RESTREPO: INFERNO IN AFGHANISTAN

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Tim Hetherington e Sebastian Junger – i due reporter autori di questo documentario prodotto da National Geographic Channel – si sono uniti per alcune settimane ad un plotone di soldati statunitensi durante il loro servizio sul fronte afghano. Tutto si svolge nella valle del Korengal, temuta postazione alla frontiera del territorio controllato dagli americani. Lo scopo dell’operazione militare è rendere sicura questa valle dove si sta costruendo una strada. Ciò permetterà di portare rifornimenti e commercio e romperà l’isolamento del luogo che favorisce i talebani e i loro legami con la popolazione locale. All’arrivo dei soldati la strada si ferma al campo base americano, al di là del quale il territorio è completamente controllato dai talebani. I soldati del plotone ricevono ordine di costruire un avamposto all’interno della valle.
Il documentario è stato proiettato mercoledì 24 per il ciclo “Storie dal mondo” (ore 19, sala Neri), la rassegna di reportages internazionali curata da Roberto Fontolan e Gian Micalessin. Nel filmato viene ripresa giorno per giorno la vita di questi soldati, da quando fondano l’avamposto a quando tornano a casa. L’avamposto viene chiamato Restrepo, il nome di uno dei due soldati del gruppo che sono già morti dall’inizio dell’operazione.
Come quello proiettato il giorno precedente nell’ambito di “Storie dal mondo”, anche questo filmato – che ha ricevuto il premio Grand Jury al Sundance Film Festival 2010 – è un documento prezioso per capire la realtà dei soldati americani in guerra. Un dato che spesso sfugge alle cronache è la giovane età dei soldati, perlopiù intorno ai vent’anni (gli ufficiali sono intorno ai trenta). Se gli atteggiamenti e i dialoghi sono quelli tipici di qualsiasi ventenne occidentale, la situazione che si trovano ad affrontare è estrema: hanno già visto morire due compagni, ed ogni giorno si trovano diverse volte sotto attacco. “Appena costruito l’avamposto, se fossero venuti con un po’ di kalashnikov avrebbero potuto spazzarci via in un attimo” dice uno dei ragazzi. La tensione è sempre altissima e gli occupanti della postazione – una quindicina di soldati – si dividono uno spazio ristretto.
È interessante osservare come i giovani militari si “abituino” presto alla situazione, esorcizzando la paura con l’umorismo più macabro, appoggiandosi agli amici. Tuttavia buona parte dei reduci manifestano, al ritorno in patria, profondi disturbi psicologici: “Ci stanno studiando, non sanno cosa fare con noi – dice uno degli intervistati riferendosi agli sforzi del governo Usa per aiutare i veterani – Era dalla seconda guerra mondiale che non gli capitavano persone così, con 15 mesi o più di combattimento”.
La lenta routine è interrotta dalle ricognizioni nei villaggi. Spesso si entra in contatto col nemico. Talvolta si fanno spedizioni per riconquistare un punto di osservazione, una cresta, una collina. Vengono riportate le immagini di una di queste operazioni, soprannominata “Rock Avalance”: le immagini sono sulla scena stessa del combattimento e riprendono anche un caduto, i suoi compagni che non riescono a trattenere le lacrime, i più “anziani”, nella concitazione del combattimento, li spronano a rimanere lucidi. Colpisce anche lo sprezzo del pericolo dei due reporter, che condividono tutti i rischi del combattimento (uno di loro, Tim Hetherington, rimarrà ucciso a Misurata nella primavera 2011).
Emerge dal documentario anche la distanza che separa gli americani dalla popolazione locale. La strategia è quella di conquistare il favore della popolazione locale, senza la quale sarebbe ovviamente impossibile contrastare i talebani e controllare il territorio. Per questo ogni settimana viene fatta una shura, una riunione con gli anziani del villaggio, dove si cerca di stabilire una familiarità e si prova a convincerli a collaborare. L’enorme distanza culturale che separa i due popoli emerge da ogni volto, dagli abiti, dai gesti. Questo duro lavoro di avvicinamento è necessario per gli obiettivi della guerra, “ma il risultato – ha concluso Micalessin – sarà significativo solo tra diversi anni”.

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