Un ponte chiamato amicizia. L’Islam, il terrorismo, il dialogo con i cristiani

Press Meeting

Rimini, giovedì 23 agosto –Il giornalista Giorgio Paolucci introduce l’incontro con Valeria Khadija Collina, madre di Youssef Zaghba, il terrorista che, insieme ad altri due attentatori, il 3 giugno 2017 ha portato a termine un attacco al London Bridge, restando ucciso dalla polizia. L’Arena Cammini B2 non riesce a contenere l’incredibile affluenza di persone, desiderose di incontrare una figura che incarna perfettamente l’obbiettivo del Meeting di incontro e collaborazione tra popoli, culture, religioni.
Valeria racconta brevemente la sua storia, dal desiderio giovanile di sperimentare diverse realtà, all’incontro con l’ex marito che l’ha fatta avvicinare alla fede islamica, al ritorno in Italia accompagnata dal figlio, al momento in cui ha appreso della morte di Youssef.
“Mio figlio aveva rinunciato alla ricerca della bellezza e della felicità, era così lontano da quell’ Islam che mi aveva affascinato sino alla conversione. Per una stupida pretesa materna di difenderlo ho impedito la capacità di ragionare, di apertura di mio figlio. I segnali erano inequivocabili, ma io ero impreparata, non riuscivo a rispondere in modo convincente a lui che mi mostrava video di propaganda di quella setta, eresia dell’Islam figlia di rigorismo e letteralismo”.
Riprendendo un passaggio del libro di Valeria, Paolucci ribadisce come la donna sia caratterizzata da un grande desiderio di ripartire: “Non mi voglio chiudere, non voglio vivere in un lutto eterno, che non mi restituirà mio figlio e non riporterà le vittime ai loro familiari. Voglio reagire, trasformare questo sconforto paralizzante in un’energia inesauribile. Mi sono promessa di fare tutto il possibile per evitare che altri genitori vivano ciò che sto vivendo, per evitare che altre madri piangano i propri figli, terroristi o innocenti”.
Valeria testimonia che è possibile trovare un punto di incontro con persone di religioni e culture diverse, raccontando del rapporto nato con la madre di una delle vittime dell’attentato al London Bridge: “La morte è qualcosa che disarma, è un evento così grande, così definitivo, per cui molte cose possono essere abbandonate, lasciate, buttate a terra. È anche il momento in cui possono avvenire miracoli come pregare insieme”.
Davanti alla polemica di uno spettatore che l’ha accusata con parole taglienti di strumentalizzare un evento tragico – “Avrei preferito che tu avessi rinunciato alla religione islamica, come ha fatto Magdi Allam” – Valeria risponde con incredibile calma e accettazione, ribadendo il suo credo religioso: “Le tre religioni, soprattutto le tre monoteiste, sono state spesso accusate di essere generatrici di violenza. Ma le violenze più brutali e totali hanno avuto origine da ideologie politiche, atee e antireligiose: il nazismo, il fascismo, il bolscevismo: religioni sostituto, religioni secolari. In un epoca secolarizzata, priva di orizzonte trascendente, qualsiasi cosa può essere sacralizzata e fatta oggetto di culto: la politica, il corpo, il cibo, il gruppo di appartenenza. Più si restringe il campo della trascendenza, dell’Altro e dell’Oltre, più è una dimensione mondana ad essere abitata dal sacro. Io – ha dunque spiegato – ho amato l’Islam per i suoi frutti: prima di aderire a una dottrina ho amato delle anime, dei cuori che quel credo aveva riempito di pace, di misericordia, di tenerezza, di luce. Questo mi ha permesso di affrontare con forza una tragedia che devo accettare con umiltà, di sperare nella misericordia di Dio per mio figlio, di lottare contro una deriva dell’islam che ne offende i profondi valori di pace. Ospitalità, generosità, rispetto ed amore per il prossimo, sollecitudine, carità. Questi sono i buoni frutti delle religioni, di tutte”.
Conclude Paolucci, riprendendo due punti fondamentali emersi dall’incontro, creando anche una collegamento con il progetto itinerante che i protagonisti della mostra dell’anno scorso, “Migranti: Nuove Generazioni”, stanno portando avanti: “Il primo aspetto è che la paura di farsi contaminare deriva dalla paura dell’altro, ma in fondo è figlia della paura di se stessi, di non avere nulla di certo che tiene in piedi la propria vita. Il secondo è che una vera esperienza religiosa è un’esperienza che non ha mai la pretesa di possedere totalmente la verità, ma concepisce la verità come qualcosa di più grande di sé che è possibile incontrare ma che non è opera dell’uomo. Ciò che l’uomo può fare è guardare nel profondo del cuore e scoprire che i desideri che ha sono gli stessi che appartengono a tutto il genere umano e per i quali si può incontrare e si diventa amici”.

(C.R.)

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