Padri e maestri: dal cinema italiano alla Pixar

Press Meeting

Nella gremita Sala Illlumia C3, si è tenuto alle 15 “Padri e maestri: dal cinema italiano alla Pixar”: «Un incontro», ha detto, introducendo i relatori, Antonio Autieri, giornalista e direttore di Sentieri del Cinema, «nato dalla curiosità di mettere a confronto la frase di Goethe, che dà il titolo al Meeting, con la profonda forma d’arte e di rappresentazione che è il cinema, a partire dalla storia esemplare del grande contributo dato alla storia del cinema di animazione dalla casa di produzione Pixar, grande fenomeno sia a livello di critica che commerciale».

«Il suo grande successo», ha detto Armando Fumagalli, docente di Semiotica e Linguaggi del Cinema Internazionale e direttore del Master in International Screenwriting and Production dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, «è derivato dal voler parlare della vita a 360 gradi, con molte annotazioni interessanti e positive, anche riguardo ad un tema come la famiglia». È quella che il docente ha definito, in una sua pubblicazione dedicata alla casa di San Francisco, «Creatività al potere». «Una produzione caratterizzata da elementi che sono certamente in grado di essere da stimolo e insegnare anche al cinema italiano. Ne fu artefice un gruppetto di outsider che venivano da una formazione nel mondo dei computer, e che, con il primo “Toy Story”, volle realizzare qualcosa di completamente diverso anche dalla Disney, ma filtrato anche dalle esperienze di vita di ognuno di loro. Trovando la maniera di riavvicinarsi al pubblico, raccontando storia semplici, ma vere».

L’intervento del regista Francesco Amato è stato introdotto da spezzoni di film di registi che considera suoi maestri: “Vogliamo vivivere” di Ernst Lubitsch, “Una vita difficile” di Luigi Zampa, “Broadway Danny Rose” di Woody Allen. ‹‹Qual è la loro eredità, la loro influenza sul suo percorso artistico?», ha chiesto Autieri al regista rivelazione di “Lasciati andare”. «Credo che non ci sia migliore definizione di regista di quella data da Truffaut in “Effetto notte”. Il regista, diceva, è uno a cui vengono poste di continuo domande. Bisogna allora parlare di quelli che sono i suoi strumenti: l’esperienza appresa dalla tradizione. Rimasi per la prima volta colpito dall’idea di fare cinema vedendo in televisione, negli anni ’80, come Sergio Zavoli realizzasse un inchiesta, “Viaggio intorno all’uomo”, con linguaggio propriamente cinematografico. Molto importante è l’autoironia. Come nei grandi autori del cinema ebraico, farne la chiave per leggere la storia, per superare la sofferenza, per parlare di temi forti con la leggerezza di cui parlava Calvino nelle “Lezioni americane”, che non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore».

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