Medico e paziente: la libertà di un rapporto

Press Meeting

Felice Achilli, presidente di Medicina & Persona, ha introdotto l’incontro di oggi definendolo provocatorio: nell’epoca in cui viviamo, infatti, il rapporto in questione sembra cristallizzato dai rispettivi ruoli di medico e paziente. Se si aggiunge poi l’importanza attribuita a competenze mediche e distacco umano, viene spontaneo chiedersi quale spazio possa trovare la libertà.
Eugenio Borgna, Primario Emerito di Psichiatria presso l’Ospedale Maggiore della Carità di Novara e Libero Docente in Clinica delle malattie nervose e mentali presso l’Università degli Studi di Milano, ha voluto tentare di dare un valore alla sua esperienza, compiuta “ai confini delle situazioni estreme”. Riconoscendo la difficoltà di entrare in rapporto con chi sta male – nel corpo o nella mente – Borgna ha introdotto il filo rosso della sua relazione: “un pensiero bellissimo e profetico” di don Giussani, che sembra prevedere il titolo stesso dell’incontro e che rappresenta l’essenza di ogni possibile nostro rapporto con un medico. Ai medici, che devono affrontare le ombre della sofferenza psicologica e la disperazione che accomuna i volti dei pazienti, don Giussani dava due consigli, anche se duri: innanzitutto mendicare e pregare, come un grido; in secondo luogo essere consapevoli del fatto che queste persone hanno una sorta di sesto senso, si accorgono subito se chi hanno di fronte ha sofferto, ha sperimentato il loro stesso grido. Per questo, ha spiegato Borgna, guardare il paziente come un oggetto significa togliergli quel poco di libertà che ancora gli rimane. Oltretutto terapia ed assistenza significano “essere al servizio degli altri”: occorre dunque riflettere sul senso dei gesti, delle parole, persino dei farmaci che vengono prescritti, efficaci solo se percepiti dal paziente come espressione di una partecipazione reale e profonda. Cogliere il senso del dolore può significare anche confrontarsi con le parole del silenzio, come diceva Simone Weil: “guai se non riusciamo a intendere che cosa si nasconda dietro il grido silenzioso di una persona”. Borgna ricorda anche quanto sosteneva Teresa d’Avila: “Dio molto ama coloro che conoscono il cammino dell’angoscia”. D’altra parte l’indifferenza, la neutralità, la stanchezza di un medico possono essere guariti a loro volta solo cominciando questo cammino profondo: don Giussani considera testimone di una speranza contro ogni speranza – secondo l’espressione di San Paolo – un medico che abbia la ventura di sperimentare quel grido di significato. Borgna è consapevole del fatto che le parole saranno sempre comunque solo deboli strumenti e che quindi devono essere accompagnate da una “disposizione interiore” che faccia rivivere la speranza stessa che c’è nel paziente. Solo così, per esempio, si può stare di fronte a chi stia prendendo in considerazione la scelta di togliersi la vita per accorciare le proprie sofferenze: già il fatto di sentire come possibile il dolore dell’altro significa allargare quegli stretti spazi di libertà che la malattia reca con sé. In conclusione Borgna ha voluto ricordare l’intervento di don Giussani al Meeting 2002, che è stato per lui come una guida per l’incontro di oggi: “Sei di speranza fontana vivace: la speranza è l’unica stazione in cui il grande treno dell’eterno si ferma un istante”.
Giancarlo Cesana, Docente di Medicina del Lavoro presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca, ha esordito notando come il rapporto tra medico e paziente venga spesso percepito come sbilanciato a favore del medico, che dispone del paziente senza troppi vincoli: effettivamente la medicina è una professione potente. Ultimamente si afferma che il paziente deve avere libertà di scelta: essa però non deve essere intesa come possibilità di determinazione del proprio futuro (sono tante le circostanze esterne che potrebbero impedirla) ma come libertà di affidamento. A chi ci si affida? A un amico, una persona che aiuti a proseguire la strada verso il proprio destino e che riconosca come positivo lo stesso senso della vita. La strada è quella indicata da Joseph Ratzinger nel libro “L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture”: per riconoscere chi è il nostro prossimo occorre accettare di rendersi prossimi a nostra volta, di “scendere da cavallo”. La figura dell’ammalato, inoltre, è la figura di ciò che ciascuno di noi sarà: in questo senso l’altro è custode della propria dignità. Cesana ha proseguito affermando che solo Cristo salva dall’esito della malattia: infatti essa va affrontata con una “forza di essere” che sia più grande di quella che la malattia stessa minaccia di sottrarre. È questo il motivo per cui i malati, anche quelli infettivi, cominciarono ad essere assistiti da gente che aveva incontrato il cristianesimo: gli ospedali sono nati nel Medioevo sulle vie dei pellegrini, in forza del fatto che Cristo ha vinto la morte e la malattia non è più solo quella “lunga agonia” di cui parlava Shakespeare. Anche Cesana ha sottolineato che è sul grido di significato, premessa a qualunque medicina, che si costruisce il rapporto terapeutico. Se questo grido trova una risposta, allora la malattia diventa testimonianza: c’è un silenzio, una percezione della positività della realtà “nonostante tutto”, che è ciò su cui si costruisce il mondo. Un medico non deve avere paura della sofferenza; come sosteneva Harrison nel suo “Princìpi di medicina interna”, la medicina è un’arte perché il medico deve alleviare la sofferenza della mente e del corpo: dunque un medico deve riconoscere la libertà come primo fattore del rapporto che stabilisce. Ciò che viene subito dopo la condivisione del destino è la comunità: la fraternità è infatti la testimonianza della forza del senso della vita.
Tutto questo non nega affatto la necessità delle competenze del medico: semplicemente aiuta a riscoprire come è nato in Occidente il rapporto tra medico e paziente.

P.S.
Rimini, 22 agosto 2005