Stupirsi di fatti semplici: il linguaggio dell’uomo e i limiti della comprensione. Andrea Moro e Noam Chomsky

Press Meeting

Rimini, 24 agosto 2015 – Il linguaggio è la capacità dell’uomo di esprimere attraverso suoni e segni ciò che è dentro alla mente. Caratteristica unica e specifica della nostra specie. Nessuna altra forma vivente lo fa come noi. Capacità sviluppata improvvisamente, in tempi assolutamente recenti rispetto alla evoluzione dell’uomo. Il processo parte un milione di anni fa, ma il punto di svolta nel quale iniziamo parlare di linguaggio è ancora più recente di 400mila anni. È un salto evolutivo senza precedenti, che ha determinato il futuro della nostra specie. E la moderna linguistica e la neurolinguistica studiano e indagano cosa si trova dentro l’evento apparentemente più semplice, naturale, eppure sorprendente: parlare.
E al linguaggio, alla sua sintassi, alla sua capacità di articolarsi all’infinito per esprimere ciò che è dentro e fuori di noi, alla sua origine e ai suoi limiti di rappresentazione e conoscenza della realtà, è stato dedicato l’incontro “Stupirsi di fatti semplici: il linguaggio dell’uomo e limiti della comprensione” (Auditorium Intesa San Paolo – B1). Appuntamento a cui hanno partecipato il ricercatore internazionale e neurolinguista alla Scuola Universitaria Superiore IUSS Pavia, Andrea Moro, introdotto all’astrofisico dell’Università di Milano Marco Bersanelli, e in diretta audio/video, Noam Chomsky, il linguista definito dal New York Times il più importante intellettuale americano degli ultimi cento anni, cioè da quando Einstein pubblicò la teoria della Relatività generale.
Bersanelli sottolinea l’intima eleganza del titolo dell’incontro, che denota un modo particolare, propriamente scientifico, di guardare le cose senza dare nulla per scontato, e passa la parola a Moro.
“Il titolo stesso nasce da una frase utilizzata da Chomsky in un suo libro del 1986: è importante imparare a stupirsi di fatti semplici”. Così esordisce Andrea Moro, ricordando di essere stato uno degli studenti dello studioso americano al Mit di Boston, una delle più importanti Università al mondo. “La rottura operata negli anni Cinquanta da Chomsky nello studio del linguaggio è assoluta. Lingue e sintassi erano considerate convenzioni culturali di natura arbitraria. È lui a introdurre categorie come complessità e generatività ricorsiva del linguaggio e a definirlo “un insieme di valori specifici di parametri in un sistema invariante di princìpi”. Differenza non da poco, che sposta completamente il campo della ricerca su lingua, grammatica e sintassi.
Secondo Chomsky e Moro la caratteristica dell’agire umano, e del linguaggio in particolare, è sottrarsi ai meccanismi di associazione stimolo/risposta, alla base delle interpretazioni della psicologia comportamentistica. Usiamo una frase e la capiamo non perché l’abbiamo giù utilizzata o memorizzata ma perché ne possediamo internamente la regola generativa, ossia la grammatica. Per Chomsky questa capacità deve essere necessariamente un dato ereditario e universale, già presente in ogni individuo: “Gli esseri umani sono progettati in modo sorprendente, con una capacità misteriosa”.
Moro ripercorre la storia recente della linguistica come il lavoro intellettuale di chi deve giudicare la figura di un arazzo analizzando la trama dei fili del lato nascosto, che ha portato alla localizzazione fisiologica delle aree del cervello dedicate al linguaggio. È sorprendente che la capacità di parlare, che si impara in pochissimo tempo e per di più da bambini, sia solo dell’uomo, come dimostra l’esperimento fatto con alcuni scimpanzé. Questi possono imparare delle parole, ma non sono in grado di utilizzarle posizionalmente per esprimere con esse concetti diversi. Ed è sorprendente il risultato degli ultimi esperimenti del gruppo di Moro in ambito psicolinguistico: la rappresentazione interna del linguaggio riproduce esattamente l’inviluppo sonoro del parlato. Il linguaggio è suono.
Chomsky, nel suo intervento dagli Stati uniti, procede epistemologicamente a volo d’angelo e ricorda le teorie innatistiche e universalistiche sul linguaggio della filosofia sei-settecentesca, filosofi come Cartesio, Hume, Locke e Newton. L’approccio di Chomsky della grammatica generativa prende origine dall’intuizione dell’infinita creatività della lingua e si stacca sostanzialmente dalle nozioni e dagli strumenti della linguistica strutturale che hanno caratterizzato primo e secondo dopoguerra.
Dopo aver passato anch’egli in rassegna le principali tappe della ricerca linguistica lo studioso americano si sofferma sulle idee di frontiera della linguistica attuale: il concetto di fusione esterna e interna, con le sue implicazioni sulla computabilità minima delle strutture sintattiche, la forza del concetto di regole dipendenti dalla struttura, la tesi del progetto perfetto che conduce alla cosiddetta “tesi fortemente minimalista” e così via. “Il compito primario della ricerca in linguistica – nota infine – è riempire i grossi vuoti che ancora il quadro presenta, in modo ancora più entusiasmante per i misteri che il quadro nasconde, forse per sempre”
Bersanelli conclude, acceso da sincera gratitudine per la ricchezza dell’incontro: “Per noi il linguaggio mostra la possibilità nel finito dell’espressione infinita. Lo ereditiamo come storia, e per innescarne l’uso abbiamo bisogno di un rapporto. Più ne studiamo i meccanismi, più ci riesce ineffabile”.

(Ant.C, C.B.)

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