Scienza e poesia ai confini della realtà

Press Meeting

A “Dire di noi in parole povere, in parole gloriose”, questo pomeriggio, in sala Tiglio ci hanno provato, insieme a Davide Rondoni, Andrea Moro, un neurolinguista della Scuola superiore di Pavia, con complicità al Mit di Boston, e un poeta di Cesena, Gianfranco Lauretano, autore anni fa di un bel viaggio nelle Langhe in compagnia di Pavese, e oggi traduttore di poeti russi come Osip Ėmil’evič Mandel’štam, morto nel 1938 in un lager per un epigramma “soffiato” da un sedicente amico alle orecchie di Stalin. Detto per inciso, nel viaggio verso la Siberia, faceva animo ai suoi compagni di sventura recitando, in italiano, poesie di Dante e di Petrarca.
Per il neurolinguista ciò che distingue l’uomo dagli animali non è tanto la capacità di creare dei simboli: quelle intese, quei patti fra due individui che, nell’antica Grecia, sigillavano l’accordo con i frammenti di un pezzo di ceramica spezzato in due. La differenza la fa la capacità di ricombinare i simboli per generare significati nuovi. Cosa che gli scimpanzé, che pure hanno il 98 per cento di genoma simile al nostro, non riescono a fare. Andando oltre, per avvicinarci all’origine della poesia, Moro ha raccontato un esperimento nel corso del quale venne somministrata ad un gruppo di tedeschi della ex DDR una fasulla grammatica italiana confezionata con regole assurde e impossibili. Il risultato sorprendente fu che quelle persone riuscirono a riconoscere le regole possibili da quelle impossibili, dimostrando che in tutte le lingue c’è un nucleo di regole comune e che il cervello è in grado di individuarle. Ne conseguono due piste di ricerca ulteriori: capire cosa si può creare con la parola, scoprire che cosa si dicono i neuroni quando si scambiano informazioni linguistiche.
Lauretano ha ripreso l’idea del rimescolamento dei simboli, affermando che la poesia è un’arte combinatoria che usa lo strumento più povero che ci sia: le parole. Un concetto che il suo Mandel’štam aveva già formulato, paragonando la poesia all’architettura. In “Notre Dame” il poeta russo scrive che nella struttura della cattedrale c’è qualcosa di pesante da cui l’arte è chiamata a trarre la bellezza. “Le parole povere – ha spiegato Lauretano – sono il peso da cui l’arte, la poesia, è chiamata a trarre la vera bellezza”.
Lauretano legge anche Rebora e gli ha dedicato uno dei suoi ultimi libri (per coincidenza, Rebora e Mandel’štam hanno pubblicato nello stesso anno, il 1913, le opere oggetto di studio del nostro autore). E Rebora fa il salto rispetto alla poesia ufficiale del Novecento: afferma che la poesia non è il senso della vita, non ha il suo significato in sé. “La santità soltanto – scrive il poeta milanese, diventato sacerdote rosminiano dopo una gioventù mazziniana e atea – compie il canto”. “È qualcosa d’altro che compie la vita – ha spiegato Lauretano – E la prima parola che mi viene in mente è ‘mistero’”. Il mistero però, avverte Mandel’štam, l’uomo non può definirlo, non può dargli un nome. Se prova a farlo, il mistero fugge da lui.
Lauretano ha concluso invitando a guardare la vita non secondo la riduzione dell’Occidente positivista che ne vede solo le dimensioni fisica e psichica ma a prendere lezione dai grandi russi, che ne tenevano sempre viva una terza, quella spirituale.
“E la quarta dimensione – ha chiesto Rondoni – esiste?”. Lauretano ha fatto ricorso a Leopardi e al suo concetto di “lontananza”, “che rappresenta l’ineffabile, la parola indicibile”, che cerca di dare un nome al grande assente. Moro ha richiamato Chomsky che lo scorso gennaio, in un convegno in Vaticano, ha detto “che c’è una dimensione che ancora non conosciamo”.
(D.B.)

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