Storie dal mondo: cosa resta di un marine dopo l’Afghanistan

Press Meeting

“Un film duro ma la giornata dei marines in Afghanistan è così” commenta il giornalista Gian Micalessin al termine di Hell and back again. Quello che impressiona sono le immagini dei marines, inviati nell’estate del 2009 per uccidere i talebani nel sud dell’Afghanistan, loro roccaforte.
Giornate iniziate con lo sbarco nel deserto. Scendono da quegli elicotteri che sembrano gigantesche mosche di ferro, iniziano a marciare verso i villaggi, in quello che si immagina un caldo afoso. Attraverso campi di grano o oppio, gli scarponi che affondano nelle zolle sotto il peso dello zaino da 30 chili, il nemico che può essere ovunque.
La compagnia Echo, 2° battaglione, 8° reggimento dei marines, è guidata dal sergente Nathan Harris. Il regista Danfung Dennis racconta la sua storia. Viene ferito e torna nella sua casa del North Carolina.
Ferito in guerra può significare molte cose. In questo caso significa avere 26 anni e muoversi con un deambulatore. Essere incapace di vestirsi senza l’aiuto di sua moglie. Per un sergente dei marines, una macchina da guerra fatta di muscoli e armi, è più devastante della gamba distrutta.
Tornano continuamente i ricordi della guerriglia. Alla fine dei campi c’è un afghano. Ha gli abiti tradizionali, il camicione lungo alle ginocchia dal quale spuntano i pantaloni. Barba bianca e lunga, un po’ quadrata. Il marines gli rivolge una serie di domande, senza perdere tempo in saluti. Nemmeno si presenta, salve mi chiamo tal dei tali, nulla. Il sergente Nathan è entrato in una terra senza capire dove sta posando i piedi.
Lo ammette lui stesso, qualche fotogramma più avanti, dal divano del salotto: “Nessuno sa cosa sta succedendo laggiù, nemmeno i ragazzi che stanno combattendo”. Se è per questo nemmeno gli abitanti dei villaggi, costretti ad abbandonare le loro case perché con i marines arrivano anche i talebani, scoppiano sparatorie e bombe. Un anziano gli chiede: “Ma se siete venuti ad aiutarci perché ci fate questo?”.
Nathan torna a casa, incapace di farsi domande. Ha solo una gran rabbia perché non può più essere una macchina da guerra. Dentro il taglio che gli attraversa la gamba c’è una placca in titanio. La pallottola gli ha frantumato l’anca, spezzato il femore. “Ero un vero cowboy, volevo uccidere il nemico”, si lamenta. Gioca con la sua pistola, la carica, la smonta, la ricarica, la infila tra il materasso e il letto. Se le persone parlano tutte insieme si arrabbia. Incredibile a dirsi, sua moglie non lo molla. Dall’inferno della guerra all’inferno di una vita che non vuole, dove sua moglie, nonostante tutto, gli resta accanto.
“Come siamo diversi noi italiani – commenta Micalessin al termine – come è diverso il modo con cui andiamo in Afghanistan. Noi in missione di pace, con rispetto. Arriviamo in un villaggio, cerchiamo l’anziano, diciamo chi siamo e cosa facciamo. Loro entrano, sparano, e quando tutto è finito chiedono di parlare”. Spiega che i marines iniziano l’addestramento da ragazzi, a sedici anni. Addestrati a cercare il nemico, stanarlo, ammazzarlo. “Il problema è – conclude – che in Afghanistan non si può solo sparare”.

(D.T.)

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