voce rotta e l’intera funzione che si adattava con le forme alla sua idea? E tutto ciò per nulla! Per Ecuba! Che cos’è Ecuba per lui, o lui per Ecuba, che debba piangere per lei? Che farebbe allora se avesse il motivo, la spinta, la passione che ho io? Inonderebbe la scena di lacrime, spaccherebbe le orecchie di tutti con discorsi orrendi, renderebbe pazzo il colpevole, atterrirebbe l’innocente, sbalordirebbe l’ignaro e invero, stupirebbe la qualità stessa degli occhi e delle orecchie? Eppure io, canaglia fangosa e ottusa, perdo tempo come un’idiota, incurante della mia causa. E non so dire niente, nemmeno per un re che è stato derubato, furto maledetto dei suoi beni e della sua vita. Son un codardo? Chi mi chiama criminale, chi mi spacca la testa, chi mi strappa la barba e me la soffia in faccia, chi mi prende per il naso, chi mi ficchi in gola fino ai polmoni l’accusa di bugiardo? Chi mi fa questo sangue di Cristo! L’accetterei, perché debbo avere un fegato d’una colomba, e il mancar del fiele che rende l’oppressione amara che altrimenti avrei già ingrassato tutti gli avvoltoi del cielo con la carogna di questo schiavo. Criminale, sanguinoso, osceno. Criminale spietato, traditore, lussurioso, crudele. Ah, vendetta! Ma che somaro sono! Che bella impresa che io, figlio d’un caro padre assassinato, spinto alla mia vendetta dal cielo e dall’inferno, debba, come una puttana, svuotarmi il cuore di parole e mettermi a bestemmiare come una baldracca, una troia. Vergogna! Al lavoro, cervello! Ho sentito che assistendo a un dramma, dei malfattori sono stati colpiti così a fondo dall’arte della scena che hanno confessato i loro delitti. L’assassinio, infatti, pur non avendo lingua, parla con un organo miracoloso. Chiederò a questi attori di recitare davanti a mio zio qualcosa che assomigli all’assassinio di mio padre. Osserverò il suo contegno. Lo penetrerò fino in fondo. Se lui ha un soprassalto, conosco la mia strada. Lo spettro che ho visto può essere un diavolo; e il diavolo ha il potere di assumere una forma gradevole. Sì, e forse per la mia fragilità e malinconia, essendo così potente con anime cosiffatte, mi inganna per dannarmi. Il teatro è la cosa con cui metterò in trappola la coscienza del re”.

Vedete come questo enorme io di Amleto, che si accusa di essere un codardo, di avere il cuore e il fegato di un piccione perché non riesce a vendicarsi, non riesce semplicemente a fare un piano, diciamo così, di vendetta che possa essere portato a compimento. Dubita addirittura, dubita che il padre, lo spettro del padre a cui lui ha riconosciuto la paternità perché ha detto “I’ll call thee Hamlet, royal father, Dane”. “Ti chiamerò Amleto, padre reale, Danese”, cioè, gli ha detto: tu sei quello lì. Ma lui dubita, dice: no! Potrebbe essere un diavolo, un demonio, il quale prende la forma del fantasma per dannarmi, cioè mi fa compiere l’assassinio, il che vuol dire che dopo io vado all’inferno perché ho compiuto un assassinio, no! Devo avere una prova, in inglese dice: “I’ll have grounds more relative than this”, “avrò evidenza, una base più sicura di questa”, cioè delle parole del fantasma. Allora dice: mettiamo in scena una commedia, un dramma in cui si ripete l’assassinio del padre come lo spettro ha rivelato. Se il re si muove, si agita, allora so com’è la cosa, voglio avere la prova. In realtà, come poi ricorderete, quando il dramma viene messo in scena il re si alza in piedi ad un certo punto e dice semplicemente: “Give me some light, away”, “datemi della luce, datemi un lume, via” e non dice nient’altro. Quindi non confessa un bel nulla. Amleto crede che questa confessione sia sufficiente come prova, dice a Orazio: l’hai notato, lo prenderò per mille sterline, cioè la considero una prova valida per mille sterline, una cifra enorme all’epoca di Shakespeare. Ma in realtà non ha confessato nulla. C’è poi una scena successiva in cui Claudio è nella cappella del palazzo e sta pregando, o meglio sta tentando di pregare. E dice: devo confessare la mia colpa, che ha la maledizione primigenia su di lei, l’assassinio di un fratello; Caino e Abele, è quello che viene richiamato. Devo confessarla, mi devo pentire ma non ci riesco. Nella finzione teatrale, ovviamente, Claudio parla ad alta voce, Amleto è dietro la porta della cappella ma non sente perché Claudio sta pregando in silenzio e dice: Ah, adesso sì che potrei farlo, adesso non c’è nessuno, è solo, io so che è colpevole, lo posso infilzare e via, è belleffatta! E poi si ferma e dice: eh sì, e così lo mando in paradiso, perché sta pregando, vuol dire che è pentito. Allora, per un padre assassinato nel pieno dei suoi peccati, nel fiorire dei suoi peccati, io l’assassino lo spedisco in paradiso, ma che vendetta è questa! Non si può fare! E quindi nulla fa, quindi ogni scusa è buona per Amleto per non compiere la vendetta. Perché? Perché Amleto si fa tutte queste domande? Se fosse uno che le domande non se le fa, lui o un suo sicario compirebbe la vendetta senza problemi, ma no, Amleto invece si interroga se sia giusto, se non sia giusto, se c’è la prova o non c’è la prova, e via di seguito. Fino a tutta la prima metà del dramma, Amleto non decide e in realtà non decide neppure nella seconda: ma nella seconda succedono altre cose che poi vedremo. Fatemi leggere questo brano in inglese che è troppo, infinitamente più bello dell’italiano, per me è ovvio, è come leggere Dante in inglese, ha dei problemi, mentre leggerlo in italiano è un’altra cosa.

“Now, I’m alone.
Oh, what a rogue and peasant slave am I!
Is it not monstrous that this player here,
But in a fiction, in a dream of passion,
Could force his soul so to his own conceit
That from her working all his visage wanned,
Tears in his eyes, distraction in his aspect,
A broken voice, and his whole function suiting
With forms to his conceit? And all for nothing—
For Hecuba!
What’s Hecuba to him or he to Hecuba
That he should weep for her? What would he do
Had he the motive and the cue for passion
That I have? He would drown the stage with tears
And cleave the general ear with horrid speech,
Make mad the guilty and appall the free,
Confound the ignorant, and amaze indeed
The very faculties of eyes and ears. Yet I,
A dull and muddy-mettled rascal, peak
Like John-a-dreams, unpregnant of my cause,
And can say nothing – no, not for a king,
Upon whose property and most dear life
A damned defeat was made. Am I a coward?
Who calls me “villain”? Breaks my pate across?
Plucks off my beard and blows it in my face?
Tweaks me by the nose? Gives me the lie i’ th’ throat
As deep as to the lungs? Who does me this?
Ha!
‘Swounds, I should take it, for it cannot be
But I am pigeon-livered and lack gall
To make oppression bitter, or ere this
I should have fatted all the region kites
With this slave’s offal. Bloody, bawdy villain!
Remorseless, treacherous, lecherous, kindless villain!
O vengeance!
Why, what an ass am I! This is most brave,
That I, the son of a dear father murdered,
Prompted to my revenge by heaven and hell,
Must, like a whore, unpack my heart with words
And fall a-cursing like a very drab,
A scullion! Fie upon ’t, foh!
About, my brain. – Hum, I have heard
That guilty creatures sitting at a play
Have, by the very cunning of the scene,
Been struck so to the soul that presently
They have proclaimed their malefactions.
For murder, though it have no tongue, will speak
With most miraculous organ. I’ll have these players
Play something like the murder of my father
Before mine uncle. I’ll observe his looks.
I’ll tent him to the quick. If he do blench,
I know my course. The spirit that I have seen
May be the devil, and the devil hath power
T’ assume a pleasing shape. Yea, and perhaps
Out of my weakness and my melancholy,
As he is very potent with such spirits,
Abuses me to damn me. I’ll have grounds
More relative than this. The play’s the thing
Wherein I’ll catch the conscience of the king”
.

Ora, qui ci sono vari punti ma avete sentito che ad un certo punto, verso la fine, Amleto dice: “dalla mia debolezza e dalla mia malinconia il diavolo, il demonio, può penetrare dentro di me e portarmi alla dannazione; malinconia è un altro dei grandi temi del dramma di Amleto, soprattutto della prima parte, perché davanti a quello che succede, da quello che è successo, Amleto diventa malinconico. Forse lo è, forse invece è una finzione. Amleto si finge pazzo, deve pure sopravvivere in una corte dove l’uomo di potere, l’uomo forte è lo zio, c’è poco da fare, quindi deve dissimulare e perciò forse la sua pazzia è di simulazione, o forse no, o forse diventa davvero pazzo, forse è in parte melanconico, melanconico vuol dire in possesso della “bile nera”, come si diceva a quell’epoca, melanconico cioè depresso, diremmo noi oggi, depresso, certo è abbastanza depresso, Amleto, uno che, come tra poco vedremo, si chiede se sia meglio vivere o ammazzarsi è leggermente depresso, non c’è niente da fare. Oggi lo si manderebbe da uno psicanalista o non so da chi, lo manderesti a farsi curare prima del passo finale. Lo dice lui stesso perché, ad un certo punto, il re deve pure capire cosa sta succedendo, perché questo è l’erede al trono, e se Amleto mette su un colpo di Stato magari è seguito perché è sempre il principe dell’Italia. Allora il re che sa che lui ha assassinato il fratello deve capire e allora usa varie persone come spie, usa due vecchi amici di Amleto, Rosencrantz e Guildenstern, anche questi diventati personaggio famosissimi dopo, perché poi è stato creato nel ’900, dopo la guerra, un dramma addirittura solo per loro. Rosencrantz e Guildenstern vanno ad esplorare e a sentire, a tastare il polso ad Amleto, poi lo farà anche Polonio, Polonio e poi il gran ciambellano. Polonio è il padre di Ofelia, con la quale chiaramente Amleto ha avuto una relazione o ha una relazione, e di Laerte, che poi cercherà, ci arriveremo, una vendetta. Allora i due, Rosencrantz e Guildenstern – ci sono anche gli attori sulla scena -, cercano di capire che cosa stia succedendo ad Amleto. Ed ecco che cosa gli risponde lui, è un altro di quei, non è un monologo. Ma lui supera i due interlocutori, cioè i suoi vecchi amici, non di una spanna ma di dieci spanne:

“Vi dirò io perché” dice “e in tal modo la mia anticipazione precederà le vostre rivelazioni, e la vostra lealtà verso il re e la regina non perderà una sola penna, io ultimamente, ma il perché non lo so, ho perso tutta la mia allegria e abbandonato ogni esercizio fisico e, invero, la mia disposizione è così cupa, che questa bella architettura, la terra, mi sembra uno sterile promontorio, questo stupendo baldacchino, l’aria, guardate, questo bel firmamento sospeso in alto, questo soffitto maestoso, trapuntato di fiamme d’oro ebbene non mi sembrano che una sporca e pestilenziale congrega di vapori. Che capolavoro è l’uomo, com’è nobile nella ragione, un infinto nelle sue facoltà, preciso e ammirevole nella forma e nel movimento, simile a un angelo nell’azione come simile a un dio nell’intendimento, la bellezza del mondo, il paragone degli essere animati eppur cos’è per me questa quintessenza di polvere? L’uomo non mi piace e nemmeno la donna, anche se con il tuo sorrisetto tu sembri dire di sì”.

Chi parla così è decisamente depresso ma non è soltanto depresso, ovviamente, perché è uno che riesce a vedere dietro l’incredibile bellezza dell’universo che vede, che sente, che ama. Naturalmente vede la vanità del tutto, è come l’Ecclesiaste, dietro alla straordinaria bellezza del mondo, bellezza e bontà del creato, vede invece un’altra realtà, vede la congrega di vapori, vede la quintessenza di polvere nell’uomo, vede insomma l’altro lato, l’ombra, l’oscurità. Amleto è uno dei grandi personaggi della letteratura che riesce a vedere l’altro lato della vita: qual è l’altro lato della vita? Beh, da una parte è il male e Amleto ne ha ben donde, il male è lì, ce l’ha lì, ha Claudio, lo zio che l’ha fatto, il male, ancora è malvagio perché non si è pentito, e per pentirsi Claudio, lo dice lui stesso “come faccio a pentirmi se ancora porto con me mia moglie? Mia moglie è il frutto di quel delitto”, dovrei divorziare e allora poi potrei anche pentirmene, dovrei separarmi da mia moglie perché lei, la moglie, viene con l’uccisione del fratello. Amleto vede anche questo, quando la madre gli chiede: “ma perché tutto ti sembra così oscuro?” Amleto risponde: “Sembra, signora, io non conosco, sembra”. E’ un integralista, Amleto, non va mai soltanto per retorica, la conosce benissimo la retorica, naturalmente, ma va al nocciolo delle questioni. Il famoso monologo dell’essere o non essere è questo, quando lui di nuovo è solo, probabilmente in uno dei lunghi corridoi del palazzo. E, prima di incontrare Ofelia, perché alla fine del monologo la incontra, si chiede: “ma cosa è meglio fare? Vivere o uccidersi?”. Non vivere o morire, perché morire succede a tutti, prima o poi, no, no. Vivere o uccidersi, però Amleto non considera la questione soltanto da un punto di vista personale ed etico, cioè come vivere o uccidersi ma proprio come una questione ontologica, essere o non essere, cioè la mette sul piano filosofico. E questa è un’altra delle sue grandissime caratteristiche, che ragiona come un filosofo, pensate: nella filosofia occidentale, il dibattito sull’essere o non essere è quello che lancia Parmenide, insomma, Parmenide lancia il problema dell’essere e non essere, tra l’altro un contemporaneo di Amleto, e cioè il Faust di Christopher Marlowe, Faust, cioè la grande tragedia del mago che vuole sapere tutto. Insomma, all’inizio del dramma Faust, anche lui solo stavolta, dice: anche io ormai, io ho studiato filosofia, ho studiato teologia, ho studiato medicina, ecc., ma nessuna di queste mi soddisfa. Allora esploro la magia. Ma quando parla della filosofia dice: “ma io ho saputo – e lo dice in greco – essere e non essere”. Marlowe l’autore aveva preceduto lo Shakespeare di Amleto, ma i due sono intellettuali, naturalmente, Faust e Amleto che la pensano nello stesso modo. C’è un’altra cosa che vi devo dire, una cosa divertentissima, secondo me, tipica di Amleto: avete sentito una delle cose che lui dice in questo monologo che ho letto? “Ma perché si agita tanto per nulla?”. Si agita per Ecuba, ma cos’è Ecuba per lui o che cos’è lui per Ecuba? Non so se ci stiamo rendendo conto di che cosa sta dicendo questo signore: cos’è Ecuba per lui? È normale, che cosa può essere una finzione mitica Ecuba per un attore di teatro? Già il chiedersi cos’è una finzione mitica per un attore, non è Ecuba la persona per il primo attore che si sarà chiamato, non so, Gigi, non è Ecuba per Gigi; è Ecuba il personaggio mitico per l’attore che in scena recita la parte di Priamo. Ma poi aggiunge a quella domanda: “che cosa è lui per Ecuba?”. Quello che vuole dire, naturalmente semplificato, è: ma qual è la relazione tra quei due, che lui si agita tanto in scena? Sono mica parenti, già, però la mette su un piano assolutamente assordo. Cosa può essere lui per Ecuba? Lui, attore, per una finzione mitica. Beh, i piani sono lontani anni luce l’uno all’altro, però Amleto è capace di immaginare le cose in questa maniera come quando, nella seconda parte del dramma, sarà sulla fossa nella quale viene poi seppellita Ofelia e parla con i becchini. Ad un certo punto – una scena fantastica da recitarla, l’ho rivista l’altro giorno sul computer -, uno dei due becchini che aveva uno spirito meraviglioso, e che parla mentre tiene in mano il teschio di Iori, che è il buffone di corte, poi ci arriveremo, dice a Orazio: “Scusa, Orazio, non pensi che si possa immaginare che il tappo del barile che contiene la birra in realtà sia Alessandro Magno?”. Orazio gli dice: “You’re too courios to consider so”, sarebbe un po’ straordinario pensare in questa maniera. E lui dice: “No, niente affatto, pensa così, Alessandro muore, il corpo di Alessandro decade, diventa polvere, con quella polvere noi facciamo i tappi che servono a chiudere i barili di birra, quindi Alessandro è diventato il tappo del barile di birra”. E’ fatto così, Amleto, sa ragionare in maniera estrema, sa arrivare appunto al cuore delle cose, in questo caso, il cuore vuoto delle cose. Dunque, arriviamo all’essere o non essere:

“Essere o non essere, questa è la questione, se è più nobile per la mente sopportare le sassate, le frecce dell’oltraggiosa fortuna o prendere le armi contro un mare di guai e, combattendo, finirli. Morire, dormire, nient’altro, e con un sonno dire che poniamo fine al male del cuore e ai mille travagli naturali di cui la carne è erede, questa è consumazione da desiderare devotamente. Morire, dormire, dormire, forse sognare, qui è l’intoppo, perché in quel sonno di morte quali sogni possono venire quando ci siamo liberati di questo groviglio mortale? È cosa che deve farci meditare, è questo il pensiero che dà alla sofferenza una vita così lunga. Chi sopporterebbe la frusta e l’ingiuria del tempo, i torti dell’oppressore, le contumelie del superbo, i dolori dell’amore disprezzato, i ritardi della giustizia, l’insolenza del potere e il disprezzo, che il merito paziente riceve dagli indegni quando lui stesso potrebbe darsi quietanza con un nudo pugnale? Chi porterebbe fardelli, grugnendo e sudando sotto il peso della vita, se non fosse che la paura di qualcosa dopo la morte, la terra inesplorata dai cui confini non torna nessuno, paralizza la volontà e ci fa sopportare i mali che abbiamo piuttosto che fuggire verso quelli che non conosciamo? E così la coscienza ci rende tutti codardi, e così la tinta naturale della risolutezza è resa livida dalla pallida impronta del pensiero e imprese di grande portata e momento mutano per questo il loro corso e perdono il nome di azione. Piano, ora la bella Ofelia, nelle tue orazioni, ninfa, siano ricordati tutti i miei peccati”.

Questo non è uno che sta per compiere la vendetta e che poi discute questa possibilità, cioè questa alternativa tra essere o non essere, in termini scolastici, perché Amleto sta discutendo come se fosse una questione di quelle dibattute da Tommaso D’Aquino, essere o non essere. Se qualcuno di voi ha mai letto un filosofo scolastico, “utrum” fare questo, “an” fare quell’altro, o è così o è colà, ma io rispondo dicendo che, se è più nobile quella mente, sopportare, eccetera, o prende “utrum an”, le armi contro un mare di guai e combattendo finirli. Morire, dormire, ecco il responso, la risposta: morire, dormire, nient’altro. E con un sonno dire che poniamo fine al male del cuore. Chi l’aveva mai detto prima, il male del cuore? Mica ha un infarto, Amleto, non è che soffre di cuore, il male del cuore, il male che uno porta dentro, e hai mille travagli naturali, eccetera: ma perché soffrire? Morire è la cosa migliore, dormire, basta, è finita! Non c’è più nulla. “Here is the rub” dice l’inglese, “qui sta l’intoppo”: perché quali sogni ti possono venire dopo che abbiamo perduto la carne? Come si fa a sognare, dormire? Sì, il paragone tra sonno e morte è stato fatto milioni di volte fin dall’antichità. Benissimo, il sonno è il fratello della morte, la morte è la sorella del sonno. Ma non è mica vero, sono balle, perché uno dorme e poi si risveglia, ma da quel sonno là, quello finale, non ti risvegli, non c’è niente da fare. Dormire, forse sognare, ma non si può sognare. E allora, chi sopporterebbe tutti i travagli della vita, il potente che ti ingiuria, eccetera, se con un solo pugnale potrebbe darsi pietà, si ammazza ed è finita? Ma il fatto che non lo facciamo perché abbiamo il pensiero di questo qualcosa dopo la morte – dice in inglese, sentite i suoni, l’allitterazione “but the dread of something after death, the undiscovered country from whose born, no traveler returns, puzzles this will”, eccetera -, questo ferma la nostra volontà, il paese non esplorato dal quale non torna nessuno, il pensiero di qualcosa dopo la morte, c’è l’inferno. E allora non ti ammazzi, se c’è l’inferno non ti ammazzi, è peggio della vita, la vita è mezzo inferno però è meglio che non l’inferno per l’eternità. Non è curioso che Amleto si dica, si chieda, “dal quale nessun viaggiatore ritorna”, ma come? Ha visto il fantasma del padre, quello è un viaggiatore tornato dal purgatorio o dall’inferno che sia. L’ha visto e ha creduto che quello fosse il padre, ha detto: ti chiamerò mio padre, eccetera. Poi Amleto è un cristiano, tra le altre cose: “dal quale nessun viaggiatore ritorna”, ma Cristo è ritornato e se sei cristiano credi nel ritorno finale, nella resurrezione della carne, eccetera. Come mai Amleto non ci crede o sembra non crederci? Almeno in questa prima parte del dramma, la seconda è leggermente diversa. Come mai? È un uomo del Rinascimento, certo, non è più l’uomo del Medioevo, quindi dubita di tutto, anzi, si parla di dubbi amletici, ma i dubbi amletici sono radicali: è meglio vivere o ammazzarsi? Dalla morte non ritorna mai nessuno, ma come? Come fai a credere a questo se sei cristiano, eccetera? Il mondo bellissimo in realtà è una congrega pestilenziale di vapori, eccetera. Tutte domande essenziali. Perché continuo a dire prima e seconda parte? Perché ci sono nell’Amleto una prima e una seconda parte, ci sono cinque atti, naturalmente, ma divisi in prima e seconda parte. Perché? Avete sentito che alla fine di questo monologo, Amleto dice: zitto, adesso, sta arrivando Ofelia. E la tratta malissimo. Ofelia è venuta, in realtà spinta dal padre Polonio. Polonio è convinto che Amleto sia malinconico, sia impazzito per via dell’amore di Ofelia, cioè che questo è matto d’amore. Dice: se tu gli dai soddisfazione, la pazzia gli passa. Insomma, è come dire: tu sposatelo, figlia mia, vedrai che quello smette di essere pazzo, oppure vacci a letto e smetti di essere pazzo. Non dice mai così, Polonio, naturalmente, però dietro la sua mente questo c’è. Allora le dice: guarda, tentalo, restituiscigli tutti i regali che lui ti ha fatto, gli innamorati ti fanno regali, poi questo è il principe di Danimarca, quindi può permettersi i regali. E allora Ofelia è venuta, poveretta, a restituirgli i regali come le ha detto il padre. E lui la tratta malissimo, come sapete. Lei dice, proprio qui: “Monsignore, ho alcuni vostri ricordi che da tempo desideravo restituirvi, vi prego, riprendeteli”. “No, non io, io non vi ho mai dato niente”. “Mio onorato signore, voi sapete bene di avermeli dati e con essi parole fatte di un respiro così dolce da rendere gli oggetti più ricchi. Perduto il loro profumo, riprendeteli. Per la mente nobile, i doni ricchi diventano poveri, quando chi li dà si mostra scortese. Ecco, monsignore”. “Siete onesta?”. “Monsignore?”. “Siete bella?”. “Che intende, vostra signoria?”. “Che se siete onesta e bella la vostra onestà non dovrebbe aver commercio con la vostra bellezza”. “Monsignore, con chi la bellezza potrebbe aver miglior commercio se non con l’onestà?”. “Certo, certo, perché il potere della bellezza trasformerà l’onestà da quello che è in una ruffiana, prima che la forza dell’onestà possa tradurre la bellezza nel suo simile. Questo una volta era un paradosso, ma ora il tempo lo dimostra vero. Io vi ho amato, una volta”. “In verità, signore, me lo avete fatto credere”. “Non avreste dovuto credermi, la virtù infatti non può essere innestata nel nostro antico ceppo senza che rimanga il vecchio sapore, io non vi amavo”. Insomma, una a cui lui ha fatto la corte per parecchio tempo, ha dato regali, eccetera, perché l’amava e lei così ha creduto, adesso la tratta male. La prossima battuta è: “vattene in convento, perché vuoi generare dei peccatori? Io stesso sono abbastanza onesto eppure potrei accusarmi di cose tali”, eccetera. “Vattene in convento”: ma la tratti così la tua fidanzata ufficiosa? No, non la tratti così. Durante la recita del dramma che imita l’uccisione del padre, lui è seduto tra le cosce di Ofelia e fa un gioco orrendo, un gioco perfido contro questa povera ragazza. La quale ragazza impazzisce, lei impazzisce, non lui, ma lei sì, e non lo sappiamo fino alla morte, annegata, forse si è suicidata. Allora fa quello che lui avrebbe voluto fare, quello che lui vorrebbe fare: lei, forse, lo fa davvero. A lui cosa succede? A lui succede che il re, non capendo più niente di questo nipote, dice: spediamolo in Inghilterra, in Inghilterra tanto sono tutti pazzi. Così dirà il becchino poi: sì, l’Inghilterra va benissimo perché sono tutti matti, là. Spediamolo in Inghilterra. E lui prepara una lettera per il re inglese in cui dice: come questo scende dalla nave, fatelo fuori! Sistema meraviglioso, neanche lo ammazzi in Danimarca, a casa, lo fai ammazzare in Inghilterra, lontanissimo, quindi nessuno potrà mai dire: bah. Se non che succede che durante il viaggio per nave, accompagnato da Rosencrantz e Guildenstern, che sanno benissimo cosa stanno facendo, lui scopre nella cabina di Rosencrantz e Guildenstern questa lettera. Perché non riesce a dormire, eccetera. Allora, ha per caso con sé il sigillo reale del vecchio re di Danimarca, di suo padre, cambia la lettera e dice: come questi due arrivano in Inghilterra, fateli fuori. E lui scappa. Poi non si capisce bene che cosa accade, ci sono dei pirati di mezzo che lo rapiscono, insomma, alla fine lo ritroviamo però in Danimarca a colloquio con Orazio. E qui Amleto cambia, chissà perché, forse perché ha visto la morte sul serio, ha visto il mare, la lettera dello zio che lo condannava a morte, eccetera. Quando arriva è cambiato, è cambiato al punto che lui, che sosteneva che tutto non era altro che vano intendimento, adesso cita la provvidenza. Dice: “There is special providence in the fall of a sparrow”, c’è provvidenza nella caduta di un passero. Ma questo è il Vangelo secondo Matteo. Amleto che cita il Vangelo? Si, Amleto che cita il Vangelo. È cambiato, cosa lo abbia cambiato non si riesce a capire. Ha avuto una seconda esperienza di morte, quella di andare al cimitero con Orazio, di vedere la fossa vuota e poi di apprendere che in quella fossa deve andare a finire Ofelia. E mentre salta dentro quella fossa, dice: “Io sono Amleto il danese, io amavo Ofelia!”. Quello che gli ha detto, adesso lì lo ribadisce sul serio. Viene sfidato a duello, come sapete, dal fratello di Ofelia, Laerte, che quando torna vede la sorella morta e fa uno più uno che fa due: è morta per colpa di Amleto, o morta per amore o suicidata per amore, è morta per questo. Allora lo sfida a duello e Amleto non vorrebbe accettare, si sente male e Orazio gli dice: “Guarda, non c’è bisogno che accetti, tu sei il principe ereditario di Danimarca, puoi dire qualunque cosa, trova una scusa, digli che non ti senti bene”. E lui risponde così: “Not a whit. We defy augury. There is special providence in the fall of a sparrow. If it be now, ‘tis not to come, if it be not to come, it will be now, if it be not now, yet will be come – the readiness is all. Since no man knows of aught he leaves what is it to leave betimes? Let be”. Sfidiamo i presagi, c’è una speciale provvidenza anche nella caduta di un passero, se è ora non sarà dopo, se non sarà dopo sarà ora, se non è ora tuttavia sarà. Essere pronti è tutto, poiché nessun uomo sa qualcosa di ciò che lascia, che importa lasciare prima del tempo? Sia così. Guardate che quel sia così, “let be”, non è semplicemente “sia così”, è Amen, naturalmente. Cioè, Amleto è pronto. La readiness che viene dal Vangelo: “Siate pronti perché la morte può venire in qualunque momento”. Infatti può venire perché il re, appena saputo che Laerte vuole sfidare Amleto a duello, prepara il veleno, le spade vengono intinte nel veleno, nelle coppe di vino viene gettato veleno, e quindi morirà. C’è poco da fare, basta che Laerte lo graffi con la spada e morirà. E così è. La scena finale è una scena tremenda, perché Laerte naturalmente viene colpito da Amleto e muore, la regina, la madre beve alla salute di Amleto, muore, e allora finalmente Laerte dice: “Le spade sono truccate, le spade sono avvelenate, e sono avvelenate per ordine del re”. E allora, finalmente, senza pensarci sopra, come deve fare uno che si vendica? Amleto infilza lo zio con la spada, non perché si è preparato ma perché gli capita così. Ha scoperto che quello voleva ammazzare lui dopo aver ammazzato il padre. E allora lo ammazza. E poi naturalmente muore. E la scena della morte di Amleto è una scena incredibile, Shakespeare sa descrivere molto bene queste scene, la morte di Lear è un’altra cosa straordinaria, la morte di Macbeth, e via di seguito. Ma capite, qui è emerso qualcos’altro, che va in una direzione diversa. Amleto che accetta la Provvidenza, la caduta dei passeri, è un Amleto che sembra riconciliato con il mondo e certamente un Amleto, come dire, cristiano. Vive però sempre nel suo mondo, quindi duelli, spade, veleno e via di seguito. Ecco cosa dice morendo. Arriva il re Fortebraccio di Norvegia, che poi prenderà il trono, e Amleto sta parlando con l’amico Orazio: “Oh, I die, Horatio, the potent poison quite o’ercrows my spirit. I cannot live to hear the news from England. But i do prophesy the election lights on Fortinbras. He has my dying voice. So tell him, with th’occurrents, more and less, which have solicited. The rest is silence”. E muore. “Digli a Fortebraccio cosa è successo, diglielo così, come te l’ho detto io, il resto è silenzio”. E muore. Insomma non è una tragedia da poco, è la prima tragedia dell’uomo moderno, perché Amleto è come noi. Noi non siamo di quelli – forse qualcuno della mafia ancora c’è – che compiono la vendetta così. Ci chiediamo, dubitiamo, pensiamo anche noi ai buoi, all’oscurità, a quello che viene dopo. Siamo pieni di dubbi. Quando Davide diceva “il dubbio amletico”: quando uno arriva ad avere l’aggettivo, è diventato un mito, ma mito perché siamo noi, noi siamo Amleto. Magari ci fosse anche qualche Ofelia in giro, ma so che c’è. Dunque noi siamo quello lì, uno che alla fine del dramma dice prima a Orazio: “Guarda, tu non sai quanto male io ho qua”. E poi dice: “Il resto è silenzio”. Ecco, lui è uno che ha capito, ripeto, la parte oscura e non solo quella, quando accetta invece la provvidenza e dice c’è una provvidenza speciale, che è una cosa calvinista, cioè, lo speciale è una cosa che viene dagli scritti di Calvino. Shakespeare non era affatto calvinista, oggi si discute tanto se fosse cattolico o meno, ma certamente non era calvinista, però usa questa frase che viene da lì. Lo dice nella caduta di un passero, cioè dal Vangelo. Allora, un Amleto che dice queste cose prelude a qualcos’altro, quello che ci sarà quasi alla fine di Re Lear, e soprattutto quello che c’è negli ultimi drammi. Gli ultimi drammi finiscono tutti bene, hanno un happy ending perché lì la Provvidenza porta alla felicità. Io ho scritto una volta che gli ultimi drammi di Shakespeare sono la buona novella, portano le buone notizie, perché lì le figlie che si erano perdute ritrovano i padri, i mariti ritrovano le mogli che erano morte. Addirittura, in uno o due di quei drammi, ci sono scene che sembrano di resurrezione: quella di Hermione nel Racconto d’Inverno, lei è una bella statua rinascimentale che a un certo punto, al suono della musica, viene fatta rivivere. È una resurrezione dettata dall’arte, ma anche una resurrezione del corpo, per così dire. Quindi si avvia negli ultimi drammi, prima di morire, verso qualcosa che è diverso, e che comincia proprio qui.

DAVIDE RONDONI:
Grazie a Piero Boitani per questo suo viaggio che ci ha fatto re-iniziare, forse, a scoprire questa grande opera. Il mio compito era solo di moderare, per cui io termino con una questione che mi ha colpito in quello che lui diceva. Il problema che Amleto ripropone, di una comprensione di qual è la stoffa del mio io, di qual è la stoffa dell’essere. Questa comprensione non può avvenire al di fuori di un affronto serio di due questioni: la prima questione è quella che propone lo spettro, la questione dell’origine, la questione del padre, che è anche la questione che rimanda al dopo la morte. Non ci può essere una comprensione dell’io senza una domanda circa il destino, e il destino non è appena un’idea, è ciò da cui vengo e ciò a cui vado. Non ci può essere una definizione puramente sentimentale, psicologica dell’io, se non alla luce del problema del destino. E la cultura cristiana non si è mai sottratta a questo paragone, a questo problema urgente, perché non è detto che sia così chiaro da dove vengo e dove vado. Non è scontato, non è assodato una volta per tutte, è un problema che si ripresenta. L’io si riconosce nel ripresentarsi del problema del destino. Prima cosa. La seconda cosa, che è poi l’ambito del dramma, che avviene in un posto di cui si dice che c’è del marcio, quindi non in un giardino ma in un posto com’è la vita normale, dove ci sono tante cose che vanno bene e altre che vanno male, l’altro elemento da cui non si può sfuggire nella comprensione di ciò che sono, se il primo è il senso del destino, il secondo è il problema del potere. Perché tutto ruota intorno al problema del potere, dove non è appena il potere del re, della regina o del teatro, o il potere della finzione o il potere delle parole, ma comunque è il problema del potere perché l’uomo, o meglio io, sono fatto per esercitare un potere, ma la qualità, la prospettiva, la funzione di questo potere è il problema della vita, e senza fare i conti seriamente col problema del destino come origine e destinazione e senza il problema del potere, l’io diventa una favoletta psicologica, diventa una chiacchierina poco interessante. Questo Amleto, come tutti i grandi capolavori della letteratura, ce lo ripropone, perché l’io non si comprende senza il destino e senza l’azione, e l’azione con cui l’io si esercita nel mondo è il possesso, è il potere, la possibilità di essere uomo, cioè dominus della realtà, non c’è un altro tipo di azione. L’uomo è fatto per questo, è fatto per stare nel mondo possedendo il mondo. Ma qual è la qualità di questo possesso, qual è la prospettiva di questo possesso, ciò in cui si gioca il problema dell’io e la possibilità di dire tu?

PIERO BOITANI:
Mi è venuta in mente una cosa che non ho detto prima. Amleto, a un certo punto, ha un lungo colloquio con la madre. Il padre gli ha detto di non farle niente perché lei non è colpevole, lei si è buttata nelle braccia del cognato, ma insomma, Amleto sembra considerare questo un incesto, che invece non è, naturalmente. Ma durante questo colloquio con la madre compare lo spettro, e Amleto sta rimproverando aspramente la madre dicendole che ha sposato una specie di orso, che aveva davanti un essere maestoso e va a sposare questo che è un’imitazione schifosa. E la madre è annichilita da questo discorso, poi compare lo spettro e Amleto dice: “Guarda, guarda”. E lei risponde: “Ma io non vedo niente”. E lui: “Ca come non vedi niente, lo spettro, il fantasma!”. E lei risponde: “I see nothing yet all there is I see”, io non vedo niente ma vedo tutto ciò che è. Lì non è Amleto che sta giocando, lì è Shakespeare che sta giocando, è l’autore che dice a noi: “Ma questo spettro, c’è o non c’è? È vero o non è vero? È una proiezione della psiche di Amleto o che cosa?”. Perché, se lo vede Amleto ma non la madre, che vuol dire? Goethe nel Wilhelm Meister fa mettere in scena l’Amleto proprio a Wilhelm Meister, che è un attore, come sapete, e anche regista, un po’ come Shakespeare, infatti si chiama Wilhelm come William. Nel momento in cui deve recitare la scena dello spettro, scopre che si sono dimenticati di incaricare un attore di fare lo spettro, però deve andare in scena. Va in scena e comincia. Gli dicono Orazio e gli altri: “E’ comparso lo spettro e ti vuole vedere”. E a un certo punto arriva uno con un elmo che gli copre il viso, e Wilhelm è terrorizzato e dice: “Chi è questo qua?”. Poi quello comincia a parlare. Amleto guarda e dentro alla visiera dello specchio crede di scorgere il padre. Goethe sta giocando con Shakespeare. Goethe ha capito benissimo: ma lo spettro c’è o non c’è? Non c’è, eppure c’è, non è il padre, eppure è il padre, basta che lo riconosci. Insomma, la storia da Shakespeare a Goethe è di una tale complessità che uno ci può passare buona parte della vita. Io non l’ho fatto né lo farò, spero. Però è interessante, ripeto, è la modernità, siamo noi.

DAVIDE RONDONI:
Ringrazio ancora Piero Boitani e ringrazio voi dell’attenzione.

Data

21 Agosto 2016

Ora

19:00

Edizione

2016

Luogo

Sala Poste Italiane A4
Categoria
Incontri