Talk il lavoro che verrà. Un lavoro senza frontiere

Redazione Web

Rimini, 21 agosto 2021 – La Fondazione per la Sussidiarietà con il sostegno di Philip Morris Italia, Bayer SpA, in Sala Ravezzi ha stimolato un dibattito sull’ipotesi di nuovi modelli d’impresa a partire dai cambiamenti in atto e dalle nuove opportunità. Partecipano: Vincenzo Durante, responsabile Occupazione Invitalia; Antonio Loffredo, parroco della Basilica di S. Maria della Sanità, Napoli; Maurizio Martina, special advisor e vicedirettore generale aggiunto della FAO; Alberto Sinigallia, presidente della Fondazione Progetto Arca; Massimo Ferlini, coordinatore del Dipartimento Lavoro della Fondazione per la Sussidiarietà. Conducono Massimo Bernardini ed Enrico Castelli.

Chi cerca lavoro si mette in movimento. Con questo tema vengono presentati due video di gente che si è reinventata ed è stata aiutata in questo in due ambienti molto severi, il rione Sanità di Napoli e uno slum di Nairobi. Cosa insegnano queste storie? Esordisce Martina: «Il riscatto non deve iniziare mosso dalla disperazione».  Nel suo lavoro l’ex ministro ha conosciuto esempi di riscatto che partono da una programmazione, da una volontà, come il progetto FAO di costituzione di una cooperativa di centotrentacinque donne in Afghanistan, che spera che non venga interrotto dalle ultime vicende. Purtroppo, riprende Martina, «la frattura tra nord e sud del mondo esiste ancora e non è stata risolta dalla globalizzazione».

Un effetto immediatamente visibile del lavoro è che guarisce i problemi e le persone, continua Loffredo. Ma ci si chiede quanto si è disposti a cambiare per trovare lavoro, quanto si è disposti ad essere aiutati in questo. Illuminante l’esperienza della cooperativa della comunità di Sciacca raccontata da Durante: un territorio è stato trasformato in museo diffuso perché si è capito che molte attività avevano un’attrattiva per i turisti. Sono state coinvolte realtà produttive, negozi, artigiani, ma lavorare nel contesto di museo diffuso ha comportato grandi difficoltà di cambiamento anche se poi la gente ha capito che l’investimento e lo sforzo produce effetti di lungo periodo.

Si parla poi di inclusione sociale come effetto possibile del lavoro. Continua Sinigallia: «Nell’insegnare un lavoro non ci vogliamo sostituire alla persona, ma stimolare il senso di responsabilità, si parte da qui». Con questo metodo è stato possibile inventarsi imprenditori di sé stessi e anche permettere a gente che prima era ai margini e senza un lavoro di assumersi, grazie al proprio lavoro e con l’aiuto di Banca Etica, un mutuo per l’acquisto della propria casa.

E quando parte il coraggio di dire “io”, ci si chiede? Illumina Loffredo: «I miei ragazzi hanno cominciato a capire solo quando sono usciti dal ghetto, da lì hanno cominciato a crescere come persone, è cominciata la presa di responsabilità ed è partito il riscatto sociale». Ma c’è stato bisogno di un aiuto. I moderatori a questo punto presentano un video dove si vede il risultato di inserimento nel lavoro di immigrati ad opera dell’associazione Next.

Quindi il fenomeno migratorio può essere una risorsa? Viene proiettato un video con un’intervista a Marco Mendicino, ministro del Canada, che racconta del loro modello: grazie a leggi e a strutture di supporto messe in atto dal governo gli immigrati vengono inseriti in un percorso di ricerca delle competenze, ricerca dei talenti, formazione. La gente viene selezionata in questo modo e in questo modo viene avviata ad un percorso di inserimento nel mondo del lavoro. Questo è il modello più forte nel mondo di integrazione sociale. Questo modello è applicabile da noi? Risponde Martina: «Questo è un modello per l’Italia, ma non scordiamo che il governo canadese può averlo perché prima ha creato leggi e strumenti di supporto».

Altro tema, è introdotto da un grafico, che mostra come in Europa il 15% della forza lavoro non sia nata in Europa. Perché? Raccoglie la sfida Ferlini: «È semplice: la gente che vuole lavorare si muove. E questo spiega perché la gente viene da noi in Europa, ma anche perché i nostri ragazzi vanno via dall’Italia».

Infine una domanda spinosa: bisogna invitare le persone a non emigrare e a rimanere nel loro paese creando le strutture necessarie? «Sì», conclude Martina, «la FAO si sta impegnando in questo senso con vari programmi».

(A.L.)

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