NOMOS E PROFEZIA: ESSERE EBREO, ESSERE CRISTIANO…

Press Meeting

“Non c’è molto da aggiungere all’imponenza di ciò che è accaduto in queste due ore densissime. Non abbiamo voluto nascondere le notevoli differenze, addirittura le contrapposizioni. Ma abbiamo vissuto una profonda e misteriosa unità, di un disegno che non è il nostro. ‘Quando noi vedremo tutto, quando tutto sarà chiaro’ (citando una nota canzone di Claudio Chieffo, ndr), vedremo la realtà di questa unità, ma oggi ci è stato dato un anticipo reale e questo ci riempie di gratitudine, riempie l’esistenza di una immensa certezza”. Con queste espressioni, don Stefano Alberto, docente di Teologia alla Cattolica di Milano, ha descritto quanto era successo in sala Neri. Poi è iniziata la festa anticipata per il 60° compleanno (cadrà nella prossima settimana) di Joseph Weiler, una festa che va considerata come parte integrante di quanto è successo nella mattinata al Meeting.
Il programma annunciava: “Nomos e profezia: essere ebreo, essere cristiano. Due lezioni su Deuteronomio 13 e 18 a cura di Joseph H.H. Weiler e Ignacio Carbajosa”. Ma alla festa conclusiva (con torta, bevande, cantori e regali), oltre al presidente del Meeting Emilia Guarnieri (che ha donato al grande amico un quadro del pittore Davide Frisoni: il mare di Rimini e tracce di passi verso l’infinito) è intervenuto anche, con un suo regalo, il professor Wael Farouq del Meeting Cairo. A questo punto all’ebreo e al cristiano, previsti dal titolo dell’incontro, si è aggiunta anche una presenza di fede musulmana: ulteriore espressione del Meeting come luogo di ecumenismo in atto. Weiler ha abbracciato Farouq dicendo: “Tra i più bei regali che mi ha fatto il popolo di don Giussani c’è stata l’amicizia con Faruoq”. Dopo otto anni di Meeting e considerando anche l’età, “devo prendermi un anno sabbatico: non interverrò alla prossima edizione della manifestazione”, aveva detto Weiler. “È giusto – aveva commentato Stefano Alberto – ma devi prometterci che sarai di nuovo presente nell’edizione successiva”.
Entrando nei contenuti degli interventi dei due relatori, don Ignacio Carbajosa, professore di Antico Testamento alla facoltà di Teologia San Damaso di Madrid, commenta Deuteronomio 18 con una vera lezione universitaria. Il commento parte dalla citazione biblica: “Quando sarai entrato nel paese che il Signore tuo Dio sta per darti, non imparerai a commettere gli abomini delle nazioni che vi abitano. Non si trovi in mezzo a te chi immola, facendoli passare per il fuoco, il suo figlio o la sua figlia, né chi esercita la divinazione o il sortilegio o l’augurio o la magia; né chi faccia incantesimi, né chi consulti gli spiriti o gli indovini, né chi interroghi i morti” (Dt 18,9-11). Ammonimenti giustificati perché i popoli vicini usavano queste pratiche, ma la parte più decisiva della lezione sono le considerazioni sulla promessa di far sorgere in Israele “un profeta come Mosè – lui con il quale il Signore parlava faccia a faccia”. Ricchissima la relazione di don Ignacio che cita doviziosamente papa Benedetto XVI, il Midrash Rabbà (un testo rabbinico) e Origene per dimostrare che il profeta che parla “faccia a faccia con Dio”, “pari a Mosè” è il figlio di Dio stesso, Gesù di Nazareth che compie e supera la Legge e i Profeti, testimoniato da Giovanni il Battista sul Giordano e confermato da una voce celeste. È lui, il figlio unigenito, lo sposo atteso dal popolo di Israele, annunciato dai profeti. Mosè, il grande mediatore tra Dio e Israele, ha dato la legge, Gesù, il figlio del gran Re, offre la nuova legge e la nuova alleanza, che, mentre l’antica era rivolta solo a un piccolo popolo, è per tutti i popoli, come aveva predetto Geremia: “Ecco verranno giorni – dice il Signore – nei quali con la casa di Israele e con la casa di Giuda io concluderò una alleanza nuova. Non come l’alleanza che ho conclusa con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dal paese d’Egitto, una alleanza che essi hanno violato, benché io fossi loro Signore. Parola del Signore. Questa sarà l’alleanza che io concluderò con la casa di Israele dopo quei giorni, dice il Signore: Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi il mio popolo” (Ger 31,31-33).
A questa schietta professione di fede, di cui dà le ragioni, di don Ignacio, risponde con altrettanta schiettezza Joseph Weiler, direttore dello Straus Institute e docente all’università di New York, che dà le ragioni della “testardaggine” del popolo ebraico nella sua fedeltà all’Alleanza e al rispetto di tutte le norme, anche quelle alimentari e di comportamento, che vengono da quello che noi chiamiamo Antico e loro Autentico Testamento. “Non vorrei convertirvi, ma desidero che voi capiate. Per me vedere un ebreo che diventa cristiano è una cosa brutta”.
L’Alleanza del Sinai non è un’imposizione di Dio, ma una richiesta a cui il popolo poteva dire di no: l’Alleanza ha valore perché fu offerta a qualcuno che poteva non accettare. L’alleanza è basata sul Decalogo del quale Weiler sottolinea due parole, non uccidere, che è una legge naturale, e gli obblighi del giorno di sabato perché contiene regole rituali che si osservano perché il Signore le chiede. “Nell’Alleanza c’è una legge morale e una legge rituale”: questa dà la possibilità di sentire che Dio è presente in tutta la vita del fedele (quando mangia, quando si veste, quando lavora…). Dio chiede nella Legge di non aggiungere nulla e di non togliere nulla. Questa fedeltà è chiesta soltanto a un piccolo popolo perché sia testimonianza di fronte al mondo, allo stesso modo con cui, suggerisce Weiler, i Memores (la forma di dedizione totale a Cristo ma in una vita laicale sorta nel movimento di Cl, ndr) sono testimonianza nel popolo cristiano, ma non tutti i cristiani devono farsi Memores. Conclude Weiler con altre due caratteristiche fondanti dell’Alleanza: è immutabile ed è per sempre (“Mille generazioni”). Dio stesso nella sua onnipotenza sceglie di non mutare mai l’Alleanza, anche se nella vita del popolo manderà qualche volte delle prove.

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