Rimini, 21 agosto 2015 – Il reading di brani letterari antichi – classici e cristiani – proposto dalla redazione di “Zetesis” è un appuntamento ormai tradizionale del Meeting. Quest’anno la lettura dei testi, contestualizzati e commentati da Moreno Morani, docente di Glottologia all’Università di Genova, e Giulia Regoliosi, direttore responsabile di “Zetesis”, è stata affidata ai giovani allievi dell’attrice Adriana Bagnoli e accompagnata dalle musiche eseguite al flauto da Luca Ronchi.
Il percorso proposto ha ricostruito l’evoluzione che, nella letteratura greca e latina, l’immagine del cuore conosce, nel passaggio dalla cultura pagana a quella cristiana. Sin dalla grecità arcaica è netta la sensazione che esso non sia un semplice organo anatomico, ma “qualcosa d’altro e di più”, che “sembra partecipare in modo speciale alle nostre emozioni”, di cui appare la sede. In numerosi passi, dunque, “l’uomo antico fa del cuore l’interlocutore di un dialogo serrato”: il modello letterario omerico (Odissea, XX 13 ss.) è ripreso da vari autori (Archiloco, fr. 128 W.; Teognide, I 213 ss., 877 ss.; Filita, fr. 7 Diehl; Crinacora, A. P. IX 234), che col cuore dialogano per trovare risorse o prendere giuste decisioni nel momento della difficoltà. Il cuore è percepito come sede del coraggio (Archiloco, fr. 60D), ma anche dell’intelligenza: la mente, che medici e filosofi antichi pongono spesso in contrasto col cuore nella direzione delle umane azioni, è strettamente connessa a quello, nel verbo latino recordor e poi nell’italiano ricordare, a sottolineare come l’interiorizzazione della realtà coinvolga la totalità della persona.
“L’intensificarsi del dialogo con se stesso porta l’uomo a fare del cuore il luogo della coscienza”, in cui giornalmente compie l’esame dei propri errori. Se nei “Versi aurei” pseudo-pitagorici (40-51, 63-66) e in Orazio (Serm. I 4, 131-139) esso è improntato a un tono benevolo e sereno, nello stoico Seneca (De ira, III 36) l’autoanalisi si trasforma in un severo processo, che si conclude con un’autoassoluzione in cui non c’è vera pace: “L’uomo che perdona se stesso, il sapiente che è costretto a trovare dentro di sé le risorse per comprendere e perdonare i suoi peccati, è un essere solo e isolato: ha eliminato dal proprio orizzonte ogni sensazione di desiderio, in un modo con tutta evidenza innaturale”. In Seneca (Epist. 41, 1-6; De tranquillitate animi, 14, 1-2; De brevitate vitae, 2, 5 ss.) e poi in Marco Aurelio (Pensieri, III 4, 4-5; VII 59) la sapienza porta l’uomo al di sopra della propria humanitas e gli fa scoprire la scintilla divina che ha dentro: ma l’aiuto divino necessario a ciò “non si ottiene con le pratiche del culto tradizionale. È una conclusione insieme affascinante e triste, perché disegna un essere umano votato a una solitudine sconsolata”.
Gli scrittori cristiani guardano al cuore partendo da un analogo punto, il carattere effimero della vita e la precarietà dell’uomo, “ma due differenze rendono il punto di vista diverso e più realistico: la percezione del male insito nella natura umana e la consapevolezza che la sete del cuore può essere colmata da un Altro”. Nelle Confessioni agostiniane (II 9), opera tra le maggiori dedicate al dialogo interiore, la coscienza che il cuore umano è naturalmente orientato alla malvagità è compensata da una forza che aiuta a rialzarsi dall’abisso del male: “Non la ricerca individuale della sapienza, ma l’aiuto di un Altro che ti vuole bene più ancora di quanto tu possa volere a te stesso”. I “Soliloqui” di Agostino (I 1-2) sono così possibili solo grazie alla misericordia: l’autore “può rivolgersi a se stesso, ma è la voce di un altro che gli parla dal di dentro, e questa voce gli consiglia di chiedere salvezza e aiuto. La prospettiva è radicalmente cambiata: anziché la ricerca dell’autosufficienza, il riconoscimento di un bisogno e l’apertura verso chi può colmarlo”. In Gregorio di Nazianzo (Carmina de se ipso, II 1, 78; Poemi teologici. Poemi morali, I 2, 14) “il dialogo con il cuore porta alla riflessione non solo su se stesso, ma anche sui grandi misteri dell’universo, e diventa quasi un imperativo morale, perché porsi queste domande significa meditare su Dio”. A queste domande una risposta reca certezza incrollabile: “Tu, o Dio, non mi hai creato invano”.
Oltre a risentire dell’eredità classica, poi, “la letteratura cristiana porta con sé l’eredità del linguaggio biblico”, che, nel linguaggio semitico come nel greco del Nuovo Testamento, identifica nel cuore la sede degli affetti e dunque dell’anima umana. Per questo in numerosi brani biblici (Salmo 15/16; 26; Deut. 6, 4-7) la gioia del cuore si identifica con la consapevolezza dell’amore divino oltre ogni umano limite. Come illustrato in numerosi brani neotestamentari, “Il Signore conosce i disegni degli uomini ancora prima che questi nascano”, (Luca 16, 15; Lettera ai Romani 8, 27; Atti degli Apostoli 15, 7-8): “per questo gli scrittori cristiani collocano nel cuore anche la sede dell’intelligenza”, come evidente nell’episodio dei discepoli di Emmaus, stolti per non aver riconosciuto Cristo e tuttavia ardenti nel cuore alla sua presenza.
“Nella prima lettera di Giovanni – è la conclusione – veniamo invitati a una fede non formale, che scaturisca dal nostro cuore, fiduciosi del fatto che Dio, il quale conosce i nostri cuori meglio di noi, ha anche una capacità di perdono più grande della nostra. E questo segna in modo definitivo la distanza tra la ricerca dei filosofi pagani e la Rivelazione cristiana: da un perdono che nasce dalla propria sapienza a un perdono più grande che ci viene accordato da chi ci vuole bene più di quanto noi stessi possiamo volerci”.
(V.Car.)